la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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XXII domenica del tempo ordinario – anno C – 2013

DSCF4025Sir 3,17-29; Eb 12,18-24; Lc 4,1-14

Ci sono pagine del vangelo che raggiungono il cuore con una semplicità che meraviglia e pone in crisi. Questa pagina di Luca rende presenti tre passaggi fondamentali per la vita di chi segue Gesù. Parla di un modo di guardare le persone e l’esistenza, parla di come intendere tutta la vita non nella rincorsa ai primi posti ma nello scegliere il posto di Gesù, quello dell’ultimo e del servo, infine indica l’ospitalità offerta ai poveri come orizzonte di fondo delle scelte.

Il brano si apre con una scena di un pranzo a cui Gesù partecipa come invitato e da subito fa convergere l’attenzione su modi diversi di guardare. Era sabato, precisa Luca, e i capi dei farisei ‘stavano ad osservarlo’. Il loro sguardo è tutto preso dal verificare il muoversi di Gesù in rapporto all’osservanza della legge. Gesù ha un altro sguardo, altre preoccupazioni. Il suo sguardo si sofferma su di un malato che era davanti a lui. Gli altri non lo guardavano, ma Gesù si concentra su quella persona malata, che per la sua infermità non può condividere la gioia del banchetto. E verso di lui si muove con la libertà di chi non è preoccupato degli sguardi che lo scrutavano per verificare se rispettava principi e determinazioni della legge.

C’è un modo di guardare le cose e un modo di vedere la fede che emerge da questa scena raccontata di Luca. Gesù volge il suo sguardo ai volti delle persone che non hanno importanza, di chi è lasciato inosservato, ai margini. I capi dei farisei non guardavano il malato, preoccupati di altro. Gesù invece si accorge di lui. Ha un modo di guardare che mette al centro le singole persone, il loro bisogno di liberazione oltre le prescrizioni della legge. I gesti di Gesù ‘tirano fuori’, così come richiama nel breve dialogo: ‘se un figlio o un bue gli cade nel pozzo non lo tirerà fuori in giorno di sabato?’ Il suo sguardo reca in sé la cura nel guarire come segno del regno di Dio vicino: ‘è lecito o no guarire di sabato?’

Ma in questo sguardo di Gesù si può anche cogliere un modo di vivere il rapporto con Dio e la fede stessa: Gesù scorge il disegno di Dio a partire dalle situazioni concrete di vita: dentro le pieghe ordinarie della vita e non fuori di esse. Non ha bisogno di spazi sacri e di luoghi particolari per parlare di Dio come Padre, per scorgerne i segni della presenza. Sa cogliere lì, in quel pranzo, nella presenza di un malato, il disegno di Dio. I suoi gesti manifestano come agisce Dio e lo esprimono. Dio, che Gesù indica come padre accogliente e appassionato per tutti i suoi figli, vuole che ogni persona sia liberata da ciò che la tiene chiusa e bloccata e trovi possibilità di vita piena. La quotidianità gli parla di Dio. In un contesto di gioia come un pranzo dove c’è un malato che non può partecipare lo sguardo di Gesù non rimane indifferente e va a posarsi lì dove Dio stesso guarda, per spalancare i confini della gioia condivisa. E ascolta il desiderio di guarigione di quell’uomo.

Due parole poi sono presentate: la prima è rivolta agli invitati al banchetto, la seconda a chi invita. ‘Diceva agli invitati una parabola guardando come prendevano i primi posti’… Nella situazione così ordinaria del banchetto Gesù guarda ancora e rimane colpito dal modo in cui tutti si precipitavano ad occupare i primi posti. Da qui rivolge un invito che racchiude un modo di intendere la vita. E’ una parola contro il protagonismo e la ricerca di essere primi: ‘quando sei invitato va’ a metterti all’ultimo posto’. E tutto culmina in un detto breve: ‘chi si esalta sarà abbassato e chi si umilia sarà innalzato’. Si tratta di un’indicazione di stile, che si fa orientamento di fondo del vivere. Gesù presenta un modo alternativo di pensare la vita. Non è rilievo moralistico per quell’occasione: la ricerca di occupare i primi posti distoglie da ciò che è essenziale nella vita. Se è il regno di Dio ormai la realtà più importante e se il regno è prossimità di Dio agli oppressi, offerta di speranza per chi rimane sempre in fondo e non trova posto alla tavola della vita, allora ci può essere un modo diverso di intendere la propria esistenza. Contro la logica dei primi la scelta di partire dagli ultimi. Non è un invito rivolto solo ai singoli ma si allarga. Nella comunità che Gesù desidera il primo è colui che serve. La questione sull’essere primi o ‘più grandi’ ritorna a più riprese nel vangelo di Luca. Di fronte alla domanda chi fosse ‘il più grande’ Gesù indica un bambino (Lc 9,46-48). In un’altra discussione su chi tra i discepoli fosse il più grande Gesù dice che il più grande è colui che serve (Lc 22,24-27). La motivazione di questo sta nel suo stile presentato nel contesto dell’ultima cena: “Io sto in mezzo a voi al posto del servo” (Lc 22,27). La questione della ricerca dei primi e ultimi posti diventa quindi una questione decisiva che manifesta come si vive il rapporto con Gesù.

La seconda parte di questa pagina è rivolta a chi invita: “Quando dai un pranzo o una cena non chiamare i tuoi amici… perché essi ti invitino a loro volta… invita poveri, storpi, zoppi, ciechi e sarai fortunato perché non hanno da contraccambiarti… Il contraccambio ti sarà dato nella risurrezione dei giusti”. E’ uno squarcio sul modo di vivere le relazioni: Gesù indica una via diversa da quella dell’esclusione. L’esperienza del mangiare insieme è per Gesù luogo in cui già si rende presente il regno di Dio come possibilità di condivisione e di uno stare insieme da fratelli riconoscendo un dono da condividere. Mangiare insieme richiede così partecipazione di tutti. Per questo Gesù mangia con coloro che erano tenuti lontani e esclusi. Indica la logica dell’inclusione, dell’invito, del fare spazio a chi è tenuto ai margini. Nel modo di vivere la mensa si pone in atto l’immagine di Dio e di Gesù che noi abbiamo. Gesù indica una via: invitare chi non ha da ricambiare. Emerge una logica della condivisione che supera il senso del dono come scambio, come attesa di ricevere qualcosa in contraccambio. E c’è anche un’indicazione sui rapporti di ospitalità: quando offri un pranzo o una cena… invita i poveri… E’ una parola per intendere la vita come spazio di ospitalità per i poveri. Ed è una parola che invita ad entrare nella gratuità dell’amore di Dio.

Tento alcuni percorsi di attualizzazione di questi tre aspetti individuati in questa pagina.

Gesù ha uno sguardo che sa fermarsi sulle persone, capace di guardare la vita. Vive il suo rapporto con il Padre nel coglierne la presenza nei tratti ordinari e quotidiani dell’esistenza, nelle esperienze di ogni giorno. Spesso siamo condizionati da modelli di una spiritualità malata in cui il rapporto con Dio è rinchiuso in forme di devozione e genera attitudini esclusiviste, settarie, in cui viene meno l’attenzione agli altri, a chi soffre. Gesù indica una ‘spiritualità degli occhi aperti’, capace di guardare la vita, e di scorgervi le chiamate di Dio nei volti di chi soffre ed è vittima. E’ questa una spiritualità in cui non solo alcuni spazi e momenti sono luogo di incontro con Dio ma in cui tutta la vita, gli incontri ordinari, le vicende quotidiane sono esperienza di incontro con il Dio umanissimo. E’ una sfida per noi a riconoscere i luoghi della vita, i momenti e le persone come luoghi in cui vivere l’esperienza di una fede nella vita.

L’invito a prendere gli ultimi posti è una forte provocazione in un contesto sociale in cui sta prendendo sempre più piede l’affermazione della necessità del riconoscimento del merito e della tensione all’eccellenza. Il merito senza parità di opportunità e senza uguaglianza diviene privilegio e fonte di discriminazioni. Senza nulla togliere all’importanza dell’impegno per mettere a frutto i doni ricevuti, lo stile che Gesù propone è quello di chi rimane povero anche quando ha maturato competenze, ruoli, sapere. Gesù indica la prospettiva di stare dalla parte di chi è ultimo e questo in contrasto con la mentalità dei primi e con lo sforzo per arrivare primi in una gara che vede la vita come selezione e lotta contro gli altri. Chi prende l’ultimo posto è attento a far avanzare tutti. Chi prende l’ultimo posto vive la libertà di aver scoperto la via del servizio che Gesù ha indicato.

Una terza provocazione giunge dall’invito ad invitare a mensa non chi può ricambiare ma i poveri. Come ripensare oggi quello che in tante case si è vissuto in un passato non troppo lontano? Nelle nostre case, nei nostri conventi oggi c’è spazio per tante comodità, per le tecnologie, per cibi raffinati, ma non c’è più spazio per i poveri. Abbiamo organizzato l’assistenza, ma in questo modo si è spesso attuata un’emarginazione di genere diverso delle persone e una sorta di ghettizzazione dei poveri. Le vie per attuare quanto chiede Gesù non sono semplici. Penso che dobbiamo però almeno mantenere viva la domanda e mantenere una inquietudine nel cuore che conduca a vivere esperienze concrete di accoglienza e di gratuità. Come attuare scelte di accoglienza di chi è lasciato in disparte? Come vivere una quotidianità di accoglienza che generi rapporti in cui le persone si sentano riconosciute? Oggi i volti di poveri che non possono ricambiare sono quelli di tanti migranti poveri che lasciano le loro terre e affrontano viaggi disperati nella ricerca del pane, del lavoro, di una vita dignitosa per i propri figli.
C’è anche una provocazione forte che riguarda la lotta perché alla mensa dei beni della terra possano partecipare tutti i popoli e non solo alcune categorie di privilegiati. La proposta di Gesù ha profonde valenze politiche e spinge ad un radicale cambiamento di mentalità.

Alessandro Cortesi op

XXI domenica tempo ordinario – anno C – 2013

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Is 66,18-21; Sal 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30

“Passava insegnando per città e villaggi mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: ‘Signore, sono pochi quelli che si salvano?’.

La prima impressione che offre questo dialogo è l’attitudine di Gesù di sfuggire questioni che sono curiosità senza rapporto alla propria esistenza e al coinvolgimento della vita. La domanda che gli è posta ha importanza decisiva nella vita delle persone. Come salvarsi? Come trovare un senso alla propria esistenza? Tuttavia nel modo in cui gli è presentata può essere occasione di dibattiti teorici senza coinvolgimento: pochi o molti? Si affrontano questioni di vita rendendole dibattiti astrusi, si tratta degli altri senza riflessione sulla propria responsabilità. E Gesù si ritrae. Non sfugge alla questione ma la libera dall’essere una dissertazione di scuola. Il suo rispondere reca i tratti di un superamento di una curiosità vana che conduce anche ad una concezione del tutto sbagliata di Dio. La sua risposta si fa subito invito diretto, porta un riferimento alla vita di chi lo sta interrogando. Ma anche è parola che in primo luogo proviene dal percorso della sua vita, da quanto per primo egli sta vivendo. Dice Luca infatti che ‘era in cammino verso Gerusalemme’. La salvezza non è una questione di idee ma è cammino, rapporto con Gesù stesso e il regno di Dio.

‘Sforzatevi… Lottate…’ è il primo invito che Gesù rivolge al suo interlocutore. Ed è lui per primo che sta lottando, nel suo cammino verso Gerusalemme, contro tutto ciò che lo distoglie da una fedeltà al Padre. E sta affrontando quello che verrà indicato come ‘lotta’, ‘agone’, per affrontare la condanna e la croce. I vangeli concentrano in un episodio di prova e di scontro quello che costituisce una dimensione che accompagna il percorso di Gesù: le ‘tentazioni’ sono espressione di una tensione a mantenere la sua attenzione al regno, la direzione, sulla base della Parola di Dio e nella preghiera senza lasciarsi distogliere da tutto ciò che è ricerca di grandezza umana (Lc 4,1-13). La parola di Gesù pone in risalto una dimensione fondamentale della vita: la fatica necessaria per affrontare una lotta (Paolo parla della ‘bella lotta’ della fede: 1Tim 6,12). Si tratta di una lotta ben diversa da battaglie di chi intende la religione come motivo di scontro con altri, di imposizione delle proprie posizioni e di giustificazione alla violenza.

Gesù richiede quindi un’altra fatica: la fatica di uscire da mentalità religiose anguste e di entrare per quella porta che rimaneva sempre aperta. E’ questa la porticina che sulle mura delle città o anche nei palazzi poteva essere aperta anche dopo il tramonto del sole quando tutte le altre erano chiuse. La possibilità disponibile quando tutte le altre venivano meno e le porte erano sbarrate. Sembra che Gesù si riferisse a quella porta come immagine per parlare di se stesso e dell’incontro con lui. Il suo annuncio del regno rivolto a chi era lasciato fuori ed escluso.

E’ una fatica propria del divenire piccoli, dell’assumere non la misura dei grandi e dei potenti che passano per le grandi porte, ma di coloro che vivono la misura dell’amore di Gesù: la sua capacità di attenzione, il suo condividere la condizione di chi era tenuto ai margini, il suo annuncio per gli esclusi. In questa misura può essere colto il senso profondo dell’indicazione dell’invito a passare per la porta stretta: c’è una ‘strettezza’ che consiste nella misura di Gesù che apre ad un orizzonte che supera le nostre chiusure.

La porta è luogo di ingresso, apertura ad una relazione. Il riferimento alla vicenda del padrone di casa che, aprendo a chi bussa, non riconosce chi accampa diritti di conoscenza e appartenenza, accompagna a pensare la salvezza nei termini di una relazione maturata e vissuta. La salvezza viene riportata ad un incontro, ad un vivere nella misura di Gesù, cioè nell’incontro con lui.

L’immagine della porta stretta si apre nella risposta di Gesù ad un progressivo allargamento. Gesù evoca un venire di popoli da oriente e occidente da settentrione e da mezzogiorno, ‘e sederanno alla tavola del regno’. La visione di flussi di popoli che arrivano sfida il pensiero. Quella porta stretta è passaggio angusto ma presenta la via di un raduno senza confini. E’ porta così aperta da radunare da ogni angolo e da accogliere da ogni direzione, in una prospettiva che è apertura per tutti, in un orizzonte universale.

Gesù vuol capovolgere le sicurezze di chi si sente a posto, di chi pretende una superiorità rispetto agli altri, l’esclusivismo di chi desidera vantarsi di un privilegio religioso.

Apre ad un cammino in cui trovare la forza per sapersi coinvolti in un incontro. Chi viene da lontano si trova ad entrare nel banchetto del regno. Non ci sono garanzie per chi pretende di godere di appartenenze sicure, o di poter dire ‘ho mangiato e bevuto con lui’. L’invito è piuttosto nel vivere il cammino che Gesù compie, nell’operare la giustizia come fedeltà di fronte all’altro. Questa prospettiva che rompe con l’idea di una salvezza pretesa e difesa come privilegio genera reazione e scandalo.

La salvezza assume i contorni concreti di un mangiare insieme nella accoglienza di una tavola aperta, nel concepire la propria vita aperta gli altri e data per gli altri. Gesù viveva questo condividendo la tavola senza escludere coloro che erano tenuti lontani e considerati fuori dalla salvezza. Con il suo agire che destava critiche aspre – ‘ecco un mangione e un beone amico di pubblicani e peccatori’ – egli annunciava che il disegno di Dio è accogliere tutti come figli ad una mensa in cui tutti possano sperimentare la gioia di essere riconosciuti come fratelli.

Il IV vangelo riprenderà l’immagine della porta come grande metafora a sottolineare un senso comunitario aperto e per una riflessione sui tanti ovili e sulle tante pecore da radunare: ‘Io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9). E’ una porta piccola, ma è porta che attende innumerevoli presenze, da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno.

Il pellegrinaggio dei popoli oggi assume i contorni degli spostamenti e degli incontri nuovi che si generano. Le reazioni di paura, di aggressività e violenza sono forme di incomprensione del cammino di una umanità che sta andando verso orizzonti di incontro sempre più allargato, ma che richiedono anche modi nuovi di intendere la vita.

Di fronte all’ingiustizia siamo chiamati riconoscere chi opera la giustizia come riconoscimento dell’altro e ad operare la giustizia nel tessere percorsi di accoglienza attorno a tavola in cui riconoscersi fratelli. Anche nel dramma della violenza come in questi giorni in Egitto, in cui le varie forme di dominio e violenza rendono vani e distruggono tanti sforzi di giusti che cercano di far crescere il dialogo e la convivenza nel rispetto tra uomini e donne, culture e religioni.

Simone Weil in una poesia in cui evocava la sua ricerca interiore, il senso di inadeguatezza e di chiusura ma anche la apertura come dono gratuito che colma il cuore, per esprimere il suo itinerario evocava appunto l’immagine della porta. E forse richiamava all’invito di Gesù ‘Sforzatevi’, come attenzione radicale e attesa di tutta l’esistenza al suo senso più profondo:

Apritela porta, dunque, e vedremo i verzieri,
Berremo la loro acqua fredda che la luna ha traversato.
Il lungo cammino arde ostile agli stranieri.
Erriamo senza sapere e non troviamo luogo.

Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta.
Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta.
Se occorre l’abbatteremo coi nostri colpi.
Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte.

Bisogna attendere, sfiniti, guardare invano.
Guardiamo la porta; è chiusa, intransitabile.
Vi fissiamo lo sguardo; nel tormento piangiamo;
Noi la vediamo sempre, gravati dal peso del tempo.

La porta è davanti a noi; a che serve desiderare?
Meglio sarebbe andare senza più speranza.
Non entreremmo mai. Siamo stanchi di vederla.
La porta aprendosi liberò tanto silenzio.

Che nessun fiore apparve, né i verzieri;
Solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce
Apparve d’improvviso da parte a parte, colmò il cuore,
Lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere.
(Simone Weil, La porta)

XX domenica del tempo ordinario – anno C – 2013

DSCF4033Ger 38,4-10; Eb 12,1-4; Lc 12,49-57

In questa pagina di Luca segnata dalla questione della decisione e dell’attenzione che Gesù chiede a coloro che lo ascoltano c’è una prima parola di Gesù che presenta due immagini: il fuoco e l’immersione nell’acqua. Fuoco e battesimo: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso… Ho un battesimo nel quale sarò battezzato”. L’immagine del fuoco facilmente si associa ad una potenza che scende improvvisa, come fulmine, che porta incendio e distruzione. Anche nel linguaggio del tempo di Gesù, benché non vi fossero ancora le armi da fuoco – terribile concretizzazione della potenza distruttiva a cui può essere piegato l’uso del fuoco – il fuoco era metafora usata per indicare una potenza di distruzione. Sono i due fratelli, Giacomo e Giovanni, discepoli irruenti e detti per questo ‘figli del tuono’, che di fronte ad un rifiuto della predicazione da parte di un villaggio di Samaria avevano detto a Gesù: “Signore vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54). Ma in quell’occasione Gesù li rimproverò. La sua è reazione di distacco da tutto ciò che è un fuoco distruttore. La sua scelta radicale per la nonviolenza, che costituisce uno dei suoi tratti umani, è indicazione che fa pensare come il suo parlare con l’immagine del fuoco debba essere interpretato in altra direzione. Il fuoco che Gesù desidera essere già acceso non è qualcosa che distrugge e consuma, ma una forza che cambia dentro. E’ capacità di passione che spinge ad intendere la vita tutta presa nella causa del regno di Dio. Così l’immagine del fuoco racchiude la sua speranza – ardente come il desiderio – che l’annuncio del regno provochi una reazione di coinvolgimento appassionato. La sua vita sta nell’orizzonte di una immersione, un battesimo a cui egli stesso è teso come compimento di tutto il suo agire. Il battista aveva presentato uno ‘che viene dopo di me’ come colui che “battezzerà in Spirito santo e fuoco’ (Lc 3,16). Immergersi per Gesù ha significato intendere tuta la sua vita nell’orizzonte dell’essere per gli altri, nella condivisione e nella solidarietà con coloro che non hanno chi li difende. Questa immersione Gesù l’ha vissuta fino in fondo nel suo affrontare il morire in fedeltà al suo annuncio. Gesù desidera che questa passione bruci anche in coloro che ascoltano, un fuoco che non faccia rimanere indifferenti, ma coinvolti, capaci di passione di amore.

C’è una seconda parola di difficile interpretazione in questa pagina di Luca. Ancora può sembrare che Gesù sia portatore di discordia e di guerra: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico ma divisione”. Ancora questa affermazione è da leggere nel quadro della tensione di tutta la vita di Gesù per il regno. La sua chiamata, l’appello ad entrare nella logica del regno non può lasciare le cose come stanno, ma chiede una decisione, una capacità di scegliere e di schierarsi. Gesù manifesta le difficoltà e la divisione che sono conseguenza di un prendere parte nella vita e nell’impostare la vita nella linea dell’immersione – il battesimo – che è stata la via della condivisione da lui seguita. La scelta per il regno genera un modo diverso di rapporti, apre ad uscire da legami sociali, anche quelli familiari, per scoprire una nuova famiglia in cui i confini sono abbattuti e l’orizzonte di relazione si allarga.

E infine una provocazione: “Quando vedete una nuvola salire da ponente subito dite ‘arriva la pioggia’…come mai questo tempo non sapete valutarlo?”. E’ una provocazione che sorge dalla constatazione dell’abilità nel prevedere il tempo atmosferico. Gesù ammira chi sa cogliere i segni atmosferici, le nuvole, il vento caldo che divengono indicazioni importanti per le attività da svolgere. Il suo sguardo di fronte a queste capacità è colmo di stupore. E pensa all’importanza di saper leggere il tempo come luogo in cui Dio sta facendo irruzione. Se vi fosse nei cuori questa capacità e questa sensibilità a cogliere i segni della presenza di un Dio vicino che si fa carico dei più dimenticati tutto potrebbe cambiare. Il regno è presente come seme, è già in atto pur nella sua piccolezza, e richiede una disponibilità e un’attenzione nel leggere i segni dei tempi. Chiede anche di saper coglierne le chiamate di Dio nel tempo che, nonostante le sue contraddizioni, è tempo di salvezza, tempo di incontro con Dio e di scoperta del senso più profondo della vita.

Queste tre parole di Gesù possono essere invito oggi a tre attitudini fondamentali spesso dimenticate: indicherei la prima come capacità di immersione. Chi si lascia coinvolgere non può rimanere spettatore distaccato e lontano. Alla stagione delle grandi passioni nutrite dalle speranze per cambiamenti del mondo e della storia è seguito il tempo del disincanto, dell’indifferenza, dell’assuefazione ad un dominio pervasivo che appiattisce la vita alle dimensioni del benessere materiale, non spinge all’oltre e non fa guardare agli altri. Oggi percepiamo come un certo atteggiamento distaccato e cinico di fronte alle cose, all’impegno, al coinvolgimento sia un carattere del nostro tempo. Forse per tante delusioni, forse per una certa comodità che avvolge, offusca e rende insensibili alle esigenze di un impegno con e per i poveri. L’indifferenza coltivata stancamente conduce a non impegnarsi per nulla, a non giocare energie, competenze, tempo e disponibilità. Non fa rischiare qualcosa della propria vita in un impegno e in una dedizione che cambia il modo di pensare e di agire. La parola di Gesù spinge a lasciarsi prendere da un fuoco che cambi, a vivere il rischio e la bellezza di immergersi nella vita, di lasciarsi coinvolgere nel lasciare spazio al regno di Dio che è sfida di cambiamento anche per la vita sociale e politica.

La seconda parola è invito alla capacità di scelta e di schierarsi. Troppo spesso la posizione dei credenti è stata orientata come una posizione di moderatismo. Il moderato in tal senso è figura di qualcuno che non si schiera con chiarezza, cerca il compromesso, riduce i conflitti in una confusione di orientamenti. Diversa è la fatica di chi, schierandosi e mantenendo chiarezza di scelte, ricerca la mediazione nella vita pratica, dal compromesso di chi alla fine si pone come conservatore dello status quo, sta sempre dalla parte dei potenti e fa di tutto per non turbare una falsa pace, contrabbandata con l’atteggiamento di sottomissione ai criteri dell’interesse personale, del profitto e del potere mondano. Gesù ai suoi dice ‘tra voi non è così’ e apre ad una capacità di scelta e di schieramento chiaro che si espone alle divisioni e al conflitto. Nella storia proprio i tessitori di pace vera, che è scelta di stare dalla parte delle vittime e ai poveri, come Gesù, sono coloro che generano le reazioni più dure perché con la loro stessa presenza denunciano e contestano i sistemi di potere preoccupati di una pace come assuefazione e come sottomissione. In questi giorni siamo in apprensione per la sorte di Paolo Dall’Oglio, gesuita che ha speso la sua vita nella direzione del dialogo tra culture e fedi in Siria e ora è vittima di una guerra civile in cui la pace è calpestata. La presenza di profezia genera sempre ostilità e desiderio di spegnere il fuoco della passione.

L’ultima parola può essere indicata come invito a maturare la capacità di giudicare il tempo. Quanto sarebbe importante accogliere questa parola per la vita delle comunità. La ricerca di leggere il tempo presente non è ambito riservato alla gerarchia ma dovrebbe essere cammino condiviso, vissuto nell’ascolto reciproco, dando spazio alla formazione di credenti adulti, capaci di discernimento e di scelte e ad una possibilità di confronto e dibattito nelle comunità. In un ascolto della Parola, in un ascolto del tempo e in un ascolto degli altri, delle voci dei poveri e delle voci che provengono da chi cerca e da chi soffre. E tutto ciò nella fatica di comprendere e valutare il tempo. In tale direzione la preoccupazione prima in una comunità cristiana dovrebbe essere quello di far crescere persone capaci di valutare, di interrogarsi insieme sul proprio tempo alla luce della Parola e della vita stessa di Gesù. Una certa tendenza oggi diffusa a vivere una spiritualità che conduce a estraniarsi dalle questioni difficili della vita e della storia è lontana dall’immersione che Gesù ha vissuto nella sua vita e che chiede ai suoi.

Alessandro Cortesi op

XIX domenica – tempo ordinario – anno C – 2013

DSCF4031Sap 18,3-9; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48

“Cercate piuttosto il suo regno e queste cose vi saranno date in aggiunta. Non temete piccolo gregge, perché al Padre è piaciuto dare a voi il regno…”
La parola chiave che apre questa pagina di Luca può essere colta in due verbi: ‘cercare’ e ‘non temere’. Talvolta a questo proposito si usa un linguaggio improprio ed erroneo: si parla infatti di ‘costruire’ il regno di Dio. Questo versetto di Luca aiuta invece a cogliere che il ‘regno di Dio’ – questo elemento che sta al cuore della predicazione di Gesù – è innanzitutto un dono, da cercare e da accogliere, non da ‘costruire’ ma da ‘cercare’. Non da realizzare ma da scoprire e ricevere come il grande tesoro che apre ad orientare tutto in questa nuova direzione. Solo per questo Gesù chiede ai suoi di ritenere ogni altra dimensione della vita meno importante della ricerca del regno, fino al punto di ‘vendere tutto’ per farsi un tesoro sicuro nei cieli “perché dov’è il vostro tesoro là sarà anche il vostro cuore”.

Il regno di Dio è un dono di vicinanza. Nel linguaggio di Gesù il regno indica che Dio interviene e prende le parti dei poveri e degli indifesi perché la sua attitudine fondamentale è la misericordia e la compassione. Dio è buono e desidera una vita buona per tutti: per questo si pone dalla parte di chi nessuno difende ed apre una storia nuova.

“Non temere piccolo gregge”: questa indicazione alla piccolezza non fa riferimento ad una esiguità di numero, ma indica che solo chi rimane nella condizione di chi è piccolo, di chi è disposto a cercare e ricevere può accogliere il regno.

“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese, siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che quando arriva e bussa gli aprano subito…”
La condizione della comunità che Gesù desidera è espressa nell’attitudine di chi sta partendo per un cammino: con le vesti strette ai fianchi, con le lampade accese. E’ una allusione al cammino dell’esodo, nella notte, guidati da quella nube luminosa che indicava il cammino. Nella notte l’atteggiamento richiesto è la vigilanza, il restare svegli. Si tratta di una viaggio nell’attesa di colui che viene. In questo ‘frattempo’ che è tempo dell’attesa la chiamata fondamentale è quella di rimanere svegli, capaci di fedeltà nel quotidiano.

L’esodo per Israele era stato cammino di uscita dalla condizione della schiavitù, uscita dall’impero del faraone. Anche la vita di ogni credente e della comunità di Gesù è chiamata ad uscire dal regno dei nuovi faraoni per entrare nel regno di Dio, accogliendo la compassione del Padre che ha cura dei suoi figli e che chiede di attuare rapporti nuovi.

Nela parabola del padrone che si assenta per andare alle nozze viene indicata così una rivoluzione nel modo di pensare a Dio stesso. Dio non è un faraone, non è padrone che costringe e controlla. E’ invece qualcuno che si assenta, che lascia la sua casa nelle mani di altri. Ha la libertà e la grandezza di chi sa affidare una responsabilità, per custodire, per farsi carico delle cose e degli altri, per condurre le cose non da schiavi ma da liberi.

Così coloro che hanno incontrato Gesù sono chiamati a vivere quello che Gesù ha vissuto, la vita intesa come un servizio in cui l’essere grandi si realizza nell’aver cura: quando il padrone tornerà, trovando i servi svegli “si stringerà le vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Luca nel suo vangelo pone queste parole sulla bocca di Gesù proprio nel contesto dell’ultima cena quando Gesù indica il significato profondo della sua vita: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse chi sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).

La parabola del servo che dice ‘il padrone tarda a venire’ e comincia a percuotere gli altri servi è indice di una radicale incomprensione del volto di Dio: egli non è padrone che sottomette e si impone con la forza, ma Signore che affida gli uni agli altri, perché ciascuno impari a rispondere davanti agli altri non spadroneggiando ma prendendosi cura. Non padroncini sottomessi ma amministratori responsabili.

Possiamo cogliere da questa pagina alcune indicazioni per noi oggi.

La parola ‘piccolo gregge’ è invito a mantenere uno stile di piccolezza. E’ una indicazione a non seguire ideali di grandezza e di affermazione in termini di preoccupazione per se stessi, senza mantenere al primo posto la logica del servizio. Porre in primo pano la ricerca del regno di Dio significa scoprire che nella vita alla radice dell’esistenza umana stessa sta un dono. Un dono da custodire e da cui trarre motivi di servizio nella cura e nella responsabilità per altri. L’invito di Gesù è di non perdere mai di vista tale orizzonte, anche nella vita della comunità, della chiesa. In questo senso il cammino da compiere è molto perché è facile venir meno a questa libertà così esigente.

‘Siate pronti’. E’ un invito alla vigilanza, al non addormentarsi e venir meno ad uno sguardo capace di prontezza nel cammino e di mantenere le lampade accese. Il cammino è un esodo che si rinnova nella vita ed implica il coraggio della libertà contro le continue tentazioni di inseguire i nuovi faraoni o di costruire idoli a portata deli desideri di potere umano. C’è una vigilanza oggi da attuare nella vita sociale e politica, laddove si attuano manovre da parte di chi vuole imporre logiche di imposizione e di asservimento. C’è anche una vigilanza nella vita della comunità per mantenersi piccolo gregge. C’è una vigilanza nella vita personale per saper mantenere una attitudine di ricerca del regno con le lampade accese. La lampada da mantenere accesa è la luce che viene dalla Parola (lampada ai miei passi è la tua Parola…è la preghiera del salmo 109,105) per saper cogliere negli avvenimenti, nella storia e nella vita i segni delle chiamate del Signore, le tracce della sua presenza che ci chiede di rispondere con la cura e e il servizio, i segni del suo ritorno. Mantenere le lampade accese è stare nell’attesa, atteggiamento fondamentale del credente che invoca ‘Vieni Signore Gesù’ e attende con speranza la sua venuta.

Alessandro Cortesi op

XVIII domenica tempo ordinario – anno C – 2013

DSCF4036Qoh 1,2; 2,21-23; Sal 89; Col 3,1-11; Lc 12,13-21

“Maestro di’ a mio fratello che divida con me l’eredità… O uomo chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi”. Gesù è tirato in ballo in una questione di eredità familiare. La sua reazione riportata da Luca, nella sua brevità apre uno squarcio importante sul modo di pensare di Gesù. Egli non intende essere un ‘deus ex machina’ che risolve le situazioni della vita in modo miracolistico togliendo la fatica della ricerca. La sua preoccupazione è l’annuncio del regno di Dio, la vicinanza di un Dio che accoglie, dona compassione e porta liberazione agli esclusi e ai poveri. Ritraendosi dal coinvolgimento nel conflitto sull’eredità Gesù dice di non essere giudice o mediatore. In questo caso – una disputa su questioni di beni – come nelle differenti situazioni in cui sono in gioco scelte e orientamenti su piccoli o grandi problemi della vita, ci sono regole proprie di ogni ambito e persone competenti a cui rivolgersi, qui giudici e mediatori presenti nella società. C’è un affidamento ai percorsi umani da mantenere. Gesù dice così che l’incontro con lui non è risoluzione magica di tutti i conflitti su base di un intervento che tolga la fatica umana della scelta.  Le questioni della vita umana e sociale vanno affrontate e risolte usando il buonsenso, la ragione, le competenze, secondo le leggi proprie di ogni ambito.

E’ una parola accostabile all’affermazione ‘Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio’. Un’affermazione di riconoscimento di laicità. I vari ambiti della vita richiedono di essere gestiti secondo le regole e le leggi umane, percorrendo le vie della prudenza come capacità di esame e decisione, cercando con fatica soluzioni, rivolgendosi a chi ha competenze, riconoscendo le autorità, osservando la legalità, lottando perché vi siano criteri di giustizia, e non pensando che la fede di per sé risolva tutti i problemi quotidiani ed elimini la fatica del discernimento.

Dicendo ‘date a Cesare e date a Dio’ Gesù però richiama a qualcosa di fondamentale che non può essere dato a Cesare. Se nelle monete c’è l’effigie di Tiberio, l’imperatore, e a lui vanno restituite (così le monete, che lo stesso Gesù non aveva, e per questo se le fa mostrare), nel volto dell’uomo c’è l’immagine di Dio e questa immagine solo a Dio fa riferimento. Nessun dominatore può pretendere di avere la sottomissione della vita delle persone. Nessun leader o capo politico o religioso può nutrire la pretesa di essere ‘signore’ della vita e della morte, di condizionare, con il suo potere l’esistenza di uomini e donne e di togliere la responsabilità di scelte secondo coscienza. C’è una dimensione di fondo dell’esistenza delle persone che non può avere altri signori ma si riferisce a Dio solo. Nella consapevolezza di questa libertà di fondo è possibile allora affrontare le scelte nel presente.

Gesù rispondendo al fratello preoccupato dell’eredità non si ferma all’indicazione di uno spazio di laicità da riconoscere nella vita. Conosceva i problemi della crisi economica che ai suoi tempi segnava la Palestina. Conosceva le ingiustizie palesi nella ricchezza ostentata nella costruzione di grandi città imperiali come Sefforis e Tiberiade a confronto con la miseria e l’impoverimento di tanti che perdevano anche i loro terreni e non avevano nemmeno possibilità di usare denaro ma scambiavano pochi beni in natura. Gesù richiama ad una attitudine di fondo che non risolve il caso ma che offre una direzione globale e profonda: ‘Fate attenzione, guardatevi da ogni cupidigia’. La questione dell’eredità potrà essere risolta in vari modi secondo le linee dell’approfittarsi, dell’ingiustizia, oppure secondo quelle della giustizia, o ancora con generosità e amore. Gesù però va alla radice: richiama a non vivere nella preoccupazione che l’accumulo dei beni costituisca il senso della vita, cerca di distogliere dal desiderio insaziabile che si chiama cupidigia.  Vi sono varie forme di cupidigia: cupidigia dell’avere ma anche la cupidigia di essere proni ai poteri di turno per ricavarne il massimo profitto.

Richiama così un atteggiamento di fondo: non è soluzione di una disputa, ma è indicazione che ha a che fare con il regno di Dio. Se il regno è il tesoro, la cosa preziosa, la perla che viene scoperta nella vita, allora tutto il resto acquista uno spessore diverso. Soprattutto la scoperta del regno di Dio apre a cogliere che la vita non può essere ristretta negli orizzonti angusti di aumentare le proprie ricchezze di ogni genere.

Gesù fa aprire così gli occhi sulle ‘dipendenze stolte’ della vita: la vita non dipende da ciò che uno possiede. Così Luca introduce a questo punto la parabola del ricco proprietario terriero che di fronte ad un abbondante raccolto pensa di abbattere tutti i suoi magazzini e di costruirne di nuovi, più ampi. Per Gesù quest’uomo preso totalmente dal pensiero della ‘roba’ diviene il ritratto dello stolto. La stoltezza sta nel suo sguardo miope, incapace di guardare al percorso della sua vita, incapace di considerare il limite e di aprirsi alla responsabilità nel presente. “Stolto questa stessa notte ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?”

La falsa sicurezza dei magazzini è smascherata da un modo di guardare alla vita che apre un orizzonte nuovo: la parola di Gesù è nella linea di una liberazione. Le sue parole intendono strappare alla stoltezza, liberare la vita da false sicurezze, fare uscire dalla ristrettezza di una vita angustiata da progetti di magazzini dove ammassare.

Ma c’è un secondo avvertimento importante e sta nelle parole: ‘Così è di chi accumula tesori per sé’. Accumulare per sé stessi è la miopia di chi non riesce più a guardare all’altro. Nella vita di quest’uomo ricco non c’è attenzione a nessun altro. Né poveri, né diseredati, né propri paesani, neppure la propria famiglia, moglie, figli. Solamente la preoccupazione per ‘i miei beni’. E’ l’indicazione che l’ottusità nella ricerca di accumulare, nel non essere mai soddisfatti, conduce ad una ristrettezza di orizzonti impensabili: l’insensata brama di accumulo per sé, nell’indifferenza. E’ la bramosia della ‘roba’ che genera una condizione di schiavitù rispetto alle cose, e una paura che fa divenire i magazzini stessi il luogo in cui si seppellisce la speranza e la possibilità di una vita nella relazione.

La parabola del ricco stolto può essere letta come forte provocazione alla società opulenta, preoccupata di mantenere i sui privilegi, incapace di cambiare, ma anche non interessata ad alcun cambiamento perché assorbita totalmente in una attitudine di accumulo senza sguardo all’altro.  E’ il mito del capitalismo: la tensione al massimo beneficio, prodotto per lo più da grandi capitali finanziari e svincolato dall’esperienza del lavoro, e la rincorsa al profitto in una attenzione egoistica al proprio benessere con la sopravvalutazione del potere del denaro e della proprietà. Recentemente nel suo viaggio in Brasile papa Francesco ha detto: “Vedete, io penso che questa civiltà mondiale sia andata oltre i limiti, perché ha creato un tale culto del dio denaro, che siamo in presenza di una filosofia e di una prassi di esclusione dei due poli della vita (gli anziani, i giovani), che sono le promesse dei popoli”.

“Riposati, mangia bevi e divertiti”: è questa la logica del consumo e dell’induzione di bisogni artificiali con la pubblicità e la moda. Divertiti e insegui solo un benessere che è star bene e cercare appagamento. Questa insensatezza incontra prima o poi situazioni di crisi sia a livello personale, sia a livello sociale. L’attuale crisi economica che perdura nel mondo occidentale, nonostante le continue promesse dei detentori del potere, potrebbe essere colta e vissuta come opportunità di un cambiamento radicale. Cambiamento non significa ritorno e ristabilimento di una situazione da riprendere: la sfida oggi non è rilanciare una crescita basata sulle forme del neoliberismo economico che ha dimostrato la sua insostenibilità ed ha creato sempre più diseguaglianze, ma l’autentica sfida sta nell’attuare politiche mondiali di solidarietà. Potrebbe essere occasione propizia per scegliere stili diversi nell’uso dei beni, non perseguendo i privilegi di pochi, ma coltivando i beni comuni, scegliendo stili di sobrietà che sono ben diversi dall’austerità imposta dai grandi potentati politici e finanziari per mantenere il sistema dei profitti e del dominio della finanza.

Una società che genera possibilità di vita buona non è da demonizzare, ma la logica dell’accumulo è logica che perde di vista il senso della vita delle persone, il valore del lavoro, la dignità dei poveri. Se il senso stesso della vita si esaurisce nella ricerca di un godimento – che risulta poi essere privilegio di pochi – questa è insensatezza. La parabola del ricco senza intelligenza denuncia la stoltezza come incapacità di comprendere le profonde dimensioni della ricerca umana. Questa non può essere ridotta all’appagamento di godimenti fisici, materiali o di ricchezze umane e culturali che non siano condivise. Non può essere coperta solo da cose che si consumano.

Ma c’è anche una provocazione profonda per un modo di intendere la chiesa. Una chiesa che non sa riconoscere gli spazi della laicità e cerca di avere il privilegio di poter risolvere tutti i problemi e le questioni della vita umana e sociale è una chiesa presuntuosa e ricca. Una chiesa preoccupata di beni, di accumulo, desiderosa di stare dalla parte di chi ha potere – la cupidigia dell’apparire e del dominare – è una chiesa stolta. La scelta di non accumulo e della condivisione dei diversi generi di ricchezze impegna non tanto in una attività di tipo assistenziale ma in un percorso di vita e di incontro. Non si limita a qualcosa da fare ma è uno stile nutrito anche di scelte di mezzi poveri e spogliato della cupidigia di potere per lasciar spazio a guardare l’altro.

Vivere accumulando o vivere arricchendo davanti al Dio che condivide e accoglie: Gesù presenta oggi questa forte provocazione a noi.

Alessandro Cortesi op

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