Ss.Trinità – anno C – 2013
(William Congdon, La Trinità)
Prov 8,22-31; Sal 8; Rom 5,1-5; Gv 16,12-15
In una scena del film Decalogo – 1 (1988) del regista polacco Kieslowski (http://youtu.be/UJtaztcliys) una mamma dice al suo bambino “Dio esiste… è molto semplice se ci credi”. Il bambino stupito e incuriosito allora le chiede: “E tu ci credi che Dio esiste?… Chi è? Lo sai?”
Lei rimane in silenzio e lo guarda, poi lo avvolge con le sue braccia e lo stringe a sè, gli accarezza i capelli: “Dimmi come ti senti adesso”.
Il bambino risponde: “Ti voglio bene”.
“Esatto – gli dice la madre – e Lui è questo”.
Dio come un abbraccio. Dio come presenza che nel silenzio si fa sentire e comunica il suo voler bene è immagine di Dio come Amore che si dona e genera reciprocità.
Ha senso celebrare una festa che fa puntare lo sguardo sul volto di Dio se ci rendiamo disponibili a ricominciare ad apprendere modi nuovi di parlare di Lui, a lasciarci cambiare dalla sua Parola che dovrebbe piegare le nostre parole e cambiare tutto il nostro vivere. Tre parole tra le letture di questa festa possono accompagnarci ad accogliere il comunicarsi di Dio come presenza dono che reca in sé la radice di ogni comunione e di ogni amore.
La prima parola compare nella prima lettura ed è una parola insolita: ‘giocare’: “giocavo davanti a lui in ogni istante”. La pagina dei Proverbi parla infatti di Dio come presenza in relazione. Dio non è chiuso in una solitudine appagata, ma si comunica e fa spazio ad altro da sé: le cose, la creazione. Il suo agire è descritto come un percorso di attenzione e di cura. Tutta la sua fatica sta nel porre un mondo bello, un cosmo, dove sia resa possibile l’esperienza della bellezza. Di Dio si può parlare pensandolo nell’atto di una comunicazione di bellezza. Di lui si può trovare traccia in tutti i frammenti di bellezza disseminati, in ogni cosa bella che si contrappone a ciò che è perdita, negazione, abbrutimento, nelle cose e nella vita delle persone.
Come la bellezza è inutile, così anche la relazione. Dio non è solo, ci dice questa pagina, ma si comunica in una parola e in un soffio. La sua parola è indicata come sapienza, presenza quasi personificata, descritta nella figura di un architetto ed in quella di una bambina che gioca e si diletta mentre Dio organizza il creato. Come architetto che immagina e lascia libertà alla propria fantasia creativa, così la sapienza con cui Dio si comunica nelle cose è comunicazione capace di creatività. E come una bambina è la sapienza che sta accanto a lui e che l’accompagna. Dio non è chiuso nella solitudine ma è vita in relazione.
Anche il gioco come la bellezza, è tra le ‘cose inutili’ della vita. Ma forse proprio per questo compare in questo testo come esperienza in cui scoprire un aspetto del volto di Dio. Il Dio che sa giocare come bambino è il Dio delle cose gratuite, il Dio che sa perdere tempo e lasciarsi tutto prendere nella gratuità del gioco. Come i bambini, catturati dalla magia di vicende immaginarie o dalla fantasia che trasforma semplici pezzi di legno in mirabolanti strumenti che trasfigurano tutta la realtà. Come i bambini che nel gioco costruiscono complesse storie insieme immaginandosi personaggi di altri mondi e faticano ad abbandonare i loro giochi quando sono chiamati all’ora di pranzo e della cena. Come i bambini che nel gioco imparano a rapportarsi scoprendo in chi condivide dei compagni indispensabili e realizzando sintonie meravigliose. Quanto tempo ‘perso’ nei giochi dell’infanzia ma anche nei giochi dell’età adulta è tempo ricordato con nostalgia, con piacere profondo e con la consapevolezza che è stato tempo pieno e di scoperta di cose essenziali.
Il giocare dei bambini, quest’esperienza così determinante per la crescita e nello stesso tempo così lontana dalle programmazioni e dalla strutturazione di contenuti e modalità di apprendimento è un grande riferimento per comprendere qualcosa di Dio. Il Dio del gioco è il Dio che sa gioire di ciò che non produce, di ciò che non è calcolato sull’efficienza. Gioisce della relazione e della gratuità che il gioco reca sempre con sé. Il gioco, esperienza di libertà e di piacere, esperienza che scardina le logiche del dovuto, di quella fissità che rende ostici e indigeribili i discorsi religiosi. Uno dei maggiori teologi contemporanei Jürgen Moltmann ha dedicato una sua opera a riflettere proprio sul gioco (Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, ed. Queriniana Brescia 1988), come la caratteristica di Dio ma anche come esperienza di liberazione e di scoperta delle profondità della vita umana.
“Ci si libera nel gioco, e cioè giocando, dalla pressione dell’attuale sistema di vita e ridendo si riconosce che le cose non devono stare così come stanno e come viene asserito da tutti che così devono stare” (ibid. 25). Il gioco ha una portata eversiva nella vita umana ed apre a percorsi di liberazione. “Per questo la creazione è un gioco di Dio, un gioco della sua sapienza senza fondo e origine. Essa è lo spazio per il dispiegamento della magnificenza di Dio” (ibid. 32). Il Dio che crea non è solamente un Dio proteso a produrre, a programmare, a costruire come Deus faber, ma è il Dio poeta, che si apre a comunicare se stesso, alla gratuità del dono e della gioia dell’incontro, all’esistenza con gli altri. E questo dice anche una possibile immagine di umanità, in cui la chiamata ultima è scoprirsi in relazione, dove la persona “si rallegra della grazia che gli dà tutto gratuitamente e spera in un nuovo mondo in cui tutto si dà e si ha gratuitamente” (ibid. 54)
Una seconda parola è ‘amore versato’: “L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito santo che ci è stato donato”. Un volto di Dio comunione apre a considerare come la nostalgia insita nel cuore umano, il desiderio di comunione costituisce un luogo in cui accogliere la chiamata fondamentale alla relazione che è di per sé esperienza aperta ad una dimensione fontale. Dio che si comunica nell’umanità di Gesù e nel dono dello Spirito è Dio relazione. La sua identità più profonda può essere solo evocata con immagini come la danza di amore, la circolarità di sguardi, l’abbraccio che unisce o con l’immagine appunto del darsi, del ‘versare’. Paolo con linguaggio appassionato presenta la vicenda che ci coinvolge: lo Spirito è stato effuso, versato nei nostri cuori. Ci sono risorse immense di comunicazione nel cuore umano e queste trovano la fonte in colui che è presenza dono, nella relazione che è costitutiva dell’esistenza di Dio stesso e dell’uomo.
Una terza parola è ‘guida’: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera”. E’ consolante pensare che Gesù non ha offerto ai suoi e a noi definizioni e possessi. Ha invece aperto strade, ha indicato percorsi di vita che devono rimanere aperti in ogni momento e sono quindi apertura di speranza. Per tutti. Gesù ha aperto all’ascolto da attuare in modi sempre nuovi. Suggerisce come la vita si definisce come cammino al seguito di una guida e si tratta di inseguire qualcuno che precede: lo Spirito guida e accompagna nella via e verso la verità tutta intera. Per il IV vangelo via e verità non sono qualche cosa, ma sono qualcuno: via è Gesù come senso più profondo della nostra esistenza. E di lui, e del suo vangelo non tutto è accolto pienamente e compreso e vissuto. La sua è stata esistenza per gli altri nella promessa di una esistenza insieme, nell’offerta d una comunione, Gesù ha così reso vicino nei suoi gesti ospitali l’ospitalità, l’accoglienza e la relazione come tratto essenziale del volto di Dio. Ma non sono questi i tratti che rendono anche gli uomini e le donne più umani? Vivere una festa in cui pensare al volto di Dio come relazione e amore di dono e reciprocità aperta rinvia a scoprire la via per realizzare ogni giorno la fatica di diventare più umani, capaci di gioco, di gratuità, di relazione.
Alessandro Cortesi op
Corpo e sangue del Signore – anno C – 2013
Gen 14,18-20; Sal 109; 1Cor 11,23-26Lc 9,11b-17
Un gesto, una parola, un ricordo vivo. Tre raggi di luce da accogliere nelle letture di questa domenica per entrare nel significato di questa festa del corpo e sangue del Signore.
Un gesto: “Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole…”. Melchisedek è sacerdote del popolo gebuseo, rappresentante di una religione pagana presente in Canaan, e nei racconti di Genesi improvvisamente appare ad incrociare il cammino di Abramo non in modo minaccioso e ostile, ma con un gesto di benedizione. Il suo gesto racchiude un significato che provoca profondamente nel rapporto con altre religioni e tradizioni. Offre infatti pane e vino e benedice Abram. Non è infatti Abram, il profeta di Dio, il padre dei credenti, a benedire, ma Abram viene benedetto da un uomo del culto pagano. E Melchisedek gli offre pane e vino, elementi essenziali alla vita. Quei segni racchiudono il senso di ciò che è necessario e quanto è sovrabbondante e dà gioia, elementi fondamentali della vita nel contesto mediterraneo, il pane proveniente dal grano, cultura essenziale al nutrimento, e il vino che dà gioia nella convivialità. Recano in se stessi l’annuncio di una benedizione presente nella vita stessa, presente in tutte le forme religiose del vivere umano che si aprono ad un ‘oltre’ presente nella realtà. Nel profilo di Melchisedek si intravede un enigma ed una apertura: i suoi gesti evocano la dimensione religiosa insita nel cuore dell’uomo. E questo incontro ci dice che quanto proviene dal cammino religioso umano, e quanto proviene dalla vita stessa, dal pane e dal vino, sono benedizione, sono tracce di una presenza di Dio che è presenza che dice e fa il bene.
Non posso non accostare in questo tempo questa immagine di Melchisedek a quella che qualche commentatore ha indicato – nelle liturgie papali – come la ‘nuova liturgia dell’inchino’. Si tratta di un gesto significativo, che potrebbe aprire vie nuove di comprensione del servizio di chi presiede non per dominare ma per servire. E’ stato introdotto da Francesco, presentatosi come nuovo ‘vescovo di Roma’, sin dal momento del suo primo saluto: si è inchinato, lui il papa, per lasciarsi benedire, prima di offrire la sua benedizione, capovolgendo rituali secolari. Un gesto semplice ma dalle enormi potenzialità di cambiamento di stile. Francesco si è inchinato per ricevere una benedizione proveniente dalla preghiera e dalla vita dei presenti. Si è posto nell’attitudine di ricevere una benedizione proveniente dalla fatica, dal dolore, dalla speranza, dalla quotidianità e da tutti i fili che compongono il tessuto delle vite umane. In un altro incontro ha fatto poi silenzio di fronte ai giornalisti di diverse convinzioni e tradizioni religiose per dire, proprio nel silenzio, una benedizione (reciproca) che passa attraverso la vita. Un silenzio che apriva allo stupore di fronte al bene che insieme si riceve e si dona in ogni incontro dove l’altro non è percepito come nemico ma ospite da cui ricevere un dono e a cui offrire benevolenza. Non dovrebbe questo essere lo stile di ‘imparare a ricevere e dire il bene’ – uno stile evangelico – da testimoniare oggi nel tempo del pluralismo e delle preoccupazioni identitarie? La testimonianza mite di accogliere la benedizione proveniente da ogni cammino e di scoprirne traccia nelle cose portatrici di una parola di bene?
Il gesto di Melchisedek, gesto magnifico di ospitalità, ci parla di un modo di intendere proprio le cose, gli elementi del vivere quotidiano, come segni di benedizione: pane e vino sono rinvio a cogliere in ciò che offre sostentamento ogni giorno, nella materialità delle cose, la traccia di una benedizione che viene dal Dio dell’alleanza e della creazione. E il suo gesto di sacerdote pagano, può essere indicazione di come in tutti i cammini religiosi, nelle tradizioni e nelle sapienze aperte all’altro e all’oltre, sia da accogliere una benedizione che conduce ad incontrare il Dio della creazione e dei cammini umani, presente con il soffio del suo Spirito come benedizione nei percorsi religiosi dell’umanità.
Una parola: “Voi stessi date loro da mangiare”. E’ la parola di Gesù nell’episodio della condivisione dei pani. Gesù risponde ai dodici che gli dicono: “congeda la folla… per trovare cibo, qui siamo in una zona deserta”. Nel deserto Gesù parlava del regno di Dio e guariva – dice Luca. E in quel deserto si fa portare i pochi pani e pesci, “recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”. Li dava perché essi li distribuissero. Coinvolge i suoi in una distribuzione in cui comprendere la responsabilità nel dare da mangiare nonostante la pochezza di ciò che si ha, e per scoprire la fecondità della condivisione. Gesù invita i suoi a dare essi stessi da mangiare, a farsi responsabili di una distribuzione che non è esito di una grande organizzazione o di manifestazione di efficienza basata sul denaro che tutto può comprare. Si basa piuttosto sulla povertà, sul coraggio di distribuire ciò che si ha: i cinque pani e due pesci. Proprio nella loro povertà e mancanza di mezzi Gesù scorge la fessura attraverso la quale si può generare un dono, un percorso di gratuità.
I quattro verbi usati da Luca – prese, li benedisse, li spezzò, li diede… – sono passaggi importanti perché sono i medesimi che ritornano quando viene narrato da Luca il gesto di Gesù nell’ultima cena. La comunità primitiva vi scorge così l’annuncio dell’eucaristia. Il pane spezzato è annuncio di una presenza che si dona, nella concretezza e nella totalità dell’esistenza perché si possa partecipare della sua vita. Così ancora il gesto dello spezzare il pane sarà momento di rivelazione per i due di Emmaus nel loro cammino: lo riconobbero nello spezzare il pane. Non è un gesto chiuso in una sfera cultuale, ma gesto della quotidianità: rinvia alla vita e alla possibilità di incontrare il Risorto lì dove si spezza il pane dell’esistenza, dell’impegno, della solidarietà. Dentro a questo gesto sta anche un messaggio sullo sguardo di Gesù: la sua prima preoccupazione era l’annuncio del ‘regno di Dio’, ma nel suo agire il regno di Dio si rende vicino in una attenzione concreta alle persone, alle necessità concrete, nella completezza della loro vita. Il bisogno di cura, il pane, la possibilità di vita. Non solo una dimensione della vita, ma tutto, a partire dalle cose immediate. Per Gesù è importante la vita in tutte le sue dimensioni, non rifugge la corporeità. Il suo dono è il suo corpo, per comunicare una vita che prende con sé tutto l’umano.
Infine un ricordo: “Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: Il Signore Gesù, nelal notte in cui veniva tradito prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse:…”. La testimonianza di Paolo nella prima lettera ai Corinzi è il testo più antico che riporta le parole di Gesù nell’ultima cena e con esse il ricordo di quell’ultimo gesto con i suoi nel quadro della cena pasquale. Paolo richiama questa ‘memoria’ per dire il suo rimprovero ad una comunità in cui le differenze sociali portavano a non attendersi gli uni gli altri per mangiare insieme e per ripetere il gesto di Gesù. Paolo richiama ad un atteggiamento che sgorga dall’eucaristia e deve segnare la vita comune: ‘Aspettatevi gli uni gli altri’. Ogni momento che ricorda l’ultima cena, ogni eucaristia non può svolgersi come momento di esclusione, ma deve ritornare sempre a quella cena, a quel momento in cui tutti furono accolti fino alla fine. Lo spezzare il pane e bere insieme il calice era stato vissuto da Gesù in riferimento a tutta la sua persona, alla sua vita e indicava una strada. Non un nuovo rituale, ma un gesto che rinviava alla vita stessa come liturgia. Lì si attua una rottura radicale della logica della violenza e della vittima sacrificale: Gesù offe il suo corpo, la sua vita liberamente in fedeltà ad un amore che non viene meno di fronte al rifiuto e alla condanna. E’ scelta che apre ad un culto nuovo in cui l’esistenza stessa diviene luogo dell’incontro con Dio.
Il rischio che viviamo oggi è ridurre il ricordo del corpo e sangue di Cristo ad una dimensione cultuale, talvolta magica, il rischio di considerare l’eucaristia quale oggetto di venerazione, quasi fosse una ‘cosa’, sganciata dalla vita di Gesù e dalla sua chiamata a seguirlo, senza coglierne la portata di comunicazione e coinvolgimento per la nostra vita. Il ricordo della cena richiama all’accoglienza che si attua o meno nel mangiare insieme o nell’escludere dalla tavola. Per la tavola dove sono seduti o esclusi interi popoli della terra, così come per le nostre tavole l’eucaristia rimane sfida e provocazione. Fa uscire da una religiosità disincarnata e richiama ad una fede vissuta nel coinvolgimento di un corpo, cioè di una vita in relazione, che si comprende come dono.
Alessandro Cortesi op