la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “Maggio, 2013”

Corpo e sangue del Signore – anno C – 2013

DSCF0441Gen 14,18-20; Sal 109; 1Cor 11,23-26Lc 9,11b-17

Un gesto, una parola, un ricordo vivo. Tre raggi di luce da accogliere nelle letture di questa domenica per entrare nel significato di questa festa del corpo e sangue del Signore.

Un gesto: “Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole…”. Melchisedek è sacerdote del popolo gebuseo, rappresentante di una religione pagana presente in Canaan, e nei racconti di Genesi improvvisamente appare ad incrociare il cammino di Abramo non in modo minaccioso e ostile, ma con un gesto di benedizione. Il suo gesto racchiude un significato che provoca profondamente nel rapporto con altre religioni e tradizioni. Offre infatti pane e vino e benedice Abram. Non è infatti Abram, il profeta di Dio, il padre dei credenti, a benedire, ma Abram viene benedetto da un uomo del culto pagano. E Melchisedek gli offre pane e vino, elementi essenziali alla vita. Quei segni racchiudono il senso di ciò che è necessario e quanto è sovrabbondante e dà gioia, elementi fondamentali della vita nel contesto mediterraneo, il pane proveniente dal grano, cultura essenziale al nutrimento, e il vino che dà gioia nella convivialità. Recano in se stessi l’annuncio di una  benedizione presente nella vita stessa, presente in tutte le forme religiose del vivere umano che si aprono ad un ‘oltre’ presente nella realtà. Nel profilo di Melchisedek si intravede un enigma ed una apertura: i suoi gesti evocano la dimensione religiosa insita nel cuore dell’uomo. E questo incontro ci dice che quanto proviene dal cammino religioso umano, e quanto proviene dalla vita stessa, dal pane e dal vino, sono benedizione, sono tracce di una presenza di Dio che è presenza che dice e fa il bene.

Non posso non accostare in questo tempo questa immagine di Melchisedek a quella che qualche commentatore ha indicato – nelle liturgie papali – come la ‘nuova liturgia dell’inchino’. Si tratta di un gesto significativo, che potrebbe aprire vie nuove di comprensione del servizio di chi presiede non per dominare ma per servire. E’ stato introdotto da Francesco, presentatosi come nuovo ‘vescovo di Roma’, sin dal momento del suo primo saluto: si è inchinato, lui il papa, per lasciarsi benedire, prima di offrire la sua benedizione, capovolgendo rituali secolari. Un gesto semplice ma dalle enormi potenzialità di cambiamento di stile. Francesco si è inchinato per ricevere una benedizione proveniente dalla preghiera e dalla vita dei presenti. Si è posto nell’attitudine di ricevere una benedizione proveniente dalla fatica, dal dolore, dalla speranza, dalla quotidianità e da tutti i fili che compongono il tessuto delle vite umane. In un altro incontro ha fatto poi silenzio di fronte ai giornalisti di diverse convinzioni e tradizioni religiose per dire, proprio nel silenzio, una benedizione (reciproca) che passa attraverso la vita. Un silenzio che apriva allo stupore di fronte al bene che insieme si riceve e si dona in ogni incontro dove l’altro non è percepito come nemico ma ospite da cui ricevere un dono e a cui offrire benevolenza. Non dovrebbe questo essere lo stile di ‘imparare a ricevere e dire il bene’ – uno stile evangelico – da testimoniare oggi nel tempo del pluralismo e delle preoccupazioni identitarie? La testimonianza mite di accogliere la benedizione proveniente da ogni cammino e di scoprirne traccia nelle cose portatrici di una parola di bene?

Il gesto di Melchisedek, gesto magnifico di ospitalità, ci parla di un modo di intendere proprio le cose, gli elementi del vivere quotidiano, come segni di benedizione: pane e vino sono rinvio a cogliere in ciò che offre sostentamento ogni giorno, nella materialità delle cose, la traccia di una benedizione che viene dal Dio dell’alleanza e della creazione. E il suo gesto di sacerdote pagano, può essere indicazione di come in tutti i cammini religiosi, nelle tradizioni e nelle sapienze aperte all’altro e all’oltre, sia da accogliere una benedizione che conduce ad incontrare il Dio della creazione e dei cammini umani, presente con il soffio del suo Spirito come benedizione nei percorsi religiosi dell’umanità.

Una parola: “Voi stessi date loro da mangiare”. E’ la parola di Gesù nell’episodio della condivisione dei pani. Gesù risponde ai dodici che gli dicono: “congeda la folla… per trovare cibo, qui siamo in una zona deserta”. Nel deserto Gesù parlava del regno di Dio e guariva – dice Luca. E in quel deserto si fa portare i pochi pani e pesci, “recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”.  Li dava perché essi li distribuissero. Coinvolge i suoi in una distribuzione in cui comprendere la responsabilità nel dare da mangiare nonostante la pochezza di ciò che si ha, e per scoprire la fecondità della condivisione. Gesù invita i suoi a dare essi stessi da mangiare, a farsi responsabili di una distribuzione che non è esito di una grande organizzazione o di manifestazione di efficienza basata sul denaro che tutto può comprare. Si basa piuttosto sulla povertà, sul coraggio di distribuire ciò che si ha: i cinque pani e due pesci. Proprio nella loro povertà e mancanza di mezzi Gesù scorge la fessura attraverso la quale si può generare un dono, un percorso di gratuità.

I quattro verbi usati da Luca – prese, li benedisse, li spezzò, li diede… – sono passaggi importanti perché sono i medesimi che ritornano quando viene narrato da Luca il gesto di Gesù nell’ultima cena. La comunità primitiva vi scorge così l’annuncio dell’eucaristia. Il pane spezzato è annuncio di una presenza che si dona, nella concretezza e nella totalità dell’esistenza perché si possa partecipare della sua vita. Così ancora il gesto dello spezzare il pane sarà momento di rivelazione per i due di Emmaus nel loro cammino: lo riconobbero nello spezzare il pane. Non è un gesto chiuso in una sfera cultuale, ma gesto della quotidianità: rinvia alla vita e alla possibilità di incontrare il Risorto lì dove si spezza il pane dell’esistenza, dell’impegno, della solidarietà. Dentro a questo gesto sta anche un messaggio sullo sguardo di Gesù: la sua prima preoccupazione era l’annuncio del ‘regno di Dio’, ma nel suo agire il regno di Dio si rende vicino in una attenzione concreta alle persone, alle necessità concrete, nella completezza della loro vita. Il bisogno di cura, il pane, la possibilità di vita. Non solo una dimensione della vita, ma tutto, a partire dalle cose immediate. Per Gesù è importante la vita in tutte le sue dimensioni, non rifugge la corporeità. Il suo dono è il suo corpo, per comunicare una vita che prende con sé tutto l’umano.

Infine un ricordo: “Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: Il Signore Gesù, nelal notte in cui veniva tradito prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse:…”. La testimonianza di Paolo nella prima lettera ai Corinzi è il testo più antico che riporta le parole di Gesù nell’ultima cena e con esse il ricordo di quell’ultimo gesto con i suoi nel quadro della cena pasquale. Paolo richiama questa ‘memoria’ per dire il suo rimprovero ad una comunità in cui le differenze sociali portavano a non attendersi gli uni gli altri per mangiare insieme e per ripetere il gesto di Gesù. Paolo richiama ad un atteggiamento che sgorga dall’eucaristia e deve segnare la vita comune: ‘Aspettatevi gli uni gli altri’. Ogni momento che ricorda l’ultima cena, ogni eucaristia non può svolgersi come momento di esclusione, ma deve ritornare sempre a quella cena, a quel momento in cui tutti furono accolti fino alla fine. Lo spezzare il pane e bere insieme il calice era stato vissuto da Gesù in riferimento a tutta la sua persona, alla sua vita e indicava una strada. Non un nuovo rituale, ma un gesto che rinviava alla vita stessa come liturgia. Lì si attua una rottura radicale della logica della violenza e della vittima sacrificale: Gesù offe il suo corpo, la sua vita liberamente in fedeltà ad un amore che non viene meno di fronte al rifiuto e alla condanna. E’ scelta che apre ad un culto nuovo in cui l’esistenza stessa diviene luogo dell’incontro con Dio.

Il rischio che viviamo oggi è ridurre il ricordo del corpo e sangue di Cristo ad una dimensione cultuale, talvolta magica, il rischio di considerare l’eucaristia quale oggetto di venerazione, quasi fosse una ‘cosa’, sganciata dalla vita di Gesù e dalla sua chiamata a seguirlo, senza coglierne la portata di comunicazione e coinvolgimento per la nostra vita. Il ricordo della cena richiama all’accoglienza che si attua o meno nel mangiare insieme o nell’escludere dalla tavola. Per la tavola dove sono seduti o esclusi interi popoli della terra, così come per le nostre tavole l’eucaristia rimane sfida e provocazione. Fa uscire da una religiosità disincarnata e richiama ad una fede vissuta nel coinvolgimento di un corpo, cioè di una vita in relazione, che si comprende come dono.

Alessandro Cortesi op

Ss.Trinità – anno C – 2013

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(William Congdon, La Trinità)

Prov 8,22-31; Sal 8; Rom 5,1-5; Gv 16,12-15

In una scena del film Decalogo – 1 (1988) del regista polacco Kieslowski (http://youtu.be/UJtaztcliys) una mamma dice al suo bambino “Dio esiste… è molto semplice se ci credi”. Il bambino stupito e incuriosito allora le chiede: “E tu ci credi che Dio esiste?… Chi è? Lo sai?”
Lei rimane in silenzio e lo guarda, poi lo avvolge con le sue braccia e lo stringe a sè, gli accarezza i capelli: “Dimmi come ti senti adesso”.
Il bambino risponde: “Ti voglio bene”.
“Esatto – gli dice la madre – e Lui è questo”.
Dio come un abbraccio. Dio come presenza che nel silenzio si fa sentire e comunica il suo voler bene  è immagine di Dio come Amore che si dona e genera reciprocità.

Ha senso celebrare una festa che fa puntare lo sguardo sul volto di Dio se ci rendiamo disponibili a ricominciare ad apprendere modi nuovi di parlare di Lui, a lasciarci cambiare dalla sua Parola che dovrebbe piegare le nostre parole e cambiare tutto il nostro vivere. Tre parole tra le letture di questa festa possono accompagnarci ad accogliere il comunicarsi di Dio come presenza dono che reca in sé la radice di ogni comunione e di ogni amore.

La prima parola compare nella prima lettura ed è una parola insolita: ‘giocare’: “giocavo davanti a lui in ogni istante”. La pagina dei Proverbi parla infatti di Dio come presenza in relazione. Dio non è chiuso in una solitudine appagata, ma si comunica e fa spazio ad altro da sé: le cose, la creazione. Il suo agire è descritto come un percorso di attenzione e di cura. Tutta la sua fatica sta nel porre un mondo bello, un cosmo, dove sia resa possibile l’esperienza della bellezza. Di Dio si può parlare pensandolo nell’atto di una comunicazione di bellezza. Di lui si può trovare traccia in tutti i frammenti di bellezza disseminati, in ogni cosa bella che si contrappone a ciò che è perdita, negazione, abbrutimento, nelle cose e nella vita delle persone.

Come la bellezza è inutile, così anche la relazione. Dio non è solo, ci dice questa pagina, ma si comunica in una parola e in un soffio. La sua parola è indicata come sapienza, presenza quasi personificata, descritta nella figura di un architetto ed in quella di una bambina che gioca e si diletta mentre Dio organizza il creato. Come architetto che immagina e lascia libertà alla propria fantasia creativa, così la sapienza con cui Dio si comunica nelle cose è comunicazione capace di creatività. E come una bambina è la sapienza che sta accanto a lui e che l’accompagna. Dio non è chiuso nella solitudine ma è vita in relazione.

Anche il gioco come la bellezza, è tra le ‘cose inutili’ della vita. Ma forse proprio per questo compare in questo testo come esperienza in cui scoprire un aspetto del volto di Dio. Il Dio che sa giocare come bambino è il Dio delle cose gratuite, il Dio che sa perdere tempo e lasciarsi tutto prendere nella gratuità del gioco. Come i bambini, catturati dalla magia di vicende immaginarie o dalla fantasia che trasforma semplici pezzi di legno in mirabolanti strumenti che trasfigurano tutta la realtà. Come i bambini che nel gioco costruiscono complesse storie insieme immaginandosi personaggi di altri mondi e faticano ad abbandonare i loro giochi quando sono chiamati all’ora di pranzo e della cena. Come i bambini che nel gioco imparano a rapportarsi scoprendo in chi condivide dei compagni indispensabili e realizzando sintonie meravigliose. Quanto tempo ‘perso’ nei giochi dell’infanzia ma anche nei giochi dell’età adulta è tempo ricordato con nostalgia, con piacere  profondo e con la consapevolezza che è stato tempo pieno e di scoperta di cose essenziali.

Il giocare dei bambini, quest’esperienza così determinante per la crescita e nello stesso tempo così lontana dalle programmazioni e dalla strutturazione di contenuti e modalità di apprendimento è un grande riferimento per comprendere qualcosa di Dio. Il Dio del gioco è il Dio che sa gioire di ciò che non produce, di ciò che non è calcolato sull’efficienza. Gioisce della relazione e della gratuità che il gioco reca sempre con sé.  Il gioco, esperienza di libertà e di piacere, esperienza che scardina le logiche del dovuto, di quella fissità che rende ostici e indigeribili i discorsi religiosi. Uno dei maggiori teologi contemporanei Jürgen Moltmann ha dedicato una sua opera a riflettere proprio sul gioco (Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, ed. Queriniana Brescia 1988), come la caratteristica di Dio ma anche come esperienza di liberazione e di scoperta delle profondità della vita umana.

“Ci si libera nel gioco, e cioè giocando, dalla pressione dell’attuale sistema di vita e ridendo si riconosce che le cose non devono stare così come stanno e come viene asserito da tutti che così devono stare” (ibid. 25). Il gioco ha una portata eversiva nella vita umana ed apre a percorsi di liberazione. “Per questo la creazione è un gioco di Dio, un gioco della sua sapienza senza fondo e origine. Essa è lo spazio per il dispiegamento della magnificenza di Dio” (ibid. 32). Il Dio che crea non è solamente un Dio proteso a produrre, a programmare, a costruire come Deus faber, ma è il Dio poeta, che si apre a comunicare se stesso, alla gratuità del dono e della gioia dell’incontro, all’esistenza con gli altri. E questo dice anche una possibile immagine di umanità, in cui la chiamata ultima è scoprirsi in relazione, dove la persona “si rallegra della grazia che gli dà tutto gratuitamente e spera in un nuovo mondo in cui tutto si dà e si ha gratuitamente” (ibid. 54)

Una seconda parola è ‘amore versato’: “L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito santo che ci è stato donato”. Un volto di Dio comunione apre a considerare come la nostalgia insita nel cuore umano, il desiderio di comunione costituisce un luogo in cui accogliere la chiamata fondamentale alla relazione che è di per sé esperienza aperta ad una dimensione fontale. Dio che si comunica nell’umanità di Gesù e nel dono dello Spirito è Dio relazione. La sua identità più profonda può essere solo evocata con immagini come la danza di amore, la circolarità di sguardi, l’abbraccio che unisce o con l’immagine appunto del darsi, del ‘versare’. Paolo con linguaggio appassionato presenta la vicenda che ci coinvolge: lo Spirito è stato effuso, versato nei nostri cuori. Ci sono risorse immense di comunicazione nel cuore umano e queste trovano la fonte in colui che è presenza dono, nella relazione che è costitutiva dell’esistenza di Dio stesso e dell’uomo.

Una terza parola è ‘guida’: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera”. E’ consolante pensare che Gesù non ha offerto ai suoi e a noi definizioni e possessi. Ha invece aperto strade, ha indicato percorsi di vita che devono rimanere aperti in ogni momento e sono quindi apertura di speranza. Per tutti. Gesù ha aperto all’ascolto da attuare in modi sempre nuovi. Suggerisce come la vita si definisce come cammino al seguito di una guida e si tratta di inseguire qualcuno che precede: lo Spirito guida e accompagna nella via e verso la verità tutta intera. Per il IV vangelo via e verità non sono qualche cosa, ma sono qualcuno: via è Gesù come senso più profondo della nostra esistenza. E di lui, e del suo vangelo non tutto è accolto pienamente e compreso e vissuto. La sua è stata esistenza per gli altri nella promessa di una esistenza insieme, nell’offerta d una comunione, Gesù ha così reso vicino nei suoi gesti ospitali l’ospitalità, l’accoglienza e la relazione come tratto essenziale del volto di Dio. Ma non sono questi i tratti che rendono anche gli uomini e le donne più umani? Vivere una festa in cui pensare al volto di Dio come relazione e amore di dono e reciprocità aperta rinvia a scoprire la via per realizzare ogni giorno la fatica di diventare più umani, capaci di gioco, di gratuità, di relazione.

Alessandro Cortesi op

Pentecoste – anno C – 2013

DSCF2226At 2,1-11; Sal 103; Rom 8,8-17; Gv 14,15-26

“E tutti furono colmati di Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue”. Prima di parlare dello Spirito santo la comunità dei credenti in Gesù vive l’esperienza dello Spirito. Prima di esserci una parola c’è una vita. E’ un’esperienza interiore, che trasforma e cambia. Così dello Spirito è difficile dare definizioni: si possono piuttosto indicare le tracce del suo agire. Lo Spirito è indicato con immagini che rinviano oltre e fanno simbolo: come il soffio, il fuoco, la forza. Negli Atti è evidenziato un effetto del sua presenza silenziosa e nascosta nei cuori degli apostoli dopo la Pasqua: ‘cominciarono a parlare’. E il parlare è ‘in altre lingue’, ma è precisato che ognuno comprendeva nella propria lingua ciò che veniva detto: si tratta non tanto di una manifestazione stupefacente e miracolosa, quanto di un parlare capace di comunicare con altri lontani e diversi.

L’esperienza dello Spirito è accostata all’evento della parola, una parola coraggiosa, che sfida le chiusure e le paure e rende possibile la comunicazione nella diversità. Parlare in modo che ciascuno possa comprendere nella propria lingua è quel miracolo umano dell’intendersi superando le distanze, facendo incontrare le differenze, abbattendo i muri dell’incomprensione. E’ l’esperienza che genera sempre meraviglia e stupore quando accade – anche tra chi parla la medesima lingua e vive la fatica di comunicarsi parole autentiche. Il cuore umano vive la nostalgia di trovare intesa, armonia e unità e sa anche tutta la difficoltà di realizzare questo. Il comunicare in lingue diverse dice che questa unità non è imposizione, non dominio di qualcuno sugli altri, non è parola urlata che s’impone e fa tacere le parole diverse. Ma è possibilità di passaggio di parola che viene accolta e in tale ospitalità apre spazi al coabitare insieme di volti diversi. Non più stranieri e divisi ma interrelati insieme da una parola significativa. L’esperienza dello Spirito della prima comunità è avvertita come forza che viene dall’alto, vento forte e fuoco, che apre a comunicare e a fare comunità.

“Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura ma avete uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abba Padre”

L’esperienza dello Spirito è accostata da Paolo ad un’esperienza di libertà: è un modo di intendere il rapporto con Dio non secondo le modalità di una religione dell’autorità e del sacrificio che lega e rende schiavi, ma secondo un affidamento nella relazione in cui scoprirsi innestati in un incontro di accoglienza e cura. ‘Abba Padre’ è grido di una presenza interiore, accolta e che apre a orizzonti nuovi di relazione, apre ad una comunione che ci riconduce all’origine e al senso dell’esistenza. L’esperienza del credere è allora incontro: non un percorso di ascesa di conoscenze, non un programma di ascesi, e nemmeno un metodo di preghiera o di pratica per raggiungere la divinità. Il credere è lasciare spazio ad un dono di presenza, ad un respiro che penetra e reca vita in ogni ambito: si può solo ricevere, come aria, soffio, ed apre alla libertà. Non schiavi ma liberi: dove ci sono percorsi di liberazione da ogni forma di schiavitù lì c’è lo spirito di Dio che mette in relazione, che fa entrare nel credere come esperienza di gratuità e gratitudine, come incontro con l’Abba, il Tu amante che ha cura dei suoi figli.

“Lo Spirito… vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”

Due grandi azioni dello Spirito sono ricordate in queste parole di Gesù poste dall’autore del IV vangelo nei discorsi dell’ultima cena: insegnare e ricordare. Lo Spirito genera un duplice ricordo, uno rivolto al passato e uno rivolto al futuro. E’ ricordo di Gesù, di quello che ha fatto e ha detto. Ad una cosa sola i cristiani sono chiamati: essere testimoni dello stile di Gesù, in particolare di essersi svuotato nella sua vita per vivere fino in fondo un’esistenza rivolta verso… nell’ essere uomo per gli altri. L’annuncio dello spirito è collegato al richiamo sull’unico comandamento dell’amore. Ed è anche un ricordo rivolto al futuro: è profezia, ricorda che  la presenza di Gesù, il Risorto, non viene meno, ma rimane e accompagna verso un fine che non sarà di solitudine e abbandono, ma di incontro e di comunione. C’è una seconda azione dello Spirito: è quella di insegnare. E’ quanto viene espresso anche con le parole: “lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,13). Il IV vangelo la verità non è una conoscenza intellettuale da comprendere con la mente, è piuttosto accoglienza della persona di Gesù, del vangelo, nella propria vita e comunione con lui.

Vorrei collegare questi spunti di lettura ad alcune situazioni che viviamo:

Siamo oggi attoniti spettatori di una violenza generalizzata e diffusa nei diversi livelli della nostra vita, nelle guerre e nell’uso delle armi a livello dei rapporti tra popoli, e nel livello interpersonale nella violenza contro i più deboli, contro le donne, contro chi è percepito come diverso: gli stranieri, gli omosessuali, i disabili. La violenza è negazione della parola che conduce a rispettare, comprendere, riconoscere l’altro e a cercare vie di comunicazione. La violenza è alimentata laddove la parola diviene strumento di offesa e svuotata del suo significato. Lo Spirito è presenza che spinge a creare ponti là dove c’è incomunicabilità e sospetto. E’ presente lo spirito laddove la parola fa comunicare le persone, e le parole non sono usate in modo ipocrita e nascondono ingiustizie e sfruttamento dei poveri. E’ presente lo Spirito in tutti i percorsi umani in cui con fatica si cerca di mettere in comunicazione le diversità, laddove si opera per accogliere le differenze. Nella sfida rappresentata oggi dall’incontro tra popoli, persone diverse con culture e religioni differenti si parla spesso di integrazione da attuare, ma forse ancor più è da cercare l’interazione che porta a riconoscere, accogliere, scambiare doni e camminare insieme con l’altro.

Lo Spirito è presente nei cammini di liberazione, nelle attese di una vita che non sia schiacciata delle diverse forme di schiavitù. Nell’epoca della ingiustizia globale tante sono le attese di liberazione. Spesso siamo incapaci di volgere lo sguardo alle attese di liberazione di popoli che stanno soffrendo: penso ai milioni di rifugiati e profughi della Siria, ai palestinesi che vivono nei territori occupati  la fatica quotdiana di vivere una vita dignitosa e reagiscono con la nonviolenza alle violazioni dei diritti, alle attese di liberazione di giovani e donne nei paesi arabi, a chi subisce situazioni di guerra in Nigeria, in Congo e altre zone dell’Africa. Ma anche più vicino a noi, nella crisi economica tanti si sentono schiacciati da una condizione di schiavitù che stritola le vite dei singoli delle famiglie. Lo Spirito è presente in ogni attesa di libertà e genera cammini di libertà. Vivere nello Spirito non dev’esser emotivo di fuga dalla solidarietà con chi soffre, ma è oggi provocazione a rendersi vicini, a ‘stare presso’ dicendo la presenza del Consolatore nelle situazioni di oppressione, per aprire speranze di libertà, per gridare insieme Abba e per accompagnare in cammini di giustizia.

Lo Spirito è forza interiore per cammini comuni, condivisi, di una chiesa che sia capace di memoria e capace anche di profezia. Memoria: per non inseguire altri richiami ma rimanere fedele al centro della sua vita e della sua missione la presenza di Gesù, la sua vita, il suo stile. Profezia per non rinunciare mai ad indicare un orizzonte più grande della vita, un ultimo a cui ogni momento della nostra vita è diretto e sarà comunione e pienezza che raccoglie i frammenti delle nostre esistenze e raccoglierà anche ogni attesa ogni sogno, così come ogni piccolo gesto che ha costruito percorsi di incontro, di dono, di comunione.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno C – 2013

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At 1,1-11; Eb 9,24-10,23; Lc 24,46-53

Il racconto dell’ascensione posto al termine del vangelo di Luca, e ripreso all’inizio degli Atti degli apostoli, è un modo altro di annunciare la risurrezione del Signore Gesù. Gesù ‘viene portato in cielo’ dice il testo di Luca e ‘fu elevato in alto’. Si attua un separazione ma anche una promessa: ‘verrà’. Gesù non abbandona i suoi ma la sua presenza si fa benedizione in modo nuovo. “Mentre li benediceva si staccò da loro… E’ un ‘dire il bene’ che diviene sorgente di grande gioia e di un nuovo movimento di benedire, dei suoi.

“Perché state a guardare il cielo?” E’ la domanda rivolta agli apostoli e posta sulla bocca di ‘due uomini in bianche vesti’. Questi richiamano i due uomini ‘con abiti sfolgoranti’ nella narrazione della visita al sepolcro, quegli uomini che, presentatisi alle donne impaurite, dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto” (Lc 24,4-6). In fondo si tratta della medesima esperienza. Quei messaggeri che danno l’annuncio del vangelo della risurrezione invitano ad orientare in modo nuovo la ricerca di Gesù. E’ una ricerca che non deve rimanere chiusa nell’orizzonte della nostalgia e della morte, né deve restare prigioniera di un passato che va custodito sì, ma scoprendone la fecondità. E forse proprio per questo è affidata alle donne, custodi dei passaggi della vita e di sguardi capaci di novità. Ma è anche una ricerca di lui che non deve rimanere fissa nel guardare altrove, verso un cielo lontano e irraggiungibile rispetto a questa terra. E per questo gli apostoli sono scossi da una parola che li distoglie da una fissità che impedisce loro di mettersi in cammino, di seguire Gesù nel suo esodo.

La provocazione è a vivere nel paradosso di una assenza che racchiude un segreto di fedeltà e di accompagnamento. Il credere cristiano sorge da un vuoto, da un sepolcro lasciato vuoto, e da un’assenza che implica attesa e ricerca. Così è nell’esperienza così umana del credere custodita nella fragilità dell’amore interrotto dal passaggio di una morte, di un’assenza improvvisa. Traccia del credere in Gesù vivente che non ha evitato la morte ma vi è entrato trasfigurandola. Nessuno che ha amato si dimentica di volti e voci familiari e nessuno che ha amato tralascia una sola traccia del ricordo sapendo bene come quel tu continua ad essere vicino in modo unico, nell’interiorità di un cuore che ne ha dato spazio nella vita ma anche nel sopraggiungere improvviso di una parola, di un sorriso, di un tono di voce, oppure in un gesto, ma anche nelle sfumature di un tramonto o nel profumo di fioriture a primavera. Rinvio ad un volto e ad una presenza viva, non trattenibile con l’abbraccio pur cercato, ma più reale delle cose che si toccano. Le parole degli ‘uomini in vesti bianche’, portatori di una parola che viene da Dio, sono parola di speranza perché dicono che Gesù non è rimasto prigioniero della morte, ma è il vivente.

D’ora in poi la sua presenza sarà da accogliere in modo nuovo e rinvierà sempre oltre. Il lasciarsi incontrare da lui si attuerà di fronte a volti, nelle situazioni e nei luoghi dove i segni della sua vita continuano. E continuano in modo inatteso, portati da chi forse nemmeno lo conosce: soprattutto dove si attua il gesto della prossimità, che Gesù, ed è il cuore del vangelo di Luca, aveva indicato scorgendolo nel fare di un eretico, uno straniero in cui aveva colto l’esempio di una testimonianza in cui si racchiude tutto il suo annuncio e la sua stessa vita. Con la sua assenza Gesù genera una comunità che dovrà rimanere in ricerca, sempre povera e mai appagata di certezze e di ricchezze, e sempre tesa a scorgerne il volto attraverso i segni nel presente della storia. Ritornando alla Parola, scoprendo l’eucaristia nei gesti della vita, scorgendo le tracce del passare di Gesù nelle epifanie di volti che testimoniano quello che lui ha vissuto.

La sua assenza si fa così presenza nuova, non racchiusa in un cielo fisico (il luogo lontano dalla terra, il lassù contrapposto al quaggiù), e neppure nel luogo di una divinità distante dagli umani: il cielo contrapposto alla terra. Il salire di Gesù nella sua vita, già nel salire verso Gerusalemme, verso la Pasqua, è via di incontro, uno stare presso il Padre ed un vivere una solidarietà fino alla fine nel suo essere uomo per gli altri. Il suo ‘salire’ ha segnato la terra ed ha a che fare con la terra. Cielo e terra non sono distanti: ma la terra è divenuta luogo di cielo che permea la vita, le cose e l’agire. E nel cielo, luogo di Dio, è portata questa terra proprio nell’evento della risurrezione di Gesù.

Lo sguardo di coloro che desiderano incontrare Gesù che è stato ‘portato su’, è chiamato a rivolgersi in giù e a piegarsi a leggere i segni del suo agire su questa terra. Una ‘terra’ chiamata a divenire ‘cielo’ nella fatica e tra le contraddizioni di questo passaggio. La risurrezione di Gesù apre un cammino che è un salire insieme perché per lui la vita non è solitudine ma incontro, e nel suo essere portato su annuncia un ‘salire’ che ha i contorni di un salire insieme, di una terra da scorgere nel respiro del cielo, e di un cielo da solcare nel portare tutta la concretezza e la quotidianità di gesti e scelte della terra.

Mi chiedo in quali modi accogliere oggi questo invito a non fissare il cielo.

“Riceverete la forza dallo Spirito santo che scenderà su di voi”. L’invito a non rimanere chiusi in una ricerca senza vita, e a non rimanere fissati in uno sguardo senza direzione, si accompagna alla promessa di una potenza dall’alto, lo Spirito, colui che il Padre ha promesso, e all’invio ad essere testimoni: “Di questo voi siete testimoni” … “e mi sarete testimoni…”: in questo si sintetizza la vita del credente. Troppo spesso associamo la riuscita della vita alla gratificazione di risultati o nel guardare a esiti del nostro agire. Gesù ci chiede innanzitutto la testimonianza. L’essenziale forse da riscoprire oggi, nel tempo dell’assenza di Dio, è testimoniare la ricerca del risorto, la sua presenza che non s’impone ma si fa vicina nello svuotarsi, nel vuoto di una vita donata.

Testimoniare significa anche ‘interferire’: ce lo ricorda Luigi Ciotti a vent’anni da una esplicita denuncia di Giovanni Paolo II contro le mafie e la falsa religiosità dei mafiosi (La Stampa, 9 maggio 2013): “Interferire vuol dire esercitare la parresìa, quel ‘parlare chiaro’ che è il contrario dell’ipocrisia, della parola che nasconde e che confonde. ‘Laddove viene messa a rischio la dignità delle persone, e laddove viene umiliato, soffocato, un progetto di giustizia, la Chiesa ha il dovere di parlare’ (…) Ma, prima ancora, interferire significa parlare con la propria vita e le proprie scelte, lasciare che siano i nostri comportamenti a testimoniare il nostro desiderio di giustizia e la ricerca di verità (…) Ma interferire è compito anche di tutta la comunità cristiana. La fede, occorre ribadirlo, non è un salvacondotto, non ci esonera dalle responsabilità della vita sociale e civile. Credere in Gesù Cristo non comporta solo dare accoglienza ai fragili e ai bisognosi. Implica saldare lo slancio del cuore con l’impegno affinché siano riconosciuti i diritti di tutti, e quindi siano rimosse le cause che generano la povertà e l’ingiustizia. Se manca questa tensione ‘politica’ – questo desiderio d’interferire, appunto – la dimensione spirituale rischia di ripiegarsi in se stessa, diventare un percorso di sterile edificazione personale, un sedativo di quelle inquietudini che rendono viva una vita. (…) Ecco allora il bisogno d’interferire, sostituendo l’egoismo con la responsabilità, l’immagine con la sostanza, l’indifferenza con la coerenza. Rosario Livatino che – amo credere – ispirò quel giorno la denuncia del Papa, lo aveva sintetizzato in modo formidabile: ‘Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili’.”

Alessandro Cortesi op

VI domenica di Pasqua – anno C – 2013

DSCF3753At 15,1-29; Sal 66; Ap 21,10-23; Gv 14,23-29

Il capitolo 14 del IV vangelo inizia con una parola di dolcissima consolazione: “Non sia turbato il vostro cuore . Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: ‘Vado a prepararvi un posto?’ Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado voi conoscete la via”.

Molte sono le dimore: questo è la promessa di Gesù, e questo è il sogno di Dio, dimorare insieme. Molte dimore dove c’è spazio per un rapporto non di individui soli davanti a Dio, ma di comunione al plurale, di chi ha amato, insieme, con Dio e tra di noi. Questa è la comunione di tante dimore, e di tanti posti. Per scoprire che sono innumerevolmente di più dei posti limitati di chi pretende di avere domini esclusivi o di chi non si è lasciato cambiare dall’ampiezza di orizzonti di Gesù. Così il credere in Gesù ha come promessa l’essere presi insieme: “vi prenderò con me”. Il lasciarsi prendere, afferrare da lui. Non una azione che viene da noi, ma un lasciarsi prendere per una vita insieme. Non è forse il sogno di ogni amicizia e amore per chi ha avuto la fortuna di scoprire almeno una volta nella vita l’esperienza dell’essere pensati, presi e voluti su questa terra?

Segue la domanda di Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”. E’ particolarmente bella questa dichiarazione di non sapere e l’interrogativo che segue sulla via da seguire per poter accogliere la promessa di Gesù. Ci dice in fondo che solo vivendo la debolezza e la fragilità del non sapere è possibile aprirsi ad un percorso di vita autentica nell’esistenza di una chiesa preoccupata non di altro se non di una relazione con il Signore Gesù. Gesù indica a Tommaso una via che non è una teoria o un metodo: la via è una persona, lui stesso è la via. La fede è incontro. Ed è via rivolta ad un incontro più profondo, ad una comunione con il Padre. Condivisione è un altro nome del credere: condividere una medesima vita che inizia laddove c’è condivisione sin da ora. Gesù si manifesta come uomo tutto dedito a Dio e la sua stessa vita è luogo in cui è narrato il volto del Padre. “Signore mostraci il Padre e ci basta” dice Filippo. “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Credere diviene un cammino, un percorrere una via di incontro, una apertura del cuore ad ascoltare Gesù e la sua parola, a lasciare che la sua vita abbia spazio di accoglienza ed entri nella nostra. Il dialogo con Tommaso e Filippo si conclude ponendo la questione del credere come movimento di incontro con Gesù che trasforma la vita: “Chi crede in me anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre”. Il credere apre una vita trasformata, non più la stessa. Cambiata non in aspetti esteriori e superficiali, ma cambiata dentro, profondamente, nel modo di vedere le cose, gli altri, di intendere ciò che è più importante.

A questo punto è posto l’annuncio del dono dello Spirito. Gesù parla dello Spirito come di presenza che non fa rimanere soli e vince la solitudine di un distacco e di una tristezza che prende i discepoli. “Se mi amate osserverete i miei comandamenti e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi”.

Lo Spirito sta in rapporto con la ‘verità’, che, per il IV vangelo, non è notizia, conoscenza, qualcosa da sapere, ma è qualcuno da incontrare: verità è Gesù che offre con la sua vita il senso dell’esistenza come dono e servizio. Lo Spirito è il dono che vince la paura e l’esperienza più dolorosa, la solitudine, la sensazione di non essere importanti per gli altri, di non contare per nessuno. Lo Spirito è qualcuno che prende con sé, difende, che abita dentro, che non lascia orfani, ma apre alla scoperta di essere amati come figli voluti e desiderati.

A questo punto l’altro Giuda domanda a Gesù come mai si è manifestato solamente ai discepoli e non al mondo? La pagina del vangelo di oggi è la risposta a tale domanda. Giuda manifesta la posizione di chi è preoccupato di un’affermazione di fama e di espansione, di grandi realizzazioni di consensi e di adesioni.

Le parole di Gesù riportano l’accento su una relazione che si realizza nel segreto dei cuori. C’è un dimorare di presenza nel quadro dell’amore ricevuto e donato: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Gesù delinea così il profilo di chi crede, richiamando ad alcuni atteggiamenti fondamentali: essi sono l’amore per Gesù, l’ascolto della sua parola e una vita che lascia abitare e dimorare la presenza di Dio. E’ un profilo che accentua aspetti interiori e profondi e che dicono riferimento ad una comunione che inizia ad attuarsi sin d’ora nella vita. L’atmosfera del discorso è quella di una partenza e di un saluto ultimo che Gesù lascia ai suoi. Dimorare è vivere insieme in un ascolto della Parola e nella relazione che apre a vedere il Padre incontrando Gesù. E’ lui la via: nel modo in cui lui ha vissuto sta il segreto di un rapporto con il Padre che non si esaurisce in una appartenenza esteriore, ma chiede di coinvolgere l’interiorità. Il percorso del credere non può essere misurato su dimensioni esteriori, non può essere ridotto ad appartenenze di tipo ideologico. E’ ben più profondo, è nascosto nei segreti dei cuori. Questa relazione con Gesù e con il Padre è resa possibile dalla presenza dello Spirito, il soffio, presente nella creazione e presente nella Parola, come di chi ‘rimane presso’, rende possibile l’amore e apre ad una comunione.

Gesù parla ancora dello Spirito come avvocato, Paraclito,  e indica due azioni proprie e tipiche dello Spirito: “egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto”. In questo testo il IV vangelo indica lo Spirito come una presenza personale, ‘egli’. E’ un ‘tu’, presenza interiore e soffio di vita che apre a respirare. A lui sta il ricordare e insegnare. Ricordare è ritornare in modo sempre nuovo a quello che Gesù ha fatto  e detto, è un movimento che fa volgere al passato. Il credere sorge nel ricordare Gesù. Ma c’è anche un insegnare, rivolto al presente e al futuro: lo Spirito insegna perché guida a scoprire come il ricordo di Gesù apre a traduzioni nuove. Lo Spirito accompagna silenziosamente così a vivere nella storia scoprendo come il seguire Gesù si può attuare in ogni tempo in modi nuovi e diversi. Lo Spirito come presenza interiore trasforma i cuori e rende possibile l’amore: e va riconosciuto e inseguito nei segni del suo agire nelle sue visite improvvise e nel suo dimorare. C’è una chiesa dei cuori che va oltre le chiese visibili, che talvolta si riducono ad aggregazioni in cui non si lascia spazio alla linfa di comunione, di amore, di affidamento e di speranza. Ma il dono dello Spirito è esperienza della gratuità di Dio che vince il male e ci sorprende sempre con la sua novità.

Mentre scrivevo queste note ho avuto modo di leggere una intervista redatta iul mese scorso a Domenico Quirico, giornalista de La Stampa, di cui, ormai da molti giorni non si hanno notizie – da quando agli inizi di aprile si è recato in Siria per documentare con i suoi reportage la tragedia che lì si sta consumando nell’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale- e si teme per la sua vita, sperando in un suo ritorno. In questa intervista egli parla della sua esperienza di giornalista appassionato e convinto. Racconta esperienze in cui si è scontrato con il male del mondo, ma anche di momenti che l’hanno cambiato, di visite della grazia nel buio di situazioni di violenza, di malvagità e di guerra. Sono momenti inattesi che possono essere letti come la presenza dello Spirito che avvengono e irrompono proprio lì dove sembra non ci sia più nulla, dove tutto sembra distrutto e devastato dalla malvagità. I gesti di gratuità sono ricordo di Gesù, sono i segni della presenza dello Spirito che soffia nei cuori anche se non è esplicitato il suo nome, sono segni dell’ascolto della sua parola. (http://www.lastampa.it/2013/05/03/esteri/quirico-il-dolore-dell-uomo-va-condiviso-per-raccontarlo-Y01p7HwoLYIqhXe4HVXTwO/pagina.html)

“Se il suo lavoro l’ha messa di fronte al problema del peccato e della grazia, vorrei capire perché.

«Perché gli avvenimenti che ho attraversato mi hanno costretto a pormi delle domande, a fare certi ragionamenti. Mi hanno cambiato. Rimettendomi davanti alla domanda che l’uomo si fa da sempre: Dio esiste o no? La presenza della grazia e del peccato per me è la risposta a questa domanda. Così nell’atto totalmente gratuito di quei due ragazzi, che hanno salvato me e altre tre persone senza guadagnarci nulla, io ho visto la manifestazione della grazia. La prova dell’esistenza di Dio. Lì, così, in un giorno qualsiasi di un Paese africano, in una guerra tremenda, in un massacro senza luce, semplicemente, si è manifestata la grazia».

Come c’entra questo fatto con il suo cambiamento?  

«Credo che nel destino di ognuno ci sia uno strappo. C’è qualcosa che ci disarticola da ciò che eravamo e ci fa approdare a qualcosa di nuovo. Ecco – se posso dirlo – io in quella vicenda, ma non solo in quella, ho vissuto il mio personale strappo. Qualcosa è cambiato. Il mio rapporto con la vita, gli uomini, la quotidianità è completamente diverso».

In che senso?  

«È difficile da dire. Ma io ritrovo, o meglio cerco di ritrovare, in ogni posto in cui sono, il segno di quell’esistenza. La cerco negli uomini».

E ora che è tornato a casa, alla vita quotidiana?  «Non posso nasconderle un certo disagio. È una mancanza. Ma non dell’adrenalina. È piuttosto il non sentirmi al mio posto. Ognuno ha il suo compito: c’è chi racconta altro, come le vicende della società italiana. Io, per la conoscenza – se pur modesta – di quei posti, mi sento chiamato là. Dove, tra l’altro, mi è più facile riconoscere la grazia. Io non ho mai avvertito così concretamente presente Dio come in un luogo da cui sembra essere stato cacciato con violenza e furia».

Dove?

«Nella cattedrale distrutta di Mogadiscio. È un deposito di immondizia, polvere e letame. Là non ci sono più cristiani, o sono stati uccisi o sono scappati. E i poveri somali vivono in quello che resta della chiesa, tra i detriti. Ma in alto, nella navata scoperchiata, c’è un Cristo decapitato. Con le braccia spalancate. Accoglie tutto quel dolore. Mi sono detto: “Lui è ancora qui”. Ho pensato che in quel posto non c’era più niente, ma c’era tutto». (intervista di Alessandra Stoppa, “La Stampa” 3 maggio 2013)

 

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