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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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V domenica di Pasqua – anno B 2024

At 9,26-31; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

L’immagine della vigna è familiare ad Israele ed alla Bibbia; l’ulivo con la vite è parte del panorama mediterraneo.

La vigna ritorna tante volte nei testi biblici: è segno del popolo d’Israele che Dio guarda con cura appassionata. E’ segno di promessa e benevolenza. D’altro lato parla di infedeltà, di dimenticanza e di durezza di cuore.

Anche nel IV vangelo la vite è immagine ripresa nei discorsi dell’ultima cena: attorno ad essa è tessuto il secondo discorso di addio di Gesù ai capp. 15 e 16, che succede in modo un po’ problematico al primo discorso che occupa i capp. 13 e 14 perché questo termina con le parole: ‘Alzatevi, andiamo via di qui’ (Gv 14,31). Il riferimento alla vite si può accostare alla benedizione  sul vino, uno dei momenti del rito della pasqua ebraica. In tale contesto il richiamo alla vigna con le sue valenze di dolcezza e cura ma anche di drammatica infedeltà e giudizio, è ripresa. Gesù dice: ‘Io sono la vera vite’ e la vite diventa uno degli elementi che compare in una di queste formule ‘Io sono’ che il IV vangelo usa per indicare l’identità di Gesù.

La vite passa da essere rinvio ad Israele ad indicare la presenza stessa di Gesù: la vera vite è lui. Nella metafora si può cogliere la sua vicenda personale ma anche la dimensione comunitaria, la comunicazione di vita che da lui proviene. In lui si compie la cura e la fedeltà colma di affetto del Padre che la vite come simbolo racchiudeva. Ancora è lui che porta quei frutti che il Padre si attendeva: frutti di misericordia. Sono giunti allora in lui i tempi ultimi.

Ma nelle parole di Gesù questa identificazione della vite con la sua persona si apre anche ad un altro aspetto: in lui si compie una comunicazione nuova, una comunione di vita. Tutti coloro che a lui sono uniti e traggono la linfa che da lui proviene sono colore che credono nel suo nome: sono tralci viventi della sua stessa vita e potranno portare frutto in questo legame.

‘Rimanete in me’ è l’invito ripetuto più volte in questa pagina: all’inizio del IV vangelo alla domanda di Gesù ‘Che cosa cercate?’ i discepoli lo seguirono e ‘rimasero’ presso di lui lui (Gv 1,39). Il verbo ‘rimanere’ dice una familiarità di vita, un legame di amicizia, una intimità di condivisione. L’offerta di amicizia di Gesù ai suoi genera una reciprocità: i tralci rimangono nella vite ma è anche Gesù che rimane nei suoi e sta qui la possibilità di portare frutto.

L’essere discepoli di Cristo si attua nei frutti che esprimono lo stile della sua presenza e il senso della sua vita. Gli stessi tralci non vivono da soli, distaccati gli uni dagli altri, ma insieme: Gesù propone ai suoi un ‘rimanere’ che implica accogliere e vivere come comunità. Motivazione e forza dello stare insieme sta nella forza di vita che da lui proviene. “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.

Alessandro Cortesi op

V domenica Quaresima anno B – 2024

Ger 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

Il libro della consolazione di Geremia rinvia ad una alleanza nuova scritta nel profondo del cuore: sarà compimento della promessa e del dono di Jahwè ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20,1): “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo”. Quella reciproca appartenenza, nucleo profondo dell’alleanza, sarà una realtà nuova interiore che trasformerà l’intimo dei cuori.

La pagina della lettera agli Ebrei conduce a vedere in Cristo il Figlio che imparò l’obbedienza dalle cose che patì e in lui si compie l’alleanza promessa: “reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.” Cristo una volta per tutte si è offerto con un atto di amore definitivo per noi. In lui si compie l’alleanza definitiva.

La lettera guarda a Gesù Cristo che nella passione ‘offrì preghiere con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà’. La via seguita da Cristo è quella della fedeltà al Padre e questi l’ha esaudito non perché l’ha liberato dalla passione e dalla morte ma perché lo ha sostenuto nella fedeltà alla testimonianza dell’amore: il mistero di Dio è infatti l’amore debole e inerme che si dà fino alla fine. La salvezza per noi ha la sua origine nel dono di amore di Gesù.

‘Vogliamo vedere Gesù’ è il desiderio di qualcuno che s’interroga su di lui. Nel IV vangelo il termine ‘vedere’ è utilizzato per indicare una attitudine a cogliere la dimensione profonda degli eventi ed il loro significato. ‘Vogliamo vedere Gesù’ è la domanda della comunità giovannea che esprime la tensione a cogliere il mistero profondo dell’identità di Gesù. A questo punto è riportato un discorso di Gesù che parla di  glorificazione e di morte nel contempo: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto per terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto.”

L’ora è momento decisivo in cui si fa chiaro il senso della sua esistenza: Gesù come Figlio obbediente (in ascolto) si consegna al Padre e intende la sua vita a sua vita come seme gettato. Consegnato nel tradimento, in realtà egli stesso liberamente si consegna. E nel suo morire genera una fecondità nuova. La gloria di Gesù si rivela nel dono della sua vita e nell’amore sulla croce.  “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”. Per il IV vangelo l’ora di Gesù è l’ora della croce: in quel momento tutti volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto; è anche l’ora in cui, innalzato da terra, Gesù attira tutti a sé. L’ora di Gesù non è un momento cronologico, ma un tempo che anticipa ogni futuro e attua una rivelazione. Fa vedere infatti la profondità dell’amore di Dio per l’umanità.

Gesù apre la strada a coloro che lo hanno seguito. Quest’ora è avvertita in modo drammatico: Gesù vive paura ed angoscia di fronte a quest’ora ed invoca ‘Padre glorifica il tuo nome’. Il Padre è coinvolto e presente nell’ora di Gesù, e conferma la via che Gesù sta seguendo.

Il IV vangelo indica sulla croce il rivelarsi della ‘gloria’ di Dio, l’ora in cui si manifesta l’amore senza limiti del Padre che Gesù ha testimoniato ‘fino al segno supremo’: il Figlio rende visibile il volto del Padre  (cfr Gv 1,18). Coloro che hanno visto la sua ‘gloria’ sono chiamati a vivere come lui, come chicco di grano caduto sulla terra.

Alessandro Cortesi op

V domenica di Pasqua anno C – 2022

At 14,21-27; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35

“In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni»”.  Restare saldi nella fede: è la fatica della prima comunità e delle comunità di ogni tempo. C’è una difficoltà da affrontare: nella prova, nello sperimentare senso di inutilità, nel fallimento, nelle ingiuste opposizioni e incomprensioni. Paolo e Barnaba confermano i discepoli. Ricordano loro che il cammino nel seguire Gesù non toglie dalla tribolazione. Il percorso della fede non è garanzia di tranquillità, ma passa per l’esperienza della prova. Nel racconto del viaggio è marcata l’insistenza sull’affidamento alla grazia di Dio, sul senso di fiducia nel Signore. “di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto”.  La grazia dono del Risorto apre nuove strade e chiede una disponibilità coraggiosa e libera a percorsi inediti, ad aperture che sono risposta alle continue chiamate del Signore, ad andare oltre. L’agire di Dio per mezzo loro si manifesta laddove le porte vengono aperte, laddove si lascia spazio al correre della Parola: “Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede”.

La pagina dell’Apocalisse guida lo sguardo ad una visione di città: verso la nuova Gerusalemme. La città della pace è al centro di quadro segnato da un nuovo cielo e una nuova terra. Il mare – simbolo di ogni forza del male – non c’è più, dice la voce guida di questo testo che non è una fantasia sul futuro ma un testo profetico per vivere con responsabilità nel presente. La città assume i tratti di un volto di donna, gioiosa e sorridente nella festa delle sue nozze. Gerusalemme, la città, appare come donna che va incontro al suo compagno. E’ la gioia dell’alleanza. Tale visione indica un orizzonte finale. E’ lì il punto verso cui la storia tende. Gerusalemme come città è spazio d’incontro e di vita insieme condivisa. La visione profetica  suggerisce che percorso della storia è orientato ad una comunione che è incontro con Dio e con gli altri. Così la città che risplende di luce diviene  immagine di una comunità aperta. Al centro della città, chiamata ‘dimora di Dio con gli uomini’ sta la presenza  del Dio-con-noi. E’ il nome dell’Emmanuele (Mt 1,23; Is 7,14) che richiama la promessa del Risorto, ‘ecco io sono-con-voi tutti i giorni fino alla fine del mondo’ (Mt 28,20).

Le cose di prima sono passate: non c’è più la morte né lutto né lamento né affanno, un nuovo mondo iniziato. Tutto ciò che arreca la guerra, dolore, morte, distruzione è lasciato alle spalle. Gerusalemme è città di pace: l’orizzonte ultimo della storia è incontro nella pace, nella comunione. Gerusalemme è grande metafora della città quale punto finale della storia. Ma è anche riferimento che deve guidare la fedeltà nella prova e nelle contraddizioni del presente, laddove le città sono distrutte dalla violenza della guerra e delle armi, per operare ad aprire i sentieri della pace.

Alla vigilia della sua morte sulla croce Gesù lascia ai suoi il comandamento nuovo: manifesta la gloria di Dio in modo paradossale sulla croce. In quel luogo di dolore, segno della condanna e dell’infamia si manifesta un amore con tratti unici: ‘avendo amato i suoi … li amò sino alla fine’.  Gesù lascia ai suoi il comandamento che riassume e compie ogni altro, nuovo perché sempre da porre in atto nuovamente: ‘amate come io vi ho amati’. Non chiede di seguire un esempio, ma di trovare in lui la forza di vivere il servizio e la cura con gratuità e di assumere il suo stile. Sarà proprio questo stile, di semplicità e di accoglienza, la tessera di riconoscimento dei discepoli, non altre forme identitarie, abiti particolari o distintivi : ‘da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri’. Vivere così è porre i passi sulle tracce di Gesù, è vivere nel tempo l’esperienza dell’incontro con Dio. Siamo chiamati ad affidarci a lui, ad accogliere innanzitutto questo amore che non tiene per sé ma si spende per gli altri.

Alessandro Cortesi op

L’appello della fraternità in un tempo di guerra

Domenica 15 maggio si terrà a Roma la canonizzazione di Charles De Foucauld (1858-1916). La sua vita e la sua testimonianza cristiana indicano percorsi quanto mai attuali che andrebbero ascoltati e ripresi in questo tempo.

In particolare tre aspetti del suo stile potrebbero essere evidenziati: innanzitutto la dimensione contemplativa della sua vita. E’ una contemplazione del mistero di Dio da cui si è sentito cercato e afferrato e che vedono un passaggio decisivo nella conversione nel 1886. Da quel momento egli comprese di non poter “fare altro che vivere per Dio”. Percepisce quale orientamento decisivo della sua esistenza il dedicarsi a conoscere e imitare il suo “beneamato fratello e Signore Gesù”.

Nel 1902 rivolgendosi all’amico Gabriel Tourdes così scriveva: “Ho passato quattro anni come eremita in Terrasanta, vivendo del lavoro delle mie mani come GESÙ sotto il nome di “fratel Carlo”, sconosciuto da tutti e povero e godendo profondamente dell’oscurità, del silenzio, della povertà, dell’imitazione di GESÙ – l’imitazione è inseparabile dall’amore, tu lo sai, chiunque ama vuole imitare: è il segreto della mia vita: ho perduto il cuore per questo GESÙ di Nazareth crocifisso 1900 anni fa e passo la mia vita a cercare di imitarlo per quanto possa la mia debolezza».

Si tratta di una contemplazione che nell’esigenza di ritiro e silenzio non distoglie il suo sguardo dalla vita ma lo porta a leggere l’esistenza delle persone anonime e umili che incontra nell’ambiente dei paesi musulmani in cui vive.

Così scriveva a suor Saint-Jean du S.Coeur da Beni-Abbès il 13 maggio del 1903: “A tutte queste cose che si fanno, dicono, pensano, dirsi: Gesù mi vede, Egli mi vedeva in questo istante durante la Sua vita mortale; come faceva Lui, diceva Lui, pensava Lui, in simili circostanze cosa farebbe Lui, direbbe Lui, penserebbe Lui al mio posto? GuardarLo e imitarLo. Gesù stesso ha indicato ai suoi apostoli questo metodo così semplice d’unione con Lui e di perfezione: è persino la prima parola che ha detto loro, sulla riva del Giordano, quando Andrea e Giovanni vennero a Lui: “Venite e vedete”, dice loro: Venite, ossia “Seguitemi, venite con me, seguite i miei passi; imitatemi, fate come me”; vedete, ossia guardatemi, tenetevi in mia presenza, contemplatemi”.

Un secondo orientamento della sua vita è proprio la scelta del deserto: è il deserto di Nazareth che egli condusse negli intensi anni lavorando, pregando, immergendosi nella vita ordinaria e nascosta di Gesù nella casa di Nazareth. Nazareth per Charles significa vivere pienamente la quotidianità, i gesti semplici e ordinari come esperienza di condivisione della vita di Gesù. Negli appunti del suo primo ritiro nella capanna dell’orto delle Clarisse di Nazaret nel novembre 1897, scrive: “Scese con loro, e andò a Nazaret, ed era loro sottomesso”. Scese, sprofondò, si umiliò… fu una vita di umiltà: Dio, apparivi uomo; uomo, costituivi l’ultimo degli uomini: fu una vita di abiezione, scendesti fino all’ultimo tra gli ultimi posti; scendesti con loro, per vivervi la loro vita, la vita dei poveri operai, vivendo del loro lavoro; la tua vita fu come la loro povertà e la loro fatica; erano oscuri, vivesti nell’ombra della loro oscurità; andasti a Nazaret piccola città sperduta, nascosta nella montagna, da cui “niente usciva di buono” dicevano” (6 novembre 1897). E’ scelta di Nazareth ed è contemporaneamente scelta di condividere la vita dei poveri.

Una terza grande intuizione che guidò la vita di Charles ed è importante eredità oggi è la scelta di essere fratello, la decisione di orientare la sua vita nello stare con l’altro liberandosi da ogni pretesa di egemonia, assumendo lo stile di Gesù. Nel suo addentrarsi nel deserto ha testimoniato una disponibilità all’incontro che gli veniva dall’esperienza di Dio buono che ci chiede di vivere la fraternità. Il 30 giugno 1903 in una lettera a padre Charles Guérin da Beni Abbès, scrisse: “Non posso far meglio per questa salvezza delle anime che è la nostra vita quaggiù, come fu la vita di GESÙ “Salvatore”, che andare a portare altrove, a quanti è possibile, la semenza della divina dottrina – senza predicare ma conversando – e soprattutto d’andare a preparare, cominciare l’evangelizzazione dei Tuareg, stabilendomi tra loro, apprendendo la loro lingua, traducendo il santo Vangelo, mettendomi in relazioni il più possibile amichevoli con loro…”.

Il messaggio di una fraternità che si costruisce imparando la lingua dell’altro, vivendo insieme, offrendo gesti di amicizia e facendo crescere ascolto e incontro, è uno stile ben diverso dai progetti e dalle organizzazioni di evangelizzazione e rimane oggi una limpida indicazione per un modo di vivere il vangelo.

Charles intende essere fratello universale e su questo desiderio fonda il luogo dove vive come casa di fraternità. Alla cugina Marie de Bondy da Beni-Abbès, il 7 gennaio 1902 scriveva: “la mia piccola dimora si chiama “la  fraternità del Sacro Cuore di Gesù”… Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani e ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello – il fratello universale… Cominciano a chiamare la casa “la fraternità” (la khaoua in arabo), e questo mi è dolce…”.

Essere fratello universale, costruire case di fraternità, vivere l’apostolato del dialogo e della vicinanza, del contatto a tu per tu, coltivare l’amicizia e la bontà accogliente come Aquila e Priscilla (era l’esempio a cui si riferiva), sono sentieri aperti tutti da percorrere in questo tempo.

Alessandro Cortesi op

VII domenica del tempo ordinario – anno C – 2022

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; 1Cor 15,45-49; Lc 6,27-38

I libri di Samuele, parte dei libri storici della Bibbia, ripercorrendo le storie dei re, scorgono la presenza di un disegno divino nella storia e che procede attraverso il coinvolgimento di chi, pur tra limiti e contraddizioni, accoglie la Parola di Dio nella sua vita. La storia di Davide è un esempio di questa vicenda. 

Davide, inseguito da Saul nel deserto, anziché scegliere la via della vendetta decide di non mettere le mani sul re, consacrato del Signore. La situazione gli consentirebbe facilmente di vendicarsi di Saul e di ucciderlo, ma si affaccia al suo cuore una scelta diversa: «Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?… oggi il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del Signore». Davide diviene così esempio del non cedere alla logica della vendetta e del rispondere al male con il male.

Tale episodio evoca la cosiddetta regola d’oro presente in tante tradizioni religiose sia in formulazione al positivo, ad es in Lao-T’zu “Considera il guadagno del tuo vicino come il tuo e la sua perdita come la tua stessa perdita” (Lao T’zu, T’ai Shang Kan Ying P’ien, 213-218) sia al negativo ad es. nell’insegnamento induista “Questa è la sintesi del dovere: non fare agli altri ciò che sarebbe causa di dolore” (Mahabharata 5: 1517) e islamico “Nessuno di voi è credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso” (13° delle 40 hadith di Nawawi) e presente anche nella tradizione ebraica “Non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tb 4,15).

Nel vangelo di Luca questa medesima indicazione è posta da Gesù al centro del suo discorso subito dopo le beatitudini in una particolare formulazione al positivo: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro” (Lc 6,31). Il discorso offre anche altri elementi precisando che lo sguardo nei confronti dell’altro va allargato oltre ogni confine. Non solo i vicini o coloro da cui si riceve del bene devono essere destinatari di questo ‘fare’ di attenzione e cura, ma anche chi è oppositore, chi ha offeso, chi è nemico: “A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male”. Fare del bene senza sperarne nulla è umanamente difficile e impossibile, ma sorge dall’accoglienza di un amore che si dà in questi termini. Gesù ha espresso questo insegnamento che corrisponde al suo agire, nel silenzio di resistenza davanti ai suoi persecutori e nella scelta di non usare violenza.

Seguono tre esempi: lo schiaffo, il mantello e il prestito: “A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.” Emerge qui la richiesta di una opzione radicale per un orientamento di non violenza attiva, nella fiducia che solamente il bene offerto è efficace nel disarmare chi fa il male e diviene fecondo di bene.

Il prestito senza esigere interessi era una prescrizione prevista nell’Esodo e nel Deuteronomio, anche se ristretta a colui che apparteneva al popolo d’Israele (Es 22,24; cfr. Deut 15,7-11; 23,20-21). E’ una tra le caratteristiche del comportamento del giusto presentata nei salmi: “presta denaro senza fare usura e non accetta doni contro l’innocente” (Sal 15,5; Sal 112,5). Gesù estende la richiesta a tutti infrangendo confini di esclusione. Apre a orizzonti universali ed approfondisce e interiorizza le indicazioni della legge. Indica uno stile di vita caratterizzato dalla scelta di fondo del dono, senza calcoli, senza riserve. In gioco c’è una ricompensa che non è ‘qualche cosa’ ma è accogliere e generare in sé l’amore di misericordia: è vivere della stessa vita di Dio misericordioso.

“Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto”. L’insistita ripetizione che delinea un amare rivolto solamente a chi dà gratitudine e  ricambia smaschera la ricerca di interesse e il desiderio nascosto di ricevere. Il richiamo alla gratuità nel dare senza fare conti mette in crisi e l’assimilazione ai peccatori indica che comportarsi così non attua la profonda chiamata al cuore della vita. “Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Gesù non evoca vantaggi per chi si comporta con gratuità, sfida ad amare anche il nemico; richiama alla sorgente generativa di questo tipo di vita che non è nelle forze umane ma nella vicinanza del Dio misericordioso. Luca sottolinea l’attitudine dell’ascolto che sola permette di accogliere l’amore di misericordia di Dio: il Padre non solo è modello, ma è fonte e principio da cui è possibile trarre linfa di vita per agire secondo questo stile.

Nel vangelo di Matteo, nel discorso della montagna compare l’espressione: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Luca, modificando un termine, evidenzia nell’amore di misericordia la caratteristica propria di Dio. Seguire Gesù allora significa lasciarsi coinvolgere in tale dono di amore con i tratti della gratuità, della cura e attenzione.

Alessandro Cortesi op

Preghiera di un povero

Il salmo 102 è una preghiera di lamento, una supplica nella prova e nella sua articolazione presenta insieme riferimenti ad una esperienza personale e ad una realtà vissuta da una comunità. Dal verso 2 al 12 è presentato il quadro di una sofferenza personale che richiama la condizione del giusto che soffre come Giobbe è paradigma nella Bibbia; segue poi una lamentazione per la sofferenza che coinvolge non unicamente un individuo ma racconta la vicenda d’Israele nell’esperienza dell’esilio. Viene così evocata la desolazione e la rovina di Gerusalemme in seguito alla conquista dei babilonesi (vv. 13-23). Si passa ancora alla dimensione personale nei versi 24-28 e il salmo si conclude aprendo la preghiera ad una speranza perché coloro che verranno potranno vivere nella pace alla presenza del Signore (v. 29): “I figli dei tuoi servi avranno una dimora, / la loro stirpe vivrà sicura alla tua presenza”.

La preghiera dei salmi è dialogo talvolta teso con Dio e il salmo presenta in termini molto vivi e pregnanti l’invocazione di colui che prega e il suo desiderio di essere guardato e ascoltato da Dio nell’esperienza della prova esprimendo l’urgenza di un soccorso come chi avverte di essere al limite delle forze e della capacità di sopportazione: “Non nascondermi il tuo volto / nel giorno in cui sono nell’angoscia. / Tendi verso di me l’orecchio, / quando t’invoco, presto, rispondimi!” (v. 3). Dall’altra parte la preghiera dà parole alla condizione di aridità del cuore e il senso di fragilità e debolezza con immagini poetiche intense (vv.4-10). E’ così richiamata l’inconsistenza del tempo che passa come fumo e il dolore che brucia le ossa come fuoco. Il riferimento ad un campo falciato è immagine usata ad esprimere la condizione di un cuore inaridito che come erba tagliata dopo la falciatura è seccato dal calore. “Svaniscono in fumo i miei giorni / e come brace ardono le mie ossa. Falciato come erba, inaridisce il mio cuore” (vv.4-5).

Si delinea poi la situazione del sofferente che non prova alcun appetito e si dimentica anche di mangiare il pane mentre si riduce a pelle e ossa gridando il suo lamento: l’accostamento alla civetta nel deserto, che si muove in una condizione di  desolazione e solitudine e al gufo, un altro animale notturno, tra le rovine, contiene l’accenno ad una situazione di rovina non solo individuale ma anche del popolo nell’esilio. Così il passero che veglia nella solitudine presenta anche un’attesa. “A forza di gridare il mio lamento / mi si attacca la pelle alle ossa. / Sono come la civetta del deserto, / sono come il gufo delle rovine. / Resto a vegliare: / sono come un passero / solitario sopra il tetto” (vv. 6-8).

Ad una realtà di sofferenza si aggiunge la presenza di nemici che insultano e aggravano tale condizione: “Tutto il giorno mi insultano i miei nemici,/ furenti imprecano contro di me. / Cenere mangio come fosse pane, / alla mia bevanda mescolo il pianto” (vv. 9-10). Particolare attenzione si può dare al v.11 perché tale implorazione esprime un sentimento diffuso nella preghiera dei salmi, ossia la percezione che la condizione di dolore costituisca una sorta di punizione di Dio. Un commento ed esplicitazione di tale consapevolezza può essere ritrovata anche in altri salmi in particolare ad esempio nel salmo 90: “Sì, siamo distrutti dalla tua ira, / atterriti dal tuo furore! / Davanti a te poni le nostre colpe, / i nostri segreti alla luce del tuo volto. / Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera, / consumiamo i nostri anni come un soffio” (vv. 7-9). E’ la percezione che l’esperienza dell’esilio per Israele contenga un richiamo da prte di Dio a causa dell’infedeltà del popolo.

L’immagine dell’ira di Dio costituisce un riferimento al modo di comportarsi umano, in cui collera  e ira sono sentimenti della distanza, della violenza e della rottura ed è un modo per esprimere da un lato tutto il carico di sofferenza che implica un senso di lontananza da Dio. Peraltro anche con Dio nel suo furore l’orante si pone in termini di stare davanti a Lui, di mantenere una interlocuzione aperta. Il suo parlare è quasi una provocazione e richiamo ad essere ascoltati nella prova da Dio perché il suo sguardo possa rinnovare e cambiare la situazione. E’ questo il significato racchiuso nelle espressioni confidenti dei versi successivi, soprattutto nell’affermazione che il Signore rimane saldo, non viene meno alle sue promesse e non è preda di cambiamenti come gli uomini. Sulla sua collera prevale la fedeltà nell’amore e il non venir meno alle sue promesse.

La sua fedeltà è fedeltà nell’amore: “Ma tu, Signore, rimani in eterno, / il tuo ricordo di generazione in generazione. / Ti alzerai e avrai compassione di Sion: / è tempo di averne pietà, l’ora è venuta!” (vv. 13-14). C’è in queste parole una invocazione alla compassione, che richiama il movimento da cui parte tutta la storia d’Israele: Dio ha ascoltato il grido dell’oppresso e si è preso carico della sofferenza del popolo oppresso per liberarlo: “Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero” (Es 2,25). Il lamento riguardante la collera di Dio si apre a parole di confidenza e di richiamo basate sulla consapevolezza che l’amore di Dio è per sempre e  non viene meno – come il salmo 136 ricorda in un martellante ritornello “perché il suo amore è per sempre” -.

Si tratta di una fedeltà che offre ascolto alla sofferenza personale ma guarda anche a quella di tutto un popolo, di una comunità che si allarga a comprendere anche le generazioni che verranno a cui si dovrà comunicare l’esperienza di incontro e di salvezza: “Egli si volge alla preghiera dei derelitti, / non disprezza la loro preghiera. / Questo si scriva per la generazione futura / e un popolo, da lui creato, darà lode al Signore” (vv. 18-19).

Con un’altra immagine di sapore poetico, in cui si raffigura l’affacciarsi dall’alto di chi vede una situazione di bisogno e se ne prende cura il salmo esprime il volgersi e chinarsi di Dio per attuare una liberazione ed una apertura ad un futuro nuovo. Ed è movimento che si allarga a coinvolgere non solo Israele ma tutti i popoli chiamati a servire il Signore, compresi in questo disegno di pace: “Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario,/ dal cielo ha guardato la terra,  / per ascoltare il sospiro del prigioniero, / per liberare i condannati a morte, / perché si proclami in Sion il nome del Signore / e la sua lode in Gerusalemme, / quando si raduneranno insieme i popoli / e i regni per servire il Signore” (vv. 20-23).

Il salmo continua accompagnando a posare lo sguardo alla differenza tra la condizione precaria della vita umana con i suoi giorni limitati e della stessa creazione che ha avuto inizio e si consuma come il tessuto di una veste che si sfilaccia e il permanere di Dio che non viene meno al suo amore. Si proclama l’opera della creazione come uscita dalle mani di Dio e che Dio non può dimenticare e nel contempo la preghiera si apre alla proclamazione ‘tu rimani’ che dice la saldezza e il non venir meno nel dono di comunione con l’evocazione di anni senza limite: “In principio tu hai fondato la terra, / i cieli sono opera delle tue mani. / Essi periranno, tu rimani; / si logorano tutti come un vestito, / come un abito tu li muterai ed essi svaniranno. / Ma tu sei sempre lo stesso / e i tuoi anni non hanno fine”. (vv. 26-28).

E l’ultima parola del salmo è una affermazione di speranza nel dimorare in una presenza che coinvolge i figli di oggi e quelli che verranno: “I figli dei tuoi servi avranno una dimora, / la loro stirpe vivrà sicura alla tua presenza” (v. 29).

Alessandro Cortesi op

I domenica di avvento – anno C – 2021

Ger 33,14-16; 1 Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36

Inizia un nuovo anno liturgico, un tempo nuovo, nel segno dell’attesa di una venuta. Il Dio di Israele e il Dio di Gesù è presenza che viene incontro. Il primo movimento della fede parte dal Dio che sta in ricerca dell’uomo. E’ Lui per primo che rivolge la sua parola e invita ad incontrarlo. L’avvento richiama ad una promessa e ad un’attesa. C’è un disegno di Dio sulla storia che è disegno di bene. “realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda”. Questa promessa di bene trova concretizzazione in una presenza: “in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”.

Geremia vede lo sbocciare di un germoglio dall’albero della famiglia di Davide, il re della pace. Il germoglio porterà un tempo nuovo segnato non solo dall’assenza di guerra ma da una condizione di benessere globale che viene indicato come pace. E’ un tempo che vedrà l’intervento di una figura portatrice di giustizia, un messia. Nel linguaggio biblico giustizia è sinonimo di fedeltà. Dio è giusto perché fedele alla sua promessa di vicinanza e di cura. Il Dio fedele viene a prendere la difesa di chi non ha altri sostegni, di chi è lasciato escluso e dimenticato.

“Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia”. Gerusalemme reca in sé la promessa di essere luogo in cui si compie la fedeltà di Dio e l’orizzonte che reca nel suo nome, città della pace, è legato al venire di Dio che compie la sua fedeltà di amore. 

“il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”.  La preghiera dell’autore della prima lettera di Giovanni è un’invocazione a crescere e sovrabbondare nell’amore.

L’indicazione della venuta di Cristo sta al cuore della fede delle prime comunità cristiane. Nella sua prima lettera Giovanni parla di una crescita da coltivare nella vita: un amore interno alla comunità dei discepoli e aperto a tutti. Il cammino dei cristiani si pone nella attesa della venuta del Signore. Non è un tempo vuoto ma luogo di un crescere e sovrabbondare nell’amore. La santità è accoglienza del dono di Dio e del suo amore che si è manifestato e donato in Cristo e si esprime in un agire che rifletta le scelte di Gesù. L’orizzonte finale è quello di una comunione con Gesù e con tutti coloro che hanno vissuto l’amore come lui ha indicato.   

Luca nel cap. 21 del suo vangelo riprende elementi dello stile apocalittico, un genere letterario per noi difficile da comprendere ricco di simbolismi. Le immagini molto forti intendono indicare l’intervento di Dio che si comunica nella nostra storia (apocalisse significa infatti rivelazione): “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso…”. ‘Quel giorno’ è inteso il ‘giorno del Signore’, giorno del venire di Dio, momento ultimo della storia. L’invito diviene allora: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.  Il discepolo è presentato come persona del giorno, non prigioniero della notte e del buio. L’invito è a stare in piedi, con attenzione vivendo il presente in modo attivo, con impegno. Sin da ora è iniziato l’Ultimo: nell’oggi si realizza la visita di Dio. Nel presente viviamo l’attesa di Qualcuno che viene.

Alessandro Cortesi op

Segni del tempo

La parola di Dio ci raggiunge in un presente da ascoltare, in cui rimanere attenti e svegli e in cui esser presenti con impegno responsabile.

In una lettera al Congresso degli USA Amir Khan Muttaqi, ministro degli esteri taleban ha richiesto che i beni della Banca centrale afghana siano sbloccati e le sanzioni contro le banche afghane siano revocate. Tutto questo per fronteggiare una crisi umanitaria che sta già diffondendosi nel Paese. A circa tre mesi dall’abbandono dell’Afghanistan da parte degli Stat Uniti e dei Paesi occidentali il Paese sta precipitando nella fame e nelal mancanza di servizi essenziali: “Secondo l’ultimo rapporto della Croce Rossa, tra novembre e marzo 2022 più di 22 milioni di afghani dovranno affrontare livelli di crisi o emergenza di fame acuta. La disperazione è plastica nelle immagini delle code davanti alle banche alle 5 del mattino nella speranza di poter prelevare un po’ di contanti. E in quelle, assai più tragiche, degli ospedali” (Francesca Mannocchi, Afghanistan, la fame o la fuga, La Stampa 25 novembre 2021)

La malnutrizione dei bambini si è accresciuta nell’ultimo periodo superando abbondantemente il limite dell’emergenza. La gente in Afghanistan muore di fame e la richiesta del primo ministro di un governo talebano che costringe ad un’osservanza rigorosa della legge religiosa, che ha escluso le donne dalla vita pubblica, delinea un sottile ricatto: se non si sbloccheranno gli aiuti si aprirà una crisi migratoria di massa che coinvolgerà non solo la regione ma il mondo.

Osserva Francesca Mannocchi: “E quando le guerre finiscono non si abbandonano i vinti, ma non si abbandonano nemmeno i vincitori se stanno patendo la fame. Anche se non ci piacciono. Soprattutto se il sistema economico che oggi è bloccato dalle sanzioni, e si sosteneva su un sistema assistenziale che aveva reso il Paese dipendente dagli aiuti internazionali l’avevamo costruito noi, cioè gli sconfitti”.

Il 25 novembre è giornata dedicata all’eliminazione della violenza sulle donne, un fnomen che registra numeri sconcertanti: solamente nell’anno in corso in Italia sono state 103 le donne uccise e l’uccisione di donne rappresenta il 40 % degli omicidi. La maggiro parte sono state uccise nell’ambito familiare o affettivo. Ma la violenza sule donne è ben più estesa dei casi di uccisione e costituisce un’attitudine che è accettata e non posta in discussione da una parte rilevante degli uomini. Una ricerca condotta su un campione di 800 italiani a fine settembre 2021 e riportata su ‘Domani’ manifesta una attitudine diffusa in modo minoritario ma rilevante tra gli uomini che giustifica la violenza sulle donne nelle forme della violenza fisica e sessuale e una visione di prevaricazione emerge anche nel modo di valutare comportamenti e pratiche che limitano la libertà e autonomia delle donne. La ricerca evidenzia il permanere nel nostro paese di una subcultura machista e patriarcale.
“Emergono i tratti di una società in cui la mercificazione del corpo della donna e il suo essere considerato un oggetto nelle disponibilità dell’uomo, impregnano parte dell’humus relazionale tra i sessi, generando un brodo di cultura pernicioso in cui affondano le radici e di cui si alimentano le espressioni comportamentali violente e i femminicidi” (Enzo Risso, Femminicidi, troppi uomini giustificano le violenze e così le donne muoiono, “Domani” 25 novembre 2021)

Alberto Leiss così scrive su Il manifesto: “Intorno al 25 novembre i media si riempiono di notizie, servizi, interventi che riguardano lo scandalo sempre più insopportabile della violenza agita contro le donne. Rimbalzano i numeri sui femminicidi, le persecuzioni sotto casa, le botte, la violenza psicologica e economica. La furia omicida che si abbatte anche sui figli. La cronaca alimenta questo museo di orrori perpetrati per lo più da mariti, compagni, padri, fratelli, amici di famiglia, e da qualche sconosciuto per la strada… E poi i buoni propositi delle istituzioni, della politica…(…) La violenza contro le donne sarà vinta, o almeno ridotta, solo quando cambierà sul serio la mentalità e la cultura maschile che la produce. Ogni tanto si affaccia la domanda: ma gli uomini dove sono? Che cosa dicono, fanno, pensano a proposito della violenza che agiscono?… «La giornata internazionale contro la violenza sulle donne, afferma il testo (integrale sul sito di Maschile plurale) ci riguarda non solo perché siamo noi maschi a esercitare queste aggressioni – e tutti in qualche modo siamo attraversati dalla cultura patriarcale che produce la violenza – ma perché mettere in discussione questa cultura sarebbe un grande vantaggio per noi stessi e le nostre vite»” (Alberto Leiss, La libertà femminile è un’occasione anche per gli uomini, “Il Manifesto” 25 novembre 2021).

A Trieste Gian Andrea Franchi e la moglie Lorena Fornasir erano accusati di far parte di una rete di trafficanti per aver svolto attività di assistenza e aiuto ai migranti che raggiungevano la città dopo aver superato i rischi del respingimento e le violenze di forze di polizia alla frontiera (Nello Scavo, Archiviate le accuse per i ‘samaritani’ di Trieste, “Avvenire” 23 novembre 2021). L’inchiesta, trasferita a Bologna, in quanto Lorena Fornasir, giudice onorario, doveva essere giudicata lontano dal proprio distretto, è stata sottoposta all’esame del giudice delle indagini preliminari, che è giunto alla decisione di non chiedere il rinvio a giudizio per i due volontari.  Il sospetto che aveva generato l’accusa era di aver costruito una rete di “accoglienza a pagamento” per i profughi in arrivo dalla rotta balcanica. Accuse infondate finalizzate a diffondere l’idea che la solidarietà sia reato. Il caso, chiuso con l’archiviazione, ha mostrato che “nonno Andrea” di 81 anni e sua moglie Lorena Fornasir hanno operato solamente per portare solidarietà con bende, farmaci, medicinali e scarpe a coloro che, giunti esausti dalla rotta balcanica, non riescono nemmeno più a camminare. La solidarietà non è reato.

Di fronte a queste notizie che ci parlano di violenza, di ingiustizia, è presente, proprio nella contraddizione, una promessa da accogliere per fare spazio e coltivare i semi di un mondo nuovo.

Alessandro Cortesi op

XXXI domenica tempo ordinario – anno B – 2021

Dt. 6,2-6; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34

 “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Gesù risponde richiamandosi alla Torah e rinviando a due passi della Scrittura. Il primo testo è dal Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6,4-9)

Questo testo sta all’origine della preghiera che nella tradizione ebraica è ripetuta al mattino e alla sera, scandendo la giornata. E queste parole sono riportate su rotoli contenuti in piccole teche di cuoio da legare alla fronte e al braccio per la preghiera, segno di un fissare nel cuore l’ascolto a cui esse richiamano. Invitano infatti a porre Dio al primo posto nella vita come spesso i profeti ricordano: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.” (Os 6,6).

E’ un appello all’importanza essenziale dell’ascolto per sfuggire al grande peccato dell’idolatria che è inseguire riferimenti vani, scambiati per assoluti ma che non hanno consistenza. Ascoltare significa porsi in relazione con Dio che si rende vicino e chiama Israele ad incontrarlo nella vita: ‘Io sarò colui che sarò… sarò con te’ (cfr. Es 3,14) è il nome consegnato a Mosè e indica un cammino in cui accogliere una presenza vicina. Ascoltare è attitudine del cuore, che  nel linguaggio biblico costituisce il centro della sensibilità ma anche dell’intelligenza e delle decisioni-. Ascoltare genera un affidamento ed implica riconoscere Dio come unico riferimento assoluto nell’esistenza. Per questo la preghiera dello Shemà è sintesi della spiritualità dell’esodo: il Dio che ha liberato Israele non prende il posto del faraone, paradigma di ogni potere che genera oppressione e ingiustizia, ma dona liberazione e vita anche nel deserto e chiama a rimanere nell’ascolto per rispondere  alla sua Parola.

Gesù poi riprende un secondo testo, tratto dal libro Levitico, dal codice di santità: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lev 19,2; cfr. Lev 20,8). “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lev 19,18).

Gesù richiama così il cuore della legge e accompagna a recuperarne le radici: non entra nel dibattito di scuola sulla questione di quale precetto sia il più importante che conduce alla fine a svuotare il richiamo di fondo di questi testi e a perdere di vista il centro. Gesù non rinvia ad una serie di norme o di espressioni cultuali. Richiama all’esperienza dell’Esodo. Ascolto di Dio e amore per l’altro costituiscono il cardine della legge.

Proprio in questi giorni papa Francesco durante l’udienza del 27 ottobre us ha ricordato: “Ancora oggi, molti sono alla ricerca di sicurezze religiose prima che del Dio vivo e vero, concentrandosi su rituali e precetti piuttosto che abbracciare con tutto sé stessi il Dio dell’amore. E questa è la tentazione dei nuovi fondamentalisti, di coloro ai quali sembra la strada da percorrere faccia paura e non vanno avanti ma indietro perché si sentono più sicuri: cercano la sicurezza di Dio e non il Dio della sicurezza”.

Alle parole di Gesù lo scriba reagisce dicendo che questo vale più di tutte le pratiche religiose. E Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. L’esperienza dell’ascolto e dell’amore per Dio nella proposta di Gesù si attua solamente nell’apertura all’incontro con gli altri. Mettendo insieme queste due parole della Legge Gesù richiama ad un incontro di Dio da vivere nelle relazioni concrete con gli altri. L’altro è prossimo da riconoscere come tale, da vedere e da incontrare. La vita di chi segue Gesù deve essere intesa ‘mai senza l’altro’.

Alessandro Cortesi op

Tutti i santi – anno B – 2021

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”

Apocalisse non è ‘fine del mondo’ ma rivelazione: l’ultimo libro del Nuovo testamento è un testo profetico, lettura della storia alla luce del vangelo. Nelle prove del presente viene indicato il cammino orientato ad un incontro con Dio che salva. Gesù Cristo è presentato con l’immagine dell’agnello ferito, ma che sta in piedi. Ferito perché reca i segni della passione ed è il Gesù crocifisso. In piedi perché è risorto e ha vinto la morte. Così la sua comunità nel tempo vive la prova e la sofferenza ma sa anche che Gesù Cristo è colui che può sciogliere i nodi che tengono chiuso il libro della vita e della storia.

Apocalisse presenta una grande liturgia in cui chi partecipa è coinvolto con gioia e non c’è solitudine. E’ così vista una moltitudine immensa oltre ogni possibilità di misurazione (nessuno la poteva contare). E’ la moltitudine di tanti testimoni del vangelo. La palma è simbolo della testimonianza in rapporto al dono della fede e del battesimo: chi ha cercato di vivere la sua fede fino alla fine è testimone: tutta la sua vita è stata orientata all’incontro con Dio e ha percorso la strada di Gesù.

“noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui”

La prima lettera di Giovanni richiama l’itinerario della fede, tra un ‘già’ che sperimentiamo nel presente e un ‘non ancora’ da attendere ma anche da affrettare. Sin d’ora siamo figli di Dio, partecipi di una relazione di vita. Siamo chiamati con il nome unico che Dio ha pronunciato chiamando alla vita. Ma questo nome è anche un seme che per crescere richiede cura, nutrimento, luce e spazio: è chiamata perché possa svilupparsi una crescita. Una chiamata fondamentale è per tutti e si differenzia nelle varie tappe e circostanze della vita: diventare simili al volto di Gesù stesso che ha fatto della sua vita un dono. Nell’incontro con lui si attua una somiglianza. La vita dei cristiani si colloca in una attesa in cui sono presenti fatica e dolore, ma anche speranza e responsabilità. Appoggiandoci sui segni dell’amore di Dio possiamo aprirci alla speranza: la nostra vita va verso una comunione tra di noi e con Lui. Lo vedremo così come egli è, ma questo incontro è già iniziato in quel vedere che è lo sguardo del credere che si lascia formare nell’affidamento.

“Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.

I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, tutti voi quando vi insulteranno… sono chiamati a rallegrarsi. Ma di che cosa ci si deve rallegrare? Gesù non vuole per i suoi la povertà, la persecuzione, l’ingiustizia. Piuttosto annuncia che Dio sta dalla parte di tutti coloro che vivono in queste situazioni, e si fa loro vicino, per liberarli, prende le loro parti. Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani. Questa è la ragione del rallegrarsi: chi vive questo stile anche se non occupa i primi posti, anche se ritenuto fallito o perdente, anche se l’impegno per la giustizia e per il riconoscimento dei diritti dei più fragili è denigrato, è sulla strada di Gesù. Gesù nella sua vita è stato povero, mite, puro di cuore. In lui e nel suo stile si può trovare il senso della propria esistenza quale vita bella: una vita non da schiavi sotto i ‘comandamenti’ ma da persone libere secondo la libertà gioiosa delle beatitudini.

Alessandro Cortesi op

XXVII domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Gn 2,18-24; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16

I primi capitoli di Genesi costituiscono una grande riflessione presentata con il linguaggio del mito sulla condizione umana e sulle sue fondamentali esperienze. Nel mezzo dell’opera creativa proveniente dalle mani di Dio, e di cui è parte, l’essere umano, l’Adam – il terreno ‘tratto dalla terra’ – vive una profonda solitudine esistenziale: può dare il nome agli esseri viventi, essere custode e pastore di un mondo che comprende varietà meravigliose di rocce, animali e piante ma percepisce la mancanza di “un aiuto simile”. Senza qualcuno che ‘gli stia di fronte’ nella parità, non può attuare quello scambio di parola, quella condivisione di vita, quel dialogo in cui ritrovare il senso della vita nell’accoglienza reciproca e nel cammino comune.

Le prime pagine di Genesi descrivono così la condizione umana e nel racconto richiamano al dono di una presenza che risponde a questa sete profonda e porta ad uscire dalla solitudine: mentre Adam dorme Dio agisce e gli fa trovare una presenza accanto, un ‘tu’ in cui riconoscersi, rispecchiarsi, con cui vivere la meraviglia dell’amore. Il sonno è grande metafora del non sapere perché momento in cui la lucidità viene meno: nel sonno che è spazio dell’agire di Dio, si apre unanovità. La presenza nuova di fronte a lui per Adam rimane mistero di gratuità: non sa da dove viene e non è e non potrà mai essere in suo possesso e nel suo dominio. La presenza uguale e diversa, ritrovata come dono stupefacente e inatteso, accanto, è appunto dono gratuito che reca in sé il tocco di Dio. Ed è anche parte di se stesso: nel cammino dell’incontro potrà così scoprire l’altro, diverso, ma anche ritrovare se stesso: solo nel rapporto potrà scorgere il volto dell’umano intero. Nello stesso tempo questa presenza dono gli sta di fronte, in una diversità irriducibile. E’ simile, ‘carne della mia carne, osso dalle mie ossa’, simile nel corpo e nell’interiorità, eppure profondamente diversa e altra, non assimilabile, da accogliere e incontrare sempre nuovamente. Da qui la bellezza e la fatica della comunicazione.

L’Adam tratto dalla terra risponde a questo dono con un inno di gioia e meraviglia: “…la si chiamerà donna (isha’) perché dall’uomo (ish) è stata tolta”. Il gioco di parole della lingua ebraica esrpime la medesima radice e nello stesso tempo la diversità dei due. E’ espressione della medesima condizione e della condivisione che si apre come chiamata. Nell’inno di gioia Adam scopre la sua identità più profonda e originaria: “In principio Dio creò l’umano, maschio e femmina li creò…” All’inizio Dio crea un principio unico, in cui ish (uomo) e isha’ (donna) formano una sola cosa.

Da questo dono e disegno, che sta al principio, sorge la vocazione per ogni uomo e donna, all’incontro, a compiere nell’esistenza il sogno di un’unità sempre da ricercare, nello star di fronte come ‘diversi’ e come  ‘simili’.

“Per questo l’uomo abbandonerà  suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una carne sola”. La ‘carne’ che l’uomo e  la donna sono chiamati a realizzare come unità è la vita che si esprime nelle diverse dimensioni.

Di fronte alla domanda sulla questione del ripudio Gesù rinvia a quel racconto del principio e richiama al disegno originario di Dio. La questione del ripudio era un tema trattato nelle dispute religiose del tempo, vedeva la possibilità del ripudio solo della donna attuandolo addirittura per futili motivi, e poneva così le donne in una condizione di discriminazione e inferiorità. Gesù non si lascia ingabbiare nelle prescrizioni di una legge che rischia sempre di rimanere indifferente alle storie delle persone. Richiama alla chiamata ed alla responsabilità dello stare di fronte all’altro e di fronte a Dio. Ciò implica aprirsi all’azione del ‘Dio che congiunge’, che ha un progetto di amore e non si lascia rinchiudere ma apre a vivere la ricerca mai compiuta di vivere in modo autentico l’amore nella responsabilità che coinvolge le coscienze di fronte a Lui.

Alessandro Cortesi op

Tratti dell’amore

Un breve racconto rabbinico richiama al senso profondo dell’incontro e dell’amore:Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero». Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio».

(Jirì Langer, Le nove porte, Adelphi 2008, 105)

Nel capitolo IV di Amoris Laetitia viene proposta una lettura del capitolo 13 della lettera ai Corinti di Paolo evidenziando le caratteristiche dell’amore. In particolare si potrebbero cogliere tre aspetti che vengono descritti con parole significative per la vita:

Un primo aspetto è la benevolenza: “… la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però, considerata la posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il verbo precedente, ne diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”. (94) Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire. (AL 93-94)

Un secondo tratto è l’amabilità: “Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere».Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano». Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore»” (AL 99)

Un terzo atteggiamento che compone il mosaico dell’amore, tra vari altri, è quello della speranza: “Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra. (117) Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile. (AL 116-117).

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno B – 2021

Es 20,1-17; 1 Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

La prima lettura accompagna a scorgere un’altra tappa della storia della salvezza dopo l’alleanza con Noè e la legatura di Isacco. E’ il dono della legge a Mosè nel cammino dell’esodo. Le dieci parole sono da leggere alla luce di quella inziale: “Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Le dieci parole infatti indicano che tutta la vita può divenire luogo di una relazione viva con il Dio vicino. E’ lui il liberatore che ha ascoltato il grido di Israele oppresso traendoli fuori dalla schiavitù per aprirgli una strada di incontro e di libertà. La relazione nuova con lui trova espressione nelle prime tre parole. Le altre sette parole riguardano una nuova relazione con gli altri, di rispetto, di giustizia, di accoglienza. I cosiddetti ‘comandamenti’ non sono quindi una legge a cui sentirsi sottoposti, ma sono invito e apertura di una via per rispondere ad una chiamata di amore. Chiedono di liberarsi dagli idoli che occupano la vita e aprirsi al servizio a Dio e agli altri quale compimento di umanità.

L’episodio della cacciata dei venditori dal tempio è posto dal IV vangelo all’inizio della attività pubblica di Gesù, nei giorni della festa di Pasqua. E’ così un momento che anticipa l’intero cammino di Gesù. Fu proprio questo suo gesto uno dei motivi che suscitarono l’ostilità dei sacerdoti e capi di Gerusalemme.

Rovesciare i tavoli dei venditori è certamente una critica ad un modo di vivere un culto separato dalla vita, è accusa di tradire il significato del tempio, segno della presenza di Dio vicina. Ma questo gesto reca in sè anche un messaggio di superamento del tempio stesso. E’ infatti un segno tipico dell’agire profetico che evoca un tempo nuovo ormai iniziato: Dio infatti cerca credenti che lo adorino non in un tempio o in un altro luogo ma ‘in spirito e verità’ (cfr. Gv 4,21-24). Le parole di Gesù sono indicative del significato del gesto: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” e l’evangelista osserva: “ma egli parlava del tempio del suo corpo (…) Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono  che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”. ‘Ricordare’ nel linguaggio giovanneo indica non solo una ricondurre alla memoria , ma ben più un comprendere il senso profondo dell’agire di Gesù, per la nostra salvezza, alla luce della risurrezione.

L’intero IV vangelo conduce il lettore in un cammino del ‘credere’, che si connota come ‘credere in’ Gesù. Il segno del tempio è un segno che rinvia alla sua persona ed invita a scorgere d’ora in poi in lui la possibilità di accesso al Padre non su questo o su un altro monte ma nello Spirito. Con Gesù è giunto il tempo di un culto in spirito e verità che non divide e pone gli uni contro gli altri. La gloria di Dio per Giovanni si manifesta sul volto del crocifisso che manifesta il dono e l’amore fino alla fine quale volto più autentico di Dio.

Nel rapporto con lui che possiamo trovare il senso profondo delle dieci parole, dei suoi comandamenti: “Se mi amate osserverete i miei comandamenti…. Voi siete miei amici perché fate quello che vi comando” (Gv 14,15; 15,14).

Alessandro Cortesi op

Fratelli tutti

“Per renderci conto di dove stia per recarsi Francesco occorre tracciare una croce sul blocco eurasiatico: il primo tratto di penna, quello verticale, unisce Mosca e lo stretto di Hormuz, lo sbocco oceanico del Golfo Persico. Il secondo tratto di penna, quello orizzontale, collega Teheran e Palermo, il centro del Mediterraneo. Ecco, Francesco si reca nel punto geografico dove queste due linee si intersecano, dunque nel luogo cruciale di tutti gli appetiti, perché chi controlla quel luogo controlla il blocco eurasiatico. Francesco ci va da costruttore di pace, all’insegna di uno slogan rivoluzionario: ‘siete tutti fratelli’”. (Riccardo Cristiano, L’ultima sfida di Bergoglio. Sulle orme di Abramo per invocare la fratellanza, Reset 2.03.21)

Papa Francesco svolge in questi giorni uno storico viaggio in Irak: il programma prevede una prima tappa a Baghdad il 5 marzo con l’incontro con il presidente della Repubblica Barham Salih e le autorità civili. Poi nella cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora della salvezza un primo incontro con la comunità cristiana. Importante tappa sarà il giorno seguente, 6 marzo a Najaf, città santa dei mussulmani sciiti, dove è previsto l’incontro con il grande ayatollah Al-Sistani. Da lì lo spostamento a Nassiriya, per un incontro interreligioso nella pianura di Ur luogo che la tradizione indica come punto di partenza del cammino di Abramo. La sera ancora Baghdad per una s.Messa nella cattedrale caldea di San Giuseppe.  Il 7 marzo il papa si sposterà a Erbil, città nel Kurdistan irakeno, luogo dove hanno trovato rifugio moltissimi profughi dalla piana di Mosul quando l’Isis ha devastato quelle regioni. Nei pressi di Erbil sorgono i campi profughi che hanno accolto i rifugiati dall’Irak e poi molti siriani fuggiti dalla Siria nel 2015. Da qui il trasferimento a Mosul e a Qaraqosh città dove erano presenti comunità cristiane prima della conquista dell’Isis e dove ora con grande fatica si sta avviando la ricostruzione delle città devastate. Di qui a Baghdad e il rientro  a Roma.

Il viaggio del papa  è un gesto coraggioso e portatore di un messaggio essenziale ed esigente in un quadro geopolitico segnato da diversi imperialismi che si stanno fronteggiando. La terra di Irak è stata da decenni luogo di guerra che ha visto la grande devastazione operata dalla guerra condotta dagli USA e dagli eserciti occidentali che con la pretesa di portare la pace e democrazia hanno fatto il deserto. Nella terra di Irak si sono incrociate e si incrociano oggi più che mai le linee di dominio degli imperialismi diversi: quelli sauditi e iraniani khomeinisti, quelli turchi, russi e cinesi. Sono tutti progetti di dominio che si servono di strategie economiche e militari senza scrupoli. Quella terra trasuda la sofferenza dovuta a progetti di conquista militare-religiosa in cui la religione è stata e continua ad essere ragione e strumento di guerra, morte e devastazione. L’Irak è una terra ricchissima per le ricchezze del sottosuolo, che però vengono sfruttate altrove e non portano ad un benessere per la popolazione segnata da una disoccupazione  assai elevata  e dalla condizione di povertà per circa un terzo degli abitanti.

In particolare l’incontro del papa a Najaf può essere una tappa importante per una convergenza anche della comunità sciita rappresentata dal suo capo spirituale Al Sistani (che si distingue per non aver asseondato la linea della teocrazia khomeinista in Iran) attorno alle linee della dichiarazione sulla fratellanza umana sottoscritta due anni fa ad Abu Dhabi da Francesco e dall’imam Al Tayyeb del Cairo, figura di riferimento della corrente dell’Islam sunnita. Il messaggio ‘fratelli tutti’ indica come gli estremismi che si basano sulle religioni o si servono di motivazioni religiose siano da condannare. Quella dichiarazione redatta “In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna. In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre” presentava un appello accorato: “dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente”.

E richiamava anche le linee di riconosicmento della libertà religiosa: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”.

Il viaggio di Francesco ed in particolare l’incontro interreligioso di Ur costituiscono un segno profetico: il riconosciemnto di essere fratelli e sorelle implica la costruzione di una cittadinanza in cui riconoscere la dignità di cittadini in una convivenza che può essere plurale, come proprio le società orientali hanno sperimentato nella storia ed esprimono nella sensibilità dei poveri. In tale prospettiva Antoine Courban, intellettuale libanese cristiano ortodosso, docente all’Università dei gesuiti Saint Joseph a Beirut osserva:

“io vedo in questa decisione di Francesco di visitare l’Iraq e di recarsi a Ur come un segno dello Spirito Santo. Il cammino di Abramo, seguendo la volontà di Dio, lo ha condotto da Ur alle coste del Mediterraneo. La cartina spirituale del cammino di Abramo ci indica, ci spiega la cartina geopolitica di oggi. Sia il cammino di Abramo che la realtà geopolitica fanno della Mesopotamia la vera “chiusura strategica”, o il “Gate”, del Mediterraneo. Le chiavi per la pace mediterranea sono lì. Sono due cartine diverse, certamente, ma che si accavallano perfettamente e divengono inseparabili. Senza pace nell’antica Mesopotamia non c’è pace nel Mediterraneo, e le parole “cittadini” e “fratelli” sono una parola sola, cioè la chiave di lettura e soluzione di tanti problemi. Questa è la prospettiva di pace che comporta e implica, infatti è incompatibile con identitarismi o progetti settari e miliziani. Questo lo vediamo in tutti i drammi mediterranei e lo indica proprio il senso della scelta di Abramo: i figli di Abramo, cioè ebrei, cristiani e musulmani, sanno che loro padre non ha fondato una religione, ha sentito Dio dirgli “fai così” e lui ha agito con “fede e fiducia”. Fede e fiducia nell’unico Dio di tutti i figli di Abramo, questo è il messaggio di Abramo, quello che va ricordato a tutti i suoi figli”. (R.Cristiano, Intervista a Antoine Courban Senza pace in Iraq non c’è pace nel Mediterraneo. Courban spiega il viaggio del papa, Formiche.net 27.02.21).

Alessandro Cortesi op

XXX domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Una inquadratura dal film ‘Il vangelo secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini

Es 22,21-27; 1Tess 1,5-10; Mt 22,34-40

Negli ultimi capitoli del suo vangelo, Matteo, dopo aver narrato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (cap. 21) raccoglie una serie di controversie in cui Gesù è interrogato e messo alla prova da diverse categorie di persone che costituiscono le élites religiose e i capi del popolo. Al cap. 22 dopo la questione del tributo a Cesare suscitata da farisei e erodiani e quella sulla risurrezione sulla quale Gesù è provocato dai sadducei, gli viene posta una questione discussa su cui non c’era accordo tra le scuole: quale il più grande comandamento della legge.

La legge era sintetizzata nelle dieci parole dell’alleanza: tuttavia la tradizione aveva aggiunto ai dieci comandamenti centinaia di precetti (613 comandamenti) che costituivano nell’immaginario religioso una sorta di siepe per proteggere l’osservanza del nucleo della legge stessa. Erano norme che regolavano tutti i momenti della vita. Ma varie erano le proposte ad individuare il nucleo della legge stessa: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» è la domanda che gli viene posta.

Gesù risponde in piena fedeltà al testo biblico e riprende due versetti presenti nei libri della Torah. II primo è un testo tratto dal Deuteronomio che richiama la fondamentale professione di fede che veniva ripetuta più volte al giorno nella preghiera dello Shemà: ‘ascolta Israele… amerai il Signore Dio con tutto il cuore… il Signore è uno’.

“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6,4-5).

Si tratta del comandamento che richiama a riferire la vita in tutte le sue dimensioni a Dio quale unico Signore dell’esistenza. E’ il primo comandamento perché richiama l’affidamento al Dio dell’alleanza, e chiede di non avere altri idoli nella vita ma riconoscere un solo Signore a cui affidarsi. E’ un comandamento riconosciuto e su cui si era articolata una vasta tradizione di pratiche e osservanze.

Gesù richiama all’amare Dio che è al cuore di questo comandamento: non sempre amare Dio corrisponde con le forme dei sacrifici, delle offerte delle preghiere e devozione praticati per offrire un culto che può essere scisso dalla vita.

La prassi cultuale e liturgica ha una grande forza nel far sentire a posto con Dio e gratificati nell’aver compiuto opere  questo. Spesso è limitata ad aspetti esteriori senza coinvolgimento e può essere una forma di tranquillizzazione della coscienza dal momento che svolgere liturgie, preghiere o devozioni non turba particolarmente la vita e non genera di per sè cambiamenti nelle scelte e nell’operare. Gesù a tal riguardo condivideva la critica aspra dei profeti in Israele: essi sollevavano l’accusa ad un culto vuoto fatto di sacrifici e offerte mentre la vita va in altre direzioni e viene praticata la disonestà, l’ingiustizia andando contro la volontà di Dio.

Gesù per questo aggiunge nella sua risposta il riferimento ad un altro comandamento. E riprende a tal riguardo un altro versetto biblico dal libro del Levitico: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lev 19,18). Richiama quindi non qualcosa di nuovo, bensì un orientamento che era ben presente nella tradizione biblica: non si può amare Dio se insieme non si vivono relazioni nuove di autentico amore verso il prossimo. I rapporti con gli altri sono il luogo di verifica dell’amore verso Dio.

Gesù, pienamente inserito nella fede d’Israele riconduce alla profondità della alleanza. Questo secondo comandamento, dice Gesù, è simile al primo. Il secondo comandamento è simile al primo in quanto ne è la trasparenza. In tal senso Gesù riporta tutta la questione sul più grande dei comandamenti ad una radicalità che interroga su di una prassi diversa. Gesù non è preoccupato di elaborare una teoria della morale o una costruzione teologica. Piuttosto chiede una prassi coerente in cui l’amore verso Dio si verificato nell’amore verso gli altri, in un unico e inscindibile movimento.

Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti: legge e profeti indicano tutta la Scrittura ebraica che è testimonianza dell’incontro di Dio che ha fatto alleanza con Israele e coinvolge in una storia di libertà.

Chi attua gesti di ascolto, accoglienza, cura, accompagnamento verso gli altri attua già in questo l’amore di Dio. E’ liberante ed è l’indicazione di Gesù sapere che dove ‘avete fatto qualcosa ad uno dei fratelli più piccoli’ lì c’è già incontro con Dio e amore per Lui. Questo fa superare la mentalità di chisura e di oppressione della religione per aprirsi all’incontro con Dio che coinvolge la fede e si attua nel rapporto con gli altri. E chi desidera coltivare l’amore di Dio è invitato a porre in pratica scelte di gratuità e attenzione verso gli altri. 

In questa sua risposta Gesù pone una critica ad un modo di intendere la fede come legata a tutte quelle tradizioni di uomini che finiscono per oscurare le esigenze prime della  fedeltà a Dio. E’ ciò che accadeva ai suoi tempi ed è ciò che accade oggi.

In questo senso Gesù comunica anche una immagine di Dio diversa dal Dio di una religione del culto e dell’appartenenza culturale e ripropone il volto del Dio dell’Esodo e dell’alleanza, il Dio che ascolta il grido dei poveri e delle vittime e scende a liberarli per aprire percorsi di libertà nell’amore che si prende carico dell’altro.

Può essere interessante ricordare a tal proposito quanto Paolo dice nella lettera ai Galati “Voi infatti… siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso”.

Alessandro Cortesi op

Fanatismo e fede

Abbiamo assistito attoniti in questi ultimi giorni all’uccisione compiuta in modo crudele di Samuel Paty professore di storia alla periferia di Parigi, colpevole per il suo assassino di aver mostrato a lezione ai suoi studenti le vignette satiriche su Maometto. Chi ha compiuto quel gesto efferato l’ha accompagnato con l’invocazione al nome di Dio, nella pretesa che la soppressione di una vita fosse un gesto di fedeltà e culto a Dio.

E’  un fatto su cui riflettere: c’è infatti il rischio di indignarsi solo momentaneamente o di derubricare gesti come questo come una radicalizzazione religiosa senza considerare le sue profonde implicazioni e senza porre il problema su cosa fare per contrastare tale violenza che si connette alla religione. Compare benché invano, il nome di Dio. Benché le tradizioni religiose siano fonti di opposizione alla violenza nella storia tuttavia la violenza si è accompagnata alla religione in varie modalità, e ciò va considerato attentamente.

Le osservazioni di un possono essere d’aiuto ad indicare alcune questioni in gioco.

In una recente intervista a Le Monde (19.10.20) Adrien Candiard, domenicano francese autore del testo Comprendre l’islam. Ou plutôt: pourquoi on n’y comprend rien (Flammarion, 2016) ha offerto una serie di interessanti spunti. Osserva come i gesti di fanatismo religioso spesso sono accostati da un punto di vista meramente sociologico e psicologico. In questa linea essi costituirebbero espressioni di un eccesso di religione e la loro cura si porrebbe nella linea di ridurre l’attenzione alla dimensione religiosa nell’educazione e nella vita pubblica.

Candiard critica tale approccio e propone una lettura diversa: “C’è … una diagnosi sbagliata nel fatto di non affrontare il fanatismo come un errore religioso, ma di affrontarlo solo come una devianza sociale o psicologica”. Propone di scorgere nei gesti dei fanatici religiosi un errore che tocca aspetti al cuore dell’esperienza religiosa:  “il principale errore teologico del fanatismo è non lasciare spazio alla fede. Dietro il costante riferimento a Dio, c’è una sostituzione di Dio con altri oggetti, come il culto o i comandamenti, che certo fanno parte della pratica religiosa, ma non sono Dio. Questi oggetti finiti e limitati sono pertanto considerati come assoluti e illimitati, e questo è un errore teologico ben conosciuto sotto il nome di idolatria”.

Il fanatismo costituisce quindi un orientamento idolatrico. Si oppone radicalmente ad un accostamento sincero al volto di Dio perché opera una sostituzione: Dio diventa un idolo. Si può pensare al vitello d’oro, ma anche a tutte le immagini di Dio elaborate da uomini in costruzioni teologiche considerate assolute, oppure l’idolatria per un sistema sacrale e religioso di cui si pretende di essere detentori.

Candiard preferisce utilizzare il termine fanatismo rispetto ad altri (come fondamentalismo o integralismo) spiegando che non indica una radicalità. Chi uccide o mette le bombe non è un religioso radicale ma qualcuno che ha sostituito Dio con una costruzione religiosa umana di cui si titiene detentore e possessore: “La caratteristica del fanatismo non è andare fino in fondo nelle cose, ma deviarle”.  

Per contrastare tale fanatismo suggerisce di intraprendere nuove vie che tengano conto di questioni specificamente teologiche: “bisogna smetterla di fare come se la religione non esistesse… Bisogna riaffermare che le religioni portano, anch’esse, delle riflessioni razionali e che, quando si formano delle menti al pensiero critico, esse non possono essere escluse dall’insegnamento. Bisogna preparare gli alunni ad affrontare e a prendere sul serio i discorsi teologici”.

Sono temi che andrebbero affrontati anche in una considerazione nella educazione scolastica a livello pubblico per poter contribuire alla formazione di un pensiero critico e di comprensione seria dell’esperienza religiosa e – aggiungerei – della distinzione fondamentale tra religione e fede su cui oggi si può notare una incomprensione generalizzata. La violenza in nome di Dio che è idolatria provoca a riflettere su come estirparla senza entrare nella medesima logica di aggressione, di intolleranza e di repressione cieca rispetto alle esigenze educative.     

Smettere di essere proprietari di Dio, accettare di disfarsi delle difese armate e di un’attitudine aggressiva, aprirsi alla sfida del dialogo, riconoscere la dignità dell’altro: è questo un orizzonte di impegno che rimane aperto e richiama a quell’unico e più grande comandamento “Amerai Dio… amerai il prossimo tuo…”.

Alessandro Cortesi  op

SPUNTI PER UN APPROFONDIMENTO: Ma chi sono i farisei?

“Se riconosciamo che gli ebrei di oggi si sentono discendenti dei farisei allora dobbiamo capire che non possiamo parlare male dei progenitori dei nostri amici. Noi vogliamo poterne parlare su una base più veritiera e con un amore vero per l’altro”. (Joseph Sievers, docente di storia e letteratura giudaica al Pontificio Istituto Biblico)

Qui di seguito una parte del testo del saluto di papa Francesco ad un convegno internazionale tenutosi nel 2019 promosso dal Pontificio Istituto Biblico sul tema Gesù ed i farisei. Un riesame interdisciplinare

(…) Do il benvenuto ai partecipanti al Convegno su “Gesù e i Farisei. Un riesame interdisciplinare”, che intende affrontare una domanda specifica e importante per il nostro tempo e si presenta come un risultato diretto della Dichiarazione Nostra aetate. Esso si propone di capire i racconti, a volte polemici, riguardanti i Farisei nel Nuovo Testamento e in altre fonti antiche. Inoltre, affronta la storia delle interpretazioni erudite e popolari tra ebrei e cristiani. Tra i cristiani e nella società secolare, in diverse lingue la parola “fariseo” spesso significa “persona ipocrita” o “presuntuoso”. Per molti ebrei, tuttavia, i Farisei sono i fondatori del giudaismo rabbinico e quindi i loro antenati spirituali.

La storia dell’interpretazione ha favorito immagini negative dei Farisei, anche senza una base concreta nei resoconti evangelici. E spesso, nel corso del tempo, tale visione è stata attribuita dai cristiani agli ebrei in generale. Nel nostro mondo, tali stereotipi negativi sono diventati purtroppo molto comuni. Uno degli stereotipi più antichi e più dannosi è proprio quello di “fariseo”, specialmente se usato per mettere gli ebrei in una luce negativa.

Recenti studi riconoscono che oggi sappiamo meno dei Farisei di quanto pensassero le generazioni precedenti. Siamo meno certi delle loro origini e di molti dei loro insegnamenti e delle loro pratiche. Pertanto, la ricerca interdisciplinare su questioni letterarie e storiche riguardanti i Farisei affrontate da questo convegno aiuterà ad acquisire una visione più veritiera di questo gruppo religioso, contribuendo anche a combattere l’antisemitismo.

Se prendiamo in considerazione il Nuovo Testamento, vediamo che San Paolo annovera tra quelli che una volta, prima di incontrare il Signore Gesù, erano i suoi motivi di vanto anche il fatto di essere «quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3, 5).

Gesù ha avuto molte discussioni con i Farisei su preoccupazioni comuni. Ha condiviso con loro la fede nella risurrezione (cfr. Mc 12, 18-27) e ha accettato altri aspetti della loro interpretazione della Torah. Se il libro degli Atti degli Apostoli asserisce che alcuni Farisei si unirono ai seguaci di Gesù a Gerusalemme (cfr. 15, 5), significa che doveva esserci molto in comune tra Gesù e i Farisei. Lo stesso libro presenta Gamaliele, un leaderdei Farisei, che difende Pietro e Giovanni (cfr. 5, 34-39).

Tra i momenti più significativi del Vangelo di Giovanni c’è l’incontro di Gesù con un fariseo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei (cfr. 3, 1). È a Nicodemo che Gesù spiega: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (3, 16). E Nicodemo difenderà Gesù prima di un’assemblea (cfr. Gv 7, 50-51) e assisterà alla sua sepoltura (cfr. Gv 19, 39). Comunque si consideri Nicodemo, è chiaro che i vari stereotipi sui Farisei non si applicano a lui, né trovano conferma altrove nel Vangelo di Giovanni.

Un altro incontro tra Gesù e i capi religiosi del suo tempo è riportato in modi diversi nei Vangeli sinottici. Ciò riguarda la questione del “grande” o “primo comandamento”. Nel Vangelo di Marco (cfr. 12, 28-34) la domanda viene posta da uno scriba, non diversamente identificato, che instaura un dialogo rispettoso con un insegnante. Secondo Matteo, lo scriba diventa un fariseo che stava cercando di mettere alla prova Gesù (cfr. 22, 34-35). Secondo Marco, Gesù conclude dicendo: «Non sei lontano dal regno di Dio» (12, 34), indicando così l’alta stima che Gesù ha avuto per quei capi religiosi che erano davvero “vicini al regno di Dio”.

Rabbi Aqiba, uno dei rabbini più famosi del secondo secolo, erede dell’insegnamento dei Farisei (S. Eusebii Hieronymi, Commentarii in Isaiam, III, 8: pl 24, 119.), indicava il passo di Lv 19, 18: «amerai il tuo prossimo come te stesso» come un grande principio della Torah (Sifra su Levitico 19, 18; Genesi Rabba 24, 7 su Gen 5, 1). Secondo la tradizione, egli morì come martire con sulle labbra lo Shemà, che include il comandamento di amare il Signore con tutto il cuore, l’anima e la forza (cfr. Dt 6, 4-5. Testo originale e versione italiana in Talmud Babilonese, Trattato Berakhòt, 61 b, Tomo ii, a cura di D. G. Di Segni, Giuntina, Firenze 2017, pp. 326-327). Pertanto, per quanto possiamo sapere, egli sarebbe stato in sostanziale sintonia con Gesù e il suo interlocutore scriba o fariseo. Allo stesso modo, la cosiddetta regola d’oro (cfr. Mt 7, 12), anche se in diverse formulazioni, è attribuita non solo a Gesù, ma anche al suo contemporaneo più anziano Hillel, di solito considerato uno dei principali Farisei del suo tempo. Tale regola è già presente nel libro deuterocanonico di Tobia (cfr. 4, 15).

Quindi, l’amore per il prossimo costituisce un indicatore significativo per riconoscere le affinità tra Gesù e i suoi interlocutori Farisei. Esso costituisce certamente una base importante per qualsiasi dialogo, specialmente tra ebrei e cristiani, anche oggi.

In effetti, per amare meglio i nostri vicini, abbiamo bisogno di conoscerli, e per sapere chi sono spesso dobbiamo trovare il modo di superare antichi pregiudizi. Per questo, il vostro convegno, mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata dei Farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione. Sono sicuro che tali studi, e le nuove vie che apriranno, contribuiranno positivamente alle relazioni tra ebrei e cristiani, in vista di un dialogo sempre più profondo e fraterno. Possa trovare un’ampia risonanza dentro e fuori la Chiesa Cattolica, e al vostro lavoro possano essere concesse abbondanti benedizioni dall’Altissimo o, come direbbero molti dei nostri fratelli e sorelle ebrei, da Hashèm. Grazie”.

XXVII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Is 5,1-7; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

“Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate… Egli aspettò che producesse uva, essa produsse invece, acini acerbi … che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Ebbene la vigna del Signore…  è la casa di Israele”

In una bellissimo poema Isaia evoca l’immagine della vigna, un’immagine centrale del Primo Testamento che parla di cura, di dedizione e di amore: ‘che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?’. Anche nel Cantico dei cantici la vigna è simbolo utilizzato per parlare dell’amore: la amata infatti è indicata come ‘vigna in fiore’. La vigna diviene così simbolo del popolo d’Israele.

Il poema di Isaia inizia con una descrizione serena della vigna e del lavoro che il ‘diletto’ vi svolge. E’ una descrizione di pace e operosità. Parla della cura amorosa con cui la vigna è coltivata con attenzione a tutti i particolari. Ma nonostante la fatica della coltivazione la vigna produce solo acini acerbi. Sorge allora la delusione e il senso di fallimento: il riferimento è al rapporto tra il popolo di Israele e il suo Dio.

L’autore del poema gioca con le parole per descrivere il capovolgimento delle attese: anziché attuazione del diritto (mishpat) vi è spargimento di sangue innocente (mispah), al posto della giustizia (sedaqah) c’è il grido degli oppressi (se’aqah). Isaia è un grande poeta: tratteggia una drammatica vicenda di infedeltà da parte del popolo d’Israele. L’attesa paziente di Dio che si è preso cura del suo popolo viene delusa.

Il tema della vigna che rappresenta Israele è presente anche nel libro di Osea (10,1) ed è ripreso da Geremia: “Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Ger 2,21). Geremia presenta la denuncia da parte di Dio dell’infedeltà di Israele. Ma anche presenta ancora il desiderio di Dio di racimolare un resto che sia in grado di ascoltarlo: “’Racimolate, racimolate come una vigna il resto di Israele; stendi ancora la tua mano come un vendemmiatore verso i suoi tralci’. A chi parlerò e chi scongiurerò perché mi ascoltino?” (Ger 6,9) La vigna-popolo di Israele è chiamata ad ascoltare la parola di Dio e la cura di Dio è in vista di questo ascolto. Tale vigna è stata devastata da cattivi pastori che hanno reso il campo prediletto un deserto isolato (Ger 12,10).

Anche Ezechiele usa questa immagine in un poema in cui il legno della vite viene messo a bruciare sul fuoco, simbolo dell’inutilità dei comportamenti degli abitanti di Gerusalemme infedeli al Signore (Ez 15,1-8). Viene evocata la vigna rigogliosa sradicata e trapiantata nel deserto, con rinvio all’esperienza dell’esilio (Ez 17,1-10; 19,10-14) e il profeta richiama alla fedeltà a Jahwè. Egli è signore di tutti gli alberi: “Io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò” (Ez 17,24).

Isaia presenta una prospettiva nuova nel rapporto tra la vigna e il suo guardiano: “Io il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi, ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. Oppure meglio, si afferri alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace!” (Is 27,2-5)

La prospettiva finale è di pace, di riconciliazione e di speranza: un ritorno in cui sarà il Signore a raccogliere tutti i suoi figli dispersi e questi ‘si prostreranno al Signore, sul monte santo, in Gerusalemme’ (Is 27,13).

L’immagine della vigna è ripresa da Gesù nella parabola dei vignaioli omicidi che si connota come una allegoria: nel racconto è presentata una vicenda di amore e cura da parte di un uomo che ha piantato e lavorato la vigna prima di darla in affitto a dei contadini andandosene lontano. Ma si attua per contro una vicenda di ingiustizia e di rifiuto. I servi mandati dal padrone per raccogliere i frutti vengono bastonati, uccisi lapidati. Traspare in questi riferimenti la denuncia dei capi del popolo di Israele, i detentori del potere religioso, che pretendono di farsi padroni della vigna e rifiutano gli inviati del padrone – di Dio stesso – cioè i suoi profeti. “Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini,… dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo”.

E’ una parola chiara di denuncia da parte di Gesù rivolta a coloro che stanno tramando contro di lui. La parabola si chiude con una domanda “Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?” La vigna verrà data ad altri. Su tutto prevale una storia di fedeltà, la fedeltà del servo e del figlio. La vigna sarà data ad altri vignaioli, eppure essa rimarrà sempre quella vigna di Israele, la vigna delle promesse senza pentimento da parte di Dio.

Il centro della parabola sta nell’annuncio della fedeltà di amore di Dio: nonostante il rifiuto ripropone all’umanità il suo dono, la salvezza. E Gesù stesso, la pietra scartata dai costruttori, diverrà pietra fondamentale di una nuova costruzione. Sarà una costruzione in cui al centro dovranno essere gli esclusi perché Dio prende la pietra scartata e la fa pietra d’angolo. Sarà una comunità fatta di esclusi e non di esclusione.

“Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli… Dio degli eserciti ritorna! guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte” (Sal 80,9-16)

E’ Gesù, dirà il quarto vangelo, la vite fedele che porta frutti: ‘Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in  me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,5).

Alessandro Cortesi op

La pietra scartata

“La pandemia ci ha dimostrato che non possiamo vivere senza l’altro, o peggio ancora, l’uno contro l’altro”. Non hanno avuto un’eco sui media ma le parole che papa Francesco ha espresso nel suo videomessaggio in occasione della 75a sessione dell’Assemblea dell’ONU il 25 settembre us sono state un appello di grande forza che potrebbe costituire una traccia di impegni urgenti da assumere a livello globale.

Ha richiamato innanzitutto la peculiarità di questo tempo di pandemia che provoca ad un cambiamento e ad un ripensamento di tanti aspetti della vita dei popoli, senza facili ottimismi e con un forte richiamo alla responsabilità:

“La pandemia ci chiama, infatti, ‘a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. […]: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è’. Può rappresentare un’opportunità reale per la conversione, la trasformazione, per ripensare il nostro stile di vita e i nostri sistemi economici e sociali, che stanno aumentando le distanze tra poveri e ricchi, a seguito di un’ingiusta ripartizione delle risorse. Ma può anche essere una possibilità per una «ritirata difensiva» con caratteristiche individualistiche ed elitarie”.

Ha poi richiamato alcune lezioni della pandemia ponendo in luce come l’ambito della sanità, delle politiche del lavoro e dell’attenzione ai diritti umani siano i luoghi che richiamano ad un cambiamento di fondo: ha proposto di far sì che “tutti abbiano possibilità di accesso a cure e assistenza nella salute pubblica per realizzare il diritto di ogni persona alle cure mediche di base (…) E se bisogna privilegiare qualcuno, che sia il più povero, il più vulnerabile, chi generalmente viene discriminato perché non ha né potere né risorse economiche”.

Ha poi richiamato alla solidarietà non come ‘parola o promessa vana’ focalizzando in particolare l’ambito del lavoro: “È particolarmente necessario trovare nuove forme di lavoro che siano davvero capaci di soddisfare il potenziale umano e che al tempo stesso affermino la nostra dignità. Per garantire un lavoro dignitoso occorre cambiare il paradigma economico dominante che cerca solo di aumentare gli utili delle imprese”.

Un ‘cambio di rotta’ è richiesto da perseguire in netto contrasto con la cultura dello scarto, per cui vengono sistematicamente violati diritti fondamentali delle persone. Nel messaggio si osserva che in questi anni le crisi umanitarie sono divenute stabili e i conflitti nel mondo e l’uso di armi generano conseguenze drammatiche sulle popolazioni.

Una particolare attenzione è per coloro che subiscono le conseguenze di conflitti e con forza è denunciata un’indifferenza intenzionale nei confronti di immani sofferenze: “Spesso, i rifugiati, i migranti e gli sfollati interni nei paesi di origine, transito e destinazione, soffrono abbandonati, senza opportunità di migliorare la loro situazione nella vita o nella loro famiglia. Fatto ancor più grave, in migliaia vengono intercettati in mare e rispediti con la forza in campi di detenzione dove sopportano torture e abusi. (…) Tutto ciò è intollerabile, ma oggi è una realtà che molti ignorano intenzionalmente!”

Il messaggio indica alcuni orizzonti di cambiamento individuando soprattutto l’urgenza di un nuovo sistema economico: “La comunità internazionale deve sforzarsi di porre fine alle ingiustizie economiche (…) Abbiamo la responsabilità di fornire assistenza per lo sviluppo alle nazioni povere e la riduzione del debito per le nazioni molto indebitate”.

Il messaggio contiene anche una indicazione di orientamento costruttivo per scorgere nel presente una occasione di cambiamento. La crisi attuale può essere anche un’opportunità perché si generi una economia che contrasti il progredire delle diseguaglianze e si generi una società più fraterna. Concretamente ciò può attuarsi nel prospettare  un sistema economico che promuova la sussidiarietà “sostenga lo sviluppo economico a livello locale e investa nell’istruzione e nelle infrastrutture a beneficio delle comunità locali”. Ed è rinnovato l’appello a ridurre, se non a condonare, il debito che grava sui bilanci dei paesi più poveri.

Viene anche indicata la necessità di ripensare la architettura finanziaria a livello globale: “’Una nuova etica presuppone l’essere consapevoli della necessità che tutti s’impegnino a lavorare insieme per chiudere i rifugi fiscali, evitare le evasioni e il riciclaggio di denaro che derubano la società, come anche per dire alle nazioni l’importanza di difendere la giustizia e il bene comune al di sopra degli interessi delle imprese e delle multinazionali più potenti’. Questo è il tempo propizio per rinnovare l’architettura finanziaria internazionale”.

E’ delineata una chiara denuncia della corsa agli armamenti e dell’uso di armi devastanti che alimentano solo l’industria bellica e la sfiducia e paura. 

“Dobbiamo chiederci se le principali minacce alla pace e alla sicurezza, come la povertà, le epidemie e il terrorismo, tra le altre, possono essere affrontate efficacemente quando la corsa agli armamenti, comprese le armi nucleari, continua a sprecare risorse preziose che sarebbe meglio utilizzare a beneficio dello sviluppo integrale dei popoli e per proteggere l’ambiente naturale”.

“Da una crisi non si esce uguali: o ne usciamo migliori o peggiori. Perciò, in questo momento critico, il nostro dovere è di ripensare il futuro della nostra casa comune e del nostro progetto comune. È un compito complesso, che richiede onestà e coerenza nel dialogo, al fine di migliorare il multilateralismo e la cooperazione tra gli Stati”.

Il messaggio si conclude con un appello: “Le Nazioni Unite sono state create per unire le nazioni, per avvicinarle, come un ponte tra i popoli; usiamolo per trasformare la sfida che stiamo affrontando in una opportunità per costruire insieme, ancora una volta, il futuro che vogliamo”.

Alessandro Cortesi op

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