XVII domenica tempo ordinario – anno C – 2016
Gen 18,20-21.23-32; Col 2,12-14; Lc 11,1-13
“Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?”. Abramo è il padre dei credenti, nel suo cammino si può ritrovare il percorso di ogni credente. Ha vissuto l’accoglienza di una speranza inattesa, ha ricevuto la promessa di futuro e discendenza nel segno delle nelle luci di un cielo stelato, ha scoperto la presenza di un Dio vicino e fedele nell’alleanza. Nei volti degli stranieri giunti alla sua tenda ha accolto la visita di Dio nella sua vita. Di Abramo si ricorda anche il suo atteggiamento verso la città, il suo intercedere per un mondo vasto in cui forse vi è la presenza di alcuni giusti. La sua preghiera si fa speranza di cambiamento per la città inospitale, fondata sul seme dei giusti. La sua preghiera è espressione della sua fede in Jahwè. Abramo è il credente che sta davanti a Dio e intercede per altri. Non difende la città empia dall’ira di un Dio assetato di vendetta; piuttosto diviene nella sua preghiera specchio della speranza di Dio che non vuole la morte del peccatore. La sua preghiera svela il volto di un Dio che non vuole il male, ma desidera che ogni male sia vinto e superato nella scelta del bene. Svela anche il volto di un Dio che desidera che la sua cura divenga quella del suo fedele. Abramo assume il profilo di colui che in se stesso reca l’immagine stessa di Dio, specchio della ricerca di Dio di un solo giusto che possa essere segno di salvezza per tutta la città.
La preghiera di Abramo sembra trovare eco e interpretazione nelle parole di Etty Hillesum riportate nel suo Diario in data 11 di luglio del 1942 (uno Shabbat). Così scriveva nel tempo della violenza e dello sterminio: “Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dovere aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi… Sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita? E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi».
Per Abramo la preghiera si fa eco della speranza di Dio, che nella grande città si attui un cambiamento. Abramo diviene uomo capace di non rimanere ripiegato su di sé. E’ aperto a de-centrarsi: la sua fede lo spinge a farsi carico di una storia segnata dal peccato, scorge come la sua esperienza può divenire vita per altri. La sua preghiera è anche sguardo all’invisibile, tensione a scorgere che vi è nella storia la presenza di alcuni giusti, una presenza spesso nascosta. Ma proprio tale presenza è preziosa: un solo giusto può essere seme di cambiamento per tutti. La preghiera diviene luogo non tanto per cambiare Dio ma per cambiare l’idea di Dio che abbiamo, convertendoci al Dio dell’alleanza e della promessa di vita.
Nel vangelo di Luca Gesù ad un certo punto viene sollecitato dai suoi ad insegnare a pregare ‘come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Gesù ‘si trovava in un luogo a pregare’: quando ebbe finito i suoi discepoli si rivolgono a lui. Gesù viveva la sua preghiera nel prendere le distanze dalle folle, nella solitudine, non si appoggia su altri elementi, è indicazione della suo spazio dato all’incontro con il Padre nella sua vita.
Ai suoi indica che la preghiera non è una pratica da eseguire. Piuttosto è imparare a stare davanti al Padre riconoscendolo come Presenza non per qualcuno solamente ma ‘nostro’. Le poche parole che Gesù lascia ai suoi indicano la debolezza del pregare. Pregare non è riducibile a fare qualcosa, ma si racchiude nel riconoscersi accoglienti: è vivere nella confidenza e affidamento, invocando il regno, rivolgere a Dio un balbettio di bambini, scorgere che ha cura di noi.
Le parole sono poche indicazioni, rinvio a scoprire che Dio è vicino nella nostra storia. Il suo nome, la sua santità si sta manifestando, il regno sta venendo. Accogliere il suo nome coinvolge. La parola chiave è allora ‘Padre’, indicato come ‘nostro’, che contrasta ogni logica di ridurre a Dio e la vita stessa ad una questione di proprietà e di vantaggi in senso individualista.
Le prime due richieste riguardano il realizzarsi del progetto di Dio: il suo nome ci è comunicato, il regno viene. Dio rivela il suo nome quando libera e salva, ed attua il regno quando prende la parte degli oppressi liberandoli. Le altre richieste, sono il pane, il perdono e la fortezza nella prova. Il pane è necessità quotidiana e semplice dell’uomo, che reca con sé il simbolo della condivisione. Il perdono è dono senza confini che ha origine da Dio, e passa attraverso i percorsi umani di riconciliazione. E’ dono da invocare e ricevere, ed è anche via sulla quale scoprire la possibilità di rapporti nuovi. L’ultima invocazione è di non soccombere nella prova. Nel momento della sua prova Gesù vive un affidamento radicale al Padre (Lc 22,39-46).
In queste parole confluiscono come due corsi d’acqua lo sguardo al regno e l’impegno per rapporti nuovi in una storia di riconciliazione. Il Padre dona lo Spirito santo, la sua stessa vita. Luca ricorda che la preghiera reca in sé fecondità non secondo calcoli umani, ma oltre ogni attesa: ‘Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate vi sarà aperto’.
Alessandro Cortesi op
Intercedere
E’ sempre difficile passare in mezzo e attraversare. E’ passaggio irto di pericoli ogni attraversamento sul confine tra terre lontane e situazioni diverse. Inter-cedere è attitudine di chi sceglie di porsi nel mezzo, di non farsi da parte con indifferenza, di non assumere una visione semplicistica, soprattutto di fronte a chi è responsabile di male. Intercedere è movimento di chi vive la consapevolezza di essere inserito in una rete di relazioni, in cui scoprire la propria responsabilità. Chi intercede sa cogliere le differenze, e sa distinguere: anche di fronte all’ingiustizia, alla cattiveria all’egoismo intercedere è attitudine che mantiene lucidità, che non confonde il male con il bene, ma sa cogliere l’importanza di distinguere lo sguardo alla persona, nel suo presente e nel suo possibile futuro, e il giudizio sulle sue scelte e azioni.
Intercedere è attitudine di chi non semplifica la realtà, di chi non rivolge uno sguardo a situazioni e persone in termini riduttivi. Intercedere è capacità di schierarsi dalla parte delle vittime per difendere i più deboli ed evitare nuove ingiustizie e malvagità. Intercedere implica camminare scorgendo che dietro ad ogni gesto c’è una persona che può distaccarsi dal male, dalle azioni compiute ed aprirsi ad una novità esigente.
Intercedere è anche un camminare in mezzo scorgendo nelle zone di conflitto i punti di passaggio, i varchi e le fessure per una riconciliazione possibile, per una giustizia più grande che implica superamento della logica della vendetta, rifiuto della violenza quale metodo di soluzione. Usando fermezza e forza per fermare ogni operatore di malvagità e con il coraggio di denunciare e opporsi all’ingiustizia.
Intercedere è scelta faticosa perché facilmente si può essere giudicati come conniventi con l’oppressione o con il male o, per contro partigiani di una sola parte. Così il card. Martini parlava dell’intercedere di Gesù sulla croce: “Questa è l’intercessione cristiana evangelica. Per essa è necessaria una duplice solidarietà. Tale solidarietà è un elemento indispensabile dell’atto di intercessione. Devo potere e volere abbracciare con amore e senza sottintesi tutte le parti in causa. Devo resistere in questa situazione anche se non capito o respinto dall’una o dall’altra, anche se pago di persona. Devo perseverare pure nella solitudine e nell’abbandono. Devo avere fiducia soltanto nella potenza di Dio, devo fare onore alla fede in Colui che risuscita i morti”. (Omelia veglia per la pace, 29 gennaio 1991).
Intercedere implica un atteggiamento di chi cammina, di chi rimane in ricerca, e continua a inquietare e inquietarsi e non viene meno nel dare spazio a tutto ciò che implica un prendersi carico della vita altrui e attui riconciliazione possibile.
Nei terribili conflitti del nostro tempo è sempre più urgente la presenza di chi si faccia carico nello stare in mezzo ai luoghi di frattura e conflitto, camminando tra le frontiere, inter-cedendo nel tentativo paziente, spesso fallimentare, di costruire ponti di dialogo, parole di comunicazione, nella fatica di scorgere i volti di quei giusti che sono seme di cambiamento per tutti.
Così scriveva Fedör Dostojevskij ne I fratelli Karamazov presentando il senso della preghiera di intercessione, nel discorso dello staretz Zosima a un giovane: «Ragazzo, non scordare la preghiera. Nella tua preghiera, se è sincera, trasparirà ogni volta un nuovo sentimento e una nuova idea che prima ignoravi e che ti ridarà coraggio; e comprenderai che la preghiera educa. Rammenta poi di ripetere dentro di te, ogni giorno, anzi ogni volta che puoi: “Signore, abbi pietà di tutti coloro che oggi sono comparsi dinanzi a te”. Poiché a ogni ora, a ogni istante migliaia di uomini abbandonano la loro vita su questa Terra e le loro anime si presentano al cospetto del Signore e quanti di loro lasciano la Terra in solitudine, senza che lo si venga a sapere, perché nessuno li piange né sa neppure se abbiano mai vissuto. Ma ecco che forse, dall’estremo opposto della Terra, si leva allora la tua preghiera al Signore per l’anima di questo morente, benché tu non lo conosca affatto né lui abbia conosciuto te. Come si commuoverà la sua anima, quando comparirà timorosa dinanzi al Signore, nel sentire in quell’istante che vi è qualcuno che prega anche per lei, che sulla Terra è rimasto un essere umano che ama pure lei. E lo sguardo di Dio sarà più benevolo verso entrambi, poiché se tu hai avuto tanta pietà di quell’uomo, quanto più ne avrà Lui, che ha infinitamente più misericordia e più amore di te. Egli perdonerà grazie a te».
Alessandro Cortesi op
XVIII domenica tempo ordinario anno C – 2016
Qoh 1,2;2,21-23; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
“Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura”. Qohelet, ‘il predicatore’, è uno tra i più inquietanti autori della Bibbia. E’ stato identificato con Salomone, re dalla vita splendida e riuscita (Qoh 1,12-2,26). Eppure la constatazione che guida il libro è che tutto, ricchezze, sapere, piaceri è ‘vanità’: l’ebraico ‘hebel/habel’ indica la nebbia, il vapore che si dissolve, la schiuma effimera sulle onde, la rugiada che svapora al mattino. Anche quanto nella vita è ricercato e agognato come obiettivo di vita riuscita si rivela cosa inconsistente.
Qohelet, uomo ricco che ha percorso la vita, che ha potuto gustare il bello e il piacere, conclude con uno sguardo disincantato e disilluso, denuncia le contraddizioni, la bugia sottesa, la finzione, e la ‘vanità’ in ogni situazione, personale, sociale politica (Qoh 4,13-16; 5,7; 9,13-15), religiosa (Qoh 4,17-5,6). Il suo libro è stato letto quale spietata denuncia della pretesa umana di comprendere e di dare facili risposte alle inquietudini dell’esistenza: un messaggio scandaloso al cuore della Bibbia segnato dalla percezione dell’inesorabile sgretolarsi della vita umana (cfr. Qoh 12,1-7).
Un redattore finale ha cercato di smussare tutto questo nella conclusione (cfr. Qoh 12,9-14) riportando il discorso in termini consolatori: “conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto”.
Ma il libro di Qohelet rimane un testo difficile, si presta a diverse interpretazioni, non facilmente assimilabile ad un discorso religioso di consolazione. Per qualche interprete può essere accostato quale proposta di una visione radicale fondata solamente sul senso di infinito. Si osserva infatti che Dio ha posto nel cuore ‘nozione di eternità’: è forse la tensione a cercare risposta ai grandi quesiti che vengono dalle contraddizioni dell’esistenza? E’ il desiderio di una visione d’insieme di una vita che appare frammentaria e sfilacciata? E’ forse apertura oltre tutto ciò che è inconsistente, smascherando le facili consolazioni, i surrogati e le illusioni? Certo, tuttavia, al cuore di questo percorso rimane un ‘non comprendere’ quale grande sfida posta al lettore. “Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. Egli ha fatto ogni cosa bella a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Qo 3,10-11).
Il ricco della parabola è esempio tipico di un uomo appagato e realizzato, ma profondamente stolto: è il profilo dell’uomo assorbito dalle vanità, dal pensare solo a programmare l’accumulo e ad organizzare i suoi averi. Non valuta il senso del tempo, non s’interroga sulla vita, non si pone la questione del limite. “C’è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio; ed ecco la parte della sua ricompensa: mentre dice: ‘Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni’ non sa quanto tempo ancora trascorrerà; lascerà tutto ad altri e morirà” (Sir 11,18-19).
Preoccupato di ammassare, ignaro del tempo del vivere, troppo occupato e distratto per potersi fermare e interrogarsi sul senso del vivere reca in sé i tratti dello stolto. Incapace d comprendere, duro di cuore e superficiale nel suo affidarsi ad illusioni: è uomo immerso nella vanità, misero nella sua inconsapevolezza eppur prepotente e arrogante nell’illudersi del suo potere. “Voi dite: oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni. E invece non sapete che cosa sarà domani! Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare” (Gc 4,13.14).
Stoltezza è vivere della vanità attuando così una forma di idolatria: il ritrovare nelle ricchezze un piccolo dio. Nell’agire del ricco si rende vivo il volto concreto della stoltezza come assorbimento nella questione dei beni e dell’accumulo per se stessi. Gesù propone una sapienza diversa, un modo di vivere capace di valutare le cose. Indicando come stolto quest’uomo spinge a considerare il senso del limite, ed un modo possibile di intendere la vita, non ripiegata su se stessi, ma aperta agli altri. Suggerisce che la vita non dipende dai beni. Vivere nella sapienza implica un modo diverso di guardare: le persone non contano per i beni che possiedono. Si può divenire schiavi di una ricchezza accumulata per se senza pensare alla condivisione.
Alessandro Cortesi op
(Rembrandt, La parabola del ricco stolto, part.)
I beni
“Chi è nato ricco o è diventato ricco, grazie a un matrimonio fortunato o a un superstipendio, difficilmente vedrà il proprio capitale ridursi. Anzi diventerà sempre più ricco…”. L’economista Thomas Piketty, autore di una fondamentale analisi del capitalismo (Il capitale nel XXI secolo), ha denunciato come oggi il rendimento del capitale è superiore alla crescita dell’economia reale e del reddito. Nell’attuale contesto europeo, di stagnazione e in cui l’economia non cresce, chi vive di rendita può mantenere la propria posizione di preminenza mentre coloro che vivono del lavoro e del proprio stipendio sono le categorie più esposte ai cambiamenti e alla crisi. L’analisi di Piketty evidenzia i possibili sviluppi del sistema attuale verso una situazione in cui l’eredità di chi ha accumulato ricchezze finanziarie ha la preminenza sul lavoro. La sua analisi è presto sintetizzata: “Il problema è che le nostre economie occidentali non si muovono verso una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la ridistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Balzac in cui non importa quanto tu possa lavorare duro: la ricchezza non si accumula, si eredita”. (“La Repubblica” 8 ottobre 2014). Thomas Piketty suggerisce per uscire alcune misure da tale situazione: la tassazione progressiva dei grandi patrimoni con politiche mondiali per rintracciare coloro che nascondono le proprie ricchezze lottando contro i paradisi fiscali e attuando norme severe contro l’evasione.
Ma le misure economiche che pure possono essere esse in atto non possono sostituire la presa di consapevolezza dell’iniquità del sistema in cui si attua un accumulo di ricchezze da parte di una percentuale di popolazione mondiale esigua, nell’indifferenza verso una distribuzione delle risorse e della ricchezza. Le parole rivolte al ricco stolto oggi non riguardano solamente un appello a singoli, ma sono parole rivolte a livello collettivo soprattutto a chi detiene i grandi gruppi della finanza mondiale. Ma quali vie per un cambiamento di sistema?
Nel suo libro Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, (ed. Francoangeli 2014) Roberto Mancini passa in rassegna e analizza i vari modelli di altra economia alla ricerca di nuove vie percorribili. L’attuale sistema ha prodotto l’homo oeconomicus: “L’homo oeconomicus non si specchia e non vede neppure la propria immagine. Non tanto perché vede solo il denaro, quanto perché vede tutto secondo il denaro, che quindi è molto più di un misuratore del valore dei beni e del lavoro: è la luce che fa “vedere” ogni cosa”. Un nuovo modo di vivere il rapporto con i beni e l’economia non può scaturire da applicazione i modelli, se non trae radici da una presa di consapevolezza comune per cui operare a diversi livelli. Mancini osserva che non è sufficiente la lotta alla politica dell’austerità, se si rimane dentro ai parametri del capitalismo. Le crisi economiche sono parte integrante di questo sistema ad esso indispensabili per potersi riprodurre. A suo avviso è necessaria una rivoluzione che coinvolga i modi di sentire e di pensare. Agli esseri umani deve essere restituita dignità per non essere trattati né come esuberi, cioè esseri inutile, né come una risorsa, solamente in considerazione della loro utilità e produttività senza avere una considerazione per le persone nella loro unicità. E questo discorso si potrebbe ampliare anche in considerazione della natura, da considerare non solo come ricchezza da usare, ma come dono da custodire.
Alessandro Cortesi op