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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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II domenica del tempo ordinario – anno B – 2024

1Sam 3,3-10.19; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

La storia di Samuele inizia con il pianto di Anna avvilita per la sua sterilità. Ed insieme con un rimprovero del sacerdote perché Anna nel suo piangere davanti a Dio non aveva un contegno religioso. Tutto si capovolge quando Anna partorisce un figlio e si manifesta il volto di un Dio che rovescia i modi di pensare umano, sta dalla parte dei ‘poveri’ e spezza le armi dei violenti. Samuele dopo la nascita è consegnato al Signore e vive presso il tempio. La pagina della sua chiamata è centrata sull’irrompere della parola e sull’ascolto. Samuele accoglie una voce ma non sa da dove proviene; solo dopo vari tentativi può aprire il cuore e dire ‘eccomi’ a Dio stesso. Nel racconto si rende presente Dio che rivolge la sua parola e chiama per nome. Come per Abramo e Mosé anche Samuele viene raggiunto in modo inatteso e vive la fatica discernere  da dove proviene quella voce che lo inquieta. Il suo itinerario trova aiuto nel vecchio sacerdote Eli, paziente nel lasciare spazio alla ricerca del giovane, attento e discreto nell’indicare l’apertura ad un incontro e l’ascolto dell’Ineffabile.

Un grande messaggio di questa pagina è che Dio chiama, rivolgendo la sua parola, continua a chiamare nella storia e suscita attenzione e ascolto. E’ una voce debole, può sempre essere confusa con altre voci. Ma c’è un altro messaggio: ascoltare le chiamate di Dio non può compiersi senza un confronto, senza un’altra parola, questa volta umana. La parola di Dio richiede la fatica dell’ascolto e dell’interpretazione, da attuare continuamente ed insieme. Le chiamate di Dio sono parola che raggiunge non in modo impersonale e asettico, ma come invito personale. Per ogni persona si apre la via di compiere il proprio nome, con originalità e immaginazione creativa: il dono ricevuto può germogliare in modi inediti.

Nella pagina del vangelo i primi discepoli sono fermati nel loro iniziale seguire Gesù. C’è all’inizio un incrocio di sguardi e di inviti a ‘vedere’. Per accogliere Gesù è richiesto camminare dietro a lui: ‘venite e vedete’. Si tratta del ‘credere’ come esperienza e coinvolgimento dell’esistenza, che apre ad nuovo vedere. L’invito che Gesù è seguito da una domanda: ‘che cosa cercate?’ Gesù non si impone con le sue risposte: apre una ricerca, lascia spazio ad una inquietudine oltre ogni pretesa di chiudere anche la sua presenza entro i ristretti confini di una ‘religione’ o di un tempio. Da qui si apre una strada che condurrà fino alla domanda rivolta a Maria di Magdala in pianto nel giardino (Gv 20,11): ‘Donna, perché piangi? Chi cerchi?’. L’intero vangelo si presenta come itinerario per giungere alla domanda ‘chi cerchi?’. Ed apre ad un vedere quale sguardo dell’amore che vince la morte. Tutto ciò nel racconto avviene all’interno di una rete di relazioni. Sono gli incontri della quotidianità, della parentela e dell’amicizia: Andrea è fratello di Simone, Filippo è della città di Andrea, Filippo incontra Natanaele…L’esperienza dell’incontro con Gesù si genera all’interno di un quotidiano  di relazioni e di incontri nel tessuto ordinario della vita.
Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica tempo ordinario anno A – 2023

Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

Mangiare insieme è una delle espressioni fondamentali della vita umana e dell’incontro con gli altri. E’ esperienza che trova modalità diverse nelle varie culture ma racchiude una profonda potenza simbolica. L’immagine del banchetto sta al centro delle promesse profetiche che annunciano il tempo del messia, un futuro segnato dall’intervento di Dio, dal compiersi del suo disegno sulla storia.

Isaia usa questa immagine del banchetto per evocare un incontro dei popoli sul monte di Sion. E sarà condivisione di un cibo preparato per tutti da Dio stesso. Questo stare insieme a tavola è parte di un futuro in cui anche la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro, e Dio stesso è più forte della morte che genera sofferenza e paura. Il Signore stesso prepara un banchetto aperto all’incontro di pace di tutti i popoli.

Le testimonianze dei vangeli attestano la partecipazione di Gesù a momenti conviviali e la condivisione che egli ha attuato attorno alla tavola rompendo barriere di separazione e attuando una accoglienza aperta con esclusi, irregolari, marginali. Anche nelle sue parole Gesù rinvia spesso al motivo del banchetto (Lc 14,16-24; Mt 25,1-12).

Nel vangelo di Matteo la condivisione della tavola è esperienza che fa scorgere come il dono di Dio oltrepassa ogni confine di separazione religiosa. Così Gesù è ammirato di fronte alla fede del centurione: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. .. molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La pagina degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) unisce insieme due parabole con sottolineature diverse nel quadro del confronto di Gesù con le autorità religiose presso il tempio di Gerusalemme. Nella prima parabola gli invitati non accolgono l’invito ad una festa e l’invito è portato ad altri; nella seconda la veste per la festa rinvia alla responsabilità di chi è invitato.

La parabola narra di un re che dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di disprezzo violento. I servi sono inviati a più riprese per trovare invitati e il re giunge a dire loro di chiamare alle nozze ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete…’.

Coloro che vengono invitati per primi non si lasciano toccare dall’annuncio di gioia e dalla possibilità di incontro che il re offre loro: sono chiusi in una condizione di sicurezza che li rende insensibili. La vicenda è da leggere nel quadro dello scontro di Gesù con le autorità religiose. Esse sono esempio di un modo di vivere la religione in termini di autosufficienza, di potere e di chiusura all’incontro. Nella parabola è presentata così in forma narrativa la dura affermazione di Gesù: “i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio” (Mt 21,31). L’agire di Gesù manifesta come il Padre ama tutti coloro che si aprono ad accogliere un invito di incontro, di convivialità, di condivisione di vita e di salvezza. Coloro invece che si credono giusti, chiusi nelle loro certezze e nel loro orgoglio non accolgono l’invito. Troppo concentrati sui propri meriti, al punto da avere una visione di condanna degli altri, di intransigenza e intolleranza non si aprono ad accogliere la grazia di Dio che opera nei cuori.

Il cuore della parabola sta nell’accento sulla chiamata del re che invita ad un banchetto e ad un incontro di gioia. E’ un invito aperto a tutti ‘buoni e cattivi’. E’ ancora un annuncio del regno di Dio: Dio ama senza limiti, invita buoni e cattivi, offre un futuro nuovo e dona misericordia.

Il secondo momento che costituisce una seconda parabola vede la scena del banchetto tramutarsi rapidamente: un invitato non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. La veste indica la dimensione dell’agire, la coerenza tra fede e vita (cfr.  Ap 19,8). Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una fede senza coinvolgimento della vita: ‘Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli…’ (Mt 7,21).

Al cuore di questa seconda parabola sta l’annuncio di una responsabilità da vivere a fronte del dono del regno di Dio. Partecipare al banchetto è appello ad una risposta che implica il coinvolgimento della vita ed una prassi coerente: la veste bianca è simbolo di tale stile.

Alessandro Cortesi op

III domenica tempo ordinario – anno A – 2022

Is 8,23b.9,1-3; 1Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23

“In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre  ha visto una grande luce…” Così Isaia evoca la vicenda di due tribù del Nord della Palestina. Qui giunse la devastazione degli Assiri e la deportazione nel 732 a.C.

Isaia racchiude tale riferimento sotto il segno delle tenebre. Queste tribù ai margini d’Israele nel ‘territorio dei pagani’ subiscono distruzione e assoggettamento ad un dominio straniero. Ma le tenebre lasciano il posto al sorgere di una luce nuova: “su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete”. Isaia annuncia una liberazione dagli assiri e vede in questo l’agire di Dio che libera e salva: “Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva”. Il profeta annuncia che i deportati saranno liberati e insieme il venire di un regno di pace guidato da un re ancora bambino: “grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine” (Is 9,6).

Questo testo di Isaia è ripreso e citato da Matteo nel suo vangelo, dopo i capitoli dell’infanzia e dopo il racconto del battesimo al Giordano. E’ un testo che introduce l’inizio dell’attività di Gesù che si reca nel territorio del Nord d’Israele, la Galilea. Gesù torna in Galilea, non a Nazareth bensì a Cafarnao. Una luce grande entra nella storia proprio nelle zone di confine, nella terra dei pagani. Matteo scorge nel cammino di Gesù un compimento dell’annuncio di Isaia, come il sorgere di una luce. E’ questo un tema a lui caro: aveva presentato i magi, pagani, come ricercatori e inseguitori della luce della stella giunti sino ad incontrare Gesù, bambino in braccio a sua madre (Mt 2,1-12).

Questo ritorno alla Galilea è ricco di richiami: Gesù si reca nella provincia dei pagani mentre già si delinea l’esito della sua vita. Ha saputo che il Battista è stato arrestato, ‘consegnato’: nella sua vicenda già s’intravede il destino di Gesù nella sua passione e Gesù si reca allora in Galilea. Matteo presenta Gesù come Messia non solo per Israele ma per tutti i popoli. L’intero vangelo è racchiuso in questa grande prospettiva: Gesù è venuto per annunciare il ‘vangelo del regno’ a tutti i popoli della terra: “Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine” (Mt 24,14).

‘Convertitevi’ è l’appello di Gesù in rapporto alla ‘signoria dei cieli’ vicina. Gesù richiama al cuore della sua missione e chiede un cambiamento di orientamento dell’esistenza. La signoria di Dio è un modo nuovo di vivere, alternativo a quello dei regni del mondo, accogliendo il dono di presenza di Dio. Il regno è dono di una vita diversa, liberazione da ogni dominio, nell’affidamento a Dio che si prende cura dei suoi figli così come vede i gigli del campo, e nella condivisione. Nel suo agire Gesù rende presente un nuovo rapporto possibile con Dio e con gli altri, nella fiducia al Padre e nella fraternità che coinvolge l’intera esistenza.

‘Venite dietro a me’. Il primo gesto di Gesù è un incontro e la chiamata a seguirlo. Vide due fratelli, Simone e Andrea. Il suo ‘vedere’ raggiunge il loro cuore e li chiama nella loro attività quotidiana, nella normalità del loro lavoro mentre gettavano le reti in mare. Li chiama ad essere ancora pescatori, ma in modo nuovo: non per portare morte ma per portare vita. In un rapporto personale e di vicinanza a lui stesso nel seguire i suoi passi. Li chiama ad essere ‘pescatori di uomini’ per portare vita e condividere nel loro cammino la novità del regno cuore del suo annuncio.  

Alessandro Cortesi op

Imparate a fare il bene, cercate la giustizia (Is 1,17)

E’ questo il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che in questi giorni viviamo. Ogni anno il sussidio con le proposte di preghiera è preparato da un gruppo di lavoro di chiese locali  in varie regioni del mondo. Quest’anno la proposta proviene dal Consiglio dalle chiese del Minnesota (USA). Nell’introdurre i testi di preghiera della settimana si osserva che “Il linguaggio del profeta riguardo la religiosità del tempo è spietato: Le vostre offerte sono inutili. L’incenso che bruciate mi dà nausea. […] Quando alzate le mani per la preghiera, io guardo altrove (Is 1, 13-15)”.

In particolare è notato come anche oggi vi sia ingiustizia e viene focalizzato il peccato di razzismo: “Oggi, la divisione e l’oppressione continuano a manifestarsi quando a un singolo gruppo o classe sociale vengono accordati dei privilegi rispetto ad altri. Il peccato di razzismo è evidente in qualsiasi fede o prassi che distingua o elevi una “razza” rispetto ad un’altra; quando accompagnato o sostenuto da squilibri di potere, il pregiudizio razziale va oltre le relazioni individuali e giunge fino alle strutture stesse della società, divenendo un fenomeno sistemico”. Anche “i cristiani si sono troppo spesso coinvolti in strutture di peccato come la schiavitù, la colonizzazione, la segregazione e l’apartheid, che hanno deprivato gli altri esseri umani della loro dignità, adducendo il falso motivo della razza” (SPUC 2023 p.11).

Vengono ricordate le parole di Martin Luther King che alle undici della domenica mattina si percepisce la disgregazione e la divisione delle chiesa anziché quello che dovrebbe essere la loro unità in riferimento al Signore a cui è dedicato il primo giorno della settimana. E si annota: “Tutte le divisioni affondano le loro radici nel peccato, cioè negli atteggiamenti e nelle azioni che vanno contro l’unità che Dio desidera per tutta la sua creazione. Il razzismo è tragicamente parte del peccato che ha diviso i cristiani gli uni dagli altri, ha fatto sì che i cristiani pregassero in momenti separati, in edifici separati e in alcuni casi ha portato le comunità cristiane a dividersi” (SPUC 2023, 12).

“L’invito di Isaia rivolto a Giuda a ricercare la giustizia (cfr Is 1, 17) implica il riconoscimento dell’ingiustizia e dell’oppressione che segnavano la loro società. Egli implora il popolo di Giuda di rovesciare questo status quo. Ricercare la giustizia ri- chiede di affrontare coloro che infliggono il male agli altri: non è un compito facile e a volte porterà al conflitto, ma Gesù ci assicura che difendere la giustizia di fronte all’oppressione è la strada per il Regno dei cieli: “Beati quelli che sono perseguitati perché fanno la volontà di Dio: Dio dona loro il suo regno” (Mt 5, 10). In molte parti del mondo le chiese devono ammettere che si sono conformate alle norme sociali e sono rimaste in si- lenzio, a volte addirittura complici dell’ingiustizia razziale” (SPUC 2023, 13).

Il richiamo è a volgersi in una direzione diversa, intraprendendo un’opera di giustizia che tenda a costruire rapporti nuovi nei termini della giustizia riparativa:  “Il nostro impegno reciproco ci richiede di coinvolgerci nella Mishpat, termine ebraico che indica la giustizia riparativa, sostenendo coloro le cui voci non sono state ascoltate, smantellando le strutture che creano e sostengono l’ingiustizia e costruendone altre che promuovano e assicurino che tutti ricevano un trattamento equo e siano rispettati nei diritti a loro dovuti”. (SPUC 2023, 15)

Si ricorda che per molto tempo il Minnesota ha costituito uno dei luoghi di maggiore discriminazione razziale negli USA. In particolare è evocato l’evento dell’impiccagione di trentotto indigeni Dakota appartenenti alla grande nazione Sioux il giorno dopo Natale del 1862. Ma ancora recentemente nel marzo 2020 un giovane afro americano George Floyd è stato ucciso da un agente di polizia, a Minneapolis suscitando la reazione di molte parti del mondo quale protesta contro l’ingiustizia al grido “Black lives matter”. “… la storia delle chiese negli Stati Uniti include le questioni razziali come un importante fattore di divisione ecclesiale” (SPUC 2023, 18)

Mentre si preparavano a morire, i trentotto Dakota cantarono l’inno Wakantanka taku nitawa (Molti e grandi). Qui le parole di questo canto:

Di questo cielo, di questa terra (Testo italiano: Carlo Lella)

Di questo cielo, di questa terra, / Tu sei il creatore.
Tu hai donato al cielo le stelle, / poi le hai sparse nell’infinito.

E sulla terra la tua Parola / muove la pioggia, i mari.

Di questo cielo, di questa terra, / Tu sei il creatore.
Tu che unisci il cielo e la terra, / guida le nostre vite disperse.
La vita è il seme che ci hai donato, / vita, con Te, eterna.

Alessandro Cortesi op

Qui si può scaricare il sussidio di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2023)

V domenica del tempo ordinario – anno C – 2022

Is 6,1-2.3-8; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

Il tema della chiamata ritorna nella prima lettura e nel vangelo. La vocazione del profeta Isaia e la vocazione di Simone sono paradigma della vocazione di ogni credente.

La chiamata di Isaia è posta in un contesto liturgico e solenne, nell’anno 740 a.C. Isaia è un sacerdote di Gerusalemme, e vive un’esperienza particolare di vicinanza di Dio proprio mentre sta per svolgere il culto. Tra le volute dell’incenso nello spazio sacro percepisce la gloria di Dio: Dio che si manifesta a lui rimane tuttavia inaccessibile. Il racconto esprime questo presentando la reazione di Isaia che dice la sua piccolezza di fronte alla santità di Dio. E subito dopo il segno delle labbra toccate dal carbone dell’altare racchiude un’investitura ad essere portatore di una parola proveniente da Dio che è come fuoco che purifica e consuma. “Chi manderò e chi andrà per noi?”. Isaia risponde “Eccomi, manda me”. Due movimenti compaiono in questo racconto di chiamata: da un lato l’irrompere di una iniziativa inattesa, sorprendente da parte di Dio, che si rende vicino in modo irresistibile.  La sua vicinanza trasforma non lascia indifferenti. D’altro lato la disponibilità ad un coinvolgimento per una missione: ‘eccomi manda me’. Accettando la chiamata Isaia sceglie di entrare nel rischio della fede. Così sarà il suo annuncio tutto centrato su di un richiamo al credere come unica esperienza per trovare stabilità e senso (Is 7,9b). Nelle sue parole proporrà la fiducia nel Dio dell’alleanza in contrasto alla ricerca d sicurezza nell’uso delle armi e per via di alleanze con gli imperi del tempo. Isaia si farà portatore del sogno messianico, di un tempo nuovo di pace e gioia in cui le spade saranno trasformate in vomeri e le lance in falci, un tempo di giustizia in cui un bambino sarà principe della pace (Is 9,5; 11,6).

Luca presenta la chiamata di Simone in un contesto diverso, di lavoro, di quotidianità, sulle rive del lago. Dopo una notte di fatica Simone, pescatore esperto e conoscitore dei segreti del lago, rientrava a riva con la sua barca vuota. Segno di un fallimento e di delusione. La parola di Gesù raggiunge questi pescatori sfiduciati che gli dicono “abbiamo faticato … non abbiamo preso nulla”. Gesù invita Pietro a prendere il largo e a gettare le reti ancora. Da questo invito accolto prende le mosse un nuovo partire: “Sulla tua parola getterò le mie reti”. La pesca è abbondante oltre ogni attesa e misura. E’ un esito che supera ogni previsione umana. Il racconto indica così la fecondità nuova che è generata nella vita dalla parola di Gesù accolta. Pietro avverte così la sua condizione di peccatore davanti alla forza della parola di Gesù. E rimane cambiato dalla forza della sua parola. C’è una insistenza propria di Luca sulla parola di Gesù che genera cose nuove nella vita di chi l’accoglie. Lo stupore è il sentimento che permea il racconto. Pietro anziché essere allontanato, viene chiamato da Gesù ad essere pescatore in modo nuovo. Sarà chiamato ancora a gettare reti nuove sulla parola di Gesù: ‘pescatore di uomini’ indica un modo di orientare l’esistenza a servizio degli altri. Luca sottolinea anche un altro aspetto della chiamata, la disponibilità nello scegliere una nuova gerarchia delle cose importanti nella vita. Tutto il resto vale meno rispetto al seguire Gesù e la sua parola. Si tratta di una scelta di povertà, propria dei discepoli, che diviene via di libertà da quanto può essere di peso e far perdere l’essenziale. ‘Non temere’… La vita al seguito di Gesù non è esperienza di paura ma di gioia nuova.

Alessandro Cortesi op

Pescare, insieme

Un mosaico del sec XIV della Basilica di San Marco a Venezia – situato nella volta nord della Cappella di sant’Isidoro – riprende l’episodio della pesca miracolosa. Nell’immagine si possono individuare vari elementi. Il lago e la barca sono raffigurati al centro. Sono posti nell’immagine in rapporto ad un gruppo di persone sulla sinistra, riferimento alle folle a cui si rivolge l’insegnamento di Gesù, e ad un profilo di città che appare sulla destra.

Il lago al centro è simboleggiato dalle onde tra le quali sta navigando la barca. In questa sono presentati i profili non solo degli apostoli ma anche di Gesù insieme con loro contornato da un’aureola nimbata. I particolare è riferiemnto al testo di Lc 5,3 in cui viene indicato che Gesù seduto sulla barca ammaestrava le folle dopo che la barca si era un po’ scostata da terra. Gesù seduto sulla prua si rivolge quindi alle folle. Nel mosaico si unisce quasi in un’unica narrazione anche la scena successiva. Gesù invita Simone a prendere il largo e calare le reti (Lc 5,4). Sulla barca sono presenti sette discepoli di cui due sono impegnati nello stendere le reti. In questo particolare si può ritrovare un rinvio all’episodio narrato nel IV vangelo: al momento della manifestazione di Gesù risorto sul lago sette sono i discepoli indicati per nome che seguono Pietro (Gv 21,2-3). Nella scritta al di sopra del mosaico si fa poi riferimento al conteggio pesci, “IUSSIT PISHANTUR CAPIUNTUR VEL NUMERANTUR” (Comandò di pescare. I pesci sono presi e vengono contati). E’ questo un particolare che riporta al IV vangelo in cui sono indica 153 grossi pesci quale esito della sorprendente pesca (Gv 21,11).

Nella raffigurazione del mosaico è da rilevare da un lato l’atteggiamento di Gesù che parla con la folla: viene quindi posto in rilievo il suo insegnamento dalla barca in cui è seduto. D’altra parte la sua presenza sulla barca mentre i discepoli stanno tirando su le reti si apre ad un’ulteriore interpretazione. Ora la pesca avviene con lui. Quella fatica che costituiva la quotidianità dei suoi discepoli assume una profondità ed un significato nuovo.  Gesù chiede loro di prendere il largo e gettare le reti: si tratta del loro lavoro e il rinvio va al fallimento della pesca di quella notte in cui avevano faticato ma non avevano preso niente. Ma ora Gesù li invita ad agire insieme a lui, con quella parola che racchiudeva l’orientamento della sua vita e la sua chiamata. E’ quanto Simone esprime dicendo “sulla tua parola getterò le mie reti”. La presenza di Gesù sulla barca simboleggia questa pesca compiuta sulla sua parola.

Si può cogliere come il mosaico, con linguaggio visivo, indichi vari aspetti dell’incontro con Gesù: in primo luogo evidenzia l’importanza del suo insegnamento, del suo parlare alla folla; esprime poi la risposta ad una chiamata nel compiere quanto Gesù aveva indicato, nel vivere l’impegno quotidiano, nel compiere l’operare della pesca insieme a lui, basandosi sulla sua parola. Infine esprime la sorpresa della fecondità inattesa: il gran numero di pesci che vengono pescati e contati. Il numero dei discepoli nella barca racchiude anch’esso un simbolismo: sono infatti raffigurati in numero di sette e accanto a loro Gesù. Si indica così una pienezza di vita racchiuso nel numero sette a cui si aggiunge la presenza di Gesù che si apre all’incontro con Dio stesso – otto è numero che si riferisce all’ottavo giorno compimento della vita umana ed alla risurrezione -. Nel gesto di gettare le reti si può scorgere l’importanza dell’operare quotidiano che compiuto insieme a Gesù trova fecondità nuova. Nel contempo in questo agire si apre la chiamata ad essere portatori di una vita (pescatori di uomini) che è già partecipazione ala risurrezione di Cristo e trova in lui salvezza.

Alessandro Cortesi op

III domenica tempo ordinario – anno B – 2021

Caravaggio, Vocazione di Pietro e Andrea (1603-1606) – Hampton Court Londra

Gn 3,1-5,10; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20

Il tempo ordinario dell’anno liturgico guida a ripercorrere i passi di coloro che hanno accolto una chiamata che ha cambiato la loro vita ponendoli in un cammino nuovo di ascolto, di cambiamento, di scoperta: è la storia di Giona che ascolta la parola ‘Alzati, va’ a Ninive la grande città’ E’ la storia di Simone e Andrea , di Giacomo e Giovanni, chiamati lungo il mare da Gesù che andarono dietro a lui.

‘Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo’. Due imperativi e due indicativi in riferimento al tempo e al ‘regno di Dio’. Gesù indica un tempo unico, un’occasione che richiama ad una urgenza di cambiamento e di risposta. E’ invito a cambiare in radice il modo di pensare l’intera esistenza.

Nel suo vangelo Marco indica che Gesù inizia la sua predicazione in un preciso momento: ‘dopo che Giovanni fu arrestato’. Sulla sua vicenda quindi si staglia la figura di Giovanni. E è già indicazione della via di rifiuto e ostilità fino alla morte che anche Gesù dovrà affrontare. A differenza di Giovanni, profeta del deserto e della minaccia di un giudizio imminente, Gesù intraprende il suo annuncio dalla Galilea, regione dei pagani (Is 8,23). Ciò che Giovanni annunciava come esigenza e radicalità è da Gesù presentato come dono gratuito di salvezza per tutti che genera una vita rapporti nuovi con Dio e con gli altri.

Il suo annuncio richiama al tempo: ‘Il tempo è compiuto’. L’uso del verbo al passivo indica che si tratta di una pienezza di cui Dio stesso è protagonista: è Dio stesso che sta compiendo un disegno di salvezza nel tempo. Gesù richiama così a tutto il tempo precedente, a quanto Dio stesso ha operato in tutta la storia di Israele e dell’umanità ed insieme annuncia qualcosa di nuovo: il tempo ora, con la sua presenza, acquista uno spessore particolare. E’ tempo in cui Dio visita ed offre salvezza. La presenza di Gesù offre senso a tutto ciò che sta prima di lui e a tutto ciò che verrà dopo.

Il regno di Dio era attesa presente in Israele: indicava la speranza di un re giusto, discendente di Davide, portavoce di Dio su Israele (Is 6,1-3; 43,15). Era anche attesa di un grande profeta come Mosè (Dt 18,15). Dopo l’esilio  si era fatta strada l’attesa di un intervento glorioso di Dio stesso per tutti i popoli (Mi 2,13; 4,7; Sof 3,15; Ger 3,17; 8,19; Zac 14,9). L’annuncio di Gesù accoglie queste attese e dice che il regno si è reso vicino, ha fatto irruzione nella storia. Nelle sue parole e nelle sue opere presenta la pretesa di esprimere lo stile di Dio che sta dalla parte dei poveri e chiama a rapporti nuovi di fraternità. In Gesù già il regno è presente è vicino, e tuttavia è come un piccolo seme.

Da questo annuncio sgorga il duplice imperativo ‘convertitevi e credete al vangelo’: il regno è dono ed è chiamata aperta che chiede coinvolgimento responsabile. Convertirsi è mutamento interiore e radicale della vita, richiede scelta di orizzonti nuovi su cui impegnare energie e tempo. Accogliere il regno significa rivedere i criteri di valutazione della nostra esistenza e affidarsi alla bella notizia del vangelo.

Dopo questo annuncio Gesù chiama a seguirlo. Non chiama ad apprendere un quadro di insegnamenti, né a particolari gesti religiosi: ciò che richiede è stare don lui e dietro a lui: seguirlo sulla sua strada. Chiama Simone e Andrea mentre gettavano le reti in mare. La sua chiamata giunge nella quotidianità, mentre gettavano le reti nel loro quotidiano impegno di pescatori.  ‘Venite dietro a me’ è l’invito che implica rottura con il passato e trasformazione radicale della vita: ‘vi farò diventare pescatori di uomini’. Marco nel suo racconto annota una immediatezza della risposta: ‘Subito, lasciate le reti, lo seguirono’. Seguire Gesù, rendersi disponibile per il regno che è vicino ha carattere di urgenza, richiede disponibilità senza riserve e compromessi.

Saranno ancora ‘pescatori’, ma in modo nuovo, in rapporto ad altri. Così pure ‘vide Giacomo, figlio di Zebedeo e Giovanni suo fratello’. Lo sguardo di Gesù si fissa su ciascuno nella sua unicità. La sua chiamata comporta una rottura, un abbandono, ma anche una disponibilità ad andare dietro a lui venuto per dre la sua vita per tutti (Mc 10,45). L’intero vangelo di Marco presenterà Gesù che cammina lungo la via predicando il regno e aprendo faticosamente ai suoi  discepoli la strada su cui seguirlo fino alla croce.

Alessandro Cortesi op

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2021)

La settimana di preghiera tenutasi per la prima volta nel 1908 come Ottava per l’unità della Chiesa dagli anni ’30 su iniziativa dell’abbé Paul Couturier di Lione si è allargata a tutti i cristiani. Dal 1966 la commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese e il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani organizzano la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. E’ un momento di preghiera per favorire l’incontro e i dialogo dei cristiani in tutto il mondo e per camminare insieme ad accogliere la preghiera di Gesù: “che tutti siano uno, perché il mondo creda” (Gv 17,21). Ogni anno un gruppo ecumenico diverso prepara il materiale.

Quest’anno la preparazione del materiale per la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è stata affidata ad una comunità monastica, la comunità di Grandchamp nel cantone di Neuchâtel in Svizzera. E’ importante scorgere l’importanza di questa scelta: la comunità di Grandchamp vede le sue radici in una esperienza particolare sorta negli anni ’30 del secolo scorso da una associazione di donne sposate protestanti denominate “Dames de Morges” di cui animtarice era Geneviève Micheli (1883 – 1961). Nel 1936 una di esse Marguerite de Beaumont (1895 – 1986) iniziò una vita stabile e ad essa seguirono altre nel 1940 tra cui la stessa Geneviève. Nel 1952 le prime suore s’impegnarono in modo definitivo pronunciando i voti di povertà castità obbedienza ed assunsero la regola e l’ufficio liturgico di Taizé.

Il radicamento nell’ascolto della Parola, l’attenzione alla tradizione della chiesa, la ricerca di una vita comune sono i tratti caratterizzanti di questa comunità. Nei contatti con comunità anglicane cattoliche e ortodosse si attuò una riscoperta della vita monastica e l’impegno a portare la sofferenza per la divisione dei cristiani ponendo la preghiera di Gesù per l’unità a radice della propria esistenza. L’incontro di Paul Couturier e con Roger Schutz e l’esperienza di Taizé divennero determinanti per il cammino.

La comunità di Grandchamp costituisce così un’esperienza originale nel quadro del cristianesimo riformato che sulla base delle critiche di Lutero aveva rinunciato ai voti monastici. A partire dal priorato di suor Minke De Vries priora a Grandchamp dal 1970 al 1999 la professione delle suore è compiuta nelle mani della priora e con la presenza di pastori. La comunità ha una struttura indipendente e pur intrattendo ottime relazioni non dipende dalla Chiesa Riformata evangelica del Cantone di Neuchâtel.   

Attualmente la comunità di Grandchamp è una comunità monastica di suore di diverse chiese e provenienti da diversi paesi. Caratterizzante è la vocazione ecumenica che impegna in un cammino di riconciliazione tra cristiani e nella famiglia umana in rapporto a tutta la creazione. Sin dalle origini la comunità monastica vede il suo fondamento in tre elementi: la preghiera, la vita in comune e l’ospitalità. La maggior parte delle suore attualmente vive a Grandchamp, a Areuse nella Svizzera romanda e alcune di loro a  Sonnenhof en Bâle-Campagne. Altre sono una presenza di amicizia e preghiera  in Svizzera e Paesi Bassi.

Uno degli impegni della loro professione è così espresso: “Vuoi con le tue sorelle celebrare la novità di vita che Cristo dona con il suo Spirito e lasciarla vivere in te tra di noi, nella chiesa e nel mondo, in tutta la creazione, compiendo così il servizio nella nostra comunità?” (secondo impegno della professione). Sin dagli inizi la comunità di Grandchamp, per la spiritualità ecumenica che costituiva uno dei suoi tratti principali, nutrì un rapporto di vicinanza e amicizia con l’abbé Paul Couturier di Lione (1881-1953), uno dei pionieri dell’ecumenismo che promosse la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani negli anni ’30. 

I testi proposti per la settimana quest’anno riflettono un lavoro di preparazione che ha visto una condivisione dell’esperienza contemplativa propria della comunità. “I testi riflettono e testimoniano la nostra vita di comunità e di preghiera. Esprimono la nostra vocazione alla preghiera alla riconciliazione e all’unità nella chiesa e nella famiglia umana” ha detto suor Svenja, una delle quattro religiose di Grandchamp che insieme all’attuale priora suor Anne-Emmanuelle ha partecipato alla redazione.

Il testo scelto come guida per la preghiera “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,1-17) sugge-risce che per incarnare l’amore di Dio è necessario accostarsi reciprocamente gli uni agli altri. E’ un’idea presente nei padri del deserto come testimonia i riferimento a Doroteo di Gaza (500-565/580) che ha ispirato la celebrazione ecumenica.

In questo periodo, purtroppo, a causa della pandemia, proprio nei giorni della celebrazione della  settimana di preghiera la comunità delle suore di Grandchamp sta vivendo una quarantena perché alcune tra le suore sono state contagiate e per la prima volta nella sua storia non può celebrare la preghiera quotidiana in comune e partecipare alle iniziative di preghiera previste in questa settimana.

La proposta di preghiera vede la struttura di tre veglie che riflettono il metodo di preghiera della comunità di Grandchamp. Esse riprendono le celebrazioni delle “veglie” o “notturni” nella tradizione benedettina solitamente svolte nella notte, unendole in una sola celebrazione vespertina. Ogni veglia presenta alcune letture dalla Scrittura, un responsorio cantato, un momento di silenzio e alcune preghiere d’intercessione e aggiunge anche la proposta di un’azione concreta La prima veglia è centrata sull’unità della persona in se stessa e sul dimorare in Cristo a partire dalla parola “Io sono la vite. Voi siete i tralci Se uno rimane unito a me e io a lui, egli produce molto frutto; senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). La seconda veglia esprime il desiderio di riscoprire l’unità visibile tra i cristiani. La terza veglia si apre all’unità di tutte le genti, di tutto il creato, ispirandosi ad un testo di Doroteo di Gaza che parla della sfida di avvicinarsi agli altri.

“Immaginate un cerchio disegnato per terra, cioè una linea tracciata come un cerchio, con un compasso e un centro. Immaginate che il cerchio sia il mondo, il centro sia Dio e i raggi siano le diverse strade che le persone percorrono. Quando i santi, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, nella misura in cui penetrano al suo interno, si avvicinano l’un l’altro e più si avvicinano l’uno all’altro più si avvicinano a Dio. Comprendete che la stessa cosa accade al contrario, quando ci allontaniamo da Dio e ci dirigiamo verso l’esterno. Appare chiaro, quindi, che più ci allontaniamo da Dio, più ci allontaniamo gli uni dagli altri e che più ci allontaniamo gli uni dagli altri, più ci allontaniamo da Dio” (Doroteo di Gaza, Palestina VI secolo).

Il sussidio offre poi suggerimento di letture con breve commento per ognuno degli otto giorni e l’indicazione di alcuni canti ecumenici come parte integrante della preghiera.

Con queste parole le sorelle di Grandchamp pregano ogni giorno: “Prega e opera affinché Dio possa regnare. Durante tutta la giornata, lascia che la parola di Dio dia vita nel lavoro e nel riposo. Mantieni il silenzio interiore in tutte le cose per dimorare in Cristo. Sii colmo dello spirito delle beatitudini: gioia, semplicità, misericordia.”

Alessandro Cortesi op

Qui si può scaricare il sussidio

V domenica del tempo ordinario – anno C – 2019

DSCN2121Is 6,1-8; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-1,

La chiamata di Isaia, sacerdote di Gerusalemme, ad essere profeta è descritta in modo solenne come una visione all’interno del Tempio nel momento del sacrificio dell’incenso tra le volute di fumo che riempiono lo spazio sacro. Isaia testimonia un’esperienza della presenza di Dio, la sua gloria. Ma il fumo è velo che impedisce di vedere. Dio si fa vicino ma nel contempo si vela e rimane inaccessibile. Isaia vive l’esperienza di una chiamata che lo coinvolge e gli cambia l’esistenza: e si scopre piccolo e indegno di fronte alla santità di Dio: ‘Santo Santo Santo è il Signore Dio degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria’. Le sue labbra vengono purificate per mezzo del carbone tratto dall’altare: questo gesto indica un fuoco che lo prende e genera parole nuove: è un invio a parlare e farsi annunciatore di una parola come fuoco. ‘Chi manderò e chi andrà per noi?’ Isaia riceve una missione e risponde con libertà: ‘Eccomi, manda me’.

Appaiono qui due movimenti presenti in ogni chiamata della Bibbia: l’invio come appello gratuito accolto e la disponibilità a partire. Come Abramo, come Mosè, come Samuele, come Amos. Dio prende l’iniziativa, purifica Isaia, lo trasforma e lo invia per una missione nuova che lo prende interamente. Il profeta accoglie questo e dice prontezza e disponibilità: ‘eccomi manda me’. Egli passa così dalla condizione sicura e appagante di sacerdote del tempio di Gerusalemme ad una condizione nuova ed incerta, in cui vive non le sicurezze della religiosità, ma il rischio della fede. Isaia diverrà il profeta della fede che annuncia: ‘se non crederete non avrete stabilità’ (Is 7,9b), il profeta che contrapporrà ai disegni di affermazione basati sulla sicurezza dei carri e dei cavalli, delle armi da guerra, la fiducia nel Dio dell’alleanza come unica arma di salvezza da contrapporre agli imperi del suo tempo. E sarà il profeta del sogno messianico, di un tempo nuovo di pace e gioia in cui le spade saranno trasformate in vomeri e le lance in falci, in cui il lupo dimorerà insieme con l’agnello e la pantera si sdraierà accanto al capretto (Is 11,6)

Sulle rive del lago di Galilea, all’aperto, mentre i pescatori lavano le reti. Un contesto diverso, ma sempre luogo di incontro. E’ la chiamata di Gesù ai suoi. Dopo una notte in cui i pescatori sono rientrati senza aver preso nulla, con la sua barca vuota. “… abbiamo faticato tutta la notte, ma non abbiamo preso nulla”. Gesù invita Pietro a prendere il largo e a gettare le reti ancora, fondandosi sulla promessa. “Sulla tua parola getterò le mie reti”. Pietro si affida alla parola di Gesù e il racconto evoca l’incontro pasquale. Si apre a questo punto l’inatteso: “E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano”. E’ abbondanza spropositata che contrasata con il nula di fatto di una notte di fatica. E’ immagine che racconta lo stupore della grazia e del primato dell’agire di Dio nella vita. Di fronte a questo capovolgimento Pietro avverte la sua indegnità. Vede se stesso in modo nuovo: si sente distante, peccatore. Scopre che la sua azione, l’impegno di tutta la sua vita, non dipende dalle sue forze, non sarà percorso di affermazione ma cammino nello stupore della gratuità, nel solo affidarsi alla sua parola.

Luca ha a cuore l’attenzione alla parola. Pietro sarà chiamato ancora a gettare reti nuove sulla parola di Gesù. Non viene allontanato, ma accolto per essere pescatore in modo diverso: pescatore di uomini, per dare la vita nel rapporto con altri, per andare al largo e scorgere nuovi orizzonti. Luca sottolinea la radicalità della risposta di Pietro alla chiamata: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. Lasciare tutto è comprensibile solo nella scoperta di qualcosa di più importante che ha il primo posto: il rapporto con Gesù.

Luca insiste sul fatto che rinuncia di altre cose e scelta della povertà sono la via di coloro che si mettono a seguire Gesù. La parola liberante del vangelo apre ad un liberarsi da quanto lega ad un possesso che rende preoccupati e impediti. E qui sorge il paradosso del seguire Gesù: nello scegliere la via della povertà, nel lasciare qualcosa, nel vivere in perdita si scopre che, si trovano relazioni nuove e una gioia che riempie la vita. ‘Non temere’… La vita al seguito di Gesù non è esperienza di paura ma di gioia.

Alessandro Cortesi op

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Fratellanza come chiamata

Nei giorni scorsi ad Abu Dhabi si è svolto uno storico incontro tra papa Francesco e il grande imam dell’università di Al-Ahzar del Cairo Ahamad Al-Tayyb. Nel quadro di un convegno promosso dal Muslim Council of Elders, a cui hanno partecipato 700 leader religiosi di diverse confessioni, essi hanno firmato un documento comune sulla fratellanza.

E’ questo il frutto di molteplici contatti tra rappresentanti della chiesa cattolica e della Università di Al-Ahzar centro prestigioso di saggezza del mondo islamico. Ed è indicato come “Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli”.

La motivazione di fondo che guida questo scritto è la preoccupazione di una vicenda mondiale in cui sono drammaticamente presenti ingiustizie e violenze insopportabili, iniqua distribuzione dei beni che conducono l’umanità ad una distruzione totale. Come ha affermato papa Francesco: “Costruiamo insieme l’avvenire, o non ci sarà futuro… È giunto il tempo in cui le religioni si spendano con coraggio per aiutare la famiglia umana alla riconciliazione”.

Infatti l’estremismo religioso e nazionale insieme all’intolleranza «hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una “terza guerra mondiale a pezzi”»

La dichiarazione esorta a “cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione”.

Nel testo compare per contro l’invito a promuovere “i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune». Ostacoli individuati sono la «coscienza umana anestetizzata” ed il “predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti”.

Alcune affermazioni condivise in questo documento sono particolarmente importanti per una recezione all’interno delle singole comunità e per una responsabilità comune da attuare nel cammino dell’umanità.

Si offrono affermazioni forti sulla libertà di credere e di pensiero con una accentuazione interessante sulla sapienza divina quale fondamento del diritto alla libertà di credo e sorgente del pluralismo e delle diversità da accogliere come espressione di tale sapienza:

“La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi”.

Viene enunciato il rapporto tra Oriente e Occidente come opportunità e necessità data alla storia di arricchimento di civiltà e scambio che fa crescere le culture: “Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture”.

La dichiarazione afferma un concetto di cittadinanza che prevede come tutti i membri delle società debbano essere considerati cittadini e non minoranze su cui avere uno sguardo di discriminazione. E’ un concetto di cittadinanza piena che potrebbe avere conseguenze rilevanti positive in Oriente ma anche in Occidente in modi diversi.

“Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli”.

Un paragrafo del documento è dedicata a riconoscere i diritti delle donne e l’importanza di operare per la liberazione da diverse forme di oppressione e umiliazione della dignità delle donne.

“È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti”.

E’ una dichiarazione che potrà suscitare resistenze, ostacoli e ostilità, ma come ha ribadito Francesco, per parte cattolica si pone pienamente nello spirito del Vaticano II e da parte dell’imam Al-Tayyb costituisce un passaggio che apre una sfida all’interno del mondo islamico orientando il dibattito decisamente nella direzione del dialogo, dell’incontro e della ricerca comune dalla pace. Sono parole che segneranno la storia e se accolte potranno aprire nuovi orizzonti alle responsabilità dei credenti ed essere semi portatori di frutti buoni di pace e giustizia.

Alessandro Cortesi op

 

Festa di tutti i santi – anno B – 2018

IMG_0924Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

Nella grande visione dell’autore dell’Apocalisse Gesù Cristo è presentato nell’immagine dell’agnello ferito, ma in piedi. Nel simbolo dell’agnello e della ferita è da leggere il riferimento alla passione e alla morte: condotto come agnello al macello ha reagito con la nonviolenza all’ingiustizia e alla menzogna che l’hanno condotto al supplizio. La ferita mostra il sangue versato. Ma è in piedi. Ferito e vulnerabile è passato attraverso la morte ma questa non ha avuto potere su di lui: l’agnello inerme è così immagine del risorto che ha vinto la morte. La sua comunità, sa di dover vivere la prova e la sofferenza ma sa anche che Gesù Cristo è colui che può sciogliere i nodi che legano il libro della vita e della storia. Questo incontro ha i tratti di una grande liturgia che coinvolge il lettore. E’ così ‘vista’ una “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare…”. E’ la moltitudine di tutti coloro che hanno vissuto la loro testimonianza – tengono la palma, simbolo del martirio tra le mani – ed hanno percorso con fedeltà la strada di Gesù agnello inerme e indifeso.

Nella festa di tutti i santi i simboli dell’apocalisse invitano a leggere la vita della comunità che segue Gesù: è composta di tanti volti e tanti nomi che hanno testimoniato la via di Gesù seguendolo sulla sua strada. Sono innumerevoli e la loro testimonianza è quella di chi non ha avuto clamore, visibilità ma è stato fedele nel quotidiano, nella semplicità della vita ordinaria. E al centro sta la presenza di Dio.

La prima lettera di Giovanni richiama il cammino della fede, tra un ‘già’ che viviamo nel presente, ed un ‘non ancora’ da attendere e da affrettare. “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è.”

Ancora non è rivelato il nostro volto più profondo: sin d’ora siamo ‘figli’, partecipi di una relazione che è dono e che precede. Figlio e figlia, sono nomi di legame, di dipendenza da un dono di vita ricevuto che conduce a scorgere come la vita provenga da altri e da altrove. Siamo chiamati con il nome unico che Dio ha pronunciato per ciascuna e ciascuno. Ma questo nome è anche un seme che richiede cura, luce e spazio, per poter crescere. C’è nell’esistenza una chiamata che si sviluppa nelle varie tappe e circostanze della vita: diventare simili al volto di Gesù che ha fatto della sua vita un dono per il Padre e per gli altri. Nell’incontro con lui si compie così il nostro nome. La vita dei cristiani si colloca anche in una attesa che non è vuota: talvolta è piena di dolore ma soprattutto è piena di responsabilità. Lo vedremo così come egli è: questo incontro è già iniziato in quel vedere che è lo sguardo del credere, che si lascia trasformare nell’affidamento.

“Beati i miti perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”. Gesù propone una parola di felicità quale orizzonte dell’esistenza. I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, tutti voi quando vi insulteranno… sono chiamati a rallegrarsi. Quale è il motivo per rallegrarsi? Gesù non vuole per i suoi la povertà, la persecuzione, l’ingiustizia. Piuttosto annuncia che Dio sta dalla parte di tutti coloro che vivono in queste situazioni, e si rende vicino, per liberarli. Prende le loro parti. Gesù annuncia con la sua vita che Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani. Questa è ragione del rallegrarsi: chi vive in questo orientamento è nella strada di Gesù. Nella pagina delle beatitudini in fondo si parla di Gesù che s’identifica con le vittime e i poveri: è lui il vero povero, mite, puro di cuore. Chi si appoggia in lui trovando in lui il senso della propria esistenza può aprirsi ad una vita bella, ad una gioia profonda, ad una felicità che non è assenza di problemi o spensieratezza, ma esistenza segnata dall’accogliere la presenza di Dio vicino e liberatore che a cuore la felicità delle sue figlie dei suoi figli e li rende strumenti di liberazione per altri.

Alessandro Cortesi

IMG_1529Tutti i santi

La festa di tutti i santi è occasione per riflettere su una chiamata comune ad accogliere la gioia della fede, a scoprire che la vita di tutti è un nome pronunciato e pensato. Qui di seguito alcuni brani della recente esortazione di Francesco Gaudete et exsultate che ricorda come il cammino della vita non sia percorso di isolati e intristiti, ma di comunità aperte richiamando alla ‘santità della porta accanto’ e una breve preghiera di Adriana Zarri, che invita a superare visuali meschine e a considerare la propria chiamata, quella di ogni giorno, come la più bella, come l’erba del mio giardino:

6.(…) “Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (LG 9). Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo.

7. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”. (…)

122. (…)  Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia». Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4).

127. (…) In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). E’ quello che viveva san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo volto.

128. Non sto parlando della gioia consumista e individualista così presente in alcune esperienze culturali di oggi. Il consumismo infatti non fa che appesantire il cuore; può offrire piaceri occasionali e passeggeri, ma non gioia. Mi riferisco piuttosto a quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15). «Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti» (2 Cor 13,9). Invece, se «ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia».

L’erba del mio giardino
Adriana Zarri (Preghiere da tutte le fedi, ed. Lindau)

Fa’ che non creda che ci siano vocazioni privilegiate, più perfette, e che non presuma di abbracciarle per essere da più degli altri.
Quale che sia, la mia vocazione è la più grande; e l’erba del mio giardino è la più verde perché è quella che tu hai annaffiato per me.
Per seguire la tua voce dammi la generosità di Abramo, la prontezza di Samuele, la naturalezza di Maria.
E dammi la pazienza di attendere e l’umiltà di scegliere quella strada fra tutte, e la capacità di viverle tutte in quella unica che è mia.

(ac)

 

 

 

 

 

III domenica del tempo ordinario – anno B – 2018

getty-gospel

Gn 3,1-5,10; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20

Un racconto di chiamata fa ripercorrere i passi dei primi discepoli di Gesù. Lungo il mare accolgono subito l’invito Vieni. Ascoltano il suo messaggio e lo seguono.

Gesù inizia ad annunciare il regno ‘dopo che Giovanni fu arrestato’. Sin dall’inizio sul suo cammino è presente l’ombra della vicenda di Giovanni, profeta perseguitato. Gesù inizia dalla Galilea delle genti (Is 8,23). Le sue prime parole nel vangelo di Marco sono la sintesi del suo annuncio: ‘Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo’. Due indicativi in riferimento al tempo e al ‘regno di Dio’; e due imperativi che indicano le conseguenze dell’ascolto. Un tempo unico da non perdere, un’occasione che segna l’urgenza di accogliere e seguire in un cambiamento radicale della vita. E’ un’urgenza che si accompagna all’invito a cambiare in radice il proprio modo di pensare e di intendere l’intera esistenza.

‘Il tempo è compiuto’: il tempo è ora tempo forte della visita di Dio, tempo della salvezza. Paolo dirà: ‘il tempo ormai si è fatto breve’ evocando l’immagine della nave vicina al porto che scioglie le vele. I marinai sono presi dall’impegno ma già vivono la felicità dell’arrivo, la gioia dell’incontro. Paolo così presenta lo stile di chi vive immerso nel presente ma orientato al senso ultimo della vita. Tutto acquista senso nuovo dall’ incontro con Cristo e genera un vivere in tensione, nell’inquietudine.

Il regno di Dio era attesa presente in vario modo nel contesto in cui Gesù viveva. Su di essa si radica l’annuncio di Gesù che parla della signoria di Dio come di un dono di relazione e vicinanza che genera una trasformazione della storia nella linea della liberazione: il regno – dice Gesù – è già in mezzo a voi, si è avvicinato. Nelle sue parole e nelle sue opere si rende presente come Dio agisce: guarendo liberando, accogliendo gli esclusi, nel servizio. La morte e risurrezione sono il segno del regno giunto.

Da questa indicazione un duplice imperativo ‘convertitevi e credete al vangelo’: il regno è dono gratuito ed è chiamata e responsabilità offerta. Convertirsi implica un mutamento interiore e radicale. Si tratta di una conversione che provoca sul volto di Dio in cui credere innanzitutto, conduce a rivedere le nostre strade sulla base della strada che Gesù ha percorso.

Anche Giona (prima lettura) chiede una conversione con la minaccia e chiedendo urgenza. I cittadini della grande città credettero a Dio e cambiarono vita. Ma soprattutto Giona per primo deve vivere nel suo cuore un faticoso percorso di conversione: è guidato a cambiare modo di pensare a Dio: non il Dio che separa, che vuole appartenenze e privilegi di pochi contro altri, ma il Dio che s’impietosisce e perdona, il Dio che spinge ad andare e ad incontrare il lontano, l’altro, nella grande città.

Marco poi narra la chiamata dei primi quattro discepoli. Il presentarsi di Gesù li coglie nel quotidiano della loro esistenza, mentre lavoravano come pescatori. Gesù ‘vide’ Simone e Andrea Giacomo e Giovanni. Il suo sguardo si fissa su ciascuno con l’irripetibilità e originalità del proprio nome. Li incontra e li osserva nel quotidiano della loro attività, con in mano le reti del loro lavoro di pescatori. La sua parola è un imperativo: ‘su dietro di me!’. Chiede immediatezza di risposta. E la loro risposta si fa decisione e si mettono a seguirlo. E’ rottura con il passato e trasformazione radicale della vita. ‘E subito, lasciate le reti, lo seguirono’. L’avverbio ‘subito’ indica un passaggio carico di prontezza e di risposta ad una urgenza. ‘Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguìto’ dirà Pietro. Ma saranno anche coloro che, abbandonando Gesù, fuggono al momento della sua passione.

Compiono una separazione ed un distacco: lasciano il lavoro, il loro padre Zebedeo e coloro che lavoravano insieme. Iniziano un percorso nuovo, al seguito. La loro vita sarà ancora di ‘pescatori’, dovranno attendere, essere al servizio di dare vita, procurare cibo per altri, ma in modo nuovo. Iniziano a seguire Gesù, a stargli dietro lunga la sua via, discepoli dell’unico maestro venuto per servire e non per essere servito, nel fare della sua vita un dono per tutti.

Sarà un discepolato di uguali, di uomini e donne al seguito di Gesù, vissuto nella condivisione senza maestri e padri se non il Padre che è nei cieli. Si tratta di una profonda rottura con il passato e con il loro presente che si apre alla via del vangelo. L’intero racconto di Marco presenterà Gesù che cammina lungo la via predicando il regno e aprendo faticosamente ai suoi discepoli la strada su cui seguirlo.

Alessandro Cortesi op

WhatsApp-Image-2018-01-08-at-23.12.501-720x1024Chiamata per le chiese

Potente è la tua mano, Signore (Es 15,6). E’ questo il tema della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2018). Ogni anno un tema è scelto da un gruppo di chiese di una diversa regione nel mondo. Quest’anno sono le chiese dei Caraibi ad aver scelto il tema e ad aver proposto un sussidio di preghiera.

Il riferimento all’inno di lode al Signore dopo il passaggio del mar Rosso non è una forma di esaltazione della guerra ma è affermazione del potere di Dio sul male e sul dominio del faraone che genera schiavitù. La destra potente del Signore è simbolo dell’agire di Dio che non rimane indifferente di fronte al male ma opera per liberare. Il passaggio del mare è così una nuova creazione.

Come richiamano le parole di un canto che sarà ripreso nelle celebrazioni: “La mano di Dio
 sostiene la terra; 
essa solleva chi cade, uno per uno. 
Ciascuno è conosciuto per nome e salvato dalla vergogna perché la mano di Dio si è alzata” (The right hand of God*).

Le chiese dei Caraibi sono unite da una storia di colonialismo che ha segnato quelle terre. Quest’anno queste chiese propongono di vivere la celebrazione ecumenica con attenzione a due simboli: la Bibbia e le catene. Le catene sono simbolo di schiavitù, disumanizzazione e razzismo così pure del potere del peccato che ci separa da Dio e gli uni dagli altri. Si propone di far cadere le catene della schiavitù e formare «una catena umana che esprime vincoli di comunione e di azione congiunta contro le moderne forme di schiavitù e ogni tipo di disumanizzazione individuale o istituzionale». La Bibbia è punto di riferimento per il cammino di liberazione, come è stata ed è luce per tanti nel momento della prova.

Anche oggi le chiese sono chiamate a scoprire la comune chiamata di Dio ad essere testimoni di liberazione: “O Dio eterno,
 Tu non appartieni ad alcuna cultura né ad alcuna terra, ma sei Signore di tutte,
 Tu ci chiami ad accogliere tra noi lo straniero.
 Aiutaci con il tuo Spirito 
a vivere come fratelli e sorelle,
 accogliendo tutti nel tuo nome,
 e vivendo nella giustizia del tuo regno.
 Te lo chiediamo nel nome di Gesù.
 Amen”.

Alessandro Cortesi op

 

* The right hand of God

The right hand of God
is writing in our land,
Writing with power and with love;
Our conflicts and our fears,
Our triumphs and our tears,
Are recorded by the right hand of God.

The right hand of God
is pointing in our land,
Pointing the way we must go;
So clouded is the way,
So easily we stray,
But we’re guided by the right hand of God.

The right hand of God
is striking in our land,
Striking out at envy, hate and greed;
Our selfishness and lust,
Our pride and deeds unjust,
Are destroyed by the right hand of God.

The right hand of God
is lifting in our land,
Lifting the fallen one by one;
Each one is known by name,
And lifted now from shame,
By the lifting of the right hand of God.

The right hand of God
is healing in our land,
Healing broken bodies, minds and souls;
So wondrous is its touch,
With love that means so much,
When we’re healed
by the right hand of God.

The right hand of God
is planting in our land,
Planting seeds of freedom, hope and love;
In these many-peopled lands,
Let his children all join hands,
And be one with the right hand of God.

 

II domenica tempo ordinario – anno B – 2018

IMG_20241Sam 3,3-10.19; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

La storia di Samuele, un giovinetto che si apre alla chiamata di Dio nella sua vita è posta in un tempo di silenzio di Dio: “la parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti” (1Sam 3,1). Gli occhi di Eli si andavano indebolendo e non riusciva più a vedere.

In un tempo di aridità Dio chiama e un giovane si dispone all’ascolto e si apre una storia nuova. Dio irrompe in modo inatteso e Samuele è inviato ad essere profeta, uomo della parola. La chiamata di Dio è rivolta a chi dal punto di vista umano non ha particolari doti. Samuele è il figlio della preghiera di Anna che a Dio aveva implorato: “lo offrirò al signore per tutti i giorni della sua vita” (1Sam 1,11). Il suo nome reca in sé il segno del dono e della promessa. La sua vita è segno di grazia e di restituzione: “lo chiamò Samuele perché, diceva, al Signore l’ho richiesto” (1Sam 1,20).

Dio guarda ai piccoli e a lui rivolge la chiamata nel pronunciare il suo nome e lo invia. Samuele si rende pronto con disponibilità: ‘Parla Signore, il tuo servo ti ascolta’. Tutta la sua vita sarà sotto il segno della parola con un cuore docile: “non lasciò andare a vuoto” le parole di Dio (cfr. 1Sam 3,19). La chiamata di Dio si rende vicina e comprensibile attraverso incontri e voci umane: la presenza paziente e saggia di Eli, che si tira indietro e lascia spazio ad un ascolto e ad un’apertura del cuore davanti a Dio, orienta il giovane Samuele. Eli non pretende di sapere, non lo rinchiude in schemi prefissati. Apre cammini di libertà. E rimane disponibile al disegno di Dio.

Anche nella pagina del IV vangelo c’è un racconto di chiamata: è l’incontro dei primi discepoli con Gesù, posto nel quadro dei primi sette giorni dell’attività di Gesù. Una evocazione dei sette giorni della creazione: la Sapienza di Dio, la sua Parola, sta operando una nuova creazione.

L’incontro è suscitato dall’indicazione del Battista: ‘Ecco l’agnello di Dio’ … e due dei suoi discepoli sentendolo parlare così, si misero a seguire Gesù. Gesù è indicato come agnello: è questo un simbolo che evoca l’alleanza e il cammino dell’esodo di Israele. La vita di Gesù è inoltre accostata a quella del profeta, il servo di JHWH: ‘era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì bocca’ (Is 53,7).

A chi inizia a seguirlo Gesù pone una domanda decisiva, ‘Che cosa cercate?’, un itinerario che sarà sviluppato lungo tutto il vangelo. Dopo la morte di Gesù Maria, nel giardino dove si reca per visitare il sepolcro, sarà sorpresa dalla voce dell’ortolano che le chiede: ‘Chi cerchi?’. Il IV vangelo si dipana quindi tra queste due domande fondamentali e accompagna nel passaggio dall’una all’altra: il ‘che cosa cercate?’ all’inizio si compie nella domanda ‘chi cerchi?’ alla fine. Domande che rimangono aperte per chiunque legge queste pagine.

I discepoli rispondono a Gesù con un’altra domanda: ‘Maestro dove dimori?’. Sono spinti da una curiosità e da una ricerca. ‘Dimorare’ rinvia ad un rapporto di comunione di vita: così ‘rimanere’ rinvia a quel rimanere dei tralci nella vite, a cui Gesù invita come modalità di vivere il rapporto con lui ‘perché senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,4-5).

Gesù non propone una dottrina, né li rinchiude in una serie di obblighi ma chiede loro di seguirlo. Seguire Gesù si connota come uno stare dietro a lui per aprirsi ad un vedere nuovo: ‘Venite e vedrete’. Li invita così ad una condivisione. Da quell’ora di quel giorno la vita dei due discepoli diverrà un vivere insieme con Gesù, un rimanere in lui. La sua dimora è la sua presenza. La fede è essenzialmente un cammino insieme a lui. E Giovanni annota… ‘quel giorno rimasero con lui’. Chi scrive ha un ricordo preciso di quando ciò avvenne: forse un riferimento ad un’esperienza personale che ha segnato l’esistenza in un’ora decisiva?

In questa pagina è presentata un’altra sottolineatura: l’incontro con Gesù si attua in una rete di legami quotidiani: Andrea e Simone sono fratelli, poi Filippo incontra Natanaele e gli dice ‘Abbiamo trovato … Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret’. La chiamata di Gesù si fa vicina nel tessuto di rapporti, di vicinanza. Gesù è il figlio di Giuseppe, e nel contempo di lui hanno parlato Mosè e i profeti. La ricerca che inizia nel rimanere con Lui è itinerario per continuare a fissare lo sguardo su di lui. Ma per primo è lui che ha fissato lo sguardo su di noi e chiama per nome. Dà un nome che è fiducia, segno di fedeltà, ed anche invio a divenire il nome che abbiamo ricevuto.

Alessandro Cortesi op

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“Vengo in mezzo a voi perché voglio portare nei miei i vostri occhi – io ho guardato i vostri occhi –, nel mio il vostro cuore. Voglio portare con me i vostri volti che chiedono di essere ricordati, aiutati, direi “adottati”, perché in fondo cercate qualcuno che scommetta su di voi, che vi dia fiducia, che vi aiuti a trovare quel futuro la cui speranza vi ha fatto arrivare fino a qui.

Sapete cosa siete voi? Siete dei “lottatori di speranza”! Qualcuno non è arrivato perché è stato inghiottito dal deserto o dal mare. Gli uomini non li ricordano, ma Dio conosce i loro nomi e li accoglie accanto a sé. Facciamo tutti un istante di silenzio, ricordandoli e pregando per loro. [silenzio] A voi, lottatori di speranza, auguro che la speranza non diventi delusione o, peggio, disperazione, grazie a tanti che vi aiutano a non perderla”

(papa Francesco, Incontro con i migranti – Bologna hub di via E.Mattei – 1 ottobre 2017)

Chiamata

“Il Centro Astalli esprime profondo cordoglio per l’ultima tragedia nel Mar Mediterraneo.  Si teme un’ecatombe: stando alle testimonianze dei superstiti, il gommone su cui erano stati imbarcati dai trafficanti conteneva 100 persone.

Assistiamo attoniti all’ennesimo oltraggio alla vita umana. Un doppio oltraggio: per le condizioni disumane in cui uomini e donne sono costretti a morire e per un’indifferenza sempre più dilagante da parte di istituzioni nazionali e sovranazionali e purtroppo anche della società civile.

Il Centro Astalli chiede a istituzioni nazionali ed europee una tempestiva azione umanitaria di ricerca e soccorso in mare per le imbarcazioni in difficoltà, consentendo approdo sicuro in un porto europeo e l’istituzione immediata di un canale d’evacuazione dalla Libia per i migranti in transito e in detenzione in un Paese in cui dignità, sicurezza e diritti umani non sono garantiti”.

E’ questo l’ultimo appello (9.01.2018) emesso dal centro Astalli dei gesuiti di fronte all’ultima strage di migranti nel Mediterraneo. E’ un appello a soluzioni praticabili, possibili. Ed esprime il senso di tristezza per la sordità dei paesi europei di fronte a quanto sta avvenendo, per l’indifferenza rispetto alle condizioni di tanti uomini e donne che affrontano le fatiche e i drammi della migrazione.

In questo tempo in cui le parole di umanità sono rare e così anche la parola di Dio è rara perché non ascoltata, c’è un grido che proviene in modo incessante innanzitutto da chi è vittima di una condizione del mondo segnata da ingiustizia e iniquità.

Un missionario da anni in Niger ricorda che guardare l’Europa dal Sud capovolge i criteri di giudizio, fa imparare tante cose: “ecco la fortuna che mi ha accompagnato in tutti questi anni fino ad oggi. La fortuna di ‘sguardare’ il mondo dal Sud che poi è un altro mondo, un mondo che apre gli occhi sulla realtà che ci avviluppa. È solamente dal punto di vista dei poveri che si può scoprire la verità delle cose e della storia. Vivere a Sud di Lampedusa, l’isola diventata il simbolo della frontiera tra l’Italia e l’Africa, mi ha insegnato tante cose. Una di queste è la scoperta che la frontiera dell’Italia mi ha seguito, si trova nel Niger, ad Agadez” (M.Armanino, L’Italia torna in Africa. La vergogna di un italiano in Niger,Avvenire” 9 luglio 2018).

In una  situazione internazionale segnata dal crescere di una retorica della forza e dalla violenza praticata in molti modi, sconcerta anche l’utilizzo di armi fabbricate in Italia nei bombardamenti aerei sulle zone abitate da civili in Yemen come ha rilevato un’inchiesta del New York Times e come è stato denunciato dalla Rete italiana per il disarmo e da altre associazioni (cfr. R.Beretta, Yemen e armi ai sauditi: coerenza nordica, ipocrisia italica e i suoi giannizzeri, http://www.unimondo.org)

In un tempo di visioni corte c’è chi suggerisce visioni diverse. E non manca la voce di Dio che si fa vicina in modi sempre nuovi. E’ una voce che è appello di umanità.

E’ possibile rimanere ciechi e non cogliere le esigenze del vangelo e renderlo motivo per giustificare egoismi e chiusure, per mantenere lo status quo, per coltivare indifferenza e ingiustizie. Oggi la chiamata di Dio è da scorgere nelle chiamate di uomini e donne che chiedono dignità.

La voce di Dio si rende presente in chi grida speranze e attese che oggi naufragano in un mare divenuto muro di separazione e di allontanamento. Chiama ad un ascolto che provoca credenti e non credenti per scoprire le radici di un’umanità vissuta nella benevolenza, nell’ascolto dell’altro e nel perseguire rapporti giusti nella pace. Per vivere la fede come cammino in cui l’incontro con Dio si compie nell’ascolto di chi soffre.

Alessandro Cortesi op

XIII domenica tempo ordinario – anno C – 2016

IMG_0149_2.jpg1 Re 19,16-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62

Eliseo è investito della chiamata a seguire il grande profeta Elia quando viene coperto dal mantello gettato su di lui. La sua vita cambia: il mantello diviene così simbolo di una svolta, indica una chiamata ed un invio. Lascia il suo lavoro, la cura dei buoi che guidavano la sua aratura e si pone al servizio di Elia, lo segue divenendo suo discepolo: si apre il cammino alla missione del profeta. Sarà uomo di Dio; la sua missione non è un attività da eseguire ma consiste nel rimanere in ascolto, nello stare sotto la parola di Dio, esserne annunciatore senza temere i potenti. Alla morte di Elia, Eliseo raccoglierà il suo mantello (2Re 2,13-14), con esso aprirà ancora le acque, segno di un esodo che si rinnova: testimoniare la parola di Dio è apertura di percorsi di liberazione per tutti, per chi si sente estraneo e lontano, oltre i confini (2Re cap. 5; cfr. Lc 4,27). Nei suoi gesti Eliseo si manifesta ‘uomo di Dio’, testimonia che Dio è liberatore e vicino, e non segue le logiche di dominio umane. Il mantello ricevuto al momento della sua chiamata gli apre la strada ad attuare in modo nuovo il percorso di liberazione dell’esodo, un percorso personale, e che si allarga a divenire esperienza di popolo.

“mentre stavano compiendosi i giorni in cui Gesù sarebbe stato tolto dal mondo si diresse decisamente verso Gerusalemme.. mentre andavano per strada un tale gli disse…”. La strada verso Gerusalemme è luogo del camminare di Gesù, percorso che simboleggia l’intera sua vita. Le prime testimonianze su Gesù lo presentano come ‘colui che è passato facendo del bene…’ (cfr. At 10,38). Il suo cammino è un andare attraversando strade luogo di incontro, ma anche un rimanere in cammino interiore: sulla strada Gesù incontra, dialoga, e coinvolge nel suo itinerario.

Gesù ‘fece il viso duro’ e si diresse verso Gerusalemme: decide liberamente di affrontare il rifiuto che si oppone al suo camminare, al suo passare facendo del bene. Si dirige verso la città del tempio e della classe sacerdotale, centro dei poteri politico e religioso che si sentono minacciati dalla sua predicazione inerme. Ma Gerusalemme è anche il luogo dell’alzarsi dalla morte, dell’orizzonte di pace a cui il suo stesso nome fa riferimento.

Il suo cammino diviene anche proposta ai suoi di mettersi in cammino, di uscire dalle tranquille sicurezze, per vivere la sfida e la precarietà del viaggio. Israele era nato come popolo nel cammino dall’Egitto alla terra promessa. La fede biblica è impregnata del senso del camminare, nel deserto, nella scoperta della presenza di Dio vicino, pellegrino e nomade con il suo popolo. Nel cammino si incontra Dio che spinge ad andare sempre oltre, a guardare al futuro come suo dono.

Nel cammino Gesù rifiuta ogni logica di violenza anche di fronte a chi non vuole riceverlo. Rimprovera i suoi che pensano di mandare il fuoco quale segno di Dio. Gesù si distanzia da tutto ciò: il fuoco che vuole accendere è di tipo totalmente diverso dal fuoco che distrugge, è piuttosto fuoco di dedizione nonostante il rifiuto.

Sulla strada varie persone chiedono a Gesù di seguirlo; Gesù stesso rivolge l’invito ‘seguimi’. Al cuore di questo brano Luca indica così la questione del seguire Gesù. ‘seguire’ è verbo che racchiude tutta la vita di chi si pone in relazione con Gesù. Non si tratta di acquisire un sapere riservato o particolari abilità. Seguire non è neppure sinonimo di una esecuzione obbediente di un codice di comportamenti o di regole stabilite. E’ piuttosto movimento dell’intera esistenza: è verbo di movimento, implica scelte libere, ad ogni passo incontra rischi, sfide, imprevisti, esige creatività, impegno e lotta per andare avanti. Seguire sulla strada implica soprattutto una condivisione di vita, entrare in un rapporto personale.

La strada, interiore ed esteriore costituisce il luogo in cui il rapporto si attua nella vita. Gesù chiama con urgenza e con una sorprendente radicalità. A differenza di Eliseo Gesù chiede un’apertura al futuro che non lasci spazio a chiusure o nostalgie del passato. Chi decide di seguire Gesù è chiamato a condividere la sua precarietà, non ci saranno ‘tane sicure’ o nidi protetti. E’ chiamata ad una vita che non può lasciarsi imprigionare dalla morte: ‘Lascia che i morti seppelliscano i loro morti’. Gesù pone una esigenza radicale che coinvolge tutta l’esistenza: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. L’aratro preso tra le mani è simbolo di scelte capaci di durata nell’affidamento a lui. E’ un aratro per rivolgere le pesanti zolle della terra della nostra vita, un aratro per poter seminare e rendere la terra accogliente di un dono.

Il cammino racchiude l’esistenza di Gesù e nell’appello seguimi Gesù coinvolge la nostra nella sua: è una chiamata alla speranza, alla vita condivisa, al generare una convivenza di pace.

Luca presenterà l’esempio della vita del discepolo come l’andare per la strada: i due discepoli, sconsolati, di Emmaus, incontrano proprio sulla strada uno sconosciuto che si affianca, li segue e si ferma con loro accendendo un fuoco di presenza e di gioia nel loro cuore. Il camminare di Gesù con noi è cammino di compagnia e di vicinanza: nel dialogo si fa progressivamente strada il riconoscimento la scoperta del significato della sua morte e l’apertura alla novità della risurrezione.

Alessandro Cortesi op

 

IMG_0143_2.jpgFuoco dal cielo

“L’autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo”

E’ un pensiero di Aung San Suu Kyi, leader della resistenza nonviolenta da trent’anni in Birmania, che sintetizza la sua azione e la sua testimonianza. Fondatrice della Lega Nazionale per la democrazia nel 1988, Premio Nobel per la pace nel 1991. Benché avesse vinto le elezioni del 1990 fu costretta agli arresti domiciliari per quindici anni in un paese in cui le forze militari, in seguito ad un colpo di stato nel 1962, hanno tenuto per decenni il controllo del parlamento instaurando una dittatura e soprattutto dominando l’economia instaurando un monopolio di aziende che ha generato ingenti ricchezze per i generali. Una clausola della costituzione redatta appositamente contro San Suu Kyi le impedisce di essere presidente. Dopo la vittoria nelle prime elezioni libere svoltesi nel novembre 2015 dopo 54 anni di dittatura, non ha così potuto ottenere la carica di presidente, affidata al suo amico d’infanzia Htin Kyaw, ma certamente guiderà le politiche del governo nonostante il persistente controllo e la presenza in parlamento di una forte componente dei militari.

Aung San Suu Kyi ha resistito in stile di nonviolenza alla privazione di libertà a cui è stata sottoposta ed ha sopportato la sofferenza del distacco dai suoi figli e dal marito, fino a non poterlo vedere nel tempo della malattia che l’ha condotto alla morte. The Lady – questo è il soprannome con cui è stata indicata, divenuto il titolo del film di Luc Besson del 2011 – ha mantenuto fedeltà ad una solidarietà con il suo popolo sulle tracce dell’insegnamento buddista e dell’esempio di Gandhi della nonviolenza, con fermezza ma senza mai cedere alla logica della violenza propria dei generali del regime. Famosa è la canzone a lei dedicata dagli U2, dal titolo Walk on, vai avanti (estratto dall’album “All That You Can’t Leave Behind”:

“E l’amore non è cosa facile
L’unico bagaglio che puoi portare
E l’amore non è cosa facile
L’unico bagaglio che puoi portare
E’ tutto ciò che non puoi lasciare indietro
E se la tenebra è per tenerci separati
E se la luce del giorno sembra essere molto lontana
E se il tuo cuore di vetro si spezzasse
E per un secondo tu tornassi indietro
Oh no, sii forte
Vai avanti, vai avanti
Quello che possiedi, non possono rubartelo
No, non possono nemmeno sentirlo
Vai avanti, vai avanti
Stai al sicuro questa notte
Stai facendo la valigia per un posto
Dove nessuno di noi è stato
Un posto che deve essere creduto per essere visto
Avresti potuto volare via
Un uccello che canta in una gabbia aperta
Che volerà solamente, volerà solo verso la libertà
Vai avanti, vai avanti ……”

Orchidea d’acciaio è stato il nome con cui San Suu Kyi è stata descritta per la sua decisione unita alla gentilezza a cui mai è venuta meno.

“Signore vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? Si voltò e li rimproverò…”(Lc 9,54-55)

Alessandro Cortesi op

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