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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivio per la categoria “Commenti letture”

Domenica di Pentecoste – 2024

At 2,1-11; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27;16,12-15

Negi atti degli apostoli la venuta dello Spirito a Pentecoste è presentata con riferimento ai prodigi dell’esodo (cfr. Es 19,3-20): le immagini del vento, imprendibile, e del fuoco che trasforma gli apostoli impauriti e li rende capaci di parola rinviano ai segni dell’esodo.

Lo Spirito genera un percorso contrario a quello di Babele o anche esprime la promessa insita in Babele, cioè il disegno di Dio di una umanità plurale e capace di comunicare: contro la pretesa di avere una sola torre e una sola lingua, a Pentecoste le lingue diverse e la possibilità di intendersi aprono ad una realtà nuova. Contro la pretesa di un unico dominio, la presenza di popoli diversi è un nuovo orizzonte. Babele è simbolo del progetto di potere di chi domina, a Pentecoste si attua invece la profezia di Gioele (3,1-5): ‘io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo…’.

Dio rimane fedele alla sua promessa e il dono dello Spirito per tutti i popoli della terra apre a scoprire nella diversità riconciliata di razze popoli e lingue un dono da accogliere. Ci si può riconoscere partecipi di una medesima famiglia, legati insieme fratelli e sorelle in rapporto al Dio dell’accoglienza e della comunione.

“Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza…” (Gv 15,26-27).

Il consolatore è colui che porta aiuto, sta accanto e sostiene: è ciò che ha compiuto Gesù nella sua vita. Così lo Spirito è presentato come la presenza vicina. Sarà il grande suggeritore e la grande guida: guiderà alla verità tutta intera. Lo Spirito è presentato con il profilo di un ‘tu’ personale: presenza interiore, non racchiudibile, vicina nel momento della prova, compagnia nella testimonianza quotidiana. Darà forza per essere testimoni della presenza di Cristo risorto nella storia. Lo Spirito accompagna ad incontrare il Risorto nei cammini della storia, guida così alla verità tutta intera. Il suo agire apre a comprendere sempre più la ‘verità’ vivente che è lo stesso Gesù Cristo. Nel IV vangelo verità non è infatti una dottrina da conoscere ma una presenza da incontrare. Lo Spirito introduce nel mistero della nascita, morte e risurrezione del Signore Gesù, nelle profondità della sua vita. Lo Spirito è totalmente rivolto a quanto Gesù ha compiuto: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà”. Lo Spirito è anche tutto rivolto al Padre e introduce nella relazione di comunione e di reciprocità: “Tutto quello che il Padre possiede è mio, per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16,15).

Il dono dello Spirito genera una vita nuova: nella sua forza si può camminare secondo la legge dello Spirito, legge di libertà e di dono di sé. Paolo nella lettera ai Galati contrappone  ‘legge della carne’ e legge dello Spirito. Fa così emergere il contrasto tra un modo di intendere la vita secondo un principio egoista, nella preoccupazione ripiegata sul proprio interesse e nella dimenticanza degli altri: è questa la legge della carne. Ad essa si oppone ad un’altra prospettiva. ‘Carne’ in tale contesto significa egoismo. A questo modo di intendere la vita si oppone radicalmente la ‘legge dello Spirito’ e ne sono indicati i suoi frutti: “…amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dono di sé”. Sono questi i segni di una vita disponibile a farsi orientare dalla forza dello Spirito. E’ forza che spinge verso l’altro, al servizio, al dono. Si apre così un camminare nello Spirito. Tale ‘camminare’ investe la quotidianità e si esprime in ‘frutti’ nella vita.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2024

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Gesù tornerà: è questo l’annuncio della prima comunità. Il Risorto che ha vinto la morte non sarà più incontrato tornando al passato, ma viviamo ora nella sua assenza e Lui viene e tornerà   E’ possibile ora vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Alla richiesta degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, cioè prevedere il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio a vana curiosità, a non lasciarsi distogliere da ciò che è più  importanti. Sposta la loro attenzione, li invita a guardare il presente sperimentando sin d’ora il suo esserci in modo nuovo, nell’assenza. Chiede così di vivere l’attesa dando fiducia alla promessa del Padre; chiede di prepararsi a ricevere la forza dello Spirito. Lo Spirito scende come dono dall’alto e diviene fonte della testimonianza. La promessa del Padre è che tutti possano avere parte alla morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito è il dono di Gesù risorto e nello Spirito farà sentire la sua presenza. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma sarà possibile in modo nuovo, nella fede, nella forza dello Spirito. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: quando ci sono momenti di rivelazione di Dio nella Bibbia si richiama alla nube. Ora lo spazio di Gesù è lo spazio di Dio, una dimensione nuova rispetto allo spazio e al tempo umani che Gesù ha vissuto. La sua presenza continua e segnerà i cuori e si farà vicina nei segni del suo chiamare e passare: lo Spirito è dono che accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione ‘voi mi sarete testimoni’.

Alla fine del suo racconto Marco riporta un mandato di Gesù ai suoi: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che ha rivelato la signoria di Cristo sulla storia: è una signoria particolare perché si attua nel dono, nel servizio, nell’amore fino alla fine. I discepoli di Gesù sono ora inviati ad allargare lo sguardo, ad andare, a dare testimonianza di quanto Gesù ha fatto e detto. “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”.  I segni e la parola sono al centro della testimonianza: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte è operante nella storia e procede con il corso della parola del vangelo, nonostante le contraddizioni. La testimonianza dei credenti dovrà confrontarsi con la fatica e il buio, ma conoscono la strada che Gesù ha percorso. Nel vangelo di Marco è questa la strada verso Gerusalemme, strada di fedeltà nell’essere uomo-per-gli-altri (Mc 10,45).

La seconda lettura offre un’ulteriore sottolineatura: ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona la presenza dello Spirito che conduce nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella comunità che sperimenta e accoglie la molteplicità di doni e di servizi, si può fare esperienza dell’agire dello Spirito; non eliminando le differenze, e non appiattendo le diversità. La chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come relazione di scambio e di incontro, divenendo icona della vita trinitaria. L’ascensione è festa della glorificazione di Cristo nella sua umanità e coinvolgimento di noi tutti nella comunione che sgorga dalla sua morte e risurrezione.

Alessandro Cortesi op

Una Dichiarazione del Movimento nonviolento

«Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».

È questo il cuore della dichiarazione di obiezione di coscienza che il Movimento Nonviolento lancia con la Campagna di Obiezione alla guerra. Una risposta, immediata e convinta, alle dichiarazioni del Capo di Stato maggiore, il generale Masiello: “L’Esercito italiano va potenziato: servono più tecnologie e più soldati”, un chiaro messaggio al governo per avere più fondi per il comparto militare, come se non bastassero i 28 miliardi previsti per il 2024, e un avvertimento per l’opinione pubblica, che si prepari a provvedimenti da mobilitazione pre bellica, come il ripristino della leva. Non solo i militaristi fondamentalisti come Vannacci e Bandecchi si sono subito allineati, ma l’intero coro governativo, in perenne parata militare, intona il ritornello “dobbiamo prepararci al rischio di prossimi conflitti”. Dunque è tempo di rispolverare il motto “né un soldo né un uomo per la guerra”, che va aggiornato con l’aggiunta di “né una donna”, perché la chiamata alle armi riguarda ormai tutti e tutte.

La procedura per dichiararsi obiettori di coscienza è semplice: si compila e si sottoscrive la Dichiarazione di obiezione, che viene mandata ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Viene anche chiesto alle autorità competenti che i nomi di coloro che sottoscrivono vengano inclusi in un apposito Albo dove siano elencati tutti gli uomini e tutte le donne che obiettano alla guerra e alla sua preparazione. In pratica si chiede di formalizzare l’elenco di coloro che fin da ora, e in futuro, non sono in alcun modo disponibili all’uso delle armi. Presso il Ministero della Difesa esiste già l’elenco degli obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare dal 1972 in poi, così come presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 in poi hanno già svolto il servizio civile.

La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti, giovani o adulti, donne e uomini, chiarisce che chi firma ripudia la guerra e vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con  la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). Inoltre chi aderisce a questa forma di obiezione di coscienza dichiara che non vuole sottrarsi al dovere di proteggere la comunità e quindi sollecita il Parlamento all’approvazione di una Legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.

Ai rumori di guerra sempre più forti, le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, rispondono spingendo sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione generale. La Russia ha annunciato il via libera alle esercitazioni con armi atomiche tattiche, dall’altra parte c’è  chi ha già arruolato Dio come proprio alleato, e la Francia preme per l’invio di truppe nel teatro bellico. Gli ingredienti per far mettere l’elmetto e togliere la sicura, ci sono tutti.

La risposta immediata a questa follia in stile futurista, per cui “la guerra è la sola igiene del mondo”, è la fermezza del No, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi.

Mao Valpiana – Presidente del Movimento Nonviolento

La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento azionenonviolenta.it e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e inviata personalmente. Nei primi giorni di campagna, sono già migliaia le dichiarazioni compilate e raccolte.

Verona, 6 maggio 2024

(Pubblicato su il Manifesto del 7 maggio 2024, p. 5)

VI domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 10,25-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

“In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”

La scoperta di Pietro nella casa di Cornelio, un pagano e un lontano, sorge innanzitutto dall’esperienza. Pietro si è lasciato condurre fuori dalla sua casa dalla forza dello Spirito, da una chiamata dello Spirito espressa nei termini del sogno e della visione, per entrare nella casa dell’altro, in una casa che Pietro poteva ritenere estranea alla possibilità di incontro ma anche dall’esperienza di Dio. Cornelio era un pagano, appartenente ad un mondo guardato come lontano e senza speranza. Per i pagani la possibilità di salvezza era vista solo nei termini di una loro condivisione della religione di Israele, accogliendo tutte le norme e osservanze previste dalla tradizione. Pietro ragionava nei modi di chi considerava innanzitutto con distanza e disprezzo i pagani, gli altri; ma era anche convinto che il mondo dei pagani fosse lontano da Dio.

L’esperienza di uscita dalla sua casa, del lasciarsi accompagnare verso la casa dell’altro, apre a Pietro un orizzonte nuovo. Nell’essere accolto come ospite Pietro vive un incontro umano, in cui scoprirsi nella sua umanità di fronte all’altro, e nell’altro, di fronte al suo volto, riconosce la medesima umanità. Anzi Pietro scopre che quel pagano è un uomo che nutre un senso della presenza di Dio nella sua vita e pratica la giustizia. Lo stile di vita di Cornelio, il suo agire manifestano un cuore aperto ed anche un esempio di ricerca di quanto è autentico nella vita umana e la rende piena. Praticare la giustizia è segno di un’apertura a riconoscere gli altri e di disponibilità a percorrere i sentieri della fraternità. Nella sua ospitalità Cornelio si manifesta uomo aperto all’incontro e capace di riconoscere la preziosità del volto dell’altro.

Pietro scorge tutto questo non in una teoria ma nel concreto dell’esperienza dell’incontro, nella quotidianità di vita di una casa abitata da molte presenze. Quell’incontro diviene per Pietro un passaggio fondamentale per ripensare il suo rapporto con Gesù e con il vangelo. Il Dio di Gesù non fa preferenze, è presenza vivente che si dà ad incontrare – come Gesù aveva raccontato – nelle pieghe della vita, nei cuori aperti alla sua Parola che pervade la realtà, le persone, e si fa percepire nell’incontro, nel dialogo.

Nella casa di Cornelio Pietro vive una delle sue conversioni. Aveva vissuto accanto a Gesù la conversione dalla sua pretesa di grandezza a riconoscere la sua debolezza e incapacità, a lasciarsi prendere dalla grazia di uno sguardo di accoglienza e perdono. Ora vive un altro passaggio: dal Dio delle religioni e delle appartenenze, dal Dio che esclude al Dio che sorprende sempre ed apre strade nuove: strade di incontro, di ospitalità, di giustizia.


“Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola”

E’ lo Spirito santo il grande protagonista nascosto di questa pagina:è lui che spinge Pietro ad uscire, è Lui che spinge Cornelio a cercare e accogliere, è ancora Lui che spalanca nuove vie alla Parola, che fa ardere il cuore di Cornelio al racconto di Pietro che ricorda Gesù, la sua vita, il suo donarsi. E’ lo Spirito che scende come respiro nuovo che conduce a vivere non una religione delle opposizioni e delle esclusioni ma una fede che lascia il primato al Dio accogliente che ha un sogno di pace, al Dio più grande dei nostri pensieri che suscita incontro ed apre novità inedite nei cuori e nelle case.

Lo Spirito guida anche oggi i cammini e attende di essere accolto nella disponibilità ad ascoltare la Parola, ad uscire e allargare gli orizzonti.

Alessandro Cortesi op

V domenica di Pasqua – anno B 2024

At 9,26-31; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

L’immagine della vigna è familiare ad Israele ed alla Bibbia; l’ulivo con la vite è parte del panorama mediterraneo.

La vigna ritorna tante volte nei testi biblici: è segno del popolo d’Israele che Dio guarda con cura appassionata. E’ segno di promessa e benevolenza. D’altro lato parla di infedeltà, di dimenticanza e di durezza di cuore.

Anche nel IV vangelo la vite è immagine ripresa nei discorsi dell’ultima cena: attorno ad essa è tessuto il secondo discorso di addio di Gesù ai capp. 15 e 16, che succede in modo un po’ problematico al primo discorso che occupa i capp. 13 e 14 perché questo termina con le parole: ‘Alzatevi, andiamo via di qui’ (Gv 14,31). Il riferimento alla vite si può accostare alla benedizione  sul vino, uno dei momenti del rito della pasqua ebraica. In tale contesto il richiamo alla vigna con le sue valenze di dolcezza e cura ma anche di drammatica infedeltà e giudizio, è ripresa. Gesù dice: ‘Io sono la vera vite’ e la vite diventa uno degli elementi che compare in una di queste formule ‘Io sono’ che il IV vangelo usa per indicare l’identità di Gesù.

La vite passa da essere rinvio ad Israele ad indicare la presenza stessa di Gesù: la vera vite è lui. Nella metafora si può cogliere la sua vicenda personale ma anche la dimensione comunitaria, la comunicazione di vita che da lui proviene. In lui si compie la cura e la fedeltà colma di affetto del Padre che la vite come simbolo racchiudeva. Ancora è lui che porta quei frutti che il Padre si attendeva: frutti di misericordia. Sono giunti allora in lui i tempi ultimi.

Ma nelle parole di Gesù questa identificazione della vite con la sua persona si apre anche ad un altro aspetto: in lui si compie una comunicazione nuova, una comunione di vita. Tutti coloro che a lui sono uniti e traggono la linfa che da lui proviene sono colore che credono nel suo nome: sono tralci viventi della sua stessa vita e potranno portare frutto in questo legame.

‘Rimanete in me’ è l’invito ripetuto più volte in questa pagina: all’inizio del IV vangelo alla domanda di Gesù ‘Che cosa cercate?’ i discepoli lo seguirono e ‘rimasero’ presso di lui lui (Gv 1,39). Il verbo ‘rimanere’ dice una familiarità di vita, un legame di amicizia, una intimità di condivisione. L’offerta di amicizia di Gesù ai suoi genera una reciprocità: i tralci rimangono nella vite ma è anche Gesù che rimane nei suoi e sta qui la possibilità di portare frutto.

L’essere discepoli di Cristo si attua nei frutti che esprimono lo stile della sua presenza e il senso della sua vita. Gli stessi tralci non vivono da soli, distaccati gli uni dagli altri, ma insieme: Gesù propone ai suoi un ‘rimanere’ che implica accogliere e vivere come comunità. Motivazione e forza dello stare insieme sta nella forza di vita che da lui proviene. “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

Gesù nel IV vangelo si presenta con l’immagine del buon pastore. E’ pastore preoccupato soprattutto che le sue pecore possano avere vita e per questo offre la sua stessa vita facendone dono per gli altri. Il riferimento va alla figura del servo di YHWH del Terzo Isaia: ‘non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto…si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori…” (Is 53,3-7). Si tratta del profilo di un condannato e sfigurato. E’ volto che si contrappone al volto di Gesù, ‘pastore bello’: la bellezza che comunica sta nell’orientamento della sua vita come dono: è la bellezza del gratuito, della novità di chi si consegna e si spende. Il pastore indicato nel IV vangelo porta infatti i tratti sconcertanti della figura del servo che dà la sua vita per tutti. Ed è contrapposto al mercenario, centrato su di un profitto da guadagnare, ripiegato sul proprio tornaconto. Il primo grande messaggio di questa pagina riguarda l’identità di Gesù come pastore che ha fatto della sua vita un dono in relazione con una comunità che raccoglie attorno a sé.

Un secondo messaggio è relativo al ‘conoscere’: il pastore ‘conosce’ le sue pecore, anzi si attua una conoscenza reciproca: ‘conoscere’ indica un coinvolgimento dell’esistenza e la reciprocità propria dell’amore. Non solo il pastore conosce ma anche le pecore conoscono. L’incontro con Gesù apre ad un incontro più grande che è quello tra il Figlio e il Padre: ‘come il Padre conosce me e io conosco il Padre’. Il dono di Gesù nel rapporto con i suoi è comunicazione di amicizia che coinvolge in una storia di relazione: ‘Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamati amici’. La conoscenza tra il Figlio e il Padre è relazione di dono e di accoglienza, reciprocità di vita; così il ‘conoscere’ che lega Gesù a noi è dono di incontro e diventa uno stare in lui. Da questo condividere la sua vita stessa matura una vita orientata a continuare le scelte che sono state le sue.

C’è un terzo messaggio da cogliere. Gesù è pastore che non chiude e pensa agli altri come nemici ma guarda oltre i confini: “ho altre pecore che non di quest’ovile”. Il raduno che Gesù attua supera le barriere di separazione: il suo sguardo raggiunge altre pecore di altri ovili. Il suo dono genera la possibilità di un incontro nuovo tra diversi e lontani. Ma soprattutto la sua cura tende a superare le barriere che dividono gli ovili e si rivolge ad un incontro dove sia possibile la condivisione nella diversità. In Gesù questa larghezza di orizzonti deriva dalla sua libertà: è l’attitudine di chi non pensa la sua vita come privilegio da difendere ma come dono: ‘io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo’.

La bellezza del pastore si rende visibile nella gratuità e nella libertà con cui offre la sua vita e rende così possibile un percorso di incontro e comunione, di reciprocità nell’amore.

Alessandro Cortesi op

In memoria di don Tonino Bello (18 marzo 1935- 20 aprile 1993)

Da un’intervista a don Tonino Bello al ritorno dalla marcia di Sarajevo – dicembre 1992)

“Abbiamo voluto dimostrare al mondo, all’Europa, all’Italia che ci sono segni alternativi alla violenza, si può trattare, si può entrare dove avvengono le guerre anche disarmati. Noi non abbiamo portato nulla né doni né armi. E chi ci voleva bloccare non era la gente che subisce la guerra ma i potenti che la manovrano, quelli che vogliono far credere che la guerra è inevitabile. Certo il nostro è stato davvero un gesto folle. Come è folle la pace, del resto. Al di fuori, cioè, del buon senso. Anche l’amore è aldilà del buon senso, della prudenza, dei reticoli delle nostre saggezze carnali.
Comunque, al di là di questa lucida follia (per i rischi e i pericoli che comportava), siamo felici di aver dato con questa spedizione dei segnali profetici all’Italia e all’Europa. La trattativa è possibile. La guerra è ormai incapace di risolvere i conflitti. Il bisogno di pace sta diventando endemico; la gente non vuol sentirne parlare di violenza armata. Ci è parso poi di aver fatto le prove generali di quelli che saranno eserciti di domani. Pensate al tempo in cui l’ONU si attrezzerà di un esercito di 300-400 mila obiettori di coscienza, esperti di strategie non violente, tecnici della difesa popolare nonviolenta…
Si risolveranno così i conflitti: con strategie preventive e con interventi riparatori nonviolenti! Questo è il futuro che ci aspetta. Questa è la profezia nuova che dobbiamo annunciare”

III domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è  coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.

E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.

Alessandro Cortesi op

II domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 4,32-35; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

Lo spirito e la pace sono i doni del Cristo risorto.

Negli Atti degli apostoli la vita della prima comunità è descritta, con sottolineatura della condivisione: la fede in Gesù risorto genera una vita di fraternità. Segni ne sono la condivisione dei beni ed una comunanza che parla da sè e attrae: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed un’anima sola”. La vita di questa comunità trova suo centro nella risurrezione di Gesù: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”. La fede nel Signore risorto genera innanzitutto comunione in lui e con gli altri.

Al cuore del vangelo sta una beatitudine rivolta a coloro che, senza vedere, crederanno: “Beati quelli che, pur non avendo visto crederanno”. Il IV vangelo è particolarmente attento a tratteggiare gli itinerari del credere. Tommaso vive la fatica e il dubbio e la sua esperienza diviene simbolo del percorso di ogni discepolo. Il suo cammino è passare da una fede intesa come verifica di evidenze, appoggiata sui segni e sul vedere, ad un credere che si affida alla testimonianza.

Gesù incontrato dai suoi come colui che si pone in mezzo reca due doni: la pace e lo Spirito. E’ il medesimo Gesù  incontrato prima della Pasqua, colui che ha vissuto la sofferenza e la morte. Non è un altro: la gloria della risurrezione è incomprensibile se slegata dalla passione e morte di Gesù che si è chinato a lavare i piedi. Per questo Gesù risorto mostra ai suoi le mani e il costato. E’ proprio lui, il medesimo. Nella risurrezione reca le ferite della passione. Così risponde all’esigenza di Tommaso ma fa cogliere l’identità e la continuità tra la sua esperienza prima della Pasqua e la sua vita nella condizione di risorto. La sua presenza ora non è più come quella di prima: chiede di essere incontrato nella fede, genera una gioia profonda nel cuore: l’incontro con lui sarà vissuto nell’accogliere la missione che egli affida e nel vivere i doni dello Spirito e della pace.

Gesù è quindi il medesimo che ha percorso le strade della Palestina, incontrando i suoi e annunciando il regno di Dio. E’ morto sulla croce. La sua presenza si rende ora vicina in modo nuovo: è il Risorto, che fa entrare i suoi in una nuova comunione con lui.

Ai suoi offre il dono dello Spirito: come sul primo uomo Adamo Dio aveva alitato un soffio di vita (Gn 2,7) così ora Gesù soffia sugli apostoli comunicando lo Spirito: una nuova creazione ha inizio: sulla croce l’ultimo respiro di Gesù era stato una consegna del suo spirito (Gv 19,30).

Lo Spirito è donato con la missione di continuare l’opera di Gesù del perdono: “Come il Padre ha mandato me così anch’io mando voi”: l’invio degli apostoli ha le sue radici nella missione del Figlio da parte del Padre. La missione del Padre che genera l’invio e manda gli apostoli ad essere continuatori dell’opera di salvezza di Cristo.

A conclusione sta un riassunto del vangelo: “Molti altri segni fece Gesù in presenza  dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

Credere è cammino, credere è esperienza di incontro e ogni percorso del credere conduce a condividere una vita donata. Accogliere e trasmettere i doni della pace e dello Spirito è per i credenti è partecipare alla risurrezione e farsene responsabili nella storia.

Alessandro Cortesi op

Domenica di Pasqua – anno B – 2024

Mimmo Paladino – crocifisso

At 10,34.37-43; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

“Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora vivo, trionfa”. L’annuncio della Pasqua è testimonianza che il crocifisso, appeso ad una croce, proprio lui è veramente risorto, ha vinto i lacci della morte e ora vivo apre la strada a tutti coloro che dalla sua morte sono stati liberati, che a lui si affidano nel percorso del credere.

“E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (prima lettura).

Il IV vangelo presenta il mattino di pasqua nel segno del ‘correre’ e del ‘vedere’. Maria di Magdala si reca al sepolcro ‘e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo’. Dopo il suo annuncio inizia una nuova corsa, quella di Simon Pietro e del discepolo che Gesù amava: ‘correvano insieme tutti e due’. E’ quasi una rincorsa dal sepolcro ai discepoli, dai discepoli al sepolcro. Maria vide e corse, Simon Pietro e l’altro discepolo correvano insieme. Giunge per primo il discepolo e vide, ma non entrò. Poi giunse Simon Pietro che ‘entrò nel sepolcro e vide le bende per terra e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non con le bende per terra, ma poggiato in un luogo a parte’. I segni lasciati inducono a pensare non ad un furto, non ad una forzatura peraltro impossibile della grande pietra, ma all’andarsene con calma di chi ha avuto il tempo di lasciare in buon ordine le bende e il sudario piegati; eppure il sepolcro vuoto e i segni non sono la prova della risurrezione. Infine entrò anche il discepolo ‘e vide e credette’.

Il progressivo correre e rincorrere di quella mattina del giorno dopo il sabato segnato dal molteplice vedere, di Maria, di Simon Pietro, del discepolo, si conchiude con un ‘vedere’ particolare: ‘e vide e credette’, un vedere che apre al credere e che penetra i segni per cogliervi il senso profondo: non è il vedere di uno spettatore o di un curioso o di un allibito osservatore, ma di un discepolo coinvolto e partecipe.

E’ un vedere che coinvolge ed è possibile solamente in un contesto di affidamento e di affetto: colui che vide e credette era il discepolo che Gesù amava. Il credere della fede – ci suggerisce il IV vangelo – sgorga laddove è presente uno sguardo capace di andare al di là e al di dentro, lo sguardo proprio dell’amore. Il vedere del discepolo è di tipo diverso dal vedere i medesimi segni sperimentato da Maria e da Simon Pietro: lo sguardo dell’amore precede non solo giungendo prima al sepolcro, ma anche attendendo che giunga Simon Pietro, che sarà posto a pascere le pecore affidate a lui da Gesù (cfr. Gv  21,15-19), e giungendo prima anche nel credere affidandosi. Tuttavia il brano si chiude con una osservazione che rinvia ad un percorso ulteriore del credere: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”.

Il credere che Cristo, il crocifisso, è risorto, conduce ad un nuovo modo di concepire la nostra esistenza, in rapporto con lui: egli ha operato una novità assoluta nella nostra esistenza con la sua risurrezione. E’ l’annuncio di Paolo ai Corinti (seconda lettura): la nostra pasqua, Cristo, è stata immolata. Rinviando alla tradizione della pasqua ebraica, Paolo invita a togliere ogni lievito vecchio, segno di impurità e di malizia. Pasqua è dono di ricominciamenti, nuiovo sguardo sulla vita, speranza oltre ogni speranza.

Alessandro Cortesi op

Domenica delle Palme e della Passione del Signore – anno B – 2024

Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

Nel racconto della passione che Marco riprende da una antica narrazione a lui precedente Gesù è presentato nel far progressivamente emergere i tratti più autentici della sua vita. “Principio del vangelo di Gesù Cristo figlio di Dio”: così era iniziato il racconto. L’intero vangelo, è ‘bella notizia’ dell’annuncio del regno portato da Gesù. Ma insieme è anche ‘bella notizia’ di Gesù stesso: Marco lo indica come il messia atteso (‘figlio di Dio’ – titolo del re messia nel Salmo 2,7). Tuttavia nel corso della narrazione quando qualcuno indicava l’identità di Gesù gli veniva imposto di tacere. Marco è ben consapevole dei rischi di un’immagine falsata di Gesù: anche se viene proclamato messia non viene compresa la sua via e tanto meno è seguita. Al cuore del racconto della passione sta la questione del suo autentico volto e della sequela degli autentici discepoli.

Gesù è ritratto da Marco nel momento dell’angoscia, in preda allo sfinimento di fronte al male. Vive una progressiva solitudine anche da parte dei suoi più vicini “Tutti allora abbandonatolo, fuggirono” (14,50). Nell’orto degli ulivi provando paura si affida all’Abbà. Così sta in silenzio di fronte al sommo sacerdote e davanti a Pilato. Secondo la logica umana le vie da perseguire sono quelle della potenza e della violenza; Gesù invece sta inerme davanti al sommo sacerdote e afferma in modo paradossale la pretesa di essere lui il Figlio dell’uomo, figura del giudice degli ultimi tempi (cfr. Dan 7).

Marco riferisce la debolezza di Gesù, il suo arrendersi nella fatica: non riesce a portare il trave della croce al punto che un certo Simone di Cirene che tornava dai campi fu costretto a portarlo (14,21). E sotto la croce la gente diceva: “ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo” (14,32-33). Gesù è deriso come incapace di dare salvezza. Il suo volto è quello del messia umiliato e torturato: e non scende dalla croce. Sulla croce si rivolge al Padre con le parole iniziali del salmo 22,2: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, espressione della sua solitudine e dell’abbandono del giusto che soffre. Il salmo 22 si conclude in una invocazione di affidamento a Dio che non abbandona il giusto suo servo. Marco delinea i tratti di un messia che sperimenta la debolezza e attua la sua missione nel fare della sua vita un dono di sé fino alla fine, come colui che affida al Padre la sua causa.

Al momento della morte di Gesù Marco annota due particolari: il centurione pagano indica l’identità di Gesù senza essere messo a tacere: “veramente quest’uomo era figlio di Dio”. E’ un pagano, lontano dalla legge e dalle osservanze, colui che riconosce il volto del messia nel crocifisso ed esprime l’attitudine del discepolo. E’ un messia diverso: non della violenza ma del servizio non della forza ma del dono. Gesù l’aveva indicato nei segni dell’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (14,24).

La sua morte dal punto di vista storico è l’esito di un complotto dei capi del potere politico e religioso, ma nel modo in cui Gesù la affronta e la vive è fedeltà radicale all’annuncio del regno, e affidamento all’Abbà.

Nel momento della sua morte ‘il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso’. Marco indica un simbolo: si apre il velo. Ogni barriera tra Dio e l’umanità è aperta. Per  tutti si rende possibile scorgere nel condannato della croce il volto del Figlio amato (cfr Mc 1,11; 9,7). La morte di Gesù manifesta il volto di un messia che apre ad un rapporto nuovo con Dio. Gesù si rende solidale con tutti i crocifissi della storia e indica nei volti di chi soffre e di chi è oppresso il luogo in cui incontrare Dio stesso.

Alessandro Cortesi op

V domenica Quaresima anno B – 2024

Ger 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

Il libro della consolazione di Geremia rinvia ad una alleanza nuova scritta nel profondo del cuore: sarà compimento della promessa e del dono di Jahwè ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20,1): “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo”. Quella reciproca appartenenza, nucleo profondo dell’alleanza, sarà una realtà nuova interiore che trasformerà l’intimo dei cuori.

La pagina della lettera agli Ebrei conduce a vedere in Cristo il Figlio che imparò l’obbedienza dalle cose che patì e in lui si compie l’alleanza promessa: “reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.” Cristo una volta per tutte si è offerto con un atto di amore definitivo per noi. In lui si compie l’alleanza definitiva.

La lettera guarda a Gesù Cristo che nella passione ‘offrì preghiere con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà’. La via seguita da Cristo è quella della fedeltà al Padre e questi l’ha esaudito non perché l’ha liberato dalla passione e dalla morte ma perché lo ha sostenuto nella fedeltà alla testimonianza dell’amore: il mistero di Dio è infatti l’amore debole e inerme che si dà fino alla fine. La salvezza per noi ha la sua origine nel dono di amore di Gesù.

‘Vogliamo vedere Gesù’ è il desiderio di qualcuno che s’interroga su di lui. Nel IV vangelo il termine ‘vedere’ è utilizzato per indicare una attitudine a cogliere la dimensione profonda degli eventi ed il loro significato. ‘Vogliamo vedere Gesù’ è la domanda della comunità giovannea che esprime la tensione a cogliere il mistero profondo dell’identità di Gesù. A questo punto è riportato un discorso di Gesù che parla di  glorificazione e di morte nel contempo: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto per terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto.”

L’ora è momento decisivo in cui si fa chiaro il senso della sua esistenza: Gesù come Figlio obbediente (in ascolto) si consegna al Padre e intende la sua vita a sua vita come seme gettato. Consegnato nel tradimento, in realtà egli stesso liberamente si consegna. E nel suo morire genera una fecondità nuova. La gloria di Gesù si rivela nel dono della sua vita e nell’amore sulla croce.  “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”. Per il IV vangelo l’ora di Gesù è l’ora della croce: in quel momento tutti volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto; è anche l’ora in cui, innalzato da terra, Gesù attira tutti a sé. L’ora di Gesù non è un momento cronologico, ma un tempo che anticipa ogni futuro e attua una rivelazione. Fa vedere infatti la profondità dell’amore di Dio per l’umanità.

Gesù apre la strada a coloro che lo hanno seguito. Quest’ora è avvertita in modo drammatico: Gesù vive paura ed angoscia di fronte a quest’ora ed invoca ‘Padre glorifica il tuo nome’. Il Padre è coinvolto e presente nell’ora di Gesù, e conferma la via che Gesù sta seguendo.

Il IV vangelo indica sulla croce il rivelarsi della ‘gloria’ di Dio, l’ora in cui si manifesta l’amore senza limiti del Padre che Gesù ha testimoniato ‘fino al segno supremo’: il Figlio rende visibile il volto del Padre  (cfr Gv 1,18). Coloro che hanno visto la sua ‘gloria’ sono chiamati a vivere come lui, come chicco di grano caduto sulla terra.

Alessandro Cortesi op

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