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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “marzo, 2021”

Per ricordare Oscar Romero

In questi giorni in occasione del giorno dedicato alla memoria di san Oscar Romero (24 marzo) è stata proposta una serie di testi per la liturgia.

La memoria di Sant’ Óscar Arnulfo Romero, pur essendo stata iscritta nell’Albo dei Santi il 14 ottobre 2018 non ha trovato spazio nel nuovo Messale Romano in lingua italiana.

Un gruppo di presbiteri che da anni frequentano El Salvador e che si sono sforzati in questi anni di accompagnare il cammino di quella chiesa locale, delle sue comunità e del suo popolo, ha ritenuto di venire incontro al popolo di Dio proponendo alcuni testi per l’uso liturgico per favorire la preghiera e la memoria di questo vescovo martire

Ai seguenti link i testi in italiano e in spagnolo

“Vorrei aggiungere qualcosa che forse ci è sfuggito. Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto — io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone — fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Cioè, è bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire. Ebbene, credo che ora quasi nessuno osi più farlo. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie. Questo mi dà forza, solo Dio lo sa. Solo Dio conosce le storie delle persone, e quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua.”. (papa Francesco 30 ottobre 2015 in spagnolo concludendo, a braccio, il discorso ai partecipanti al pellegrinaggio da El Salvador per ringraziamento per la beatificazione dell’arcivescovo di San Salvador avvenuta il 23 maggio 2015).

A questo link è consultabile un articolo di G.Beretta, Oscar Romero, santo universale, “Il manifesto” 24.03.2020

Domenica delle palme e della passione del Signore – anno B – 2021

Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

La liturgia di oggi fa entrare con duplicità di accenti nel mistero della Pasqua, mistero di morte e di vita, di passione e di risurrezione, di sofferenza e di gloria.

Marco presenta Gesù nella passione facendo emergere il segreto della sua identità: aveva iniziato il suo scritto con le parole “Principio del vangelo di Gesù Cristo figlio di Dio”. L’intero vangelo, è la bella notizia di Gesù il suo annuncio del regno ma è anche la bella notizia che è Gesù stesso, il messia atteso (‘figlio di Dio’ è titolo del re messia per es. nel Salmo 2,7). Eppure quando qualcuno esprimeva l’identità di Gesù veniva subito messo a tacere: è imposto il silenzio ai demoni (1,24; 3,11), ma gli apostoli sono invitati a tacere (9,7.9). Marco è consapevole della facilità di costruire un’immagine falsata di Gesù, basata sulle attese di affermazione e pensieri umani e non lasciandosi cambiare da quanto Gesù proponeva con la sua vita.  Al centro dell’intero racconto della passione sta la presentazione del volto di Gesù.

Marco presenta Gesù nel suo patire paura e angoscia, in preda allo sfinimento ed alla debolezza. E’ descritto sempre più solo fino al punto che anche i suoi più vicini, coloro che aveva raccolto con sé, gli apostoli, lo lasciarono “Tutti allora abbandonatolo, fuggirono”.

Marco fissa il momento drammatico della preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi: “Abbà Padre, allontana da me questo calice”. Così ancora sottolinea il suo silenzio di fronte al sommo sacerdote: “Non rispondi nulla?… Ma egli taceva e non rispondeva nulla”, così anche di fronte a Pilato: “Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano! Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito”.

Secondo il modo di pensare umano la potenza e la violenza di ogni potere hanno ragione; in modo paradossale Gesù inerme davanti al sommo sacerdote afferma la sua pretesa di essere lui il Figlio dell’uomo, figura del giudice degli ultimi tempi (cfr. Dan 7), colui che giudicherà il mondo e la storia.

Gesù è presentato anche nella sua incapacità a portare il legno della croce (patibulum) che veniva poi agganciato al palo piantato sulla terra. Veniva caricato sulle spalle ai condannati tanto che un certo Simone di Cirene fu costretto a portarlo. Ed ancora sono riportate ripetutamente i gesti di disprezzo, di beffe e di sfida contro di lui fin sotto la croce: dicevano “ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo”.

Gesù è messia che si fa scorgere come tale solo sulla croce: non scende dalla croce. Dalla croce., luogo della tortura, patibolo infamante, si rivolge al Padre con le parole iniziali del salmo 22,2: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. E’ una preghiera  drammatica che descrive la solitudine e l’abbandono del giusto sofferente che dopo aver gridato a Dio si affida e conferma il suo affidarsi a Dio, che esaudisce il grido del perseguitato e non gli nasconde il suo volto.

Gesù, dice Marco in questa presentazione, è messia che prende su di sé la debolezza e vive il suo essere messia come dono di sé fino alla fine.

Marco propone anche il volto del discepolo che s’identifica con il centurione pagano, che lì sotto la croce dice: ‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio’. Il credere sorge non in rapporto a gesti prodigiosi o ad opere di potenza ma sotto la croce, scorgendo in Gesù il volto del servo che si è fatto uomo per gli altri.

Nel momento della sua morte  ‘il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso’: viene ripresa la polemica che attraversa tutta la narrazione della passione. Si tratta di una simbolica apertura e distruzione del tempio. Di fronte al sommo sacerdote il discorso si era appuntato sul ‘tempio fatto da mani d’uomo’ e sul ‘tempio non fatto da mani d’uomo’: Marco presenta il Cristo, nel momento della morte, come nuovo tempio, luogo vivente dell’incontro con Dio che si realizza eliminando ogni barriera tra Dio e l’umanità. La morte di Gesù è inizio di una vita nuova.

Quel giovinetto che l’aveva seguito vestito solo di un lenzuolo perché voleva vedere le vicende della passione ed era fuggito via nudo, è rinvio e anticipo già di quel giovinetto seduto sulla destra del sepolcro, vestito d’una veste bianca che annuncia: ‘E’ risorto non è qui… vi precede in Galilea…là lo vedrete…’.

Codice Aureus Escurialensis Fol. 81r (facsimile). Madrid, monastero dell’Escorial. Particolare del ragazzo che fugge.

Il ragazzo e la fuga

“Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo” (Mc 14,50-52). C’è un particolare nel racconto di Marco della passione che attira per i tratti di originalità e per i richiami che evoca. Infatti ad accenni che compaiono in questo momento inizio della passione di Gesù corrispondono riferimenti che ritornano al momento della conclusione della vicenda tragica della morte di Gesù: nel Getsemani un giovinetto, vestito solamente con un lenzuolo, fugge via dopo essere stato preso da coloro che erano venuti per arrestare Gesù ma riesce a fuggire lasciando cadere il lenzuolo e fuggendo via nudo.

La narrazione è ricca di evocazioni e di simboli: forse è l’indicazione di un discepolo di Gesù che non riesce a rimanere con lui anche nel momento della passione e vive il fallimento di rimanere nudo e di fuggire via (come tutti lo hanno abbandonato). Ma questa figura è anche un’anticipazione di qualcosa che nella narrazione viene a seguire. Infatti il riferimento al lenzuolo ritorna alla fine del racconto e lo stesso vangelo si conclude con il riferimento ad un giovinetto. Il termine ‘giovinetto’ (neaniskos) infatti ritorna nel vangelo d Marco solo qui (Mc 14,50) e alla conclusione del vangelo (15,6).

Ma anche il riferimento al lenzuolo (sindon), che può essere un lenzuolo, un panno o un vestito leggero da tenere avvolto ritorna proprio in queste pagine. “Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’ingresso del sepolcro” (Mc 15,44-46)

Pilato concede la salma di Gesù a Giuseppe e si ripete a questo momento per due volte il riferimento ad un lenzuolo, comprato appositamente da questo personaggio che Marco nel suo vangelo indica come ‘membro autorevole del sinedrio che aspettava il regno di Dio’. Di lui nel vangelo di Luca si dice che era ‘buono e giusto’ (Lc 23,50-51) che non aveva aderito alle decisioni del sinedrio contro Gesù e all’operato degli altri. Egli depose Gesù in un sepolcro in cui nessuno era stato ancora sepolto. Il IV vangelo lo indica come discepolo di Gesù che si reca al momento della sepoltura ‘di nascosto’ (Gv 19,38). Anche il vangelo di Matteo si sofferma sulla figura di Giuseppe, dicendo che “era diventato discepolo di Gesù… si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. … prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia…” (Mt 27,57-60).

Quindi il lenzuolo è un elemento importante nel momento in cui il corpo di Gesù viene accolto e curato, dopo la morte, per interessamento di questo discepolo particolare, Giuseppe d’Arimatea che sta vicino a Gesù nel momento della sua morte mentre i suoi discepoli lo avevano abbandonato. Marco sottolinea che non era solo: “Maria di Magdala e Maria madre di Joses stavano a osservare dove veniva posto” (Mc 15,47).

Ma è interessante notare come proprio le ultime righe del vangelo al mattino presto nel primo giorno della settimana quando le donne Maria di Magdala Maria madre di Joses e Salome vennero al sepolcro al levare del sole  e si domandavano ‘Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?’ ricompare una figura di giovinetto: “Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto alla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: ‘Non abbiate paura! Voi cercate Gesù il crocifisso. E’ risorto, non è qui… ma andate dite ai suoi discepoli e a Pietro: Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto. Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore…” (Mc 16,1-8).

Un giovane è seduto alla destra del sepolcro ‘avvolto’ con una veste bianca, così come era stato indicato ‘avvolto’ da un lenzuolo il giovane dell’orto del Getsemani. Ora la veste è indicata come bianca, simbolo di luce e splendore della vita che non è chiusa nelle angustie della morte. Le donne fuggirono piene di paura e stupore per l’annuncio ricevuto e questa fuga rinvia al fuggire del giovane dell’orto del Getsemani.

Tutti questi elementi sono piccoli segnali della abilità di Marco come narratore: lungo il racconto della passione di Gesù sa infatti lasciare qua e là elementi che offrono le chiavi per scorgere il significato di quanto sta accadendo e che aprono interrogativi e domande su quanto sta raccontando leggendo il percorso alla luce della fine e del compimento: il cammino di Gesù apre infatti per Marco il cammino dei suoi discepoli e discepole.

Quel giovane dell’orto è forse indicazione del discepolo che fallisce nella sua pretesa di stare con Gesù con le sue forze e fugge? E solo accogliendo il dono della sua vita sotto la croce può trovare la via per seguirlo? Oppure è simbolo del discepolo che nasce di nuovo nello spogliarsi del vestito vecchio e nel rivestirsi della veste bianca del battesimo, partecipazione alla vita del risorto? Oppure può essere rinvio al giovane avvolto in veste luminosa presenza di messaggero e testimone che annuncia alle donne che Gesù non è rimasto chiuso nel luogo della morte, ma precede i suoi in Galilea?

E’ forse invito a leggere l’intera passione di Gesù – tutti i singoli momenti – quale testimonianza della fedeltà sino alla fine alla sua missione, all’annuncio del regno aprendo un orizzonte di vita che va oltre ogni violenza e malvagità? E quindi invito a scorgere nel presente di difficoltà e ingiustizie il luogo in cui stare resistendo con la nonviolenza dell’amore ponendo fisso lo sguardo su Gesù? E la sua fuga impaurita è forse da accostare alla fuga delle donne che nella loro paura si fanno testimoni silenziose della risurrezione ed aprono ad altri cammini di testimonianza?

Sono domande aperte che Marco suggerisce a chi legge: rimanendo coinvolti nella fuga delle donne si è inevitabilmente toccati dalla provocazione ad entrare in questo incontro che è la vita di Gesù che sempre e ancora precede nella Galilea delle nostre esistenze.

Alessandro Cortesi op

V domenica di Quaresima – anno B – 2021

Ger 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

‘Vogliamo vedere Gesù’ è desiderio espresso da alcuni greci in una domanda a Filippo: è un desiderio di incontro con Gesù. ‘vedere’ nel IV vangelo è verbo che indica una ricerca del senso degli eventi. A questa richiesta Gesù risponde parlando della sua ora, di glorificazione e di morte: “E’ venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”

Gesù parla di sè, del suo cammino e ne parla utilizzando un riferimento fodnamentale all’ora: l’ora della sua vita è il momento in cui si consegna al Padre per amore. La sua vita è come un chicco di grano gettato in terra che muore. Consegnato nel tradimento, è in realtà lui stesso che nella sua libertà si consegna per tutti. Nel suo perdere la sua vita genera una fecondità nuova. La gloria di Gesù si rivela nel dono della sua vita e nell’amore che giunge fino al segno supremo sulla croce.

L’ora annunciata a Cana, detta vicina nel dialogo con la donna di Samaria, adesso è giunta: “E’ venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora di Gesù è ora della sua passione ma nel medesimo tempo è ora di glorificazione. Ciò appare una contraddizione. Ma sarà l’ora in cui tutti volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto e lì vedranno il volto di Dio come amore. Innalzato da terra, Gesù attira ogni cosa a sé. L’ora di Gesù è tempo finale che irrompe nel presente e rende vicino la misura smisurata dell’amore di Dio per l’umanità. Gesù vive paura ed angoscia di fronte a quest’ora ed invoca ‘Padre glorifica il tuo nome’. Il Padre è coinvolto e presente nell’ora di Gesù, e conferma la via che Gesù sta seguendo.

Gesù propone la sua via a coloro che lo seguono: è una via in cui vi è un morire, cioè un venir meno a tutte le pretese che comportano tenere la vita centrata su di sé, a tutto ciò che impedisce di semplificare l’esistenza rendendola unificata e orientata ad un dono. Non si tratta di una morte fisica ma di un movimento di lasciar andare tante cose inutili. Per questo il morire non è l‘ultima parola, ma diviene occasione per un rinascere, per vivere in una dimensione nuova, nella semplicità, nel vivere per gli altri, come Gesù che nel suo venir meno alla pretesa di trattenere la sua vita, facendola dono, ha vinto la morte e ha aperto una nuova speranza. Morire implica venir meno a tuti i disegni di grandezza e affermazione per lasciar spazio alla relazione con Gesù, al sapersi sorelle e fratelli suoi, inviati a portare la benedizione che proviene dall’incontro con lui a tutti.

Gesù è passato facendo del bene: la sua parola e il suo gesto di benedizione era per tutti. Questo morire non è solo dei singoli, ma dev’essere esperienza di comunità. Anche la chiesa e le chiese oggi sono chiamate a ritornare al vangelo, a ritornare a Gesù, nonostante le incapacità e perdita di orizzonte nel non lasciarsi confrontare con i gesti e le parole di Gesù, con la gioia e la benedizione del suo vangelo, per tutti e soprattutto per i poveri. Gesù manifesta la sua gloria sulla croce: coloro che hanno visto la sua ‘gloria’ non possono non seguire i passi che lui ha percorso. Sono chiamati ad essere benedizione per tutti e a pensare la prorpia esistenza come il chicco di grano che si perde nella terra ma solo così da inizio ad una nuova vita.

Alessandro Cortesi op

Come il chicco di grano…

Ricorre in questi giorni la memoria di Oscar Romero riconosciuto ufficialmente santo dalla chiesa ma ben prima riconosciuto nella sua testimonianza evangelica dal popolo dei poveri nel cui contatto egli stesso aveva scoperto in modo nuovo la chiamata di Gesù a dare la sua vita per gli altri.

Proprio la sera in cui venne ucciso, il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la messa nella piccola cappella dell’Ospedale della divina Provvidenza pronunciò un’omelia in cui ricordava la morte di una donna Sarita , Sara Meardi de Pinto, madre di Jorge de Pinto, giornalista salvadoregno del settimanale “El Independiente”. In quella sera era stato letto il brano del vangelo Gv 12,23-26. E Romero, poco prima di essere colpito dalle pallottole delle milizie venute a farlo tacere, così si espresse:

“… penso che questa sera non dovremmo solo pregare per il riposo eterno della nostra cara signora Sarita, ma soprattutto dovremmo fare nostro il suo messaggio a cui ogni cristiano deve dare forma e vita in maniera intensa. Molti non capiscono, e pensano che il cristianesimo non dovrebbe immischiarsi in queste cose. Ma, al contrario, avete appena ascoltato il vangelo di Cristo: nessuno deve amare se stesso tanto da evitare di coinvolgersi nei rischi che la storia ci chiede; coloro che evitano il pericolo perdono la loro vita, mentre quelli che vivono dell’amore di Cristo donano sé stessi al servizio degli altri e vivranno. Come il seme di grano che muore, ma solo apparentemente. Se non morisse, rimarrebbe da solo. La mietitura arriva solo perché esso muore, perché permette a se stesso di essere sacrificato nella terra e distrutto. Solo distruggendo se stesso produce il raccolto”.

Proseguiva poi: “Questa è la speranza che ispira noi cristiani. Sappiamo che ogni sforzo per migliorare la società, soprattutto una che è così segnata da ingiustizia e peccato, è uno sforzo che Dio benedice, che Dio desidera, che Dio ci chiede. E quando si trova gente generosa come Sarita, e il suo pensiero incarnato in Jorgito e in tutti coloro che si appassionano per questi ideali, allora si deve cercare di purificarli, certamente, di renderli cristiani, di rivestirli con la speranza di ciò che sta oltre.

Tutto questo li rende più forti, rendendoci sicuri che tutto quello che facciamo sulla terra, se nutrito di speranza cristiana, non fallirà mai. Lo ritroveremo in una forma più pura in quel Regno dove il nostro merito sarà l’impegno e la passione che abbiamo messo qui sulla terra.

Penso che aspirare a ciò non sia senza effetto in un tempo di speranza e lotta, nel giorno di questo anniversario. Ricordiamo con gratitudine questa donna generosa che fu capace di simpatizzare con le preoccupazioni di suo marito e suo figlio, e di tutti coloro che lavorano per un mondo migliore”.

Sono parole che rinviano ad una benedizione di Dio che guarda con benevolenza ogni percorso e impegno umano in cui sin da ora, nell’impegno in questa terra, si fa crescere il dinamismo dell’amore, della liberazione e si aprono vie di giustizia e di pace. Parole che rimangono ancora profezia in questo nostro presente.

Alessandro Cortesi op   

IV domenica di Quaresima – anno B – 2021

Crijn Hendricksz Volmarijn, “Cristo e Nicodemo”

2Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

La IV domenica di Quaresima si apre con un invito alla gioia. La prima lettura offre una sintesi del percorso dell’incontro con Dio: da un lato un dono di alleanza da parte di Dio per mezzo di inviati e messaggeri. Ma spesso i profeti hanno trovato indifferenza e ostilità. Alla premura e cura di Dio corrisponde il rifiuto e il disprezzo. A fronte di tale incomprensione la Bibbia presenta la reazione di Dio come appassionata indignazione per tale chiusura e insensibilità. Ma proprio il secondo libro delle Cronache si conclude con un rinnovato gesto di fedeltà di Dio, che per mezzo dell’opera di un re pagano Ciro apre al popolo d’Israele la via del ritorno e della liberazione dall’esilio.

Il dialogo tra Gesù e Nicodemo sorge dalla curiosità di questo maestro ebreo e conoscitore delle Scritture che si reca ad incontrare Gesù di notte. Riconosce in Gesù un uomo venuto da Dio perché si è lasciato interrogare dai segni che compie e forse avverte nella sua vita la nostalgia di nuovi inizi anche se intende interrogarsi su di sé senza che gli altri lo notino. Gesù indica che vedere il regno di Dio è possibile solo per coloro che nascono dall’alto. Nascere dall’alto significa un nascere interiormente accogliendo il dono dello Spirito: è per questo un nascere nuovo. In questa accoglienza si attua così un giudizio che si svolge nel cuore di quanti si trovano di fronte a Gesù:

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”

Gesù con i suoi gesti rende vicino il Dio che ama il mondo. Davanti a lui non si può rimanere indifferenti. Vi è una chiamata a prendere posizione davanti a lui ed in questo si compie un giudizio. Accogliere Gesù porta ad accogliere la luce in contrasto con le tenebre.

Credere in lui non è solo atto intellettuale né si esaurisce unicamente in indicazioni morali. ‘Credere’ nel IV vangelo è movimento che coinvolge l’intera esistenza, cuore e vita, e pone in un cammino di incontro e di cambiamento. Affidarsi a lui è via per ricevere in lui la vita eterna: è una comunione che inizia nella storia e si apre al rapporto vivo per sempre con Dio.

Gesù a Nicodemo propone un movimento di innalzamento: Gesù gli propone una rinascita, che nonostante la sua età deve compiersi dall’alto e di nuovo, una nascita che può iniziare solamente se ci si rivolge a Gesù così come nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al serpente posto in alto sull’asta da Mosè (Num 21,4-9): era quello un segno di guarigione e di salvezza, punto di riferimento della speranza di tanti che soffrivano in preda alla malattia.

“Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15)

Il IV vangelo legge la croce come innalzamento. Gesù è posto, lui il condannato, su di una posizione più alta di tutti gli altri: se la croce è il segno del fallimento, Gesù morendo in quel modo manifesta il volto dell’amore di Dio che giunge al segno supremo. Dallo sguardo a Gesù sgorga un interrogativo per tutti coloro che lo seguono: chiede una scelta di affidarsi a lui assumendo la sua via. E proprio in questa scelta si compie un giudizio ed una nascita dall’alto e di nuovo. Sotto la croce si compie un raduno nuovo: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Alessandro Cortesi op

Nicodemo

“Nella Chiesa nuova alla man dritta c’è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune, a olio lavorato; e questa dicono che sia la migliore opera di lui” così scriveva nel 1642 Giovanni Baglione nella sua descrizione de Le vite de’ pittori, scultori et architetti  dal pontificato di Gregorio XIII dal 1572 in fino ai tempi di papa Urbano VIII nel 1642. Il riferimento è ad una tela di Jacopo Merisi detto il Caravaggio dipinta tra 1602 e 1603 e collocata sopra l’altare in una cappella della chiesa di santa Maria in Vallicella (Chiesa nuova) nel centro di Roma. La chiesa era officiata dalla comunità degli oratoriani fondati da san Filippo Neri. La nobile famiglia Vittrice aveva una cappella nella chiesa ed aveva commissionato l’opera a memoria di un parente defunto, Pietro. E Caravaggio dipinse la tela nei primi anni del 1600. Ora la tela è conservata nei Musei vaticani.

Si tratta di un quadro di ampie dimensioni. – tre metri di altezza per circa due di larghezza – in cui la scena raffigurata non è il momento della crocifissione né la sepoltura, ma il momento della deposizione di Gesù dalla croce. Un gruppo di discepole e discepoli è così raccolto attorno  al corpo di Gesù che viene poggiato su di una pietra dove si sarebbe proceduto alla cura e unzione.   

Al centro del dipinto sta il corpo di Gesù esanime avvolto in un lenzuolo con cui è stato calato dalla croce, sostenuto da due figure maschili. Una a sinistra dal volto più giovane è Giovanni, il discepolo amato, che regge con le sue braccia il corpo di Gesù ed è proteso con il suo sguardo a fissare il volto del maestro mentre la mano sinistra si avvicina. toccare la ferita del costato. L’altra figura di uomo in primo piano può essere identificata con Giuseppe di Arimatea, membro del sinedrio che attendeva il regno di Dio e che chiese a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43) o secondo altri è proprio Nicodemo, il maestro d’Israele che si recò da Gesù nella notte (cfr. Gv 3,1-2; 19,39-40). Con le braccia raccolte una sull’altra regge le gambe di Gesù accompagnando il movimento della deposizione del corpo sulla pesante pietra verso cui scende il lenzuolo bianco e su cui saldamente poggiano i suoi piedi e le gambe robuste.

In un secondo piano si scorgono i volti di alcune donne: si distingue Maria, la madre di Gesù con il capo coperto da un velo che contorna il volto raccolto in uno sguardo tutto concentrato su Gesù: è raffigurata con le braccia aperte quasi ad abbracciare nello star vicina al corpo abbandonato del figlio. Espressione di silenzio, di dolore e di attesa. Accanto a lei Maria di Magdala è in pianto ed è fissata nel momento in cui si sta asciugando le gote recando con la mano un fazzoletto a tergere le lacrime che le rigano il viso. Con gli occhi rivolti al cielo e le braccia aperte verso l’alto è poi una terza figura di donna, Maria di Cleofa. Il suo gesto suggerisce preghiera e grido rivolto al cielo ma anche dà all’intera composizione il dinamismo di una salita verso l’alto. Sono presenti quindi le donne che avevano seguito Gesù fino alla croce e con loro Giovanni il discepolo amato, vestito di una tunica verde avvolto in un mantello di colore rosso e Nicodemo. I volti delle donne e dei due uomini che sorreggono il corpo di Gesù compongono insieme quasi un movimento che discende a cascata dall’angolo a destra e giunge al corpo di Gesù proseguendo nel gesto del braccio. La pietra di marmo in primo piano è raffigurata con l’angolo rivolto a chi guarda, quasi ad uscire dal quadro stesso. Tutte le figure poggiano su quella pietra, pietra del sepolcro e dell’unzione.

L’intera composizione manifesta una discesa ma anche un ascendere, proprio a partire da quella pietra su cui tutti stanno appoggiati e che regge ogni dolore e ferita. Quella pietra è infatti la pietra d’angolo che evoca il salmo 118,22: la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo’ (cfr Mt 21,33-43). Vi sono poi alcuni particolari che possono essere notati: innanzitutto il corpo di Gesù non reca i segni della tortura e del sangue, è un corpo pulito e luminoso. La luce che attraversa il dipinto scende dall’alto a destra ad illuminare il corpo abbandonato. La sua mano rilasciata verso il basso giunge a sfiorare la pietra ed arriva sino ad indicare una pianta che cresce al di sotto della pietra, la medesima pianta che viene raggiunta anche dal lembo del lenzuolo bianco e luminoso che avvolge il corpo deposto. E’ una pianta verde e viva, che si contrappone ad un’altra pianta con le foglie appassite all’altro lato della pietra. La pianta verde è un segnale posto nel punto più basso del dipinto che indica la vita e la risurrezione.

In questo quadro Caravaggio viene ad esprimere un grande messaggio che comunica anche a chi osserva la tela proprio attraverso lo sguardo di Nicodemo che rivolge il suo volto dall’alto in basso a chi guarda dall’esterno. Mentre i discepoli sono fuggiti e hanno abbandonato Gesù solamente le donne e il discepolo amato lo hanno seguito e con loro è presente sotto la croce il maestro inquieto e curioso, Nicodemo. Al suo sguardo sembra che sia affidato un messaggio che corrisponde a quanto apprese da Gesù nella notte in cui si recò a presentargli i suoi dubbi e la sua ricerca.  In quel dialogo Gesù gli aveva parlato di un innalzamento; in quel dialogo Gesù gli aveva detto qualcosa di difficile da comprendere, l’esigenza di un rinascere di nuovo e dall’alto. Nicodemo in questo momento fissato da Caravaggio si trova ad accompagnare il corpo di Gesù nella morte vero il basso ad essere deposto sulla pietra. Ma quella pietra scartata dai costruttori è testata d’angolo di una nuova costruzione, di vita. La pianta viva e il lenzuolo bianco, la luce radiosa che illumina il corpo esanime ma con i tratti di chi si è abbandonato al Padre recano l’annuncio della luce che irrompe nel buio, della vita che vince la morte, di una pietra che diviene base di una costruzione di pietre viventi, di comunione. Nel volto di Nicodemo Caravaggio riporta un ritratto di Michelangelo (artista che aveva vissuto un secolo prima di lui e a cui Caravaggio si riferisce anche richiamando nel corpo di Cristo la medesima postura del corpo abbandonato del Cristo della Pietà di Buonarroti). Forse anche a dire che l’arte può aiutare ad accompagnare a scorgere la luce.

E’ una scena di morte, ma anche di vita, di rinascita he porta con sé a rinascere in modo nuovo, dall’alto, coloro che sono accanto a Gesù nel suo abbassamento fino alla morte di croce. Nicodemo piegato e affaticato nel suo rivolgersi a coloro che osservano sembra comunicare loro il suo comprendere proprio in quel momento quanto Gesù gli aveva confidato nella notte in cui lo aveva incontrato accogliendo la sua inquietudine e gli aveva indicato una strada: Dio ha tanto amato il mondo che ha donato il suo Figlio Unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna. La luce è venuta nel mondo aveva detto Gesù a Nicodemo. Ed ora questa luce si rende viva e presente nel corpo senza più forze di Gesù stesso. Nicodemo è chiamato ad offrire le sue energie per accogliere quella luce e ‘vedere il regno di Dio’.  Nel dialogo Gesù gli aveva indicato che questione essenziale è ‘vedere il regno’ cioè la presenza di Dio nel mondo e in Israele. E per questo è necessario rinascere dall’alto. L’identità di Gesù è tutta in rapporto al regno e incontrare lui implica cambiare idee sul modo religioso di vedere Dio. Gesù aveva indicato a Nicodemo la via di una rinascita, non dal basso, con le proprie forze, ma dall’alto, accogliendo un dono. E’ paradossale che la sua rinascita dall’alto stia avvenendo in rapporto con Gesù che egli sta accompagnando nel suo abbassarsi. Nascere di nuovo è una novità. Sulla croce Gesù è stato umiliato, ma anche posto in alto al di sopra di tutti: ora sta  già facendo irruzione la luce e la vita nuova. Attorno a Gesù è raccolta la prima chiesa, inizio del regno. Lo sguardo di Nicodemo invita ad entrare in questa convocazione, ad accogliere quella parola che in una lontana notte egli ascoltò da Gesù. C’è una luce da accogliere più forte del buio, c’è una vita che vince la morte. Gesù, la pietra scartata, è principio di comunione nuova.  

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno B – 2021

Es 20,1-17; 1 Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

La prima lettura accompagna a scorgere un’altra tappa della storia della salvezza dopo l’alleanza con Noè e la legatura di Isacco. E’ il dono della legge a Mosè nel cammino dell’esodo. Le dieci parole sono da leggere alla luce di quella inziale: “Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Le dieci parole infatti indicano che tutta la vita può divenire luogo di una relazione viva con il Dio vicino. E’ lui il liberatore che ha ascoltato il grido di Israele oppresso traendoli fuori dalla schiavitù per aprirgli una strada di incontro e di libertà. La relazione nuova con lui trova espressione nelle prime tre parole. Le altre sette parole riguardano una nuova relazione con gli altri, di rispetto, di giustizia, di accoglienza. I cosiddetti ‘comandamenti’ non sono quindi una legge a cui sentirsi sottoposti, ma sono invito e apertura di una via per rispondere ad una chiamata di amore. Chiedono di liberarsi dagli idoli che occupano la vita e aprirsi al servizio a Dio e agli altri quale compimento di umanità.

L’episodio della cacciata dei venditori dal tempio è posto dal IV vangelo all’inizio della attività pubblica di Gesù, nei giorni della festa di Pasqua. E’ così un momento che anticipa l’intero cammino di Gesù. Fu proprio questo suo gesto uno dei motivi che suscitarono l’ostilità dei sacerdoti e capi di Gerusalemme.

Rovesciare i tavoli dei venditori è certamente una critica ad un modo di vivere un culto separato dalla vita, è accusa di tradire il significato del tempio, segno della presenza di Dio vicina. Ma questo gesto reca in sè anche un messaggio di superamento del tempio stesso. E’ infatti un segno tipico dell’agire profetico che evoca un tempo nuovo ormai iniziato: Dio infatti cerca credenti che lo adorino non in un tempio o in un altro luogo ma ‘in spirito e verità’ (cfr. Gv 4,21-24). Le parole di Gesù sono indicative del significato del gesto: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” e l’evangelista osserva: “ma egli parlava del tempio del suo corpo (…) Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono  che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”. ‘Ricordare’ nel linguaggio giovanneo indica non solo una ricondurre alla memoria , ma ben più un comprendere il senso profondo dell’agire di Gesù, per la nostra salvezza, alla luce della risurrezione.

L’intero IV vangelo conduce il lettore in un cammino del ‘credere’, che si connota come ‘credere in’ Gesù. Il segno del tempio è un segno che rinvia alla sua persona ed invita a scorgere d’ora in poi in lui la possibilità di accesso al Padre non su questo o su un altro monte ma nello Spirito. Con Gesù è giunto il tempo di un culto in spirito e verità che non divide e pone gli uni contro gli altri. La gloria di Dio per Giovanni si manifesta sul volto del crocifisso che manifesta il dono e l’amore fino alla fine quale volto più autentico di Dio.

Nel rapporto con lui che possiamo trovare il senso profondo delle dieci parole, dei suoi comandamenti: “Se mi amate osserverete i miei comandamenti…. Voi siete miei amici perché fate quello che vi comando” (Gv 14,15; 15,14).

Alessandro Cortesi op

Fratelli tutti

“Per renderci conto di dove stia per recarsi Francesco occorre tracciare una croce sul blocco eurasiatico: il primo tratto di penna, quello verticale, unisce Mosca e lo stretto di Hormuz, lo sbocco oceanico del Golfo Persico. Il secondo tratto di penna, quello orizzontale, collega Teheran e Palermo, il centro del Mediterraneo. Ecco, Francesco si reca nel punto geografico dove queste due linee si intersecano, dunque nel luogo cruciale di tutti gli appetiti, perché chi controlla quel luogo controlla il blocco eurasiatico. Francesco ci va da costruttore di pace, all’insegna di uno slogan rivoluzionario: ‘siete tutti fratelli’”. (Riccardo Cristiano, L’ultima sfida di Bergoglio. Sulle orme di Abramo per invocare la fratellanza, Reset 2.03.21)

Papa Francesco svolge in questi giorni uno storico viaggio in Irak: il programma prevede una prima tappa a Baghdad il 5 marzo con l’incontro con il presidente della Repubblica Barham Salih e le autorità civili. Poi nella cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora della salvezza un primo incontro con la comunità cristiana. Importante tappa sarà il giorno seguente, 6 marzo a Najaf, città santa dei mussulmani sciiti, dove è previsto l’incontro con il grande ayatollah Al-Sistani. Da lì lo spostamento a Nassiriya, per un incontro interreligioso nella pianura di Ur luogo che la tradizione indica come punto di partenza del cammino di Abramo. La sera ancora Baghdad per una s.Messa nella cattedrale caldea di San Giuseppe.  Il 7 marzo il papa si sposterà a Erbil, città nel Kurdistan irakeno, luogo dove hanno trovato rifugio moltissimi profughi dalla piana di Mosul quando l’Isis ha devastato quelle regioni. Nei pressi di Erbil sorgono i campi profughi che hanno accolto i rifugiati dall’Irak e poi molti siriani fuggiti dalla Siria nel 2015. Da qui il trasferimento a Mosul e a Qaraqosh città dove erano presenti comunità cristiane prima della conquista dell’Isis e dove ora con grande fatica si sta avviando la ricostruzione delle città devastate. Di qui a Baghdad e il rientro  a Roma.

Il viaggio del papa  è un gesto coraggioso e portatore di un messaggio essenziale ed esigente in un quadro geopolitico segnato da diversi imperialismi che si stanno fronteggiando. La terra di Irak è stata da decenni luogo di guerra che ha visto la grande devastazione operata dalla guerra condotta dagli USA e dagli eserciti occidentali che con la pretesa di portare la pace e democrazia hanno fatto il deserto. Nella terra di Irak si sono incrociate e si incrociano oggi più che mai le linee di dominio degli imperialismi diversi: quelli sauditi e iraniani khomeinisti, quelli turchi, russi e cinesi. Sono tutti progetti di dominio che si servono di strategie economiche e militari senza scrupoli. Quella terra trasuda la sofferenza dovuta a progetti di conquista militare-religiosa in cui la religione è stata e continua ad essere ragione e strumento di guerra, morte e devastazione. L’Irak è una terra ricchissima per le ricchezze del sottosuolo, che però vengono sfruttate altrove e non portano ad un benessere per la popolazione segnata da una disoccupazione  assai elevata  e dalla condizione di povertà per circa un terzo degli abitanti.

In particolare l’incontro del papa a Najaf può essere una tappa importante per una convergenza anche della comunità sciita rappresentata dal suo capo spirituale Al Sistani (che si distingue per non aver asseondato la linea della teocrazia khomeinista in Iran) attorno alle linee della dichiarazione sulla fratellanza umana sottoscritta due anni fa ad Abu Dhabi da Francesco e dall’imam Al Tayyeb del Cairo, figura di riferimento della corrente dell’Islam sunnita. Il messaggio ‘fratelli tutti’ indica come gli estremismi che si basano sulle religioni o si servono di motivazioni religiose siano da condannare. Quella dichiarazione redatta “In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna. In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre” presentava un appello accorato: “dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente”.

E richiamava anche le linee di riconosicmento della libertà religiosa: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”.

Il viaggio di Francesco ed in particolare l’incontro interreligioso di Ur costituiscono un segno profetico: il riconosciemnto di essere fratelli e sorelle implica la costruzione di una cittadinanza in cui riconoscere la dignità di cittadini in una convivenza che può essere plurale, come proprio le società orientali hanno sperimentato nella storia ed esprimono nella sensibilità dei poveri. In tale prospettiva Antoine Courban, intellettuale libanese cristiano ortodosso, docente all’Università dei gesuiti Saint Joseph a Beirut osserva:

“io vedo in questa decisione di Francesco di visitare l’Iraq e di recarsi a Ur come un segno dello Spirito Santo. Il cammino di Abramo, seguendo la volontà di Dio, lo ha condotto da Ur alle coste del Mediterraneo. La cartina spirituale del cammino di Abramo ci indica, ci spiega la cartina geopolitica di oggi. Sia il cammino di Abramo che la realtà geopolitica fanno della Mesopotamia la vera “chiusura strategica”, o il “Gate”, del Mediterraneo. Le chiavi per la pace mediterranea sono lì. Sono due cartine diverse, certamente, ma che si accavallano perfettamente e divengono inseparabili. Senza pace nell’antica Mesopotamia non c’è pace nel Mediterraneo, e le parole “cittadini” e “fratelli” sono una parola sola, cioè la chiave di lettura e soluzione di tanti problemi. Questa è la prospettiva di pace che comporta e implica, infatti è incompatibile con identitarismi o progetti settari e miliziani. Questo lo vediamo in tutti i drammi mediterranei e lo indica proprio il senso della scelta di Abramo: i figli di Abramo, cioè ebrei, cristiani e musulmani, sanno che loro padre non ha fondato una religione, ha sentito Dio dirgli “fai così” e lui ha agito con “fede e fiducia”. Fede e fiducia nell’unico Dio di tutti i figli di Abramo, questo è il messaggio di Abramo, quello che va ricordato a tutti i suoi figli”. (R.Cristiano, Intervista a Antoine Courban Senza pace in Iraq non c’è pace nel Mediterraneo. Courban spiega il viaggio del papa, Formiche.net 27.02.21).

Alessandro Cortesi op

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