la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivio per il tag “Natale”

IV domenica di avvento – anno B – 2023

2Sam 7,1-5.8-12.14.16; Rom 16,25-27; Lc 1,26-38

La pagina dell’annunciazione, la chiamata di Maria è intessuta di riferimenti in particolare a testi profetici – ved. Sofonia. La vicenda di Maria è collegata così con le profezie e con la promessa di Dio: ‘Io ti sarò accanto’(Es 3,14). Dio non abita in costruzioni fatte dall’uomo ma nel profondo dei cuori che lo accolgono nella fede.  Il profeta Sofonia a conclusione del suo libro aveva scritto: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” (Sof 3,12-13). “Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa…” (Sof 3,17-20). Maria è associata al ‘resto santo d’Israele’: coloro che non pretendono di tenere in pugno la propria vita ma la ricevono da Dio, e vivono con fiducia e umiltà davanti a lui.

La pagina di Luca riprende il clima che pervade questi annunci di gioia: “Gioisci piena di grazia, il Signore è con te, in mezzo a te” (Lc 1,18) e tutto converge verso Gesù. Il suo nome innanzitutto significa ‘Dio salva’.

In lui convergono le linee dell’attesa del messia: quella sacerdotale e quella una regale. Maria è infatti ‘parente di Elisabetta’ una delle figlie di Aronne, partecipe della stirpe sacerdotale (Lc 1,5). L’angelo poi a Maria dice: “il Signore gli darà il trono di David, suo padre … e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32-33). Gesù compie le promesse di Dio a Davide.

Maria è allora presentata da Luca come la ‘nuova Sion’. L’arca dell’alleanza aveva contenuto le tavole della legge. Maria ora accoglie in sé la presenza di Gesù: “Lo Spirito santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (Lc 1,35). La nube, simbolo della presenza di Dio che accompagnava il popolo nel deserto (Es 13,21) ora si posa sopra Maria. Lo Spirito santo è scorto nella sua azione sin dagli inizi della vicenda terrena di Gesù, e Maria è investita dallo Spirito, come a Pentecoste la comunità verrà riempita di Spirito attorno a Maria: è lei la ‘povera di Jahwè’, in relazione al resto d’Israele, partecipe di un cammino di molti. In mezzo a questo popolo Dio si rende presente nella vita di Gesù. Vivere il Natale oggi si fa invito a lasciare che lo Spirito apra il cuore ad accogliere una presenza. Gesù si dona ad incontrare al centro della nostra esistenza: e lui genera novità di vita e luce in ogni tenebra.

Alessandro Cortesi op

Natale del Signore – anno A – 2022

Is 52,7-10; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1) Il IV vangelo si apre con uno sguardo al Logos, Parola, Verbo, sapienza, nel rapporto con Dio e l’inno si chiude con l’’affermazione che il volto di Dio è stato reso vicino dal Figlio : “Nessuno ha mai visto Dio; l’Unigenito Dio, che è (rivolto) verso il seno del Padre, lui ne ha mostrato la via” (Gv 1,18). In mezzo sta il profilo di un percorso che sintetizza l’esperienza del credere.

La Parola, comunicazione del Padre è presentata come presenza rivolta verso l’intimità del Padre, che lo conosce. Questa ‘Parola’ fatta carne ha compiuto l’opera dell’esegeta, ha mostrato e indicato la via al Padre.

Al centro dell’inno sta l’indicazione di un dono: “diede potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12). Coloro che ‘credono nel suo nome’ sono coinvolti in un percorso e da qui il senso dell’intero vangelo di Giovanni. A conclusione dell’intero vangelo si legge infatti: “Gesù dunque fece davanti ai suoi discepoli molti altri segni, che non sono stati scritti in questo libro. ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31).

Il progetto di Dio sin dal principio è dono di comunione: si tratta di una comunicazione di vita per rendere partecipe l’umanità della vita che vince la morte.

All’origine era il Verbo: la ‘Parola’ rinvia ai testi del Primo Testamento in cui la Parola di Dio indica il dono e il progetto di Dio: nel secondo Isaia l’efficacia della parola è paragonata alla fecondità della pioggia e della neve (Is 55,1-11); così pure in Geremia: “La tua parola Signore è come il fuoco, è come il martello che spacca la roccia” (Ger 23,29). ‘Dabar’, termine ebraico, indica nel contempo parola e azione (Gen 1,1). Il Verbo non è solo parola ma anche azione. Nei libri sapienziali si parla della ‘Hokmah’, la sapienza di Dio, strumento di Dio per creare e nello stesso tempo una presenza che viene da Dio stesso. Nel libro dei Proverbi compare Sophia come datrice di vita. La benedizione della vita è legata alla Sapienza ed essa proclama: “Chi trova me trova la vita” (Prov 8,35). Sophia evoca i tratti propri del Dio d’Israele che ama e promette, odia l’arroganza e si muove nelle vie della giustizia e della verità. Sophia è connessa con l’atto della creazione: “Il Signore ha fondato la terra con la sapienza” (Prov 3,19) ed è presentata accanto a Dio nei momenti centrali della creazione. Se ne descrive il profilo come colei che costruisce una casa e invita e prepara la tavola (Prov 9,1-6). Invita ad abbandonare la via della stoltezza per seguire le vie dell’intelligenza e della pace.  Nel libro del Siracide Sophia ha un particolare rapporto con il Creatore, esce dalla bocca dell’Altissimo, e rappresenta la Torah, il libro dell’alleanza  (Sir 4,22): è associata alla storia d’Israele e al cammino di alleanza. Nel libro della Sapienza Sophia è descritta come emanazione della potenza di Dio, effusione della gloria, riflesso della luce perenne, specchio dell’attività di Dio immagine della bontà divina (Sap 7,25-26), artefice di tutte le cose, madre di tutte le cose buone, conoscitrice dei loro segreti. A lei spetta un compito di salvezza: “furono salvati per mezzo della sapienza” (Sap 9,18) e nel capitolo 10 del medesimo libro viene ripercorsa l’intera storia di Israele come racconto della potenza salvatrice di Sophia. Nel libro di Baruc si dice poi che Sophia, la sapienza, è dono che Dio ha condiviso con gli esseri umani e per questo è apparsa sulla terra per vivere insieme a loro (Bar 3,37-38). “la cristologia sapienziale riflette le profondità del mistero di Dio e indica il cammino verso una cristologia inclusiva in simboli femminili” (E.A.Johnson, Colei che è, Queriniana, 202). Origene scrive: “Noi crediamo che la Parola stessa del Padre, la Sapienza di Dio stesso, fu racchiusa nei limiti di quell’uomo apparso in Giudea; ancor più, che la Sapienza di Dio entrò nel grembo di una donna, nacque come un infante e vagì come i bambini che piangono” (Orig. Princ. 2,62)

Nella Parola, per il IV vangelo, sono presenti tutte queste dimensioni proprie di Sophia, la sapienza: è parola, progetto, azione, compimento. Ogni realtà è connessa a questa azione di Dio. Nel Logos/Parola Dio manifesta la sua vita e la sua luce. “Ciò che è avvenuto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini” (v.4). Luce e vita sono termini propri della teologia del IV vangelo (cfr. Gv 5.11). C’è una luce al cuore della vita stessa, dono del Dio della vita, che rinvia ad una pienezza e ad un desiderio di compimento dell’esistenza.

‘La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno sopraffatta’ (v.5). Luce e tenebre si scontrano: una lotta è in atto dentro la storia: “le tenebre non l’hanno accolta” significa che le tenebre simbolo del male non hanno compreso la luce, ma non sono riuscite a vincerla.

Nei versetti 6-9 l’inno presenta una parentesi: “venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni…”. Si pone attenzione a Giovanni, che non era la luce, ma il testimone venuto a rendere testimonianza alla luce. Giovanni è indicato come lampada mentre la luce vera, che illumina ogni uomo, è Gesù. Giovanni è solamente l’amico dello sposo, ma non è lo sposo (Gv 3,28-30), è colui che secondo le norme del diritto orientale aveva il compito di preparare le nozze; l’amico però si ritira ad un certo punto quando si presentano lo sposo e la sposa.

La seconda strofa dell’inno (vv 9-11) ripete che il Verbo era la luce vera, venendo nel mondo, ma il mondo non lo riconobbe; i suoi non l’hanno accolto. Sono presentati alcuni percorsi: il primo è nel kosmos: nel IV vangelo, indica l’universo creato, altre volte gli uomini come vertice dell’universo creato, ma ‘kosmos’ è anche il male e il rifiuto di Dio: per questo ‘il mondo non lo riconobbe’. Tra i vari significati del verbo ‘conoscere’ nella Bibbia, uno tra essi è ‘amare’: quest’espressione sta allora ad indicare che il mondo non lo amò. Ma la luce di Cristo continua a penetrare in mezzo alle tenebre. Cristo viene tra i suoi eppure incontra un rifiuto. L’intero quarto vangelo è costruito infatti come un grande dibattito processuale con testimoni diversi ed un giudizio che si sta compiendo. Alla fine c’è un esito che richiede di prendere posizione di fronte a Gesù e di attuare la responsabilità di accoglierlo. Il centro dell’inno sta quindi nelle parole: “A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (v.12).

“Il Verbo diventò carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (v.14): la Parola presentata come luce all’inizio, presso Dio, viene a dimorare nella concretezza della corporeità. Ciò suscitava scandalo per chi pensava ad un Dio che non potesse aver contatto con la storia. Giovanni usa il simbolismo del ‘piantare la tenda’, e rinvia così all’immagine del cammino d’Israele nel deserto, e alla tenda del convegno quale segno della presenza di Dio che cammina in mezzo al suo popolo. E richiama così anche il tempio. Il verbo ‘porre la tenda’, ‘attendarsi’ (eskenosen) rinvia infatti al termine ebraico shekinah che indica la presenza e la dimora nascosta nel tempio di Gerusalemme. E’ la presenza viva di Dio in mezzo a noi che riposa. E’ il Logos, Sophia divenuto carne, la shekinah, la presenza di Dio in mezzo a noi. E’ presenza che apre al dono di amore del Dio ineffabile.

Natale ha al suo centro la presenza di Cristo, il Figlio, comunicazione d’amore del Padre che dona la possibilità di un trasformazione della vita, l’essere generati come figli, nella comunione.

Alessandro Cortesi op

Umanità di Dio

Umanità di Dio, è questo il titolo di una famosa conferenza di Karl Barth docente di teologia a Basilea davanti ad un’assemblea di pastori svizzeri riformati tenuta il 25 settembre 1956. Egli richiama la svolta avvenuta nel suo pensiero quale ricerca continua attorno alla questione di Dio. Ricorda anche come questa svolta sia avvenuta per lui in riferimento a Gesù Cristo, nella sua persona e nella sua opera. Sta qui il cuore della conferenza, espresso anche nel titolo: Umanità di Dio. L’umanità di Dio è un fatto accaduto che rinvia a profonde conseguenze di cui Barth tratta nella terza parte del suo discorso.

La svolta che il teologo richiama fa riferimento ad un primo indirizzo del suo pensiero. A fronte di una corrente teologica che poneva al centro l’uomo religioso e che aveva avuto ampio spazio nella temperie degli studi di quel tempo, Barth aveva proposto con forza in una prima fase della sua riflessione di rimettere al centro della teologia il riferimento a Dio, indicato come “il totalmente altro” (totaliter aliter) rispetto a tutto ciò che è creato e all’umano. Per questo sottolineava la differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, l’irrompere dall’alto di Dio che non poteva essere compreso e ridotto in percorsi dal basso.

A distanza di qualche decennio Barth scorgeva, a fronte di tale giusta insistenza da lui posta negli anni ‘20, la necessità di correggere in parte tale orientamento. Non si trattava di ritrattare e cambiare strada ma di esprimere una maturazione proveniente dall’aver individuato un aspetto fondamentale. A tal proposito Barth evidenzia l’umanità di Dio e riconosce di non avere dato nella sua prima fase un’attenzione sufficiente all’umanità di Dio. Nella sua alterità, quindi nella sua differenza rispetto ad ogni creatura, Dio vive una assoluta libertà di essere altro da se stesso, di essere non solo Creatore ma anche creatura. “E la libertà con la quale Egli fa questo è la sua divinità. Essa è la divinità che, come tale, ha anche il carattere dell’umanità” (K.Barth, L’umanità di Dio, Claudiana 2021, 41).

Barth spiega che motivo di tale svolta nel suo pensiero è la persona e l’opera di Gesù Cristo che rivela Dio all’uomo e l’uomo a Dio: “La sua libertà è piuttosto di essere in sé e per sé, ma anche con noi e per noi, ad affermare se stesso, ma anche a dare se stesso, a essere eccelso, ma anche minimo, non solo onnipotente, ma anche misericordia onnipotente, non solo Signore, ma anche servo” (ibid. 49). Barth legge al cuore della vita di Dio la libertà di amare e la legge a partire da Gesù Cristo, dalla sua testimonianza, dalle sue parole.

Da qui sorgono alcune conseguenze: la prima è che ogni essere umano ha Dio come Padre e Gesù come fratello. E’ aperta per ogni essere umano la possibilità di compiere quella umanità che Gesù ha vissuto.

La seconda riguarda uno sguardo positivo alla cultura quale tentativo da parte degli uomini di essere umani. La terza conseguenza è per il discorso cristiano che è “tanto preghiera rivolta a Dio quanto parola rivolta all’uomo” perché ci si possa riconoscere nell’umanità che Gesù ha vissuto (ibid. 57). Per questo, è la quarta conseguenza, la parola cristiana dovrà essere una parola positiva, certo non cieca e incapace di denunciare il peccato, ma orientata ad un messaggio di consolazione e di possibile cambiamento.

Infine, quinta conseguenza, riconoscere l’umanità di Dio implica riconoscere gratitudine alla chiesa. Benché debba esserci una critica per richiamare la chiesa al suo fondamentale orientamento alla salvezza, tuttavia si deve assumere l’atteggiamento di Gesù che non si vergogna di chiamare fratelli i suoi discepoli nonostante le loro miserie. Credere la chiesa implica credere che essa sia “luogo dove la gloria di Dio vuole abitare sulla terra, cioè dove l’umanità di Dio vuole assumere, già nel tempo e qui sulla terra, una forma tangibile” (ibid. 67).

Paolo Ricca in un recente libro in cui s’interroga su Dio e sul suo parlare e amare nello stabilire alleanze, dopo aver presentato e commentato tale discorso di Barth pone un interrogativo importante: “la chiesa nel suo insieme è diventata o sta divenendo quella ‘fraternità cristocratica’, che potrebbe rendere tangibile l’umanità di Dio? (…) il messaggio di Dio come umanità è svolto oggi dalla chiesa con la dovuta convinzione, in modo che sia chiaro che è in Dio, e non in se stesso, che l’uomo può ritrovare sia la sua umanità perduta, sia quella ‘nuova’ vissuta da Gesù? L’impressione è che, purtroppo, Barth e la sua lezione, compresa quella sull’umanità Dio, siano oggi sostanzialmente dimenticate…” (P. Ricca, Dio. Apologia, Claudiana 2022, 247-248). Festeggiare il Natale è una provocazione ad accogliere oggi ancora la scoperta dell’umanità di Dio.

Alessandro Cortesi op

Riflessioni nella novena di Natale – mercoledì

Dal Vangelo secondo Luca (1,39-45)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

“Così lontane di età, di figura. / La giovane – che quasi / è ancora una bambina – ha il fresco viso / dell’innocenza, la tenera luce / del cielo che si specchia in una sorgente. / L’altra, l’anziana, segnata da tante / fatiche ormai e dolori, somiglia un albero / nodoso e storto, piegato dal peso / degli anni e delle bufere. / Eppure son vicine – indicibilmente. / Non solo nel legame di sangue o nell’affetto / dell’abbraccio a cui entrambe si protendono. / Un segreto le unisce, quale mai / da alcuna donna fu condiviso. (…)” (da Margherita Guidacci, Luca Della Robbia Visitazione, dalla raccolta postuma Anelli del tempo 1993)

C’è un segreto al cuore del Natale: è il segreto racchiuso nella visita. Tutto nasce da una visita. Maria scopre che la sua vita è visitata. E si alza e intraprende un viaggio. Nell’ospitalità della visita ha inizio un movimento di risurrezione: si alza e si pone in cammino, si reca a visitare Elisabetta. Dalla visita ha inizio un movimento nuovo di partenza e di uscita. Maria esce dalla sua casa, vive per prima il cammino della fede, fede in Dio e fede nell’umano, fede nel Dio che è respiro dell’umano, che apre agli altri.

Nell’entrare nella casa di Elisabetta si apre ad un dono di gioia e di reciprocità. Elisabetta e Maria scoprono che la visita di Dio è dono di vita che cresce inafferrabile, non a miusra nostra, e si rende presente in modi diversi e facendo comunicare.

La corrente della visita si allarga e ci coinvolge. Siamo chiamati anche noi a lasciarci visitare da Dio, a metterci in cammino, a visitare gli altri, a lasciarci sorprendere dall’inedito. Ogni visita è incontro in cui scoprire un dono. Natale è mistero della visita di Dio che apre a scoprire la vita come cammino di accoglienza che può rinascere ogni giorno. E di rapporti nuovi. Natale è dono di visita che spinge a far proprio il cammino di Gesù: accogliere la visita e recare vita a chiunque ne è in qualche modo privato. E’ festa di speranza al di fuori di appartenenze religiose o culturali (cristiani o no). E’ per tutti coloro che recano nel cuore l’attesa e il desiderio di un cambiamento nel mondo nel segno dell’ospitalità, del convivere nella pace. Oggi siamo chiamati ad accogliere la visita di Dio che ci raggiunge nell’incontro con l’altro.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno A – 2022

Is 35,1-6.8.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

Una visione di gioia, di coraggio, di sogno è presentata da Isaia: il deserto acquista vita ed esprime gioia e la steppa fiorisce per la felicità. “Si rallegrino il deserto e la terra arida,
esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca”. E’ un quadro di speranza e di coraggio, di una novità sta cambiando la realtà di dolore e di smarrimento: Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, … Egli viene a salvarvi”. Tristezza e pianto non ci saranno più. L’immagine di una via appianata che scorre in mezzo al deserto è metafora di un percorso di liberazione, di un cammino di chi è liberato e va verso una condizione nuova di pace: ‘lo zoppo salterà come il cervo, griderà di gioia la lingua del muto’. La strada appianata è segno di un cammino nel quale anche noi siamo coinvolti.

Nel quadro di questa promessa la pagina del vangelo offre uno squarcio sulla crisi di Giovanni Battista. I suoi discepoli sono inviati dal carcere dopo che Giovanni fu arrestato da Erode Antipa che scorgeva nella sua azione una minaccia. Pongono a Gesù una domanda che esprime incertezza e dubbio: ‘sei tu colui che deve venire?’. La venuta di Gesù non sta compiendo quel rivolgimento che Giovanni attendeva: non si presenta infatti come messia del giudizio. Il Battista predicava una minaccia incombente ed una esigenza di cambiamento, pensava ad un messia che interveniva in modo forte e grandioso. Gesù manifesta uno stile diverso, le sue parole sono segnate dalla proposta di un dono da accogliere, gratuitamente, il regno di Dio, dono per i poveri e i piccoli e vive la debolezza, anche il rifiuto.

Rispondendo ai discepoli di Giovanni, Gesù non parla di se stesso ma rinvia ai suoi gesti, a quanto sta accadendo. Si sta rendendo già presente ciò che Isaia aveva promesso: “i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la bella notizia”.

La bella notizia è che Dio prende la parte dei poveri, si pone accanto a loro per liberarli: bella notizia è che Gesù attua questo non secondo logiche di affermazione nella violenza e con esibizione di grandezza, ma nel segno del dono, della vicinanza, dell’accoglienza.

I suoi gesti sono piccoli segni che quella novità promessa è iniziata. E dice: ‘beato colui che non si scandalizza di me’. Il suo essere ‘messia’, ‘colui che deve venire’ disorienta, cioè scandalizza, costituisce inciampo a chiunque vorrebbe un messia secondo la propria misura, che non arrechi disturbo e non esiga coinvolgimento.

Solo chi vive una sofferenza può veramente sperare: e solo chi si fa accanto accanto e si fa compagnia in una vicinanza accogliente può aprirsi alla speranza. Gesù nel suo agire risponde a queste attese, le pone al primo posto anche se questo gli procura il sospetto e l’ostilità da parte dei poteri religiosi e politici.

I suoi gesti sono i segni di un mondo nuovo già iniziato che ha al suo centro i piccoli e che sta crescendo laddove qualcuno si impegna secondo il sogno di Isaia, nonostante difficoltà e contraddizioni.

“Promuovere l’avvento… è optare per l’inedito, accogliere la diversità come gemma di un fiore nuovo, come primizia di un tempo nuovo” (Tonino Bello) Mettere al centro delle nostre preoccupazioni la vita delle persone più deboli, meno capaci di farcela da sole; avere occhi per chi non è guardato con amore: ‘beato chi non si scandalizzerà di me’.

Il messaggio di questa domenica nel segno dell’invito alla gioia è tenere insieme il sogno di Isaia e il dubbio di Giovanni. La domanda e l’inquietudine di Giovanni aiutano a vivere la fede, non come fuga dalla storia. Il sogno di Isaia è bussola per scoprire che la nostra speranza si radica sulla promessa di Dio. 

 Alessandro Cortesi op

Attesa e segni

“Per me Gesù Bambino rimane l’immagine più sconvolgente e più coinvolgente di Dio, e il Natale continua ad essere la festa che prediligo. So bene che il culmine della vita di Gesù è la Pasqua, con il mistero della morte e risurrezione in cui trova compimento l’opera della redenzione e vengono inaugurati «cieli nuovi e nuova terra». Ma il cammino verso il perseguimento di questo obiettivo ha inizio con «il Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), ripercorrendo tutte le tappe della nostra esistenza, a partire dalla nascita. Questa creatura fragile, che sperimenta le difficoltà di crescita di ogni bambino, con l’aggiunta di essere fatto oggetto di una terribile persecuzione – si pensi al racconto della fuga in Egitto –, è per me la «cifra» più alta e più trasparente della identità sconvolgente del Dio cristiano. (…) l’aspetto che più mi ha inclinato (e mi inclina ancor oggi) a porre l’accento sulla centralità di questo evento (…) è l’immagine di Dio che attraverso di esso ci viene comunicata: un Dio che, accondiscendendo a fare propria in tutta la sua precarietà la condizione umana, capovolge l’idea di Dio propria di ogni teodicea, segnando il passaggio dagli attributi tradizionalmente a Lui riservati, soprattutto a quello dell’onnipotenza, per presentarci (Gesù Bambino ci conduce immediatamente a questa visione) un Dio povero e impotente che condivide fino in fondo il limite connaturato alla nostra creaturalità” (Giannino Piana, Attesa del Natale, “Rocca” 15 dicembre 2022). Riprendo queste parole di Giannino Piana, teologo e amico, che riandando ai ricordi di infanzia ricerca in quei giorni dell’attesa del Natale, di Gesù bambino, il segreto di un’esperienza. E’ il passaggio da un Dio onnipotente a un Dio fragile, che fa propria la terra nostra, umile, indicandoci anche la via dell’umiltà, del pensiero, della vita quale via dell’incontro. 

“Il Natale si avvicina e noi continuiamo a chiedere alla sentinella: “Dicci, quanto resta della notte? Della notte della guerra, dei disastri ecologici, delle difficoltà economiche per milioni di famiglie, del “politicamente corretto”, dell’eclissi religiosa… e, soprattutto, della notte della sofferenza. Dicci, quanto rimane della notte?  La sentinella ci dice solo che c’è ancora spazio per la speranza. Un semplice pastore in una capanna, una giovane coppia con un bambino appena nato, un operaio che lavora in città mentre noi riposiamo, un maestro di scuola che si aggrappa all’istinto della verità… Grazie a queste presenze anonime possiamo ancora aspettare l’alba, uno e tanti Natali. Sono presenze che ravvivano la speranza, affinché la felicità non muoia tra i nostri desideri effimeri. Sono presenze che ci permettono di continuare a dire BUON NATALE”

Ricevo questo augurio di buon Natale in un biglietto da un amico. E chiedo per me e per tutti noi di fare un piccolo esercizio in questo tempo di buio e di notte: imparare a individuare alcune belle notizie, nelle pieghe delle nostre giornate, negli anfratti della storia, nei bordi pagina dei quotidiani, negli angoli riposti della vita. Non un esercizio di ipocrisia per dire che tutto sommato la vita è bella, e per non lasciarci disturbare dallo scandalo del male e dell’ingiustizia che esige denuncia, vigilanza ed insieme l’operare fattivo per resistere al buio delle coscienze, alla violenza pervasiva, al silenzio sulle situazioni umane che gridano sofferenza.  Ma per coltivare quello sguardo della sentinella, che è capace di vedere il male intorno ma anche sa avvertire il rumore del germoglio che cresce, le prime luci dell’aurora, l’avvicinarsi di una visita attesa. Per scoprire nello smarrimento del cuore i segni di una speranza: “Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete!” Sono incontri, sono parole buone, sono la fedeltà quotidiana, prolungata ad un orizzonte di vita, ad un servizio di competenza, ad una condivisione di dono. Sono scelte di chi opera ogni giorno in modo nascosto, senza riconoscimenti e gratificazioni. Sono queste le luci di vangelo che ci raggiungono dal di fuori dei sistemi religiosi e delle chiese, dal di fuori di organizzazioni ideologiche e da risposte di dottrine vuote ma che sono presenti, vive, nelle lotte e nelle fatiche di uomini e donne che si sono lasciati conquistare da una luce interiore che chiama e apre cammino. E in questa ricerca imparare a raccontare come l’anziano rabbi discepolo del Baalshem – di cui parla Buber – che era storpio, ma quando gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro preso dalla foga “si alzò e raccontò e il suo racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie”. Ecco forse così potremo vivere la gioia, autentica gioia, che è la gioia della speranza, che non toglie lo smarrimento, ma lo apre ad un impegno per la giustizia, per la pace, nel quotidiano di questa terra, con umiltà, e per questo si fa gioia operosa, di questo Natale.

Alessandro Cortesi op

Domenica della santa Famiglia

1Sam 1,20-28; 1Gv 3,1-2-21-24; Lc 2,41-52

Si prova un certo disagio a celebrare la festa della santa famiglia in un tempo in cui il riferimento alla famiglia, unito spesso alla dizione ‘famiglia tradizionale’, è divenuto in tanti ambienti motivo di riduzione del messaggio cristiano ad un modello culturale e morale quando non moralistico e motivo di giudizio escludente e discriminante verso tutte le forme di comunità di affetti e verso le esperienze che vivono la complessità dell’esperienza affettiva e le diversità nell’attuare la realtà così umana e quindi varia, ricca, molteplice della famiglia.

Quando poi la ‘santa famiglia’ viene utilizzata quale modello teorico e idealizzato di una famiglia che s’identifica con la famiglia di tipo borghese il disagio si accresce ancora di più. Lo sguardo alle concrete vicende delle famiglie oggi porta a considerare come proprio l’ambito familiare sia luogo delle più diverse esperienze, della presenza di complessità difficili da ridurre ad un modello: le famiglie umane sono mosaico di meraviglie di amori vissuti nelle forme più diverse, nella autenticità, ed anche luoghi di sofferenze profonde per la difficoltà di comunicare, per le interruzioni, rotture e abbandoni, per conflitti diffusi, per le tante angustie presenti nei rapporti tra coniugi, con i figli, nel rapporto con gli anziani. Oggi non di famiglia si dovrebbe parlare ma di famiglie al plurale  nella grande diversità e complessità dei cammini affettivi e delle relazioni che coinvolgono generazioni diverse.

Ci sono due verbi del vangelo su cui poter sostare: lo cercavano… e si stupirono. Sono due chiavi per andare alla ricerca di come Gesù abbia inteso la sua famiglia, aprendosi a scoperte e che stupiscono e aprono nuovo cammino.

I vangeli innanzitutto attestano che Gesù è entrato nella storia di una serie di storie di famiglie che non racchiudono affatto storie esemplari e non sono narrate nella Bibbia, questo libro che riflette la storia umana, a scopo edificante. Possono essere lette come lo specchio della realtà umana della storia delle famiglie umane. Sono le vicende di generazioni in cui si sono intrecciati volti e nomi molteplici e diversi. In particolare è da notare come nella genealogia presentata da Matteo (Mt 1,1-17) compaiono alcune decisive figure di donne nella serie di generazioni declinate tutte al maschile di padre in figlio. E queste donne sono figure irregolari attraverso le quali Dio ha condotto avanti la sua storia di salvezza all’interno di questa vicenda di famiglie concrete. I nomi di Tamar la prostituta, di Racab anche lei prostituta di Gerico, di Rut la straniera di Moab, di Betsabea, la moglie di Uria, sedotta dal re Davide, fino a Maria che interrompe la discendenza tutta maschile di Gesù, sono significative di una storia di salvezza che si attua nel tessuto della vicenda umana per vie che Dio solo conosce e all’interno di vicende segnate dalla complessità e dal disordine della realtà umana.

Un secondo aspetto è sorprendente. Alla domanda “tua madre e i tuoi fratelli ti cercano” (Mc 3.31ss) Gesù risponde “chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” E afferma “mia madre e i miei fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre mio”. In tal modo Gesù rompe le barriere di una concezione del legame familiare ristretto alla cerchia dei propri parenti di sangue ed apre ad un nuovo modo di concepire la stessa famiglia. Madre, sorelle, fratelli sono da ritrovare non in cerchie ristrette di clan rinchiusi, ma nell’orizzonte di rapporti aperti a vivere una relazione che deborda da confini stabiliti e impermeabili agli altri. Gesù spalanca così le chiusure di una concezione di famiglia che vive un egoismo appartato e mette in cammino nello scoprire famiglia laddove c’è relazione di un amore aperto al servizio.

C’è una terza importante espressione di Gesù nei vangeli quando dice ai suoi “non chiamate nessuno padre sulla terra perché uno solo è il padre vostro quello del cielo” (Mt 23,9). In questo modo Gesù presenta una critica a tutte le forme patriarcali di pensare i rapporti e la stessa vita familiare, offrendo un orizzonte in cui impostare la vita insieme non sottomettendosi al dominio patriarcale ma vivendo nella logica della fraternità e sororità ospitale, riconoscendosi in una comunità di uguali e nel contempo accogliendo le diversità che sono proprie della vita di ciascuna e ciascuno.

Facendo riferimento al Padre del cielo Gesù inoltre non intende offrire una visione patriarcale di Dio stesso. Il volto del Padre è da lui proposto nel profilo di chi soffre con viscere di donna e che proprio per questa sua presenza scardina ogni pretesa di chi sulla terra si pone secondo la logica del dominio e dell’oppressione maschile.  

Il volto di Dio annunciato da Gesù è quello di un padre/madre che desidera ‘fare casa’ e va alla ricerca per creare fraternità tra i suoi figli, attendendo e ricercando il perduto per fargli sentire che quella casa è casa sua, e andando incontro e cercando di convincere quello che si sente a posto per fargli comprendere che un’osservanza fredda della legge è il senso della vita ma l’incontro con Dio stesso si attua nell’accogliere un dono di condivisione, di accoglienza, di fraternità nella medesima casa comune (Lc 15,11-32). E’ un Dio che inviata a far festa e rallegrarsi perché c’è posto nella casa per chi si era allontanato e per chi era rimasto, e per sapersi accolti nella diversità dei cammini, aprendosi ad un cambiamento di menatalità.     

Un quarto aspetto dell’insegnamento di Gesù sula comunità famiglia che egli voleva si può ritrovare nelle sue parole dedicate all’accoglienza dei piccoli: “chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me” (Mc 9,37).  Accogliere i bambini nel mondo culturale di Gesù significava accogliere coloro che erano considerati senza diritti. Gesù richiama a questa attitudine fondamentale: la sua famiglia è una comunità in cui al centro sono posti i ‘senza diritti’, da accogliere e custodire. E ci si può chiedere oggi chi siano i tanti, i cui diritti fondamentali non sono riconosciuti…

Nella pagina del vangelo è possibile cogliere un’assenza – quella di Giuseppe – ed una presenza nominata – quella di Maria – di cui si sottolinea l’attitudine comune del ‘custodire’. Giuseppe è figura di chi ‘prende con sé’ qualcuno che gli è affidato, senza porre condizioni e nell’affidamento radicale a Dio – e in questa attitudine orienta tutto il suo cammino. Maria è indicata come colei che ‘tiene insieme’ e così custodisce nel cuore vivendo la stessa fede come ricerca e cammino. Sta forse qui la chiave per cogliere il messaggio evangelico che proviene dalla famiglia di Nazaret.

Innanzitutto un messaggio che parla della fiducia di vivere in una custodia da parte di Dio delle vite e dei cammini, nella loro complessità nelle diversità, nella difficoltà a comprendere e nelle contraddizioni della vita umana.

In secondo luogo un messaggio che rinvia alla custodia da attuare nei confronti di ogni percorso e di ogni persona nella sua originalità e irripetibilità. L’esperienza familiare nel suo essere intreccio di relazioni, luogo dello svolgersi degli affetti, porta a vivere la meraviglia dell’amore in tutte le sue armoniche e le sofferenze più profonde per l’incomprensione e le delusioni nella complessità dei cammini umani. Ma il messaggio di scoprirsi custoditi e dell’invio a farsi custodi dell’altro può essere oggi indicazione per coltivare speranza per sé e per tutti ritornando a Gesù e al suo vangelo che è annuncio di liberazione e di gioia nelle nostre vite, e nella vita delle famiglie nella molteplicità dei cammini.

Alessandro Cortesi op

Natale – Omelia messa della notte

Cerchiamo insieme il perché del nostro ritrovarci insieme a celebrare il Natale. Non è più abitudine partecipare alla messa della notte e lo spostamento ad un orario della sera ci aiuta a sostare.

Viviamo questo Natale nel tempo della pandemia: una situazione che coinvolge a livello globale tutti i popoli, tutti gli angoli della terra e che ha reso palpabile e concreta l’interconnessione delle nostre vite, delle vite di tutti.

E’ un tempo di buio che attraversa in tanti modi le nostre esistenze e soprattutto quelle dei più fragili, di chi non ha sostegni, di chi è solo, di chi vive in alcune regioni del mondo.

E questa sera accogliamo la Parola del profeta che è parola di speranza

“il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che camminavano in terra tenebrosa, una luce rifulse”. E poi: “hai aumentato la gioia, hai moltiplicato la letizia…”. Un invito paradossale che esige di essere approfondito.

Oggi le tenebre sono rinvio al buio, all’incertezza, a tutte le angustie e sofferenze che la pandemia che si prolunga – e che esigerebbe uno sforzo collettivo di responsabilità e solidarietà per superare l’emergenza sanitaria –  ha generato, ma anche del buio di una società malata di cui la pandemia ha svelato le grandi contraddizioni, le ottusità e gli egoismi. Ed è situazione che non sembra avere fine perché le situazioni che hanno causato la pandemia, la crisi ambientale, l’iniquità sociale, la scandalosa disuguaglianza che divide il mondo non sembra siano affrontate in radice. Ma siamo qui per scorgere una luce  e scoprire il messaggio di speranza del Natale. Sì, è la speranza il dono di questo Natale.

Il decreto di Cesare

La vicenda di Gesù si muove nel quadro di una storia segnata dai disegni dei grandi, dal dominio dell’impero, dalle ricadute sui piccoli delle decisioni del potere. Il censimento nella Bibbia è simbolo della pretesa dei grandi di misurare il proprio dominio. E’ il grande peccato di Davide quello di aver voluto il censimento del suo popolo (1Sam 24,1-4.10-18.24-25).

Il censimento è paradigma di quelle decisioni che ricadono sull’esistenza concreta dei poveri e che deriva da pretese di grandezza e dalla rincorsa ad accumulare ricchezza, a coltivare privilegi, ad assestare domini. Si potrebbe dire l’espressione simbolica di un sistema malato che opprime in modo violento fino a soffocare la vita dei poveri. Possiamo vedere questo anche oggi questo laddove le grandi decisioni dei poteri che detengono le leve dell’economia e della finanza generano le conseguenze che abbiamo sotto i nostri occhi: le delocalizzazioni che portano licenziamenti e  disperazione nelle famiglie, l’esigenza di ritmi di lavoro senza controlli e senza attenzione alla sicurezza che sono cause delle tanti morti sul lavoro, le scellerate scelte di chiusura dei confini e di respingimento dei poveri che lasciano morire uomini donne e bambini di fame e di freddo e di torture ai confini della ricca Europa.

Lo spostamento, l’uscita dalla propria casa di Giuseppe e Maria è provocata da questa decisione dei grandi ed è storia dei piccoli. In questo quadro di una vita di piccoli, ai margini dell’impero, si muove l’inizio della vita di Gesù. Anche se storicamente forse Luca confonde gli avvenimenti (è attestato un censimento nel 6 d.C.) il messaggio che proviene da questa pagina – che ritorna a pensare la nascita di Gesù dopo che tutta la sua vita si è conclusa – sta nella grande contrapposizione che presenta tra ingiustizia globale e vita dei piccoli e nel volto di Dio che ne emerge. Il Dio di Gesù non sta dalla parte dei dominatori, di chi usa la violenza, dei grandi manovratori del mondo. Sta dalla parte dei senza nome e senza volto, di coloro che sono considerate pedine insignificanti o soltanto numeri. Nella risacca della storia ci sono nomi che solo Dio conosce ed Egli prende con sé questa storia.

Nei suoi ‘auguri scomodi’ per Natale Tonno Bello scriveva: “Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, il progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate”.

Le fasce di Maria

C’è un particolare del racconto di Luca nel momento della nascita e sono le fasce del bambino, Gesù è posto da Maria nella mangiatoia perché non c’era posto per loro. Queste fasce sono un sottile rinvio alle fasce della sepoltura: quel bambino va seguito in tutta la sua vita. Questo è solo un inizio, sembra dirci Luca. La nascita rinvia all’intero suo cammino, alle sue parole, ai suoi gesti, al modo di intendere la vita fino alla fine. Ma in quelle fasce sta anche tutta la cura e l’attenzione. C’è il senso della sorpresa per la vita nella sua nudità. Per l’inermità che chiede delicatezza e tempo e sguardo premuroso. Le fasce svolte da Maria ci richiamano i gesti del quotidiano come luogo in cui scorgere una presenza inaudita e improvvisa. Quelle fasce e il deporlo nella mangiatoia fanno pensare ai gesti semplici, quelli del quotidiano. Chi lavora nella stalla lo sa: una poetessa di montagna Roberta Dapunt della val Badia, ha cantato la semplicità e lo spessore di questi gesti:

Di ritorno dalla stalla (Roberta Dapunt)

In questo buio compatto è perpetuo novembre.

Sei tu Dio? Onnipresente sconosciuto.

Perché io so che tu sei,

lo sanno i miei sensi,

quando tornano dalla stalla.

Tutto è qui nella riservatezza rurale che ripeto

mattina e sera, spesso unico sentiero

che pesto come a passeggio verso casa.

Tutto è qui. Qui è l’avvenire,

qui è il tempo che passa e la morte che viene,

in questo gesto comune è la mia alleanza

posta fieno su fieno,

letame dopo letame,

solitudine per solitudine,

nell’amore alla vita, perché vita è l’unico supporto,

qui su questo percorso, umile gioia dei giorni.

E’ la semplicità della vita, la nudità di un bambino che richiede cura il luogo in cui scorgere la apertura ad un incontro di un Dio sorprendente. Papa Francesco ricorda nella sua lettera sul presepio “Admirabile signum”: “…il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita”

“I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato”.

Pietro di Celle, nato attorno al 1147, divenuto monaco benedettino e vescovo, e morto a Chartres nel 1183, offre in un suo sermone una invocazione a Gesù che viene nella semplicità:  “Vieni Gesù, nell’umiltà delle fasce e non nella grandezza, nella mangiatoia e non sulle nubi del cielo, fra le braccia di tua madre e non sul trono della maestà, sull’asina e non sui cherubini. Vieni verso di noi e non contro di noi, per salvare e non per giudicare, per visitare nella pace e non per condannare nell’ira. Se vieni così, Gesù, invece di sfuggirti, noi fuggiremo verso di te”.

La luce dei pastori

Nella notte i pastori seguono una luce. Si lasciano interrogare da una ricerca e da una domanda aperta: sono ascoltatori di voci, cercatori di segni, bisognosi di luce…

E sono capaci di uscire, di lasciare le loro occupazioni per mettersi in cammino, per inseguire una luce che è fuori ma anche dentro loro: è luce di speranza. 

Anche noi questa sera siamo qui non per abitudine ma con un’inquietudine nel cuore, con una ricerca , colmi delle tante sofferenze che appaiono sovrastanti di questo tempo.

I pastori ci ricordano che nel buio si può accogliere una luce che rompe le tenebre: ci chiamano alla speranza che è attitudine dei poveri. Ce lo ha ricordato in questi  Timothy Radcliffe che è tornato a predicare dopo una grave malattia e ha detto: noi possiamo essere portatori di disperazione o di speranza nella nostra vita… non procrastiniamo la scelta di essere testimoni di speranza.

E’ una speranza che si aggrappa a questo dono di presenza e di luce. Ed è germoglio di risurrezione, di una fioritura possibile anche nell’inverno del nostro tempo segnato dalle paura dall’irrigidimento della paura e delle tristezze. Il dono di questo Natale è un messaggio di speranza: speranza che chiede di farsi storia, che si dica in piccoli gesti e in uno sguardo nuovo. “Riconosci cristiano la tua dignità” – richiamava Leone magno nelle sue omelie sul Natale – dignità di figlio e figlia, amato benvoluto, il cui nome è conosciuto e accolto da un Dio che si fa vicino nel bambino avvolto in fasce e  che non trova posto dove essere accolto. Questo invito può essere tradotto oggi nel riconoscere la dignità dei volti e nel portare speranza.

Verso la Messa di Mezzanotte

                                                     Natale 1977

Natale è un flauto d’alba, un fervore di radici
che in nome tuo sprigionano acuti di ultrasuono.
Anche le stelle ascoltano, gli azzurrognoli soli
in eterno ubriachi di pura solitudine.
Perché questo Tu sei, piccolo Dio che nasci
e muori e poi rinasci sul cielo delle foglie:
una voce che smuove e turba anche il cristallo,
il mare, il sasso, il nulla inconsapevole.
Invisibile aria: Tu impregni ciò che vive
e solo vive se di te si impregna.
Tu sei d’ogni radice l’alto mistero in musica
che innerva il tralcio – lazzaro e lo spinge a fiorire.

Maria Luisa Spaziani

Alessandro Cortesi op

S. Natale 2020 – messa della notte

Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge… Il Natale quest’anno ci raggiunge nella notte. Per le doverose limitazioni di questo tempo di pandemia non è la notte della tradizionale messa a mezzanotte ma è un’altra notte: è la notte dei popoli e dei cuori. E’ questa notte la situazione che ha coinvolto in questo tempo della pandemia una parte del mondo ricca e che in fondo dava per scontato una sicurezza da difendere. Ed invece anche questa parte di mondo si è scoperta nella stessa condizione della maggioranza dell’umanità segnata da tante crisi e da tante notti. Ed è quindi notte per riflettere, per sostare, per cambiare direzione…

E’ questa notte il primo motivo di questo Natale che ci provoca ad interrogarci, a stare svegli. I pastori vegliavano nella notte e anche noi possiamo vegliare, cioè esercitare quella capacità di tenere occhi aperti e orecchie attente in questo buio che pervade la nostro vita. E’ una notte segnata da tanto dolore, i tanti morti di questo tempo, i malati, tutte le famiglie segnate dal lutto, le tante sofferenze diffuse e silenziose di chi ha perso lavoro e vive l’incertezza sul futuro proprio e dei propri cari, di chi ha fame e sperimenta una pesante solitudine, di coloro a cui è stato richiesto una dedizione e fatica oltre misura per assistere e curare – per vegliare appunto – sugli altri. In questo Natale siamo provocati a stare svegli, a non lasciarci illudere da false illusioni o da facili promesse di ritorni alla normalità… quale normalità? Questa notte pone domande che conducono a guardare lontano, a leggere le attese più profonde della nostra vita.    

Sono le notti della nostra vita personale e della vita collettiva: i momenti in cui sperimentiamo più chiaramente che siamo fragili, che non ce la facciamo con le nostre forze, in cui rivolgiamo un grido di aiuto perché qualcuno ci venga vicino e ci salvi. E sono queste le notti in cui è richiesto uno stare svegli, un non lasciarsi appesantire e distrarre da ciò che non è essenziale.  

Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce... Nella storia biblica Dio interviene sempre in punta di piedi e nella notte. Pensiamo alla notte in cui Abramo è invitato a guardare verso le stelle, alla notte della lotta di Giacobbe, alla notte dell’esodo, alla notte in cui Davide ascolta la voce che lo chiama, alla notte dell’esilio in cui il popolo nelle tenebre ‘vide una grande luce’, fino alla notte di Betlemme, alle notti della preghiera di Gesù, alla notte del Getsemani, alla notte della Pasqua. La storia di Israele e la testimonianza di Gesù ci dicono che Dio passa nella notte. Nella notte non siamo soli, ma una luce viene e vince le tenebre che non riescono a trattenerla: è la luce che si rende presente in tutti i messaggeri – volti che stanno spesso in secondo piano, presenze discrete ma che portano avanti la storia – che annunciano le vie della giustizia e della pace. Sono i messaggeri di un Dio che si fa vicino non nella grandezza e nella potenza ma nell’inermità di un bambino.

La pandemia ci ha posto davanti agli occhi che un sistema di dominio e di devastazione dell’ambiente ha rivelato i suoi piedi d’argilla smascherando le incoerenze di una società malata di egoismo, di primeggiare, di pensarsi senza gli altri. Ha fatto cogliere come un mondo costruito sulla ricerca del profitto, sulla competizione e sull’esclusione non ha futuro. A fronte di confini sbarrati ai movimenti dei poveri che vengono respinti e tenuti prigionieri come invisibili, un invisibile virus ha varcato ogni barriera e chiusura manifestando che siamo tutti connessi, che il bene di alcuni non può essere tale senza considerazione al bene di tutti, che l’indifferenza ed esclusione comporta perdita di umanità e minaccia di vita per tutti. Nella notte ci sono fessure di luce, bagliori che sono il passare di Dio che chiama in ogni tempo e in ogni luogo e dona luci da accogliere, al di fuori di ogni programma e sistema umano o religioso, se stiamo svegli, se sappiamo scorgere cammini nuovi.

Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».… Il segno è un bambino, l’annuncio è invito alla gioia. Possiamo imparare alcune indicazioni da questo segno. Questo Natale sarà vissuto in modo più raccolto, forse più interiore. Possiamo apprezzare i doni racchiusi nel nostro quotidiano, nelle case, nei luoghi di ogni giorno, luoghi in cui Dio stesso viene a visitarci. Possiamo lasciarci ospitare in questo incontro scorgendo che Gesù ci manifesta un volto di Dio che visita la nostra povertà e pochezza. Entra nei nostri limiti, ci accoglie nelle fragilità, ci visita nelle nostre notti.

Posiamo anche imparare la semplicità, che non è ingenuità o superficialità, ma accogliere la luce di una presenza: al centro del Natale sta un bambino. Dio ci visita nei volti e si fa incontrare laddove si riconosce il dono dei volti. Sono i volti dei senza nome della storia, sono i volti dei dimenticati e degli oppressi e di chi si spende per la giustizia. Quel bambino, visitato dai pastori ci ricorda che Dio si lascia incontrare da chi si mette in cammino, si muove verso i volti di coloro che sono tenuti fuori perché per loro non c’è posto.

Possiamo imparare allora a scorgere il Natale come movimento di ospitalità e di cura. Abbiamo scoperto in questo tempo della pandemia la preziosità della presenza di coloro che in tanti modi si sono presi cura degli altri: personale sanitario, insegnanti, volontari, operatori nei servizi, nella vita sociale, persone cha hanno garantito sostegno ai più deboli. Nell’oscurità e nello sconforto di questo tempo segni di luce sono riflessi di quella luce che apparve nella notte dei pastori, una luce ai margini della storia, tra dimenticati ed esclusi. Qualel luce richiamava ad una presenza da incontrare, da inseguire, non solo in un giorno ma nel quotidiano dell’esistenza.

Alessandro Cortesi op

Voci di un Natale diverso

Raccolgo alcune voci per sostare in questo Natale e per viverlo come momento in cui stare svegli nella notte e accogliere un annuncio di gioia:

“La notte di Natale nel racconto cristiano, sappiamo, annuncia la venuta al mondo del “Salvatore”. Esiste un modo laico per leggere la potenza di questo racconto? Ai miei occhi si tratta dell’evento che rende la vita umana immensamente sacra. Nel tempo traumatico del Covid la festività del Natale ci ricorda che ogni morte non è mai una morte anonima ma è la morte dell’immensamente sacro. Agostino riflette sul gesto di Maria, narrato dall’evangelista Luca, di collocare il suo “primogenito” in una umile mangiatoia sottolineando l’equivalenza del corpo di Gesù con quella del nutrimento. Questo Natale non sarà il tempo della festa, ma quello che ci obbliga a pensare all’esistenza di un altro nutrimento rispetto a quello a cui ci siamo abituati nella nostra mondanizzazione del Natale. La sofferenza e i morti di questo terribile anno ci invitano a farlo”. (Massimo Recalcati, Covid, istruzioni per un altro Natale, La repubbblica 21 Dicembre 2020)

“…E, pure naturalmente obbedendo a ogni prescrizione anti contagio, è lecito domandarsi se, di seconda ondata in terza, una volta finita l’epidemia un fondo di diffidenza verso l’altro sconosciuto non ci resterà addosso; se guariremo da questo irrigidimento, da questa freddezza e quasi paura del prossimo, che del Covid sono un triste effetto collaterale. Non continueranno a difendersi gli anziani, i più minacciati, anche una volta sconfitto il virus? E i bambini che sono andati a scuola per la prima volta nel 2020, e per prima cosa hanno imparato che bisogna stare distanti l’uno dall’altro, dimenticheranno questo innaturale imprinting, e torneranno normali?

Il timore, speriamo infondato, che l’epidemia ci stia insegnando anche un altro modo di stare in rapporto fra noi. I gesti, gli abbracci, la vicinanza fisica sono già una lingua, e una lingua universale. Noi italiani la parlavamo molto bene, generosamente, la bella lingua del corpo. Se ci ritrovassimo cambiati sarebbe un impoverimento, un altro segno lasciatoci addosso da questa ma- lattia globale. Auguriamoci allora anche, insieme alla fine dell’emergenza e dei lutti e alla ripresa dell’economia e del lavoro, una ‘piccola’ cosa per l’anno che viene: di poter ritrovare la semplice gioia di un abbraccio fra amici, e perfino solo di una stretta di mano, di quelle forti, vere” (Marina Corradi, Non scordiamo gli abbracci, Avvenire 20 dicembre 2020).

Oggi cosa fanno e chi sono i giovani? «La storia è sempre andata avanti in un rapporto tra minoranze “virtuose”, innovatrici, e maggioranze più conformiste, sostanzialmente più egoiste. Ci sono però momenti in cui le minoranze influiscono in modo determinante sulla Storia, e sui comportamenti e le idee delle maggioranze. C’è una novità in questi ultimi anni: è rappresentata dai gruppi e gruppetti di ragazzi che sentono il dovere di occuparsi di chi soffre, degli immigrati, dei “subalterni”… Sentono il dovere di occuparsi della natura, dei rischi che comporta la violenza nei suoi confronti esercitata dal capitalismo – e dal consumismo che ci rende tutti suoi complici». Hanno un peso sociale queste minoranze attive?«È difficile che queste minoranze alzino la testa in un anno pessimo come il 2020, di fronte a una minore tensione tra ceti sociali unificati da un sistema culturale pesantemente conformista se non reazionario. Però diversi segnali di un risveglio ci sono e il futuro, con le sue storture crescenti, spingerà le nuove leve a cercare nuovi modi di agire per contrastare il disastro»” (Mirella Serri, Intervista a Goffredo Fofi: si stanno risvegliando i giovani, “La Stampa 20 dicembre 2020)

“Sappiamo bene che la vita è fatta di alti e bassi, di luci e ombre. Ognuno di noi sperimenta momenti di delusione, di insuccesso e di smarrimento. Inoltre, la situazione che stiamo vivendo, segnata dalla pandemia, genera in molti preoccupazione, paura e sconforto; si corre il rischio di cadere nel pessimismo, il rischio di cadere in quella chiusura e nell’apatia. Come dobbiamo reagire di fronte a tutto ciò? Ce lo suggerisce il Salmo di oggi: «L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo. È in lui che gioisce il nostro cuore» (Sal 32,20-21)” (Papa Francesco, Angelus 29 novembre 2020)

“…forse sarà un Natale in cui capiremo meglio chi, anche nel Natale degli anni precedenti, non aveva comunque nessuno con cui festeggiare o sentiva di non avere alcun motivo per farlo. Ma soprattutto speriamo che sia un Natale più autentico, in cui essere più “vicini” a chi è solo, soffre e attende una parola amica e un aiuto solidale. Non ci mancano mai le occasioni per offrire doni di “vicinanze” di questo tipo, neppure in mezzo alle restrizioni sanitarie… Il Natale cristiano vuole trasmettere proprio questa fiducia che il Signore viene nella nostra vita (anche quando non te l’aspetti o forse soprattutto quando non te lo aspetti) e rende possibile l’impossibile”. (Eugenio Bernardini, già moderatore della Tavola valdese, Avvento. Il Signore viene nella nostra vita e rende possibile l’impossibile, “Il Fatto quotidiano” 20 dicembre 2020)

Lanterne accese…

O Signore, accordaci la tua pace,
perché siamo pronti
ad andare incontro con le lampade accese
al tuo amatissimo Figlio che viene.

IV domenica di Avvento – anno B – 2020

2Sam 7,1-16; Sal 88; Rom 16,25-27; Lc 1,26-38

Davide è il re grande e ideale d’Israele: è l’amato, scelto quand’era piccolo e debole per sconfiggere la presunzione dei Filistei.  Sua opera fu l’unificazione delle tribù d’Israele  attorno alla città di Gerusalemme. Davide è anche il peccatore: insegue le illusioni di un potere senza limiti quando strappa Betsabea a suo marito e quando organizza il grande censimento per affermare la grandezza d’Israele. E riconosce il suo peccato.

Davide cammina sul sottile crinale tra l’affidamento a Dio nella consapevolezza di essere stato amato e la pretesa di considerarsi autosufficiente, di costruirsi una grandezza umana indipendente dal legame con Dio da cui la sua vita dipende. Sta qui la radice contraddittoria del desiderio di Davide di costruire a Dio una casa: vuole porre un segno visibile della presenza di Dio al cuore del suo popolo, ma d’altra parte nutre anche il desiderio di manifestare così la grandezza di un regno che perde di vista il rimanere in cammino sotto la parola di Dio come nell’esodo.

Il profeta Natan, che richiama al disegno di Dio, pone in crisi questo disegno. Natan ricorda a Davide che Dio lo ha preso quando era debole e dimenticato. Il Signore non ha bisogno di segni di grandezza ma sarà lui stesso a costruire una casa a Davide. Davide è riportato al dono che sta alla radice della sua esperienza. Sarà ancora l’iniziativa di Dio a precederlo, sovvertendo e spiazzando i suoi progetti. Non un tempio di pietre sarà il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo ma una presenza vivente, un volto. sarà questa la casa che Dio costruisce per Davide capovolgendo il suo progetto di costruire una casa a Dio.  Il Dio d’Israele si rende vicino non in luoghi e costruzioni, ma nel volto di qualcuno, all’interno della storia.

Luca nel suo vangelo ha presente la vicenda di Davide e presenta Maria come la ‘nuova Gerusalemme, Sion’. Come sull’arca stava la nube, ombra di Dio (cfr. Sal 91,1-2) e segno della sua presenza, così in Maria sta l’ombra dell’altissimo: ‘Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”. Maria è presentata come casa vivente, in cui si rende vicina la presenza di Gesù che è salvatore. Nella sua vita si può trovare il segno di un volto di Dio che non chiede per sé templi e costruzioni ma si rende vicino nell’umanità.   

“Nulla è impossibile a Dio”. In queste parole è racchiuso il significato del Natale. Il Dio d’Israele, di Maria, di Gesù non abbandona la storia umana ma la prende con sè. Natale è invito ad aprirsi alla promessa di Dio che rende nuove tutte le cose e si umanizza nel volto di Gesù. Nel seguire lui possiamo scorgere le possibilità inedite di vivere accogliendo la presenza di Dio umanissimo che abita i volti.

Alessandro Cortesi op

Una casa per tutti

E’ notizia di questi giorni l’annuncio dell’arrivo dei vaccini che potranno costituire un argine al diffondersi della pandemia che ha segnato la vita di tutti i popoli della terra in questo anno. E’ stato infatti previsto l’inizio della distribuzione dei vaccini americani di Pfizer e Moderna e del vaccino prodotto da Astra-Zeneca e dall’Università di Oxford in collaborazione con l’Istituto Irbm di Pomezia (Roma).

E’ certamente una bella notizia che arreca sollievo in una stagione che ha portato tanta sofferenza e innumerevoli lutti e vede la presenza di un diffuso disagio e angustia per le difficoltà economiche conseguenti alla sospensione delle attività lavorative.

Tuttavia questa notizia si accompagna alla percezione che da questa crisi epocale generata dal virus Covid-19 l’umanità non riesca ad uscire in termini nuovi, abbandonando orientamenti che hanno generato disuguaglianze scandalose tra i popoli e ingiustizie che gridano al cielo. Infatti alla notizia dell’arrivo dei vaccini si è scatenata tra i Paesi una corsa ad accaparrarsi per primi le dosi disponibili senza attenzione al programmare una politica internazionale di equa distribuzione delle dosi. I Paesi più ricchi del pianeta hanno già fatto la parte del leone assicurandosi gran parte della produzione di vaccini.

I governi dell’India e del Sudafrica si sono fatti promotori di un appello a livello mondiale presentato all’Organizzazione mondiale del commercio in cui chiedono che si deroghi alla legislazione sui brevetti e ai diritti di proprietà individuale per il tempo in cui la pandemia sarà in corso per quanto riguarda vaccini, dispositivi di protezione personale e altre tecnologie mediche. E questo per far sì che anche le popolazioni più povere possano avere accesso alla fornitura dei vaccini e dei dispositivi diagnostici e di protezione. Ciò consentirebbe una condivisione dei risultati di ricerche e sperimentazioni e potrebbe condurre a collaborazioni più ampie nella produzione di medicinali e vaccini destinati a contrastare il contagio.

Appare peraltro come sinora la Commissione europea non abbia dato segni di accoglienza di questo appello e nemmeno il governo italiano – nonostante le affermazioni espresse a livello ministeriale sul vaccino come bene comune – abbia compiuto passi concreti per aderire a tale proposta.

Una lezione emerge con chiarezza dall’esperienza globale della pandemia: è la scoperta – se ce ne fosse ancora bisogno – della rilevanza dell’interconnessione e della comunicazione stretta di popoli e persone propria del nostro mondo, e della relazione fondamentale con l’ambiente. Si potrebbe dire in termini più semplici che la pandemia ci sollecita a scorgere le dimensioni di una casa quale ambito in cui nessuno può salvarsi da solo senza gli altri. La vita dell’umanità viene ad assumere i contorni di una casa comune in cui rendersi contro della responsabilità degli uni per gli altri e nei confronti del creato. Ogni perseguimento di visioni egoistiche ed esclusive è destinato a fare i conti con un fallimento globale con conseguenze nefaste di distruzione non solo per qualcuno ma per tutti.

Questo tempo è occasione per scorgere che possiamo custodire e costruire oppure distruggere e rovinare questa casa, di volti e di popoli. E così rispondere alla promessa e chiamata di Dio stesso, Dio che non vuole, per sè, una casa, ma che desidera donare una casa di volti, di presenze, di incontro.

Alessandro Cortesi op

Natale 2019 – omelia nella notte

foto Francesco Bellina - Mar Ionio Mediterranea

Ci è stato dato un figlio…

La notte del Natale respira di attesa, di silenzio, di interiorità. E’ come una sosta in una lunga corsa, come un attimo di tregua che interrompe le nostre vite tanto frettolose e percorse spesso solo in superficie. E’ occasione per pensieri che si fanno ricordo, memorie di infanzia, o anche riflessione interiore che lascia spazio alle profondità, a quanto è racchiuso nel segreto dei cuori. E’ momento in cui torna a galla una nostalgia e un’attesa che si potrebbe sintetizzare nelle parole: attesa di bene, desiderio di serenità, per sé per gli altri. E’ momento di affetti, di desiderio di sentirsi a casa, nel ritrovare le cose essenziali.

Don Luigi Ciotti testimone di lotta contro le mafie ha invitato in questi giorni a vivere in profondità il Natale guardando alle relazioni: “C’è un aspetto del Natale che va preservato dal consumismo: le relazioni, la convivialità, il ritrovarsi nel calore e negli affetti. E, ovviamente la gioia dei bambini, la trepidante attesa… Ma Natale non è solo il momento di festa e di gioia, è anche un’occasione di riflessione e di pensiero. Il Natale tocca i nostri cuori ma interpella anche le nostre coscienze. Ci domanda non solo di essere genericamente ‘buoni’, ma anche concretamente giusti, cioè darci di più da fare per chi è vittima delle ingiustizie, per chi arranca nel deserto degli affetti e dei diritti prodotto dagli egoismi dell’Occidente del profitto e dell’opulenza” (messaggio di liberacontrolemafie su Instagram 24.12.2019)

Mi ha colpito questo accostare insieme lo sguardo a Natale come momento di gioia e la provocazione a vivere Natale come opportunità di riflessione: il riferimento ad una bontà che può essere generica e la sfida ad essere concretamente giusti…

Siamo qui questa sera per lasciare spazio a questi pensieri e soprattutto perché la parola di Dio possa raggiungerci, per affinare la nostra vista, lo sguardo interiore, e lasciarlo raggiungere da una luce che non viene da noi…

“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…” Cosa vuol dire festeggiare Natale nel tempo dei populismi e dei fondamentalismi che sono così diffusi in questo momento storico a livello globale e vicino a noi? Sono modi semplicistici di vedere la realtà. ogni complessità è ridotta a slogan. Vi è una protesta indifferenziata contro ogni tipo di élites. E’ soprattutto coltivata intolleranza verso chi è altro. E tale fondamentalismo come attitudine si esprime in tante forme sia religiose sia non religiose. Quale luce siamo chiamati a seguire, una luce per tutto il popolo, in un momento in cui l’identità dei popoli è esaltata contro gli altri nella chiusura di frontiere e di cuori?

Cosa può voler dire accogliere la chiamata ad essere concretamente giusti, inseguendo le tracce suggerite ai pastori dai messaggeri: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia..” Timothy Radcliffe, ex maestro dell’Ordine dei domenicani, parlando de La fede al tempo dei fondamentalismi ha offerto importanti indicazioni: dice innanzitutto “La nostra fede deve entrare in contatto con le speranze e le paure dei nostri contemporanei che sono attratti dalla cultura fondamentalista”. Le proposte del populismo attraggono oggi coloro che si sentono lasciati indietro in un mondo di ricchezza in cui si percepiscono esclusi.

Un primo movimento a cui siamo chiamati oggi è ascoltare il dolore di tanti invisibili senza quella attitudine di disprezzo verso di loro: si tratta di ascoltare e capire ragioni di disagi che attraversano la nostra società. Si tratta di leggere segni che indicano sofferenze e disagi, si tratta di ascoltare, in un tempo in cui non si dà spazio all’ascolto dell’altro.

Ma c’è poi un secondo movimento da coltivare: è quello di proporre qualcosa di autenticamente fondamentale che possa indirizzare la vita secondo un orizzonte di senso autentico, profondo. Quella ricerca di una chiara identità che è il motivo di fondo spesso di attitudini populiste e fondamentaliste (l’identità data da segni di appartenenza culturale…) è una ricerca da assumere e da indirizzare oltre le piccole e ristrette identità. E’ una ricerca da assumere però provocando ad allargare l’orizzonte.

I pastori nella notte di Natale sono invitati ad uscire a scoprire che la loro storia non è storia dimenticata. Anche nella loro vita era presente la paura, questo sentimento proprio del nostro tempo. E il primo annuncio che ricevono da messaggeri che vanno loro incontro è: ‘Non temete’. L’invito è quello a scorgere nella loro vita una luce. E sono spinti a ricercare la loro identità in una relazione nuova. E a ripensare il volto stesso Dio al di là di ogni pensiero e costruzione umana. Ad incontrare Dio stesso non come costruzione di una religione strutturata come sistema culturale, ma Dio come ignoto. Un Dio come lo sconosciuto che ci raggiunge in un bambino, senza difese, inerme, avvolto in fasce e che nel suo silenzio interroga. Il volto di uno degli esclusi tenuti fuori perché senza diritti e senza difese.

Ieri 23 dicembre la prima pagina di “Avvenire” apriva con un titolo grande ‘Ci è stato dato un figlio’ e seguiva un bellissimo articolo di Nello Scavo, giornalista bravo e coraggioso, sulla storia di Simba, uno dei bambini salvati a fine agosto dalla nave Mar Jonio di Mediterranea: era uno dei superstiti del naufragio di un gommone in cui viaggiavano moltissimi bambini. E la foto sottostante al titolo, di Francesco Bellina, mostra il drammatico momento in cui questo bambino, nella notte, dopo giorni di attesa per il permesso di sbarco, tra le onde del mare agitato, viene salvato passandolo dalle mani di un soccorritore della Mar Ionio a quelle di un militare della Guardia costiera. Anche oggi ‘ci viene dato un figlio’…  e proprio a Natale dovremmo scoprire che Gesù mostra un volto di Dio che chiede di riconoscerlo nei più piccoli, in chi è tenuto fuori. Sta lì il segreto di una speranza e della salvezza.

Come i pastori, anche noi siamo invitati ad essere cercatori di segni, lettori capaci di inseguire quelle indicazioni scorgendo come il sogno di Dio è dono di accoglienza e di pace: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace ai popoli che egli ama…

Alessandro Cortesi op

Navigazione articolo