II domenica di Pasqua – anno C – 2022
At 5,12-16; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31
“Io sono il primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”
Al cuore dell’annuncio del libro di Apocalisse sta una presenza, è il Risorto al centro dell’annuncio pasquale quale comunicazione di speranza e di vita. Il libro dell’Apocalisse testimonia una rivelazione: è proposta a cogliere il disegno di Dio nella storia a partire dalla chiave di lettura di tutta la storia: al centro sta Gesù Cristo presentato come colui che si è rialzato, il risorto. E’ lui il primo e l’ultimo, che non è stato tenuto prigioniero della condizione della morte ma è uscito dalla morte, ed ha ora potere su ogni potenza di morte e di male. E’ un potere per modo di dire perché è la critica ad ogni potere: è la debolezza dell’amore quella che si è rivelata sulla croce.
Questa parola di Cristo: ‘io sono il vivente’, una delle prime forme dell’annuncio pasquale con utilizzo della metafora della vita, apre una prospettiva di speranza per tutta la storia che va verso l’ultimo e in lui troverà compimento. Se lui, il crocifisso, l’umiliato del Golgota è il vivente, l’esito della storia e il futuro dell’umanità non stanno nella morte ma nella vita e in una vita che sconfigge tutte le forze che si oppongono, di morte e di male. E’ un messaggio carico di speranza per il nostro impegno nell’oggi a ricercare tutto ciò che prepara questo incontro con lui primo e ultimo.
Nel vangelo compare una parola sul rapporto tra vedere e credere. Gesù aveva detto ‘ se non vedete segni e prodigi, voi proprio non credete’ (Gv 4,48) e Tommaso vive l’attitudine di chi dice ‘Se non vedo e non metto la mia mano… non crederò’.
Il racconto del venire di Gesù e del suo stare in mezzo dopo la sua morte è un lento e progressivo percorso del credere. In Tommaso è riassunto il cammino di ogni discepolo che vive la fatica di aprirsi ad un nuovo modo di incontrare Gesù. Non è facile il percorso della fede: questa passa per momenti di crisi e domande. E’ percorso di singoli e che coinvolge le comnità. Nella comunità – ci dice questa pagina – c’è posto per chi vive il faticoso passaggio dal credere perché alla ricerca di segni, al credere ‘senza avere visto’.
Contemporaneamente al credere c’è anche una insistenza sul vedere: ‘ i discepoli gioirono al vedere il Signore’ (v.20). Gli dissero allora gli altri discepoli ‘abbiamo visto il Signore’ (v.25) ma egli disse loro ‘ se non vedo…’. Il cammino di Tommaso è presentato come problematico proprio riguardo al ‘vedere’ Gesù. D’altra parte il vedere è rapportato al credere: ‘se non vedo… non crederò’. Le parole stesse del risorto sono tutte concentrate su questo rapporto tra il vedere e il credere: ‘guarda le mie mani…e non essere più incredulo ma credente’, fino all’espressione della beatitudine: ‘perché hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno’ (v.28).
Tommaso stesso si apre alla resa del credere di fronte a Gesù che gli pone davanti i segni della passione, le mani, il costato. Il percorso del credere ha bisogno di essere accompagnato da Gesù stesso che conduce a superare l’attesa di segni: non si sottrae a dare a vedere dei segni. Questi sono i segni della sofferenza, le ferite del crocifisso. E’ il crocifisso che è risorto, il medesimo … e i segni da rintracciare che a lui rinviano – nei quali fissare la propria sete di vedere – sono i segni della sofferenza di tutti i crocifissi della storia. Il quarto vangelo suggerisce non solo come Tommaso si apra ad un riconoscimento di fede – ‘Mio Signore e mio Dio’ – , ma anche come la beatitudine del credere senza vedere costituisca la felicità (beati significa felici) possibile per chi ora potrà incontrare Cristo risorto ‘vedendo’ in modo nuovo, in un ‘vedere’ che vada oltre i segni, nell’accogliere la testimonianza. Al termine di questo brano l’evangelista dice perché il vangelo stesso è stato scritto: ‘molti altri segni fece Gesù… ma non sono stati scritti: Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo, abbiate la vita nel suo nome’. Il vangelo è tutto riferito ad un percorso del credere che conduca a comprendere e accogliere la vita. Ed è anche questa comunicazione di vita a chi incontriamo, il dono e responsabilità che deriva dall’accogliere il vangelo.
Negli Atti degli apostoli Luca sintetizzano in brevi tratti le caratteristiche principali della vita della comunità cristiana dopo la Pasqua. La comunità (chiesa) è convocata dalla parola del Signore: importanza particolare è data allo stare insieme, e un senso di ammirazione e gioia pervade tale esperienza. ‘portavano gli ammalati nelle piazze… tutti venivano guariti’. Coloro che solitamente erano nascosti allo sguardo sono posti al centro: dalla vita della comunità sgorga una forza capace di aprire futuro e speranza, la guarigione per chi è malato. La sofferenza non è l’ultima parola della vita umana. Una forza nuova di salvezza spinge la comunità a farsi carico delle sofferenze, ad incontrare le persone vulnerabili e sofferenti che erano tenute in disparte e che ora vengono portate fuori: ora sono poste al centro e Luca vede nella guarigione i segni della salvezza proveniente da Cristo e dalla sua morte. E le folle accorrono da diverse direzioni e malati e sofferenti stanno al centro.
Alessandro Cortesi op
Ombra e luce
Nel ciclo di affreschi di Masaccio (che in toscano esprime il nome Tommaso con valenza vezzeggiativa) nella Cappella Brancacci a Firenze dipinti poco prima della morte del giovane artista (1428), una scena riprende la pagina degli Atti. La scena è posta nel quadro della Firenze degli inizi del XV secolo: le prospettive dei palazzi, le architetture che si distinguono sullo sfondo della scena così come gli abiti sono i panneggi della Firenze dell’epoca per veicolare il messaggio che quel passare di Pietro ha a che fare con la vita dei contemporanei e di chi osserva quela scena. Pietro e gli apostoli nel loro passare guariscono i malati e gli storpi che vengono loro portati. E’ un elemento proprio e sorprendente di questo affresco la presenza dell’ombra. Masaccio è l’artista che ha inventato l’ombra nell’umanesimo italiano.
Spesso all’ombra si attribuisce una connotazione negativa perché l’ombra è associata al buio e alle tenebre simbolo del male e di realtà negative. Eppure l’ombra costituisce il risvolto di un corpo illuminato e si rende presente solamente perché sta in rapporto con una luce che giunge ad incontrare un corpo. L‘ombra stessa è quindi indice di una luce che la genera e rinvia ad una luce. l’ombra non può esserci se non c’è luce. Nella scena della cappella Brancacci sembra quasi che Pietro passando non si accorga che la sua ombra è fonte di guarigione per quei paralitici che stanno accovacciati lungo la strada. E’ forse espressione di quanto accade quando la vita si fa espressione di un bene offerto in modo gratuito – leggero come lieve è il tocco di un’ombra – senza alcun interesse e senza alcuna pretesa di attirare su di sè l’attenzione degli altri nella ricerca di una qualche grandezza e riconoscimento. Pitero è raffigurato con uno sguardo fisso avanti, per certi aspetti severo e statico, ma quasi evocazione ad un vedere teso a scorgere l’invisibile e proteso in avanti. E biblicamente l’ombra è segno di una presenza di Dio che non è afferrabile e rimane non dicibile. E’ l’ombra della nube nell’esodo ma è anche l’ombra evocata al momento della nascita di Gesù: “«Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (Lc 1,35).
L’ombra di Pietro che passa, invenzione artistica di Masaccio, è una traccia da raccogliere per il nostro presente: di fronte al senso di inermità nelle vicende della guerra e delle ingiustizie che segnano questo momento del mondo siamo chiamati a passare, camminando per le strade, accogliendo di lasciare un’ombra che parli di luce che non viene da noi, ma è rinvio ad un segreto presente in ogni cuore e ad una presenza, il Risorto che è senso ultimo e segreto di tutta la storia.
Alessandro Cortesi op
IV domenica di Quaresima anno A – 2023
1Sam 16,1.4.6-7.10-13; Efes 5,8-14; Gv 9,1-41
La vicenda del cieco nato è uno dei sette ‘segni’ del IV vangelo: sono tutti orientati al grande segno della morte e risurrezione di Gesù: non sono detti ‘miracoli’ ma ‘segni’: hanno funzione di guida all’incontro con Gesù. La sua morte è il segno più grande dell’amore.
L’incontro con il cieco nato è di sabato, al principio dell’autunno, nel quadro della festa delle capanne, memoria del cammino nel deserto di Israele. Il sommo sacerdote si recava alla piscina di Siloe per attingere acqua da versare poi sull’altare dei sacrifici e le mura di Gerusalemme venivano illuminate con fuochi di ogni tipo: uno spettacolo di luminaria avvolgeva la città nel buio.
Le acque di Siloe in Isaia sono simbolo dell’affidamento al Signore in contrasto con le abbondanti acque dell’Eufrate simbolo della potenza degli imperi e della loro violenza (Is 8,5-7).
Il brano presenta un dialogo di Gesù con ‘i Giudei’, identificato come paradigma di chi vive la religione come sistema di potere, con una mentalità chiusa e di esclusione. Gesù presenta un altro orizzonte: per lui la malattia non è punizione di Dio né retribuzione per un peccato ma è un male da combattere. L’agire di Dio non va racchiuso negli schemi asfittici della contabilità umana. Gesù è venuto per sanare da ogni male e questo è il progetto di Dio dare la vita: “Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” (vv.3-5).
La guarigione del cieco è presentata come azione laboriosa: Gesù infrange la legge del riposo nel giorno di sabato (v.13). Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato proprio perché il Dio del sabato è il Dio ‘amante della vita’ (vv.6-7).
Il cieco non solo recupera la vista ma vive un cammino di apertura alla fede come nuovo modo di vedere: diviene così figura di ogni credente che si apre a vedere in modo nuovo. Al centro sta l’incontro con Gesù.
Il cieco guarito viene poi sottoposto ad un pressante esame dai giudei: testimonia che i suoi occhi ‘sono stati aperti’ e riconosce Gesù come inviato di Dio. Scorge in lui il profeta, ‘ma i Giudei non vollero credere….’ (v.18) E chiamano i genitori. Nonostante le minacce di essere escluso, giunge a professare la sua fiducia: ‘proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi’ (v.30) Quando il cieco viene cacciato fuori, Gesù gli si fa accanto, e lo accompagna ad un incontro nuovo: ‘Tu credi nel Figlio dell’uomo?
L’itinerario del cieco è così un percorso di riconoscimento ed incontro: al principio c’è un dono da accogliere. Dal buio di un modo di concepire di Dio secondo una modalità religiosa opprimente si apre alla fede come incontro.
Mentre gli uomini religiosi sono ciechi il cieco ‘cacciato fuori’ si apre al vedere: la luce è l’incontro con Gesù stesso al quale egli affida la sua vita: ‘Io credo in te Signore’.
Alessandro Cortesi op
El Greco e il cieco nato
L’episodio dell’incontro di Gesù con il cieco nato fu caro a El Greco, pittore di origini greche, nato a Creta nel 1541, giunto in Italia prima a Venezia nel 1567 e poi trasferitosi a Roma nel 1570 venendo a contato con gli artisti del mondo romano del tempo e godendo della stima del cardinal Alessandro Farnese. A partire dal 1577 si spostò in Spagna svolgendo attività artistica prima a Madrid poi a Toledo dove morì nel 1614.
Tre sono le versioni del tema dell’incontro di Gesù con il cieco ripreso dal capitolo 9 del IV vangelo. La prima è quella della tela di Dresda, collocabile nel primo periodo di Venezia in cui El Greco conobbe lo stile di Tiziano e Tintoretto, con la sensibilità al colore e alla prospettiva tipici della pittura veneziana del periodo.
La scena è raffigurata con davanti la piscina di Siloe (con rinvio al termine ‘Inviato’: è Gesù l’inviato del Padre). Gesù invia il cieco all’acqua in obbedienza al significato profondo del sabato che è giorno di liberazione e di dono della alleanza con il Dio vicino. L’incontro avviene infatti di sabato nel quadro della festa delle Capanne, memoria del cammino di Israele nel deserto.
Sulla destra del quadro gruppi di persone discutono animatamente e il loro movimento esprime l’interrogarsi, il dubbio, l’animazione a fronte del segno di Gesù mente apre gli occhi del cieco. In contrasto con tale agitazione sulla destra nella parte sinistra un personaggio alle spalle del cieco nato si china con un chiaro intento di vedere e di avvicinarsi al cieco che sta per essere guarito. E’ forse simbolo di ogni credente che cerca di comprendere e di avvicinarsi per partecipare ad un dono di guarigione e di luce.
In un’altra versione dell’episodio, conservata a Parma, datata al 1570, El Greco presenta la scena ponendo i protagonisti in primo piano al centro della scena. Si intravede in un secondo piano la piscina di Siloe e sullo sfondo una prospettiva composta di edifici classici. La luce investe il volto e il corpo di Gesù, vestito con un abito rosso e un mantello blu. Le sue braccia si aprono con una mano a sorreggere il braccio del cieco chinato davanti a lui e con l’altra a toccarne gli occhi. Il bastone, sostegno e sicurezza, lasciato per terra dal cieco è segno di superamento della cecità. C’è anche in questa tela la presenza di un personaggio che si china a sorreggere il cieco e con le sue braccia lo accompagna ad alzarsi. Un accenno all’importanza di una presenza di compagnia proprio nel cammino di essere discepoli, al seguito di Gesù incontrato come colui che porta luce all’esistenza. E’ interessante poi scorgere forse un intento di unire nella medesima rappresentazione due momenti dell’episodio: infatti sulla sinistra il personaggio raffigurato di spalle potrebbe essere interpretato come il medesimo cieco dopo la guarigione. Sembra infatti vestito allo stesso modo del cieco: con il suo braccio rivolto verso l’alto è ritratto nel movimento di invitare altri ad alzare lo sguardo verso un punto indefinito, in alto. Solo uno dei personaggi che veste un copricapo di tipo orientale si volge a guardare verso l’alto.
Nella terza versione dell’episodio, una tela conservata a New York, considerata appartenere all’epoca dell’arrivo di El Greco in Spagna, in primo piano sono raffigurati due personaggi, forse i genitori del cieco. Gesù prende per mano il cieco nato e gli tocca gli occhi donandogli nuova luce. Forse anche in questa tela, come probabilmente nella seconda, la narrazione è disposta sul medesimo piano, ma rappresenta diversi momenti. Appare infatti una somiglianza tra il cieco al centro, il personaggio alla sua sinistra che indica verso l’alto e un personaggio a destra che discute con un gruppo che gli fa ressa davanti.
Ancora si può forse leggere questi personaggi quali indicazione molteplice della medesima figura del cieco nato, che una volta guarito, giunge a maturare una luce nuova dentro di sé che lo apre a vedere Gesù non solo come profeta ma come Signore kyrios. Sembra che l’inquietudine che attraversa il gruppo alla destra della tela sia l’interrogativo sull’essere capaci di vedere: «Siamo ciechi anche noi?» (Gv 9,40).
Il cieco nato compie un cammino verso un vedere che si connota come apertura ad una luce che è la persona stessa di Gesù, che lo guida a dire: “Credo, Signore!” E si prostra davanti a lui (Gv 9,38). Diviene così testimone presso gli altri della scoperta da lui vissuta. Il progressivo accentuarsi dei colori degli abiti del personaggio nel dipinto, a differenza dei toni meno vividi degli abiti di tutti gli altri è forse segno di questa trasmissione di luce che dice il coinvolgimento della vita e si riflette nel dipinto nella vivezza del colore.
Alessandro Cortesi op