Corpo e sangue di Cristo – anno C – 2019
Gen 14,18-20; 1Cor 11,23-26; Lc 9,11-17
Il gesto di un re misterioso, che offrì pane e vino ad Abramo è segno di una alleanza ed è gesto di riconciliazione: con la sua offerta permette ad Abramo e al suo clan di riposare. Ed infine benedice Abramo. Il pane e il vino di questo re di giustizia recano in sé i tratti dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Anche Gesù compie gesti che significano condivisione, possibilità di ristoro, di partecipare nella pace ad un medesimo banchetto: ‘Gesù prese i cinque pani e i due pesci, e levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono…’.
I pochi pani divengono sufficienti per sfamare tutti, nel movimento che ha inizio dalla condivisione e su cui scende la benedizione. Tutti poterono mangiare fino ad essere saziati. Si tratta – è bene sottolinearlo – di una distribuzione. E questo gesto ha una rilevanza per comprendere il cammino di Gesù: subito dopo infatti Gesù presenta la sua missione: è il figlio dell’uomo che percorre la via che incontra il rifiuto e l’ostilità ma viene esaltato dal Padre (Lc 9,18-22) e si dirige decisamente verso Gerusalemme.
Nel gesto dei pani Luca ricorda l’episodio della manna nel deserto (Es 16,8.12; Num 11,21); anche Gesù è in un luogo deserto, vicino a Betsaida. E’ poi richiamata la moltiplicazione dei pani compiuta dal profeta Eliseo per i discepoli (2Re 4,42-44).
Gesù chiede di mettere a disposizione il poco e da lì fa iniziare un movimento di condivisione. Da qui si genera abbondanza per tutti e i discepoli sono coinvolti in questa distribuzione: ‘li benedisse li spezzò, e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla gente. E mangiarono e si saziarono e dei pezzi avanzati ne portarono via dodici panieri’. La comunità è chiamata a centrare la sua attenzione verso ‘tutta questa gente’ di affamati e poveri e a vivere lo stupore di una sovrabbondanza che viene dal donare, dal far parte.
Luca inoltre rinvia all’esperienza della prima comunità che viveva l’eucaristia. I gesti di Gesù sono infatti gli stessi dell’ultima cena e dell’incontro con i due di Emmaus. Anche a Emmaus Gesù prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo porge ai discepoli.
La moltiplicazione/distribuzione dei pani allora, non è solo memoria del gesto di Gesù, che benedisse e i pani e i pesci dandoli poi a distribuire a tutta la folla. Questo segno rinvia all’eucaristia, alla sua presenza che continua nella comunità. Il pane condiviso è affidato ai discepoli: ‘date voi loro da mangiare’.
L’eucaristia trova il suo autentico senso e compimento nel condividere e nel far partecipare: non è solo un dare ma è un fare esperienza di essere solidali. L’eucaristia che la comunità è chiamata a vivere non è un momento intimistico, ma apre a relazioni nuove ad un modo di intendere la vita nella linea della condivisione.
Per questo Paolo nella lettera ai Corinzi rimprovera una comunità che vive divisioni al suo interno e poi mangia la cena del Signore. Ricorda l’autentico senso del mangiare insieme la cena del Signore: da lì devono nascere rapporti di accoglienza reciproca. E conclude ‘perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri’ (1Cor 11,33). E’ un invito attuale alle comunità ad ‘aspettarsi’, a guardare all’eucaristia come dono che apre ad accogliere senza porre confini ed esclusioni. E’ Gesù che ci invita alla sua cena e facciamo esperienza di essere ospitati e per questo capaci di ospitalità: un orizzonte che è ancora sogno e promessa da realizzare nella pratica di una ospitalità che coinvolga l’eucaristia e la vita.
Alessandro Cortesi op
Ospitalità in un mondo in fuga
Il 20 giugno 2019 è la Giornata internazionale del rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite. E’ un giorno che riporta in modo drammatico l’attenzione alla situazione di un mondo in fuga: il Rapporto annuale sui rifugiati nel mondo curato dall’UNHCR attesta che aumentano infatti anche nel 2018 le persone costrette ad abbandonare le loro case.
L’elemento che sorprende è che i Paesi che accolgono i profughi sono tra quelli più poveri del mondo. Cresce invece la chiusura da parte dei Paesi ricchi con costruzione di muri e barriere. Il tema delle migrazioni porta voti nelle campagne elettorali per chi si pone in posizione ostile. E nei paesi del Nord si irrigidiscono le norme riguardanti le migrazioni e vengono negati ai migranti diritti fondamentali sino a cancellare il diritto d’asilo.
In questi giorni 43 persone a bordo della nave Seawatch che li ha salvati nel Mediterraneo stanno attendendo di poter essere accolti in un porto sicuro di approdo che non viene concesso dal governo italiano: si tratta di naufraghi recuperati in mare e tra di essi possono esserci rifugiati o persone che chiedono asilo politico. Questa vicenda nel giorno mondiale del rifugiato è simbolo della negazione nel riconoscere diritti fondametali e della barbarie in cui stiamo scendendo.
E’ negato sempre più il diritto a muoversi, soprattutto a chi proviene dai paesi poveri mentre si sviluppano nuove forme di chiusura: l’esternalizzazione delle frontiere, il tentativo di fermare i flussi migratori prima che giungano ai confini, l’eliminazione delle ONG dai luoghi di salvataggio come nel Mare Mediterraneo.
Su di un totale di 70,8 milioni di rifugiati secondo i dati dell’Unhcr, i rifugiati internazionali sono 26 milioni. Sono in aumento rispetto al 2017. La maggior parte sono sfollati interni ai paesi dove sono in atto conflitti (41,3 milioni). E ad essi si aggiungono i richiedenti asilo (3,5 milioni).
I rifugiati provengono per lo più da luoghi dove sono in atto conflitti in paesi del terzo mondo, nei quali sono coinvolti i Paesi occidentali per i loro interessi economici e strategici ed altri Paesi ricchi come l’Arabia Saudita. Due rifugiati su tre provengono da cinque Paesi in particolare: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar, Somalia.
Così osserva Maurizio Ambrosini studioso del fenomeno delle migrazioni: “Uno dei maggiori successi culturali dei governi del Nord del mondo, e dei media che ne riflettono le posizioni, è quello di far credere che la grande massa delle persone in cerca di asilo prema alle porte dei Paesi sviluppati. (…) I migranti forzati in genere non si sono preparati a partire, spesso non dispongono dei mezzi per effettuare lunghi spostamenti, e molti sperano di tornare a casa non appena il pericolo sia passato. Il dato fondamentale è che nove dei dieci Paesi che accolgono il maggior numero dei rifugiati nel mondo sono Paesi in via di sviluppo e globalmente ospitano l’84% di questa umanità dolente, spesso senza disporre delle risorse per assicurare loro un minimo di protezione. (M. Ambrosini, ecco chi fa di più per i profughi e rifugiati, Avvenire 20 giugno 2019)
Tra i Paesi con maggior numero di rifugiati si trova la Turchia (3,7 milioni, in maggioranza dalla Siria), il Pakistan (1,4 milioni, maggioranza afghani) e Uganda (1,2 milioni, provenienti soprattutto da Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo).
L’Europa non è certo una delle principali mete di chi fugge, anzi. Tra i primi 10 Paesi per rifugiati accolti in percentuale a livello mondiale, dei paesi europei ci sono solo Malta e Svezia. La Germania, ha accolto poco più di un milione di rifugiati. Si delinea da questi dati un quadro molto diverso da quello presentato generalmente dai media secondo una propaganda che non si riesce a contrastare: l’Unione europea nel mondo è all’ultimo posto come meta raggiunta e l’Italia occupa le ultime posizioni.
“A questo punto occorre domandarsi come si colloca l’Italia. A dispetto delle narrative enfatiche e vittimistiche, la risposta è: lontano dalle prime posizioni. Il rapporto certifica la presenza in Italia di 295.599 richiedenti asilo e rifugiati a fine 2018, pari a circa 5 persone su 1.000 residenti. Per offrire qualche termine di paragone, non ci precede solo la Germania (1,1 milioni, più 300mila richiedenti asilo), ma anche la Francia (459mila) e la Svezia (318mila). E, in proporzione alla popolazione, sono davanti a noi parecchi altri Stati”. (Ambrosini, ibid)
Non è in atto alcuna invasione e l’Italia in particolare potrebbe far fronte alla situazione di immigrazione assumendo responsabilità senza lamentarsi di essere sottoposta all’egoismo degli altri Paesi dell’Unione europea. Ma le scelte politiche governative stanno andando in tutt’altra direzione, proponendo illusioni di una falsa sicurezza e generando sofferenze ed esclusione per persone che potrebbero invece essere accompagnate ad una progressiva positiva integrazione se sostenute e aiutate.
Così conclude Ambrosini la sua analisi riportando una testimonianza diretta: “A questa analisi vorrei aggiungere una testimonianza personale. La mia prima figlia da quattro anni lavora come responsabile di una Ong nel Kurdistan iracheno, dove si occupa di bambini e ragazzi rifugiati. Quando ascolto i lamenti sull’accoglienza dei rifugiati in Italia, non posso non pensare alle distese di tende e di baracche sovraffollate, lontane da tutto, che mi ha fatto visitare”.
La campagna nazionale Io Accolgo (www.ioaccolgo.it) promossa da molte organizzazioni ha proposto in questi giorni di usare come segno di solidarietà e vicinanza ai rifugiati un lembo dei teli dorati che vengono utilizzati per proteggere i naufraghi quando vengono tratti in salvo dal mare. Un piccolo segno, anche per dire che ‘ospitalità’ nel nostro mondo è parola ancora da imparare.
Alessandro Cortesi op
XIII domenica tempo ordinario – anno C – 2019
1 Re 19.16.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
Eliseo è chiamato a seguire Elia che su di lui getta il suo mantello. La sua vita cambia: questo gesto apre il suo cammino ad essere profeta: sarà uomo di Dio senza paura nei confronti dei potenti: la sua missione sarà stare sotto la parola di Dio, ed esserne annunciatore. Il mantello è segno di una chiamata e di un invio ed anche di passaggio di responsabilità e di dono. D’ora in poi Eliseo lascia il suo lavoro, il seguire i buoi che guidava nell’aratura e si pone al servizio di Elia, divenendo suo discepolo.
Alla morte di Elia, Eliseo raccoglierà il suo mantello (2Re 2,13-14), e con esso aprirà ancora le acque, segno che la parola di Dio è parola di liberazione per tutti, per chi si sente estraneo e lontano, oltre i confini (2Re cap. 5; cfr. Lc 4,27). Quel mantello che egli ricevette apre la strada a rivivere il percorso di liberazione dell’esodo, un percorso personale, e che si fa servizio per gli altri.
“mentre stavano compiendosi i giorni in cui Gesù sarebbe stato tolto dal mondo si diresse decisamente verso Gerusalemme.. mentre andavano per strada un tale gli disse…”
La strada verso Gerusalemme è momento centrale della vita di Gesù per l’evangelista Luca: non solo egli cammina, ma tutto nella sua vita si fa proposta alla comunità da lui raccolta attorno a sé per mettersi in cammino, per uscire dalle tranquille sicurezze.
La fede biblica respira dell’esperienza del camminare, nel deserto. Ed è scoperta della presenza di un Dio vicino pellegrino con il suo popolo. Nel cammino si incontra Dio che spinge ad andare sempre oltre, ad aprirsi al futuro come suo dono.
I primi cristiani parlano di Gesù come ‘colui che è passato facendo del bene…’ (cfr. At 10,38). Il camminare di Gesù con noi è cammino di compagnia e di vicinanza: nel dialogo si fa strada la possibilità di riconoscerlo presente e che si fa vicino nell’incontro con gli altri.
Luca dice che Gesù ‘fece il viso duro’ e si diresse verso Gerusalemme: va verso Gerusalemme dove subirà ostilità e il rifiuto da parte del potere politico e religioso. Ma lì avverrà anche la risurrezione il suo salire al Padre e lì saranno gli inizi della comunità.
Sulla strada varie persone chiedono a Gesù di seguirlo; Gesù stesso rivolge l’invito ‘seguimi’. Seguire Gesù non è un tipo particolare di conoscenza né osservanza di un codice di comportamenti o regole. Indica piuttosto un rapporto, un mettersi in cammino nella condivisione di vita con lui.
Gesù chiama a seguirlo con urgenza e con una sorprendente radicalità. L’apertura al futuro non lascia spazio alle chiusure e alle nostalgie del passato. Non è garanzia di sicurezze ma invito a condividere la precarietà, la povertà della sua vita. E’ chiamata ad un’esistenza che non si lascia imprigionare dalla morte (‘Lascia che i morti seppelliscano i loro morti’). E’ infine richiesta una dedizione che coinvolge tutta l’esistenza: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. L’aratro preso e da cui non ci si può volgere indietro è richiamo a scelte di fiducia profonda anche nelle difficoltà.
Alessandro Cortesi op
Seguire
Raccolgo dai quotidiani di questi giorni alcune voci che aiutano ad interrogarsi oggi su cosa significa seguire Gesù, con la sua promessa di speranza e di accoglienza. Cosa significa questo oggi per noi?
«La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità». Così ha parlato Carola Rackete 31 anni, tedesca, la capitana della Sea Watch. «Basta, ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So a cosa vado incontro ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo». Ma questo gesto è rischioso: rischia infatti una incriminazione per favoreggiamento di immigrazione clandestina, il sequestro della nave e una multa da 50 mila di euro.
Così commenta Gad Lerner: “La disobbedienza civile con cui la Capitana ha deciso di sfidare il Capitano piccolo piccolo e il suo Decreto Sicurezza bis che criminalizza il soccorso in mare, è la più classica forma di omaggio alla legalità sostanziale, fondata sul rispetto delle norme internazionali sancite dal diritto del mare”. (Gad Lerner, L’onore di disobbedire, La Repubblica 27 giugno 2019)
Tutto ciò avviene mentre i giornali di tutto il mondo pubblicano la foto di un migrante al confine tra Messico e Usa trovato annegato sulla riva del Rio Grande con attaccata a sé la figlioletta. C’è chi si incammina verso un futuro mosso dalla forza della speranza e chi non vuole ascoltare il grido che proviene dalla disperazione.
“Questa Speranza — in nome della quale tanti uomini moriranno e tanti uomini uccideranno — è lo spirito messianico dei profeti, l’attesa e la preparazione dell’avvento del Messia, quella Terra Promessa verso la quale Mosé non si è stancato di guidare il suo popolo pur sapendo che egli stesso non vi avrebbe mai messo piede. Questo spirito religioso ebraico, questo guardare al futuro — che in qualche modo è già in atto nella traversata del deserto per raggiungerlo — assume una forma universalmente politica — pervasa di messianesimo — nel «sogno di una cosa» di cui parlava Marx, il sogno dell’umanità che rivendica la pienezza, la libertà, la vita vera o semplicemente la vita tout court , perché quella degli schiavi, degli oppressi, dei miserabili non è vita. Questa cosa sognata non si trova nel passato, in un Eden originario da cui l’umanità è stata scacciata, ma nel futuro, nel «non ancora». Come ci hanno insegnato a scuola, sperare è per definizione un verbo che vuole il futuro. E questo «non ancora», dice Virgilio morente nel grande romanzo di Broch, contiene l’«eppure già», perché il cammino verso la Terra Promessa è già Terra Promessa” (C.Magris, Elogio dell’uomo che spera, Corriere della sera 27 giugno 2019).
Questa speranza è spinta che nella vita ha un fragilissimo confine con la disperazione. E’ quella disperazione che ha guidato il gesto di un padre a gettarsi nella corrente del fiume con la figlia legata a sé dentro la sua stessa maglia. Ed è la disperazione incomprensibile ai grandi della terra e a chi comanda:
“Le parole. C’è questo tema dell’abisso che separa la Cosa dalle parole che chi comanda nel mondo — chi ha dunque la responsabilità, anche, di dire per tutti la parola appropriata — usa per indicare la Cosa. Donald Trump ha detto: “Stiamo mettendo le cose a posto, compresa la costruzione del muro”. È spaventosa, sarebbe imbarazzante se non fosse tragica, la convinzione di chi pensa che un muro, una barriera, un porto chiuso un divieto possano convincere Oscar e i milioni di persone che si buttano in acqua rischiando di morire coi propri figli in braccio, morendo con loro, a non farlo. Non sono capaci, i governanti, di indovinare la disperazione, di immaginare l’abisso”. (Concita Di Gregorio, Quanto male ci fa quella foto, La Repubblica 27 giugno 2019)
Anche in Italia ci sono i piccoli Trump, incapaci di scorgere le attese di speranza e gli abissi della disperazione:
“Provate a uscire — immaginate di farlo — andare in riva al mare, nuotare vestiti o salire su una barca che vi porta forse in un’altra terra, forse a morire. Ci andreste, stamani, stanotte, a nuoto, altrove? Vi mettereste vostra figlia nella maglia, se ha due anni e non sa nuotare? E cosa potrebbe indurvi a farlo, furbetti che non siete altro? Facile, eh? Provare a fottere le nostre leggi. I porti sono chiusi. Pensavate di fregarci? E invece guarda: siamo noi che freghiamo voi. Che soddisfazione. Applausi. Speriamo solo che nessuno dei Trump grandi e piccoli, al mondo, abbia mai bisogno di una mano che si tende, a mare. Speriamo che mettersi nei panni anziché esserci davvero, provare a immaginare, sia ancora un esercizio praticabile” (Concita Di Gregorio, ibid.).
«Grazie Carola! Grazie del peso dell’umanità di cui ti sei fatta carico nel mondo grande e terribile governato dell’egoismo». Così il parroco di Lampedusa don Carmelo La Magra ha salutato la decisione della capitana della Seawatch mentre trascorre le notti dormendo sul sagrato della chiesa in segno di solidarietà nell’attesa che la nave possa attraccare sull’isola.
«Chi ha a cuore le sorti del nostro Paese non se la prende con dei poveri disperati che sono allo stremo, ma si batte per cambiare le regole che fanno dell’Italia il capro espiatorio di un fenomeno, che esiste da sempre e che abbiamo il dovere di governare». Così si esprime Pietro Bartòlo, medico degli immigrati di Lampedusa. «Invece ho l’impressione che chi ha costruito gran parte del suo consenso facendo dell’immigrazione un problema, ha tutto l’interesse a che il problema resti così com’è, alimentando una campagna elettorale permanente» (A.Picariello, L’Europa intervenga ne ha il potere. Intervista a Pietro Bartolo, Avvenire 27 giguno 2019).
“Guardiamoci allo specchio, per una volta. E chiediamoci quanto già ci abbia avvelenato la disumanizzazione del nostro prossimo di cui parla Philip Zimbardo in «Effetto Lucifero», quanto vediamo di quel prossimo soltanto la dimensione numerica,vera anticamera dell’inferno che in fondo, come i nazisti ben sapevano, è la semplice negazione della singolarità umana. Così, ecco 40 sbarchi, 50 annegati, tutti uguali: ma è un inganno. Perché le notizie non sono mai tali e quali, come, ad esempio, non lo sono i bimbi sulle navi, ognuno con la sua originale paura del buio, il suo pupazzo preferito, il suo modo di dire mamma. Diverso da ciascuno e diverso dal piccolo siriano Alan, l’unico che, esanime su una spiaggia turca, «vedemmo»come fosse un bambino nostro; e che perciò ci reintegrò, sia pur per poco tempo, nei ranghi dell’umanità”. (G.Buccini, Navi e numeri. Il rischio (inumano) di assuefarsi, Il Corriere della sera 25 giugno 2019)
Giovanni Ricchiuti, vescovo, presidente di Pax Christi, esprime la sua indignazione: “vorrei però condividere con voi la mia indignazione di fronte a quanto sta succedendo in questi giorni, con la nave Sea Watch, a cui è vietato l’ingresso nel porto di Lampedusa, con a bordo 42 migranti. Il Parroco di Lampedusa, don Carmelo La Magra, dorme sul Sagrato della chiesa fino a quando i profughi non scenderanno a terra in un porto sicuro. E il ministro degli interni gli ha risposto in tono irrisorio “Dorma bene!”. Il Vescovo di Torino, Mons. Nosiglia ha dato la disponibilità ad accogliere senza alcun onere per lo Stato le persone a bordo della nave, e il ministro degli Interni gli ha risposto: “Caro Vescovo, penso che Lei potrà destinare i soldi della Diocesi per aiutare 43 Italiani in difficoltà. Per chi non rispetta la legge i nostri porti sono chiusi”. Sono parole inaccettabili! Bene ha scritto il direttore di Avvenire, parlando di imprudenza, impudenza e arroganza! Come già detto più volte “io non ci sto!”. “Noi non ci stiamo!”. (Verba volant, giugno 2019)
Sono le voci, le parole, le sofferenze, le esistenze che chiamano a seguire Gesù oggi in questo tempo.
Alessandro Cortesi op