III domenica tempo ordinario – anno B – 2015
Giona sotto la pianta di ricino (qiqajon) – s.Maria in Valle Porcianeta (part.)
Gn 3,1-10; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20
Giona è profeta che pretende di piegare Dio alle sue vedute: non segue la chiamata a partire secondo le indicazioni di Dio e ad andare verso la grande città, ma si dirige in direzione opposta. Tutto il racconto di Giona è attraversato dal tema della conversione come cambiamento di direzione. E’ un percorso di cambiamento declinato in tre grandi orizzonti.
C ’è innanzitutto l’orizzonte della conversione di Ninive la grande città, simbolo di una vita lontana da Dio. La conversione della grande città è risposta all’appello del profeta a vivere rapporti di giustizia, a lasciare un sistema di egoismo e di ingiusta ricchezza. Con ironia nel libro di Giona si parla della penitenza del re di Ninive che alla predicazione di Giona risponde con il cambiamento e il digiuno, e con lui tutta la città. Un movimento di accoglienza delle sue parole e di cambiamento ben diverso dal rifiuto del re di Gerusalemme, Ioiakim di Giuda: anch’egli aveva ricevuto dal profeta l’invito al digiuno e all’abbandono di una condotta malvagia ma aveva risposto gettando nel fuoco il rotolo dov’erano scritte quelle parole (Ger 36,23-25). La città di Ninive figura di un mondo lontano e corrotto cambia inaspettatamente direzione: e proprio questo fa arrabbiare il profeta.
C’è poi la conversione di Dio stesso che di fronte al cambiamento improvviso e generale di Ninive si ravvede e non compie ciò che aveva in mente di fare. La narrazione è quasi un commento alla pagina di Geremia dove l’agire di Dio viene paragonato all’opera di un vasaio: “Forse non potrei agire con voi, casa d’Israele, come questo vasaio? Oracolo del Signore. Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele. Talvolta nei riguardi di un popolo o di un regno io decido di sradicare, di abbattere e di distruggere; ma se questo popolo, contro il quale avevo parlato, si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di fargli” (Ger 18,6-8). E’ il volto di un Dio che si lascia vincere dal cambiamento e fa cadere quell’ira segno della sua reazione al male e alla violenza umana.
Infine c’è il cammino della conversione di Giona, un cambiamento solo suggerito nel libro e lasciato aperto quasi a suggerire un percorso da attuare da parte di chiunque legge. E’ il cambiamento più difficile perché Giona è l’uomo religioso chiuso nella sua concezione di una salvezza riservata solo ad Israele, prigioniero di una religiosità che esclude e pretende di possedere il progetto di Dio sulla storia. L’intero suo cammino appare come lento accompagnamento alla scoperta di un modo nuovo di concepire il volto di Dio e il rapporto con gli altri: è chiamato sì, ma ad andare oltre una visione esclusiva e di competizione violenta, verso l’incontro con un Dio che si prende cura di tutti, si fa vicino, desidera vita e salvezza senza privilegi. Giona viene incaricato di un annuncio più grande di lui che gli sconvolge la vita e lo conduce ad una avventura e ad un viaggio interiore. Dio si prende cura dei vicini e dei lontani: la sua grande fatica è condurre anche il religioso e fondamentalista Giona – il profeta renitente – ad aprirsi ad un incontro nuovo con Lui e con gli altri. Su tutti questi percorsi c’è il rivolgersi fedele, attento, paziente di Dio, preoccupato di far comprendere a Giona, agli abitanti di Ninive, ad Israele suo popolo, che il suo disegno di salvezza non è un privilegio da riservare a qualcuno, ma è dono per tutti.
Di conversione si parla anche nella pagina del vangelo. Gesù annuncia che c’è un tempo ‘compiuto’ e presenta l’appello di fronte all’irromprere del regno che si è fatto vicino: il regno di Dio ha i tatti di una bella notizia che apre ad un Dio amico e vicino, in cui male e oppressione sono tolti, ed è possibile un mondo di relazioni nuove. “Convertitevi e credete al vangelo”.
A queste prime parole sintesi del messaggio di Gesù segue un gesto, la chiamata dei primi discepoli presso il lago e la risposta di Simone e Andrea e poi di Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo. Gesù passa, fissa con il suo sguardo e chiama dicendo ‘Seguitemi’. La scena descritta coglie un momento di vita ordinaria, durante il lavoro, nel rassettare le reti di pescatori. Gesù chiama a seguirlo per renderli ‘pescatori di uomini’: la loro attività per procurare vita alle loro famiglie è chiamata a divenire missione per dare vita ad altri, ad una comunità allargata.
C’è una preziosità dell’incontro con Gesù che conduce ad un ‘lasciare’ il padre, la barca, le reti. Un’indicazione che nulla può essere considerato più importante. Relazioni e attività sono da scoprire in modo nuovo nel seguire Gesù. La cosa più importante diviene la relazione con lui. In lui sarà da scoprire la profondità del regno come situazione nuova sin da ora come nuovo modo di intendere la vita nel servizio e nella cura. Sarà anche un modo nuovo di intendere i legami e la propria attività in una comunità intesa come fraternità e sororità di uguali. ‘Seguimi’ è chiamata a seguire, a camminare ‘stando dietro’.
Si tratta di una sequela che avrà per quei discepoli (ma anche per ognuno che si mette a seguire Gesù) i caratteri della fatica, dello sbandamento, dell’incomprensione, anche del fallimento e dell’abbandono. Ma è cammino di conversione alla scoperta del vangelo di Dio che nei gesti di Gesù si può incontrare e in cui lasciarsi coinvolgere.
Alcune considerazioni per noi oggi
L’antica Ninive è nel territorio della moderna Mosul città diventata tristemente famosa per essere luogo dell’avanzare in questi tempi dello Stato islamico, della persecuzione contro le comunità di yazidi e cristiani obbligati a fuggire dalle loro case e a rifugiarsi in Irak. A Mosul poco tempo fa, nel luglio 2014, è stata distrutta la moschea di Giona. Sì, moschea, perché Giona è profeta riconosciuto anche nella tradizione islamica (nel Corano c’è una sura di Giona). Giona unisce diversi cammini religiosi e più profondamente è simbolo di un cammino umano, al cuore e oltre le religioni. C’è una violenza che si oppone ad un cammino umano come chiamata a convertirsi all’altro, a scoprire la vita come cammino comune nelle differenze, nel lasciarsi interrogare dall’altro. La persecuzione oggi in Irak e nella piana di Mosul accomuna cristiani, musulmani, yazidi, mezzo milione di persone rifugiate in Kurdistan. Prima di Natale il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako, ha visitato i profughi nel Kurdistan e ha chiesto ai suoi fedeli in Iraq di digiunare nei giorni precedenti il Natale e di “celebrare le feste – compreso Capodanno – con sobrietà, proprio per avvicinarsi alle ferite e all’abbandono di chi ha perso tutto a causa della fede, domandando al Signore Gesù il ritorno a casa, a Mosul”. C’è un digiuno nuovo da scoprire oggi come segno di conversione. La sfida che oggi abbiamo davanti è quella di scorgere quale conversione ci è richiesta in modi diversi nelle diverse religioni e convinzioni: l’uscita dagli eclusivismi contrapposti, l’uscita dal modo assolutista e violento di pensare non accogliendo la diversità. L’uscita dalla logica della violenza, dal pensiero autosufficiente che non ha bisogno dell’altro e non è disponibile a cambiare e a prendere in considerazione altri punti di vista.
Nel libro, uscito in questi giorni, a cura di François Buet (ed.Gribaudi) che raccoglie alcune meditazioni di fratel Luc, monaco e medico di Tibhirine, si legge: “La salvezza ci viene dagli altri che sono per noi la presenza di Dio che chiama alla vita. Se la fede salva è perché essa svia il nostro sguardo verso un altro, dunque crea una relazione che ci strappa alla nostra solitudine mortale… Ogni volta che lasciamo la preoccupazione per noi stessi sostituendola con la preoccupazione per un altro, viviamo questa fede che è, forse a nostra insaputa, fede in Dio…”
Ma c’è anche una conversione per dare spazio e attenzione alle situazioni di chi nel mondo subisce oppressione e persecuzione senza trovare considerazione nei media: come in Irak, così in Nigeria più recentemente (mentre il mondo si sollevava per le uccisioni a Parigi, calava l’indifferenza verso più di duemila vittime di violenze). Sono questi percorsi di conversione globali, ma che toccano anche la nostra quotidianità.
Pescatori di uomini: chi oggi si trova a pescare uomini? Chi oggi vive veramente l’abbandono di padri, madri e delle proprie reti per andare incontro ad un’avventura di cui non si hanno garanzie e pone la propria vita in un seguire speranza di dignità e di pane? La vicenda delle innumerevoli folle di migranti, di tutti coloro che hanno sperimentato l’essere pescati nei drammatici naufragi nel mare Mediterraneo è invito per noi a scoprire come i percorsi della fede sono nascosti dentro le vicende umane e come il seguire Gesù dovrebbe essere vissuto nell’ascolto e nell’accoglienza di cammini umani che sono in se stessi segni del vangelo oggi e chiamate a cambiare modo di intendere la vita nella linea del regno di Dio che è regno di pace giustizia sin dal presente.
“Il tempo si è fatto breve”. L’espressione di Paolo rinvia ad un’immagine di navigazione: le vele della barca che presso il porto vengono sciolte e raccolte per permettere gli ultimi preparativi per l’approdo. Non si tratta di un invito al ‘carpe diem’ ignaro del passato e del futuro. E nemmeno è esortazione all’indifferenza nei confronti del presente e di quanto comporta l’impegno qui ed ora nella costruzione di un mondo più giusto e umano con la propria attività. In queste parole sta piuttosto il suggerimento a cogliere la differenza tra ciò che è penultimo, e quanto è ultimo, tra l’importanza di tutto ciò che richiede il massimo coinvolgimento nello sforzo (come in una barca che sta per attraccare) e la bellezza di una realtà nuova che è vicina ed è punto di arrivo meta finale (come il pregustare l’abbraccio con i propri cari nel porto ormai raggiunto a termine del viaggio). Qui s’innesta la serenità e la libertà del credente. Tra il penultimo e l’ultimo al credente non è chiesto l’oblio del tempo, ma percepire lo spessore di ogni istante che tiene legati insieme il passato, il presente e il futuro. Il tempo allora non assume il carattere oppressivo di una dimensione che minaccia e genera paura, ma può divenire il luogo di una libertà nuova ed anche di speranza. Si può vivere immersi e impegnati ma non sommersi e angustiati nelle cose. C’è un quotidiano da accogliere e custodire recando nel cuore la tensione a ciò che è ultimo, nella consapevolezza di tutto ciò che è buono, giusto e di tutto ciò che è vita nel presente: ogni piccolo gesto, ogni impegno nel vivere relazioni che tessono solidarietà e pace è penultimo che si scontra anche con la conraddizione, con la fatica e il fallimento e nel contempo prepara, fa pregustare e annuncia l’ultimo.
Alessandro Cortesi op
IV domenica tempo ordinario – anno B – 2015
(Marc Chagall, Profeta Isaia)
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
“Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole”. La promessa al cuore della pagina del Deuteronomio riguarda l’azione di Dio che farà sorgere un profeta. Profeta nella Bibbia non è una sorta di mago ‘lettore del futuro’ piuttosto è uomo della Parola. La sua vita è segnata da una chiamata proveniente da un intervento di Dio, dal suo comunicarsi: il profeta non si fa da solo, viene suscitato, scopre una parola altra e da altrove che lo chiama e lo invia. La sua vita è trasformata per essere a servizio di altri in un rapporto che si allarga, in una corrente di comunicazione.
I profeti saranno la risposta, in ogni circostanza, soprattutto nei momenti più difficili alla richiesta – presentata da Israele sul monte Oreb (Dt 5,23-28) – di potersi accostare senza timore a Dio: una risposta ad una richiesta di vicinanza di Dio. Dio si fa vicino attraverso la voce e la vita di qualcuno, fratello tra gli altri, a cui egli pone sulla bocca le sue parole. Così il profeta, uomo della parola, è ‘colui che parla davanti’: la sua parola non proviene da lui, ma dipende da un ascolto che coinvolge in primo luogo sua esistenza e si prolunga nell’ascolto richiesto a tutto il popolo.
La sua parola è eco, rinvio, memoria, ma anche interpretazione del presente. Per questo il profeta è figura scomoda per ogni tipo di potere e trova opposizione e sospetto di essere voce di illuso o di sognatore. Ma il futuro diviene possibile solamente come risposta alla Parola di Dio annunciata dal profeta. La sua è azione in favore di tutto un popolo e in mezzo al popolo: un profeta in mezzo ai fratelli, quasi una apertura alla promessa che tutti nel popolo di Dio sono chiamati ad essere profeti, a vivere un ascolto vivo della Parola di Dio.
La pagina del vangelo di Marco presenta Gesù stesso come ‘uomo della parola’. Il verbo ‘insegnare’ ritorna con insistenza in questo brano. Gesù insegna e lo fa come uno che ha autorità, non come gli scribi. Si tratta di un insegnamento – parole – che sgorgano dalla sua vita. Un insegnare con autorevolezza allora più che autorità: continuità e coerenza tra interno ed esterno, tra parole e vita. Gesù rifugge le forme del potere autoritario, ma la sua parola suscita stupore perché espressione della sua vita, dell’orientamento di fondo di tutto il suo agire.
La scena è presentata nel giorno di sabato, memoria del riposo di Dio nella creazione e dell’alleanza nel dono della legge, all’interno della sinagoga, a Cafarnao. Proprio lì, nel luogo religioso della sinagoga c’è un uomo ‘posseduto’, oppresso, in una condizione di sottomissione a forze che lo dominano: una malattia, una condizione di impurità che lo tiene sofferente ed emarginato, incapace di essere se stesso. C’è un contasto sottolineato da Marco tra l’insegnare di Gesù, profeta e maestro e il grido dell’uomo posseduto da uno spirito immondo. “‘che c’entri con noi Gesù nazareno? Io so chi tu sei: il santo di Dio!’. E Gesù lo sgridò: ‘Taci, esci da quell’uomo’. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”
Gesù impone di tacere ad una voce che grida la sua identità. E’ riconosciuto come il santo, ‘unto’: è il riconoscimento della sua esperienza nel battesimo. La forza dello Spirito ricevuta lo ha inviato e lo fa entrare a contatto con tutto ciò che è impuro. Gesù invita al silenzio: ‘Ammutolisci ed esci da lui’. Al centro del luogo religioso – ci dice questo passo – è presente la forza del male in contrasto con la parola di insegnamento di Gesù. Gesù si manifesta come colui che libera l’uomo da ciò che lo sottomette, lo strazia e non gli permette di maturare una capacità di ascolto. Il suo insegnare si fa gesto di liberazione. La sua parola diviene azione e apre il passaggio dal grido all’ascolto. L’ascolto è l’attitudine fondamentale del credente. Non una parola che fa morire, ma un parola che apre la possibilità di vivere.
Quell’uomo gridava, dominato dal male, contro la ‘forza debole’ della parola di Gesù: la sua era purtuttavia un riconoscimento della sua identità, una professione di fede anche, gridata, che copriva il suo insegnamento. Gesù si contrappone ad una fede ‘gridata’, si oppone sorattutto a tutto ciò che divide la persona dentro di sè e la tiene oppressa.
Con la sua parola Gesù restituisce quell’uomo a se stesso. Il suo gesto libera e permette che quell’uomo sia restituito alla sua libertà, a se stesso, non più dominato e sottomesso. Marco delinea in Gesù il modello di un profeta che insegna lasciando spazio alla crescita, alla vita di ognuno. Ciò suscita meraviglia perché il suo insegnamento era ‘nuovo’ e si poneva come parola significativa, capace di comunicare, di restituire alla vita. Non si tratta di una ‘dottrina’, è piuttosto insegnamento vivo, capace di coinvolgere la vita, capace di aprire un rapporto di libertà.
Alcune osservazioni per noi oggi.
Parola e profezia. La parola di un profeta non è parola senza tempo, ma richiamo che pone insieme fedeltà a Dio e interpretazione del presente. Cosa il Signore ci chiama a vivere in questo tempo, in questa storia? Come comunciare la vicinanza di un Dio che non è lontano e inarrivabile, o peggio Dio del giudizi e della condanna, ma Dio dell’ospitalità e della vicinanza che si fa incontro nei gesti e nelle parole umane? Abbiamo bisogno di profeti, di coloro che si sono lasciati coinvolgere nel cammino della fede. Ma abbiamo anche bisogno di non cadere in una mentalità della delega: fossero tutti profeti nel popolo di Dio…
C’è una presenza di profeti nascosti, quelli del quotidiano, tutti coloro che si chiedono in modo ordinario e quotidiano come tradurre il vangelo nell’esistenza e cercano di farlo, senza alcuna pretesa di riconoscimento. Questi sono i profeti, uomini e donne della Parola, capaci di portare visioni di creatività e di porre segni di un mondo nuovo diverso in mezzo ai loro fratelli. Forse il desiderio di protagonisti e di figure eccezionali ci distoglie dall’attenzione all’ascolto dei profeti del quotidiano, ed anche di scoprire la chiamata ad essere profeti che sta al cuore dell’esistenza di ogni persona. E questo non nella linea di una esaltazione del singolo, ma proprio nel cercare di essere profeti insieme.
Come favorire percorsi in cui accogliere la chiamata ad aiutarci ad essere profeti insieme? Nell’ascolto di ciò che la Parola del Signore – che si fa viva nelle parole della vita – ci chiede oggi. La parola del profeta è rinvio alla parola di Dio che destabilizza e fa cambiare, che apre alla speranza e suscita liberazione. Quale impegno per una prassi di umanizzazione oggi?
Insegnare e agire: Gesù presenta un insegnamento con autorevolezza. C’è una linea di coerenza che suscita interrogativo e stupore nel parlare di Gesù. La sua parola fa riferimento al suo agire e diviene luce dei suoi gesti. Non dottrina ma vicinanza e cura. Sta qui una grande provocazione a noi oggi per scoprire come la dimensione dell’agire, non solo nei termini di buone azioni episodiche, ma di un agire quale stile di attenzione ospitale, che innervi tutte le dimensioni del vivere, cha sia attitudine di fondo sempre da ricercare e in cui camminare.
Viviamo il senso di delusione e stanchezza di fronte a tante parole che nascondono dietro a sé un vuoto. E’ lo sfiancamento delle parole: ma le parole riprendono vita quando sgorgano da un agire che ‘parla’ e si fa forza interiore e rinvio ad una parola che innerva la vita. Forse a questo siamo chiamati oggi: potremmo chiederci quali sono le scelte e le modalità di vita ordinaria che rendono leggibile il vangelo anche senza tante parole. Per ridare spazi di libertà a chi in tanti modi è posseduto e spossessato di se stesso, nelle diverse forme di dipendenza e schiavitù che la vita oggi propone: ci sono le dipendenze dai miti del denaro, della superficialità e della faciloneria e di una logica di vita nel consumo e nello sfruttamento di beni. Ci sono dipendenze drammatiche nel gioco, nel divertimento vacuo, nell’inseguire tutto ciò che fa apparire e rende protagonisti o ‘più scaltri’ o ‘primi’. Ci sono dipendenze dai mezzi tecnologici che non aiutano ad alzare sguardi e mente sulla realtà… Assumere lo stile di insegnamento di Gesù, il suo accostarsi per liberare apre a gesti concreti per restituire alla vita perché ognuno possa realizzarsi non nella chiusura ma nell’ascolto e nell’incontro.
Alessandro Cortesi op