la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “dicembre, 2014”

S.Maria madre di Dio – 1 gennaio 2015

MARG2(dipinto di Margherita Pavesi Mazzoni)

“Tutti quelli che udivano si stupivano delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,18-19).

All’inizio di un nuovo anno, un pensiero va al cammino percorso nel tempo e alla direzione di quello futuro. Il testo di Luca, quasi una pennellata nel quadro dei vangeli dell’infanzia, indica un orizzonte e suggerisce uno stile. Elenca infatti alcuni atteggiamenti propri di chi segue Gesù: ascoltare, stupirsi, custodire.

Tutti udivano. Ascoltare è la prima attitudine di un cammino di fede: ascolto di Dio, ascolto della storia. E’ un ascolto proprio di chi si lascia toccare dalla parola dei pastori. C’è una parola dei poveri da accogliere e ascoltare perché in quella parola si nasconde l’indicazione per un incontro con Gesù.

Si stupivano: c’è un movimento di meraviglia e di ricerca all’origine del credere. Ogni apertura alla realtà e ogni scoperta di sé e degli altri genera stupore. Credere in Gesù s’innesta nell’apertura di una ricerca capace di aprirsi a novità. E’ questione di sguardo, di uno sguardo aperto, che si lascia raggiungere, cambiare per iniziare un cammino nuovo.

Meditare nel cuore: Luca scorge in Maria il profilo della prima discepola di Gesù, donna del credere. Maria ‘mette insieme’, dentro di sé, accoglienza della Parola e sguardo alle vicende umane lasciandosi interrogare. Sa custodire in un’interiorità ospitale.

Ascoltare, divenire capaci di stupore, imparare a porre insieme la storia di Gesù e le nostre storie: è un cammino che può aprirsi ancora, nuovo, nell’anno che inizia.

Alessandro Cortesi op

congdon(William Congdon, La madonna del presepio)

 

Domenica nell’ottava di Natale – Santa Famiglia di Gesù Giuseppe e Maria – anno B – 2014

2014-12-19 22.05.43Gen15,1-6; 21,1-3; Sal 104; Eb 11,8-19; Lc 2,22-40

“Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle, e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza”. Contare le stelle…: è espressione che richiama un gioco di bambini. Come lo stare con il naso all’insù seduti su un prato a guardare le nuvole che cambiano l’aspetto e formano profili di draghi, eroi e buffi personaggi nei caldi pomeriggi d’estate. Così contare le stelle, lo sguardo stupito, in una notte estiva o sfidando il freddo, intirizziti, nelle notti d’inverno, quando le stelle sembrano gocce di luce o minuscoli fori che bucano la coltre nera del cielo e lasciano attraversare aghi di luce. Guardare le nuvole e contare le stelle: gesti di bambini, che raccontano il gioco di fronte alla grandezza, alla lontananza, all’infinito da cui siamo avvolti. E lasciano aprirsi sguardi a profondità inscrutabili verso alto e nell’intimo. Ed insieme raccolgono lo stupore di fronte a ciò che è grande, irraggiungibile.

Quali emozioni e pensieri, reca con sè, indelebile nello scorrere del tempo, il ricordo di veglie alle stelle vissute a un campo scout o in una traversata nel silenzio della montagna, momenti a volte decisivi per l’orientamento della propria vita, per scelte e scoperte interiori,  indimenticabili. Queste esperienze sono diventata merce rara nel tempo in cui la notte è sconfitta dalle luci artificiali e in cui il tempo per sostare in silenzio nel buio sotto il cielo stellato, non c’è più, sopraffatto da tante altre cose da fare. L’umanità con la sua tecnica è giunta a conquistare i pianeti e ad inviare navette fino alle stelle, ma il cielo stellato rimane quel libro meraviglioso che si apre in notti indimenticabili quando il tempo appare nella sua gratuità come tempo da accogliere, non da sfruttare, per stare lì sotto, a scoprirsi nella povertà di creature, senza utilità immediata, in una piccolezza custodita.

Abramo è invitato a contare le stelle per aprirsi all’impossibile dell’operare di Dio nella sua vita. Ogni percorso umano, ogni esperienza di famiglia sorge da tale meraviglia, lo stupore dell’amore che apre a contare le stelle, ad aprirsi all’incalcolabile, al non programmabile e genera un cammino, faticoso, sotto un cielo che talvolta appare chiuso e senza luce. Il cammino di Abramo è il cammino del credente segnato da una promessa di relazione. La grande famiglia a cui Dio chiama è la famiglia dei popoli, famiglia da accogliere e custodire in modi sempre nuovi negli intrecci di volti e storie che recano in sé una promessa di Dio affidata alla nostra fragilità.

“Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare”.

La solitudine e la discendenza: sono questi i due termini entro i quali si muove la nostra esistenza. Solitudine nello scoprire la condizione esistenziale propria della nostra vita, come Abramo uomo solo e segnato dalla morte. Ma vi può essere una solitudine di isolamento che non comunica, e per contro una solitudine ospitale, che si fa spazio per incontrare, per aprirsi alla meraviglia di ‘colui che è fedele’, feconda di discendenza. Così per Sara e per Abramo, visitati nella loro solitudine e nella loro aridità dal Dio della novità e della vita. “… ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso…”: Sara scopre nel volto degli ospiti nel deserto, alle querce di Mamre, la promessa di ‘colui che è degno di fede’. Il Signore stesso si fa incontro nei volti di stranieri giunti inaspettatamente. Così anche per noi oggi, presso le nostre case.

Nel mistero dell’ospitalità data e ricevuta, che prima di essere apertura di porte è apertura dei cuori, uscita dalla solitudine e disponibilità a lasciarsi incontrare dall’altro. Il Dio umanissimo si rende vicino nella debolezza dell’ospite che arriva inatteso, nel suo bisogno di cibo, casa, lavoro. La vita umana è un’esperienza di scoperta che la realtà della famiglia non è un dato, un modello fissato e statico ma un’esperienza fondamentale impastata di storia, esperienza di relazioni che nel tempo, nelle circostanze conducono ad aprirsi alla promessa di colui che apre la vita ad una novità improgrammabile, come le stelle, come la sabbia che non si può contare.

“Simeone li benedisse…”. C’è un gesto ed una parola che possono cambiare il modo di guardare agli altri, alle situazioni, alle cose: è il gesto e la parola della benedizione. Dire il bene. Non a caso nel vangelo questo gesto è di un anziano: Simeone. L’età, l’esperienza della vita, il cammino percorso e le tante vicende vissute e persone incontrate sono tanti frammenti che conducono a scoprire l’importanza del benedire. Passare dicendo il bene è il frutto di lunga maturazione, è punto di arrivo di percorsi che hanno condotto a liberarsi dalla preoccupazione di trattenere e accumulare. Solamente chi ha maturato libertà da un ripiegamento su di sé è capace di dire il bene, di scovarlo là dove esso si nasconde, di dargli spazio anche dove il male sovrasta e tende a soffocare ogni respiro.

Dire il bene è gesto di chi è capace di futuro guardando oltre a se stesso. E’ il segreto di ogni presenza educativa, capace di cogliere tracce di futuro in un presente confuso, di scorgere piccoli germogli, di coltivare uno sguardo lungo sulla vita e sui volti per scorgere più in là di tutto ciò che provoca delusione e fatica.

Benedire dovrebbe essere il tratto proprio del credente, che non rinchiude la vita in uno schema di dottrina, in un codice da applicare o in un modello da ripetere, sia esso di famiglia, di comunità, di relazioni. Benedire è la sfida a cogliere nella storia la fecondità e la forza di vita dell’amore che è traccia di Dio. Così in un tempo in cui la vita delle famiglie è percorsa da tante tensioni, cambiamenti, differenze benedire è saper guardare il bene presente, quanto preca in sé una promessa e una tensione anche se si tratta solamente di germogli, piccole foglie, fioriture incompiute: l’amore che nasce e cresce, la fedeltà, l’accettazione della fatica, la sofferenza nascosta. Dire il bene è dono che cambia e apre a scoprire che nella vita negli sguardi e nelle parole umane c’è un tratto dello sguardo e della parola di Dio che è solo parola di bene.

Alessandro Cortesi op2014-12-19 22.03.45

Buon Natale

Un caro augurio di buon Natale a tutti coloro che anche attraverso questo blog cercano di coltivare un ascolto comune della Parola che cresce con chi la legge e l’accoglie nella vita

Alessandro Cortesi

nativity-heqi(He Qi – Nativity)

Natale del Signore – 2014

DSCF5436

Omelia nella notte (Lc 2,1-14)

Vorrei riflettere su queste pagina a partire da tre immagini: il censimento, i pastori, la mangiatoia. Al centro un bambino avvolto in fasce che giace affidato alla cura, alla tenerezza di mani attente.

Il censimento è decisione dei grandi della terra: è il momento del conteggio per manifestare la propria grandezza. Nella storia di Israele la scelta di fare un censimento è rimasta nella memoria come il grande peccato di Davide (1Sam 24) che decise di contare il popolo per convincersi di una grandezza che derivava dal numero, dalla potenza e non dalla vicinanza di Dio.

Oggi il censimento può essere assimilato ai grandi movimenti di controllo della vita e della storia delle persone per renderle numeri, per contare in vista di un potere che le strumentalizza e le rende funzionali.

Il censimento è celebrazione di quel potere che rende schiavi e si pone come assoluto sulla terra. Nella pagina di Luca si respira una vena di sottile ironia nella contrapposizione tra il quadro dei grandi poteri che assoggettavano tutta la terra, l’impero di Ottaviano – chiamato il salvatore del popolo – e dei regni a lui sottomessi, e la fragilità di un bambino che mostra il volto di un Dio debole e indifeso. – ed è lui presentato in modo paradossale come l’autentico ‘salvatore e messia’.

I pastori. I pastori sono le persone considerate fuori dai recinti della purità, fuori dalla religione. Coloro che vivono un lavoro che li poneva ai margini, custodi di greggi, assoggettati alla fatica del lavoro, impuri come gli animali che dovevano seguire. Ai pastori per primi è dato il vangelo. Il messaggero/angelo – metafora per indicare intervento di Dio che si comunica all’umanità – si rivolge per primo ai pastori. Perché proprio a loro? C’è una indicazione importante che riguarda dove trovare l’annuncio del vangelo, dove rintracciare le chiamate di Dio nella storia.

Il vangelo, la bella notizia di salvezza la si ritrova – dice Luca – non nei centri del culto e nelle gerarchie a capo del sistema religioso, ma nelle persone che stanno ai margini, in coloro che vivono la fatica del lavoro, in chi è considerato escluso e non considerato nella società, come uno scarto. Così noi possiamo incontrare Dio non nei luoghi del sacro, in spazi lontani dalla vita, ma nelle pieghe dell’ordinario, nei volti di chi pensa di essere lontano da Dio, in coloro che sono tenuti ai margini dalla religione e dalla società.

La mangiatoia. Il luogo della nascita di Gesù è un luogo dove stavano animali, dove era presente una mangiatoia, luogo del cibo; luogo appartato nell’alloggio perché Maria, nella sua condizione di partoriente doveva essere posta in un ambiente separato. C’è il legno della mangiatoia, segno della fragilità di Gesù che racconta il volto di un Dio che si fa pane; e c’è il legno della croce che racconta una vita vissuta nel dono di sé e nel servizio fino alla fine, racconto di un Dio che non fa morire, ma che si dà fino a morire per gli altri.

Al centro di queste immagini Gesù. Gesù con il volto di un bambino, piccolo segno, da cogliere con attenzione perché ciò che attrae di solito è la magnificenza dei segni che si impongono. Gesù suggerisce il volto di un Dio umanissimo che si fa vicino nella debolezza di un bambino. In chi è inerme indifeso, in chi è semplice, in chi non ha possibilità di imporsi si rende presente il Dio umanissimo di Gesù.

Gesù racconta anche di un Dio debole che si fa povero, affidato alla cura di un uomo e una donna. Un volto di Dio del quotidiano, della vita, delle relazioni ordinarie. Non un Dio che si manifesta nel tempio o nello sfolgorare di eventi eclatanti né il Dio delle guerre e della violenza. Ma un volto di Dio che si fa vicino nel legno della mangiatoia e nel legno della croce.

Alessandro Cortesi op

DSCF5445

IV domenica di Avvento – anno B – 2014

Kebra+Nagast

(Etiopia – Axum – Arca dell’alleanza Chiesa di s.Maria di Sion)

2Sam 7,1-16; Sal 89; Rom 16,25-28; Lc 1,26-38

“Vedi io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda”. Il re Davide scorge una sproporzione tra la sua casa, di legni pregiati, e il luogo dove risiede l’arca dell’alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Da qui il progetto di costruire una ‘casa’, un tempio a Dio. E cerca sostegno per questo nel profeta. Il dialogo tra il re e Natan ruota attorno a tale questione. Dapprima Natan dimostra di accondiscendere all’idea e invita il re a procedere nell’intenzione di costruire un tempio, segno di grandezza e di potenza dove situare la presenza di Dio. Tuttavia nella notte avviene una svolta: “Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore…”. Sta in queste parole racchiuso il percorso di un ripensamento e di un cambiamento. La chiamata ad essere profeta portatore della Parola di Dio spinge Natan a scorgere dove sta la fedeltà alla parola di Dio. Non deve assecondare i disegni di potenza del sovrano, magari per non avere noie nella sua vita. La parola di Dio sconvolge i piani di chi vuole rinchiudere il Dio della tenda e del cammino in progetti umani di potere.

“Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi, sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme con tutti gli israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d’Israele, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele, perché non mi avete edificato una casa di cedro?”. La parola di Dio sconvolge il profeta: è una protesta radicale contro un modo di intendere la relazione con il Dio dell’esodo e la svuota. Dio è stato già presente sinora in mezzo al suo popolo ma nei termini di una presenza precaria, solidale, vicina: tenda tra le altre tende, in cammino attraverso il deserto, disinteressato alla stabilità di palazzi, che pongono distanza e distacco dalla vita. In cammino, come il popolo nel deserto, capace di condivisione, partecipe dello spostarsi dell’accampamento, vicino.

La parola che irrompe nella notte è forte contestazione contro l’ideologia del tempio per cui la presenza di Dio andrebbe rinchiusa in una costruzione umana e intesa quindi secondo il modello di un potere che domina e si distanzia. La parola di Dio conduce Davide a confrontarsi con il volto diverso di un Dio che cammina in mezzo al suo popolo, con una presenza che rifiuta di essere imprigionata e strumentalizzata. Dio è il vivente.

In tale contesto sorge anche la promessa. Non sarà il re a costruire una casa a Dio, ma sarà Dio stesso a donare una discendenza, una casa a Davide, nei termini di un ‘casato’. Discendenza significa vita, figli, futuro. L’apertura ad un discendenza apre a considerare il rapporto con Dio come questione che investe la vita e le relazioni. L’incontro con Lui non può essere racchiuso in una costruzione e in un sistema fatto di pietre e di culto. La sua presenza è da ricercare nel volto di qualcuno, nel cuore nascosto dell’esistenza, nella vita. E’ dono che coinvolge e lega in un rapporto di accoglienza e ascolto. “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti, e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno (…) Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio…”

Non sarà il re Davide a costruire una casa a Dio, ma sarà Dio stesso a donare una discendenza a Davide. E’ promessa che lega e impegna, è un rinnovo di quel legame di alleanza che ha radici lontane e si collega alla grande parola ad Abramo: una terra e una discendenza come le stelle del cielo.

Luca rilegge questo capovolgimento dei progetti di Davide scorgendo in Gesù la realizzazione della promessa. Quella indicava il primato dell’iniziativa di Dio sulla vita e il suo disegno di salvezza sulla storia e Luca lo vede compiersi in Gesù: “il Signore gli darà il trono di David, suo padre e regnerà sulla casa di Giacobbe per i secoli (cfr. Is 9,6; 2Sam 7,12ss) e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32-33). Le promesse a Davide trovano in Gesù il loro senso: Gesù sarà re, eppure lo sarà in modo paradossale, secondo le promesse di Dio, in modo precario, solidale, vicino.

La presenza di Maria assume i tratti della ‘nuova Sion’. E’ casa, dimora vivente, portatrice di una presenza. La sua persona offre spazio all’esistenza di Gesù: “Lo Spirito santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra; e perciò quello che nascerà santo sarà chiamato figlio di Dio” (Lc 1,35).

La nube – rinvio all’immagine usata per indicare l’inafferrabile presenza di Dio nel cammino del deserto (Es 13,21), la sua gloria che scendeva a coprire la tenda dell’arca dell’alleanza (Es 33,9-10; 40,38; cfr. 1Re 8,10) – ora è vista posarsi su Maria. In questa immagine sta racchiuso il rinvio ad un agire dello Spirito. La storia di Maria è presa dallo Spirito, come a Pentecoste lo sarà la comunità radunata attorno a lei: è lei la ‘povera di Jahwè’, in rapporto al resto d’Israele. Maria compare così in stretto legame con le profezie sulla fedeltà di Dio e sulla promessa del suo essere vicino: ‘Io ti sarò accanto’ è il suo nome (Es 3,14). Dio non abita in costruzioni fatte dall’uomo ma la sua presenza vivente si attua nell’esistenza di coloro che vivono per lui, che ricevono da lui la loro vita e la affidano alle sue mani: è questa l’attitudine del ‘santo resto d’Israele’, dei ‘poveri di Jahwè’. In mezzo a questo popolo Dio si rende presente nella vita di Gesù.

La vicenda di Maria viene anche letta in rapporto con le promesse di gioia: Luca riprende il clima degli annunci di gioia per Sion: “Gioisci piena di grazia, il Signore è con te, in mezzo a te” (Lc 1,18). Questo saluto richiama i testi profetici di Sofonia:“Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” (Sof 3,12-13). “Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa… Soccorrerò gli zoppicanti, radunerò i dispersi, li porrò in lode e fama dovunque sulla terra sono stati oggetto di vergogna. In quel tempo io vi guiderò, in quel tempo vi radunerò…” (Sof 3,17.19-20). Il ‘resto d’Israele’ (cfr. Is 6,13; 11,11) sono coloro che non pretendono di tenere in pugno la propria vita ma la ricevono da Dio, e intendono la loro vita in questo rapporto con attitudine di fiducia e umiltà (cfr. Sof 2,3).

Al centro di questa pagina tutto converge verso Gesù e la figura di Maria, benchè appaia come la protagonista, è tutta orientata a far emergere l’identità di Gesù stesso, il suo cammino di messia. L’esperienza dell’incontro con Gesù come salvezza da Dio attraverso il profeta di Nazaret è così espressa dal suo nome: Gesù significa ‘Dio salva’.

DSCN0686Alcune riflessioni per noi oggi

Un progetto sulla casa intesa come la intendeva Davide come ‘tempio’ o un’attenzione alla presenza di Dio nella vita costituisce un passaggio che ci provoca anche oggi. E’ il passaggio che dovrebbe anche far cambiare le nostre comunità e i modi della testimonianza su Gesù, accogliendo in lui la ‘laicità di Dio’:

“Non smette di stupirmi questa ‘laicità di Dio’, il suo non pretendere luoghi speciali, spazi sacri, templi religiosi; e neanche di essere ricevuto da persone importanti, ragguardevoli, dalle autorità – come comunemente si dice – sociali, politiche e religiose. Che neppure si accorgono della nascitadi gesù: che è figlio dei poveri, uno dei tanti.” Le comunità cristiane, la chiesa nella sua ufficialità per essere credibili dovrebbero mostrarsi altrettanto umili, sobrie, non appariscenti, anzi alle volte nascoste per nutrire la forza della profezia e poi irrompere con passione, coinvolgimento, prese di posizione sullascena della storia. Una chiesa sacralizzata, separata, rinchiusa nei templi, come può parlare con credibilità della stalla di Betlemme? Bardata di paramenti, di vesti d’altri tempi in occasione di liturgie solo formalmente solenni; ornata di copricapo e fasce colorate; ridondante di titoli onorifici, come può parlare della semplicità della stalla di Betlemme? Coinvolta in affari di ristrutturazione di edifici, proprietaria di innumerevoli immobili, come può riferirsi ad un luogo, riparo per gli animali, impregnato dei loro odori? Per questo la chiesa parla poco di Gesù di Nazaret, perché provocatorio per se stessa e poco credibile per gli altri” (G.Di Piazza, Fuori dal tempio. La chiesa al servizio dell’umanità, Laterza 2011, 21-22)

Paolo nella conclusione della lettera ai Romani parla di un mistero avvolto nel silenzio da secoli e ora manifestato. E’ riferimento ad una salvezza rivelata in Cristo per tutta l’umanità, per coloro che sino ad allora erano considerati esclusi dalle promesse di Dio.

Questa visione aperta che vede in Gesù la possibilità di salvezza come vita piena per tutti i popoli oltre ogni divisione superando ogni prospettiva di esclusione è un passaggio ancora da compiere nel modo di intendere la fede. Credere in Gesù non implica entrare in una logica di adorazione di Dio in un tempio che si contrappone ad altri templi: Dio non chiede di essere adorato su uno o su un altro monte ma cerca adoratori in spirito e verità (Gv 4,23). La sfida che abbiamo davanti è quella di ‘uscire dalla religione del tempio’ per concepire il rapporto con Gesù come esperienza e via che apre ad accogliere ogni altro percorso della ricerca umana di senso e di vita piena, ogni apertura religiosa e umana. Si tratta di entrare nell’esperienza della solidarietà di un Dio che cammina insieme, di Gesù che si è fatto povero per noi (2Cor 8,7-9): da ogni percorso che cerca vie di umanizzazione possiamo imparare a cogliere un tratto nuovo non ancora compreso del disegno di salvezza e di misericordia di Dio.

La pagina di Luca è segnata da un’atmosfera di gioia. Indica una spiritualità della promessa e della gioia. E’ eco di quella semplicità propria dei poveri di Jahwè e di Maria donna capace di coraggio e di scelte di libertà e di liberazione, acapce di accogliere lo Spirito nella sua esistenza.

Prepararsi a Natale forse sta solo in questo, lasciare che lo Spirito susciti un’apertura del cuore e un’accoglienza ad un mistero di presenza, il dono di comunione del Padre che si fa vicino a noi in Gesù da incontrare al centro della nostra esistenza: l’incontro con lui genera una prassi nuova di solidarietà, di cammino insieme, di impegno per tutto ciò che è desiderabile e buono nel nostro tempo.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno B – 2014

DSCF5399Is 61,1-11; 1Tess 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

“Lo Spirito del Signore Dio è su di me… mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati…”. E’ una parola di consolazione quella che caratterizza la prima lettura: il profeta è uomo di Dio, inviato a consolare chi è afflitto, ‘unto’ per portare una bella notizia a coloro che in tanti modi sono prigionieri, spinto ad annunciare che città desolate e in rovina saranno ricostruite. Il vangelo è così bella notizia di liberazione e di consolazione di chi è oppresso.

I capitoli 60-62 di Isaia sono una pagina paradossale: respirano di consolazione e di speranza fino alla gioia di fronte ad una terra desolata. Nello smarrimento che succede all’esilio il profeta allarga lo sguardo, spinge lontano i suoi occhi a scorgere oltre le macerie del presente. Non per una vaga illusione ma per richiamare ad una fede che ritrovi il suo putno di appoggio in Dio. La capacità creativa di Dio apre una novità di vita, una bella notizia impossibile all’uomo, che Dio solo può donare. E’ la visione della storia come cammino in cui è possibile un rapporto nuovo di popoli, in cui l’ingiustizia avrà fine, e vi sarà un rovesciamento dalla desolazione alla gioia. La terra potrà produrre germogli nuovi perché Dio ha il potere di far germogliare cose nuove nella storia. Potrà esserci un cammino condiviso di popoli che riconosceranno l’agire di Dio. Ma questo germoglio è già la parola e l’azione che opera liberazione e cura.

“Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”. L’invito di Paolo alla comunità di Tessalonica fa riferimento all’immagine dello spegnimento di un lume. Basta un soffio per fare buio, per non lasciare che una luce, benché fioca, illumini la notte. La presenza dello Spirito nella nostra vita è come debole fiamma da custodire. Paolo indica una serie di atteggiamenti che segnano la vita dei credenti: l’attenzione e la responsabilità. E’ cura nel non soffocare l’agire dello Spirito. In tanti modi lo Spirito soffia, con chiamate diverse, nelle situazioni e negli incontri. C’è anche l’invito a lasciare spazio alla profezia, alle parole e testimonianze che riconducono al vangelo.

“Non lo sono… e io ho visto e ho testimoniato…” Giovanni Battista si presenta dicendo chi ‘non è…’: non è preoccupato di se stesso, non afferma una sua identità, appare totalmente disinteressato ad uno sguardo centrato su di sé. E’ invece teso al futuro, pronto a riconoscere la presenza di Gesù come messia. Il suo volto nel IV vangelo ha i tratti del testimone. E’ orientato ad altro, a dare e ad essere testimonianza. La sua vita sta in riferimento a Gesù indicato come ‘uno che non conoscete’ e che pure ‘sta in mezzo a voi’. La sua testimonianza apre cammini per riferirsi a Gesù come colui che non si conosce. E’ una voce che disorienta. Di se stesso Giovanni dice solamente di essere ‘voce’ e richiama l’invito del profeta Isaia: ‘rendete diritta la via del Signore’.

DSCF5387Alcune riflessioni per noi oggi

Restaurare le cità desolate

C’è un filo che lega la missione del profeta e la responsabilità di ognuno che cerca di imparare a credere e vivere fedeltà al vangelo. Missione del profeta non è avere gratificazioni, non è godere di costruzioni già fatte. Piuttosto è quella di annunciare che in una condizione di rovina, lì sta una chiamata ad essere riparatori di brecce, costruttori di case per abitarvi. Viviamo un tempo in cui forte è la percezione di macerie attorno a noi. Macerie di distruzioni causate dalle guerre, dalla violenza e dal disprezzo nei confronti del creato, dall’uso scriteriato delle risorse e dei beni comuni. Ma anche macerie morali e frantumazione sociale che generano senso di delusione e profonda desolazione interiore. C’è un appello alla fede anche nel nostro presente per offrire la nostra disponibilità a Colui che fa nuove tutte le cose. Il senso della gioia – tratto di questa liturgia di metà avvento – sorge dall’essere protesi a scorgere i germogli, a custodire tutto ciò che dice vita anche in situazioni di morte. E tutto ciò senza coltivare la pretesa di vedere i risultati di un lavoro e di un impegno che si basa solo sulla forza dello Spirito.

Dare spazio alla profezia

E’ questo l’invito della pagina di Paolo ai tessalonicesi. Coglierei da un’intervista a don Angelo Casati (‘Avvenire’ del 9 dicembre 2014) il suggerimento ad ascoltare oggi i profeti che sono sia persone di riferimento e guide capaci di indicare futuro di suscitare stupore nuovo, ma sono anche i piccoli ordinari maestri e maestre che possiamo incontrare nella vita quotidiana e che indicano il senso di un cammino.

“Sorriso, stupore: sono questi, oggi, i segni dei tempi? «Mi torna in mente il modo in cui il cardinale Carlo Maria Martini si riferiva al Concilio – risponde Casati –. Eravamo entusiasti, diceva, guardavamo al futuro, parlavamo al mondo. Ecco, è quello che sta accadendo adesso. C’è un’attesa di notizie buone che porta a riconoscere nel Vangelo la vera buona notizia per l’uomo. Questo passa per la figura di Papa Francesco, non c’è dubbio, ma poi travalica, va oltre. Si avverte nella Chiesa, nella società».

Quali sono stati per lei gli incontri più importanti? «Ho avuto molti compagni di strada e ho imparato a capire che ogni persona che mi si accosta può diventare per me pane per il cammino. Perché il cum-panis è colui che divide il pane con noi e che per noi si fa pane, appunto. (…) Il complimento più bello me lo fatto una bambina di neppure dodici anni. Si era sparsa la voce che stavo per lasciare la parrocchia di Lecco e lei mi ha fermato in una delle stradine che guardano sul lago. “Chi mi parlerà sottovoce di Dio?”, mi ha domandato. Ha espresso bene quello che ho sempre tentato di fare: cercare Dio non nella declamazione di una fede recitata, ma in una voce sottile, che sapesse farsi compagna di ciascuno »

Costruire la propria identità…

La costruzione dell’identità è oggi un tema che segna la vita personale e quella sociale. Nei giovani in ricerca di una identità da costruire, negli adulti in cerca di una identità smarrita, in uomini e donne spesso disorientati e senza identità perché senza riconoscimento da parte di alcuno. La domanda sul divenire se stessi, e l’interrogativo su cosa significa una identità collettiva stanno al cuore di percorsi diversi. C’è chi pensa l’identità come un dato stabilito e fissato, immutevole. C’è per contro chi percepisce la propria identità come una storia in cammino, dinamismo e relazione in cui il divenire se stessi è sempre in rapporto all’altro. Sono due grandi orientamenti che conducono a percorsi diversi e opposti nel modo di intendere la vita. Il Battista non solo sposta l’attenzione da sé all’altro – a colui che viene -, ma si lascia disorientare dalla presenza di Gesù che lui non conosceva e a cui si deve aprire in modo nuovo. Il problema del costruire la propria identità è suggerito come percorso di incontro con il ‘non conosciuto’. Troppo spesso pretendiamo di conoscere e sapere chi siamo, chi è l’altro, chi è Gesù, il messia, chi è Dio, magari solamente per definizioni teoriche o apprese senza un passaggio di esperienza e di coinvolgimento personale. Viviamo anche la pretesa di una chiesa che ama presentarsi come maestra, esperta in umanità, e non sa riconoscersi e scoprirsi povera anche di certezze, capace come Giovanni di dire ‘non sono il Cristo’ e di rinviare a lui come ‘non conosciuto’ che viene. Eugenio Montale nella sua poesia ‘Non chiederci la parola’ indicava un orizzonte profondamente umano: “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Riconoscere ciò che non siamo è opera di verità, di decentramento. Aprirsi alla presenza di Gesù Cristo come il ‘non conosciuto’ che pure è ‘in mezzo a voi’, come cuore dell’esperienza umana, diviene possibilità di percorrere sentieri nuovi, di scorgere come lui ci raggiunge in un continuo venire nella storia, negli incontri. Come dice uno dei prefazi dell’avvento: “Ora Tu vieni incontro a noi in ogni uomo, donna e in ogni tempo…”

Alessandro Cortesi op

II domenica di Avvento anno B – 2014

DSCF4701

(Pergamonmuseum -Berlino – porta di Ishtar)

Is 40,1-5.9-11; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

‘Consolate’ è parola iniziale e termine chiave del messaggio di un profeta del tempo della fine dell’esilio. In una condizione di crisi, di buio e schiavitù, il profeta, uomo capace di ‘visione’ perché sa leggere il presente alla luce della storia di alleanza con Dio, intravede un cammino nuovo che si apre. Accoglie la spinta interiore ad alzare la voce e richiama alla fedeltà di Dio, se ne fa portavoce ed invita a partecipare alla chiamata a ‘consolare’. Sorge così una parola di consolazione rivolta ai deportati perché si sollevino guardino oltre il presente e si preparino ad un cammino.

Il ritorno e la liberazione dall’esilio sono così descritti con i tratti di un secondo esodo. Come nell’uscita dall’Egitto nel deserto così, in un tempo nuovo e diverso, il Dio d’Israele sarà ancora guida e il popolo incontrerà ancora il suo volto di Dio dell’alleanza. La questione fondamentale riguarda ancora il volto di Dio, la sua presenza vicina. E’ il signore della storia e di fronte a lui gli dèi delle potenze straniere sono nulla: “Ecco tutti costoro sono niente, nulla sono le loro opere; vento e vuoto sono gli idoli degli dèi” (Is 41,29). In questo si concentra la parola del profeta, nel richiamo alla fede nell’unico Dio signore del creato e della storia: “Così dice il Signore, il re d’Israele, il suo redentore, il Signore delle schiere: Io sono il primo, io sono l’ultimo, oltre a me non c’è nessun altro Dio” (Is 44,6).

Viene così presentato il grido, a voce alta, di un messaggero: annuncia che Dio sta per intervenire e torna a camminare con il suo popolo così come aveva fatto all’uscita dall’Egitto: “Dio guidò il suo popolo per la strada del deserto verso il mare Rosso… Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte” (Es 13,18.21).

E mentre i deportati erano costretti a costruire la via lunga e diritta che portava ai templi delle divinità babilonesi, dove si sarebbero svolte le processioni in onore del dio Marduk, la visione nella fede apre un diverso orizzonte: quella strada sarà percorsa come ‘via sacra’, per uscire dalla schiavitù e sarà percorsa a ritroso da un popolo liberato, attraversando ancora il deserto. E’ questa una strada sulla quale Dio viene e su cui il popolo dovrà camminare con gioia per tornare alla terra, segno della promessa ad Abramo. E’ ritorno dall’esilio che riporterà Israele alla condizione dello scoprirsi ancora pellegrino, del vivere la provvisorietà, trovando appoggio e stabilità solo nella promessa e nella presenza del Dio vicino che continua a venire. ‘Il Signore Dio viene con potenza’. La visione del profeta è così una scena di trionfo paradossale, e sfocia in un quadro di dolcezza: Dio che detiene il dominio, il Dio della potenza che viene e opera i proidigi dell’esodo ha i tratti del pastore che si china sulle pecore madri e sugli agnellini e li prende con sè.

Marco, all’inizio del suo vangelo riprende il messaggio del secondo Isaia e la accosta alla voce di un altro profeta (Malachia, della prima metà del V secolo) in un tempo di crisi: si parla del giorno del Signore, preceduto dalla presenza di un messaggero che prepara la via a Dio stesso: (Mal 3,1-4). Ancora si rinvia al cammino dell’esodo e alla presenza di Dio che guida il suo popolo (Es 23,20; cfr 14,19; 33,2,). In questo quadro Marco introduce la figura del Battista. A differenza di Matteo che presenta il Battista come profeta dell’annuncio dell’ira imminente e del giudizio (cfr Mt 3,7-10) Marco insiste su un tratto del profeta battezzatore: egli è solamente ‘voce’, messaggero del giorno del Signore, dell’intervento definitivo di Dio. La sua voce è rinvio ad un altro, a Gesù, presentato come ‘il più forte’ (cfr. Mc 3,22; Lc 11,22): può vincere le opere di ‘colui che divide’, Satana, e battezzerà con Spirito Santo. Gesù è così presentato come l’atteso, colui che viene a sconfiggere il male e a donare lo spirito, il dono degli ultimi tempi (Gl 3,28-29; Is 44,3; Ez 36,26). Il presente ‘viene’ sta ad indicare l’imminenza del venire di Gesù. E’ Gesù il centro della nostra attesa.

Il deserto è il luogo in cui Marco, nella prima pagina del suo vangelo, introduce la figura di Giovanni Battista. Deserto è condizione di aridità, lo spazio in cui la voce del profeta si disperde: “voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore”. C’è una leggera variazione nella citazione: ora il deserto è luogo della voce, di un annuncio. E si compone acon l’invito del profeta che invitava a segnare una strada nel deserto.

Il deserto è lontano dal tempio, è simbolo dell’aridità della vita e di una condizione di mancanza. E nel deserto una strada… Deserto e strada sono forse le coordinate in cui intendere in modi nuovi la nostra esistenza credente oggi. La strada nel deserto è il cammino dell’esodo. Ma proprio sulla strada Gesù incontra le persone: Gesù è stato uomo che ha conosciuto la bellezza e la fatica del camminare, del percorrere strade di umanità. Sulla via indica come la fede non è né dottrina, né codice etico, ma un’esperienza d’incontro. Ha i tratti di un cammino che investe tutta la vita.

Nel deserto la voce di Dio è parola di consolazione: ‘Consolate il mio popolo’. Consolazione è bella notizia per la nostra esistenza, non atteggiamento che distoglie e rende indifferenti a trasformare quanto è ingiusto e malvagio. Nel deserto e nelle aridità del presente siamo spinti a portar quanto non è grandezza nostra, ma viene da Dio: “ Dio…ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1,3-5).

DSCF2440Alcune osservazioni per oggi, in riferimento al deserto:

il deserto e la città.

Zygmunt Bauman ha definito le città contemporanee un ‘deserto sovraffollato’: la sensazione è quella di vivere da stranieri e perduti, nell’impossibilità di riconoscere vicini e lontani, amici e nemici e nella percezione dell’essere stranieri. Le città sono come laboratori in cui si sta attuando un enorme esperimento di convivenza globale.

“Il deserto, ha detto Edmond Jabés, … è uno spazio dove un passo dà vita ad un altro che lo cancella, e l’orizzonte significa speranza per un domani che parla. Non si va nel deserto per cercare un’identità, ma per perderla, per perdere la propria personalità, per diventare anonimi (…) In una terra natale, comunemente chiamata società moderna, il pellegrinaggio non è più una scelta del modo di vivere; sempre meno si tratta di una scelta eroica o santa. Vivere la propria vita come un pellegrinaggio non è più quel tipo di saggezza etica rivelata a, o intuita dagli eletti o dai giusti. Il pellegrinaggio è ciò che uno fa per necessità, per evitare di perdersi in un deserto; per dare al cammino significato mentre vagabonda senza meta. (…) il mondo-deserto obbliga a vivere la vita come un pellegrinaggio. Ma dal momento che la vita è un pellegrinaggio, il mondo sulla soglia è come il deserto, senza tratti specifici, dal momento che il significato deve ancora essergli conferito dal vagabondare, che lo trasforma in traccia che conduce alla fine del cammino, dove il significato attende. Questo «dare» significato è stato chiamato «costruzione dell’identità» il pellegrino e il mondo-deserto in cui egli cammina acquistano significato insieme, e l’uno attraverso l’altro. (Da Z.Bauman, La società dell’incertezza, Da pellegrino a turista, ed. Il Mulino 31-32)

il deserto: luogo della vita.

Sul deserto alcune parole di Arturo Paoli che in questi giorni ha compiuto 102 anni: “Prima del deserto la mia vita era stata piena e interessante, naturalmente con qualche stanchezza e con l’amarezza degli ultimi eventi che ci avevano costretti ad abbandonare Roma e tutti gli impegni ai vertici della Gioventù cattolica (…) Il deserto è stato un passaggio fondamentale nella mia vita, nell’aver capito di non vivere più per me e che negli anni precedenti avevo vissuto con egoismo, anche se non me ne rendevo conto e magari venivo elogiato per il mio altruismo, ma dentro di me sentivo che agivo egoisticamente. La grande virtù del deserto è quella di spogliarti, di farti morire al passato e farti rinascere, come Gesù dice a Nicodemo: devi rinascere in spirito e verità. La vita cristiana è morire a te stesso e rinascere per l’altro. Abbandonare la fede astratta verso un Essere invisibile e orientarla verso l’amicizia con Gesù e il suo progetto di pacificare il mondo. Penso spesso che il deserto non è solo un luogo. C’è il deserto del cuore. Ma affermo che non esiste altro mezzo per liberare il nostro cuore, per farne l’abitazione dell’”ospite sacro”. (da A.Paoli, Rinascere dal deserto, “Ore undici”, gennaio 2011)

il deserto: luogo dell’attesa

Sul senso dell’attesa nel deserto, una poesia di Clemente Rebora (1885-1957) che si chiude con il bisbiglio di una voce attesa:

Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa – / e non aspetto nessuno: / nell’ombra accesa / spio il campanello / che impercettibile spande / un polline di suono –
e non aspetto nessuno: / fra quattro mura / stupefatte di spazio / più che un deserto / non aspetto nessuno. / Ma deve venire, / verrà, se resisto / a sbocciare non visto, / verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto. / Verrà quasi perdono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio.

il deserto: luogo dello spogliamento.

René Voillaume, Pregare per vivere, ed. san Paolo: “Anche noi, come Gesù durante la sua vita terrena, abbiamo bisogno di periodi di ritiro e di deserto, che’ non devono sembrarci periodi sottratti agli uomini. (…) Il periodo di deserto è una prova, un test come un tentativo pieno di fiducia per sollecitare Dio a venire verso di noi, nella nostra impotenza, per condurci a lui. Ciò che, dunque, è essenziale, in un periodo di deserto, è lo spogliamento totale e l’attesa serena e silenziosa di Dio in una certa inattività delle nostre capacità. Questa attesa passiva, senza una risposta di Dio sarebbe nociva se si prolungasse molto, ma è piena di vantaggi se è breve, come un grido di aiuto lanciato verso Dio e di cui noi abbiamo bisogno, di tanto in tanto, per sostenere la nostra preghiera”.

il deserto: luogo dell’incontro e dello scambio che genera cambiamento.

“Ma ciò che spinge a risalire fiumi e attraversare deserti per venire fin qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre in tutti i bazar dentro e fuori l’impero del Gran Kan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stesse stuoie gialle, all’ombra della stessa tenda scacciamosche, offerti con gli stessi ribassi di prezzo menzonieri. Non solo a vendere e a comprare si viene ad Eufemia, ma anche perchè la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti”- gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restere sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio”. (da Italo Calvino, Le città invisibili, ed.Einaudi)

Alessandro Cortesi op

Navigazione articolo