la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “marzo, 2013”

Omelia della veglia nella notte di Pasqua – 2013

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Il tempo regalato nella notte: è questo il primo segno di questa sera. E’ forse tempo per ricordare il senso del nostro tempo. Prima che tempo da sfruttare o da trattenere è tempo da restituire. Il vegliare vuol dire questo. E’ tempo da restituire nel camminare insieme, nell’ascoltare, nel custodire la luce di questa notte. La luce che è Cristo nostra Pasqua: è lui primizia di primavera e di risorgere di vita che ci accoglie e coinvolge.

E poi il fuoco, la luce. E le parole che hanno riannodato, accompagnando a riprendere il filo di un gomitolo, i vari momenti di una storia. Dio che si fa vicino e scende a liberare.

Il canto dell’Exsultet: al suo cuore sta l’elemento decisivo che sostiene la vita dei credenti: non una spiegazione della sofferenza, ma l’annuncio che solo la fiducia incondizionata e totale nel Dio benevolo e misericordioso apre le porte di una vita nella libertà. Nella croce di Gesù, che ha attraversato la sofferenza sta il consolante messaggio che Dio non abbandona nessun angolo della vita umana, anche quello oscuro segnato dall’abbandono, dall’insensatezza, dalla solitudine e dal vuoto. E questo esile annuncio di fede che ha solcato la pesantezza del buio della notte dà la speranza che la sofferenza e il male non è l’ultima parola, ma nella nostra vita e nella vita di ogni uomo e donna c’è l’orizzonte in cui la sofferenza sarà eliminata per sempre. Lui il crocifisso è stato risucitato dal Padre; lui il condannato della croce è costituito Unto e Signore, aprendoci la via della libertà.

E poi l’acqua: l’acqua del primo mare, l’acqua del mar Rosso, l’acqua della liberazione, l’acqua vista dalla Bibbia come rinvio alla parola: come l’acqua scende dal cielo, così la parola, come l’acqua non ritorna senza effetto, e fa germogliare e genera processi vitali frutti, cibo, vita, così la parola “non tornerà a me senza aver operato quanto desidero…”. La parola al centro, la parola di Dio nelle parole di uomini.

Ed è una parola l’annuncio che inizia con una domanda: “perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea”

E’ annuncio che distoglie da un presente chinato sul luogo della morte. Apre ad una ricerca nuova ed offre tracce nel passato. Solo ritornando a quello che Gesù ha fatto e detto si può vivere un incontro nuovo con lui. E’il vivente da cercare portando il ricordo, ma non lasciandosi imprigionare dal ricordo. Facendo del ricordo la spinta per maturare speranza.

Le donne recatesi quando era ancor buio al sepolcro, cercano ma non trovano. La loro ricerca è indirizzata al corpo del Signore. E questa ricerca fallita è illuminata dalla voce di due uomini – dice Luca -, portatori di una parola che viene da altrove. E’ la parola al centro della pagina costruita proprio attorno ad essa: il vivente non va cercato tra i morti, ma va cercato altrove, nei luoghi della vita. I credenti d’ora in poi sono invitati a cercare, a cercare sempre, a cercare oltre.

Non sono invitati ad altro se non a cercare, a cercare il suo corpo come corpo di un Vivente. La fede in lui come ricerca del suo corpo, della sua vita in relazione. Non è casuale questo invito. Nel vangelo di Luca si potrebbero rintracciare tante ricerche di Gesù. Sarebbe bello ripercorrere i vari percorsi della ricerca di Gesù nell’intero vangelo di Luca che sembra proprio tessuto su questo filo di base.[1]

‘Non cercate qui ma altrove…’ è l’invito dei messaggeri di Dio; per contro c’è l’indicazione di una ricerca da iniziare. Non nei luoghi della morte ma altrove. E’ vivo. Ma allora Gesù è da cercare, in un movimento che si pone tra la memoria e il presente, tra il ritorno alla Galilea, la ricerca delle sue tracce e l’inseguire i segni della sua vita.

Troppo spesso abbiamo rinchiuso Gesù in un possesso fissato in sistema religioso o nella prccupazione di costruire e mantenere strutture clericali, o in una dottrina chiusa nella pretesa di ridurre tutto a spiegazione, non aperta a ricerca, al silenzio delle domande radicali, alla fede nuda, al riconoscimento della alterità di Dio nella nostra esistenza. La fede è ricerca, la vita cristiana è ricerca, l’esistenza in rapporto al risorto è cercare nella vita.

Ma il cercare è l’attività di chi non sa, di chi chiede, di chi ha bisogno dell’altro, di chi si apre ad accogliere in modi insospettati il suo passare. Dentro la vita. E’ vivente. In queste parole si apre un modo di intendere la fede come relazione e apertura. Il cercatore è l’opposto del difensore tronfio e presuntuoso, è anche l’opposto di chi pur in atteggiamento umile, pensa di dover solo dare – si pensi alle varie forme di paternalismo così diffuse-: il cercatore è povero in radice. Povero perché sa che da ogni altra povertà può farsi cambiare e può lasciarsi aprire alla verità della sua vita e all’incontro con colui che si è fatto povero per noi… L’indicazione di cercare altrove è il delineare anche di una identità di chi crede, che non potrà mai essere identità senza l’altro, senza interrogare, senza leggere i segni, e senza lasciarsi provocare da altri.

Non cercate qui ma altrove, e forse anche c’è anche un altro invito che dovrebbe risuonare dalla lettura del tema dela rcierca nel vangelo di Luca: non intestardirti a cercare, ma lascia spazio a colui che ti cerca. Prima della ricerca umana c’è una ricerca che precede. Lui per primo viene a cercarci nel cammino della vita, e lui si fa vicino, in modi che lui solo sa, laddove non c’immaginiamo (come dirà il racconto dei due di Emmaus), talvolta nella presenza di uno sconosciuto o di un incontro imprevisto. La messa in guardia di Luca in questa pagina è di capovolgere il modo di pensare religioso. Stare nella vita, leggere il presente, accogliere i volti stranieri, lasciarsi interrogare dalle situazioni, dalle voci diverse, dalle altre culture, lasciarsi ferire dalla critica e dal rifiuto rintracciando anche lì la voce del Vivente che mette in cammino. D’ora in poi colui che è vivo si farà vicino nelle parole della vita, nelle parole scambiate, nei cammini condivisi, nei gesti che profumano di ospitalità.

E’ capace di cercare chi sa confrontarsi con una assenza: tutta la vita credente sorge da una assenza, da una mancanza, come anche tutta la vita umana si pone in una ricerca di un tu che sia di fronte, si confronta con il limite e con la mancanza. In questa esperienza di essere soli, Luca suggerisce che la Pasqua apre ad un percorso nuovo, rompe con i ritorni delusi per aprire sempre a nuove partenze.

Non solo ma ci dice anche che il vivente è più di ogni libro che parla di lui, è solamente nella vita che può essere incontrato, solo immergendoci nell’esistenza, nella comunicazione e nell’incontro è possibile trovare sue tracce che resteranno sempre e solo tracce che rinviano ancora a ricercarlo, mai a pretendere di essere coloro che esauriscono la conoscenza di lui. Così come lui si è fatto incontrare nella sua umanità: ritrovare l’umanità di Gesù, la semplicità dei suoi gesti, il senso profondo del suo passare facendo del bene.

Porto una domanda questa notte: quale è il significato possibile della Pasqua per credenti e per non credenti? Per i credenti è apertura alla ricerca, e direi anche per chi non crede. Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». E ancora parlando di tempi angosciosi “Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me… l’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l’unica che veramente conti  è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio… tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi”

Le donne sono le prime che accolgono l’annuncio della risurrezione. E’ indicazione fondamentale: la scelta delle donne in un mondo in cui la loro testimonianza non aveva valore e questa traccia conservata nei vangeli, mantenuta nonostante le possibili critiche a cui si esponeva. E’ traccia importante. Ancor oggi le parole più profonde di vangelo provengono da persone che non hanno diritti riconosciuti di testimonianza, da uomini e donne liberi, non integrati in appartenenze chiuse, non impauriti.  Sono le persone che vivono la fiducia nell’umanità, la ricerca dei volti degli altri, la capacità dei gesti di cura possibili, nel tessere relazioni nuove, anche in situazioni di morte. Sono costoro che fanno avanzare il mondo, credenti o non credenti. In questa fiducia sta il senso della Pasqua che unisce credenti e non credenti, in una medesima apertura a vivere la povertà di questa notte nella possibilità di attendere dagli altri e dall’Altro la luce che è lampada ai nostri passi.

Dono della Pasqua non è solo l’uscire dal luogo della morte di Gesù, ma è il dono di una possibilità offerta a noi di non rimanere chiusi da tutte le pietre che rinchiudono e opprimono la vita. E’ apertura ad una possibilità di libertà, anche nelle situazioni più pesanti e faticose. Nella fiducia in Dio e nell’umanità.

Alessandro Cortesi op


[1] A partire dal momento della sua infanzia quando Gesù viene rimproverato dalle parole di Maria: ‘tuo padre e io ti cercavamo…’ (Lc 2,44-48) Ma poi c’è anche la ricerca della folle che lo cercava dopo che avevano visto le guarigioni di Gesù a Cafarnao (Lc 4,42) e che cercava di toccarlo (Lc 6,19). Ma c’è anche un’altra ricerca, quella di Erode incuriosito, che cercava di vederlo (Lc 9,9). E Gesù nelle parole conservate da Luca invita alla ricerca ‘cercate e troverete’ (Lc 11,9). E d’altra parte Gesù ha parole dure per una generazione malvagia ‘che cerca un segno’ (Lc 11,29) ma ad essa non sarà dato se non ‘il segno di Giona’. E ancora ‘non cercate perciò che cosa mangerete o berrete, e non state con l’animo in ansia’ cercate piuttosto il regno di Dio (Lc 12,29-30): c’è una ricerca che mantiene nell’angoscia e c’è una ricerca che assorbe tutta la attenzione di Gesù, la ricerca del regno di Dio. C’è anche un ricerca presentata nelle parabole. E’ la ricerca di Dio che si fa incontro: un padrone che viene a cercare frutti dal fico piantato nella sua vigna (Lc 13,6). Ma c’è anche una donna che nella casa cerca attentamente se ritrova la dramma perduta (Lc 15,8) e così c’è il pastore che va dietro alla pecora perduta finché la ritrova: la cerca (Lc 15,4) così come il padre che va alla ricerca prima del figlio che si è allontanato da lui e poi dell’altro che è rimasto vicino. E anche Zaccheo – dice Luca – cercava di vedere Gesù, ma scopre di essere per primo da lui cercato: ‘il Figlio dell’uomo è venuto infatti a cercare e a salvare ciò che era perduto’ (Lc 19,10). C’è un contrasto di ricerche: anche scribi e farisei cercano ma nel tentativo di farlo perire (Lc 19,47), e così scribi e sommi sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso (Lc 20,19) ma ebbero paura del popolo. E il racconto della passione inizia ancora con un movimento di ricerca: ‘cercavano di toglierlo di mezzo’ (Lc 22,2) e così ‘Giuda cercava di trovare l’occasione propizia per consegnarlo loro di nascosto dalla folla’. Gesù proprio nel Getsemani dice a Pietro: ‘Simone satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano, ma io ho pregato per te’ (Lc 22,31). L’intero lavoro di Luca come evangelista si pone nell’orizzonte di ‘fare ricerche accurate’ (Lc 1,3).

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Domenica di Pasqua – anno C – 2013

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(Gerhard Richter, vetrata, Cattedrale di Colonia)

At 10,34-43; Sal 117; 1Cor5,6-8; Gv 20,1-9

Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando ancora era buio e vide…

Era buio dentro il suo cuore ed era buio perché ancora la luce dell’aurora di quel mattino di primavera non era spuntata. Il IV vangelo presenta un gesto di amore in apertura di questa pagina: il primo passo della fede sorge da un amore che spinge, da una nostalgia di stare vicino, dal recare nel cuore il desiderio di ritrovare il volto di Gesù. Maria è testimone di un rapporto profondo umanissimo e tenero con Gesù, testimone della scoperta che nella sua vita quell’uomo ha aperto speranza, senso e gioia ai suoi giorni. L’ha chiamata per nome e Maria non può dimenticare quella voce e quello sguardo. Da qui nasce l’alzarsi presto e il cammino che la conduce a vedere. E’ il vedere di una donna – sottolinea Giovanni – e la sua parola il primo germoglio della fede pasquale. Maria di Magdala prende il coraggio, forse insieme ad altre – ma il suo nome è ricordato dal IV vangelo – di alzarsi e andare al sepolcro e vide…Si ritroverà Maria in un altro racconto, sola nel giardino davanti al sepolcro vuoto, in un incontro in cui lei viene accompagnata a spostare la sua ricerca. Maria sta cercando, ma rivolta al Gesù del passato, è legata al ricordo e presa dalla tristezza della morte. Ora dovrà aprirsi a ricercarlo in modo nuovo, vivente, senza trattenerlo…

Il vedere di Maria si fa annuncio e comunicazione: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”. La tomba vuota di per sé non dice nulla, è segno anche contraddittorio ed apre a pensare varie ipotesi: un trafugamento, oppure uno spostamento. Tuttavia Maria parla di Gesù come ‘Signore’ e così già dice qualcosa della sua identità di colui che ha vinto la morte. Ma dice anche il suo smarrimento di fronte al non sapere…

Da questo primo cammino che è cammino di visita e di attesa, un cammino segnato dall’amore, prende avvio un secondo cammino, quello di Pietro e del discepolo che Gesù amava. Inizia dal vedere di donna, e sorge dal desiderio di amore recato nel cuore da Maria di Magdala. Pietro e l’altro discepolo uscirono insieme e correvano. Non più un cammino ma una corsa. Insieme. Ma l’altro discepolo correva più veloce e arrivò per primo. In questa corsa l’autore del IV vangelo descrive un’esperienza profonda che riguarda i rapporti tra i due, ma non solo, anche tra diverse componenti della comunità credente: Pietro, il primo dei dodici, diviene simbolo dell’istituzione. L’altro discepolo, quello che Gesù amava, è il discepolo segnato dallo sguardo dell’amore, diviene simbolo del carisma, del dono che apre il cuore e lo rende capace di vedere oltre. Pietro diviene così simbolo dell’istituzione, e il discepolo dell’intuizione e del dono di chi ama. Il discepolo giunto al sepolcro vide i teli posati e si arresta sulla soglia, ma non entra. Attende Pietro che vede i segni presenti: i teli, il sudario avvolto in un luogo a parte. “Allora –dice il IV vangelo – entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo, e vide e credette”. Era giunto per primo e si era fermato sulla soglia, attendendo che fosse Pietro per primo a fare ingresso nel sepolcro. Quando però entra per primo ‘vide e credette’ – dice Giovanni – . Il suo vedere non si ferma alla superficie, sa leggere dentro. E’ un vedere nutrito di un rapporto profondo con Gesù, e si apre al credere. Quei segni che di per sé sono ambigui indicano che Gesù non è rimasto prigioniero della morte, ma la sua fedeltà all’amore sino alla fine ha vinto la morte. Dio non lo ha liberato dalla morte ma lo ha liberato nella morte. Il discepolo compie così il passaggio dai segni al credere.

Ma l’annotazione finale è tagliente: “Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risuscitare dai morti”. Sembra che tutta la Scrittura sia racchiusa e sintetizzata in questa necessità: che egli doveva risorgere dai morti. E’ una chiave di lettura di tutta la Scrittura, ma è anche una indicazione alla comunità per tornare alla Scrittura e scoprire, proprio partendo dalla Scrittura che tutta la vicenda di Gesù s’inserisce nel cammino dell’alleanza e dell’incontro del Dio di Abramo Isacco e Giacobbe, dell’esodo e dei profeti con l’umanità.

Vorrei suggerire due annotazione per leggere questa pagina nel nostro tempo.

Questa pagina ci parla di cammini che sorgono dall’amore: sono cammini di ricerca. In un tempo in cui ci si chiede come si può trasmettere la fede e come la fede può essere generata nei cuori questa pagina può essere illuminante per scorgere come la fede non può andare senza una gradualità e una fatica di ricerca: come per Maria che si apre alla fede nel risorto solo poco alla volta, passando attraverso la sua nostalgia di Gesù, lasciando spazio a quella spinta che è ricerca nella sua vita, e incontrando la parola di Gesù ‘chi cerchi?’ solo ad un certo punto. E così anche per Pietro e l’altro discepolo, in modi diversi, in una corsa che li porta ad incontrare segni ambigui e ad essere illuminati dall’amore che fa leggere i segni e andare oltre, accogliendo la Parola che illumina i segni, riandando alla Scrittura che parla di una fedeltà di Dio oltre la morte. Ogni sorgere del credere deve passare attraverso un andare, una relazione insieme che genera nuovi percorsi e un vedere. Ma anche tutto questo a nulla apre se non vi è il respiro della relazione viva. E’ quella nostalgia che spinse il recarsi presto di Maria e lo sguardo del discepolo che Gesù amava: è l’amore ricevuto ciò che genera ogni percorso del credere nel risorto. Per passare dalla nostalgia, sguardo al passato, in apertura ad un incontro da vivere ancora…

Una seconda osservazione: la fede nel risorto è esperienza che sorge da una assenza. C’è un vuoto e ci sono i segni di una assenza nel vedere di Pietro e dell’altro discepolo. Gesù non è più da ricercare nel luogo della morte, ma sarà da ricercare come presenza nuova. Quel vuoto deve rimanere però al cuore della fede, perché la farà rimanere sempre umile, la farà rimanere sempre in movimento, cammino spinto dall’amore e talvolta corsa per vedere e per vedere segni, per aprirsi ad un nuovo vedere. Mai però un vedere presuntuoso e autosufficiente. Sarà sempre un vedere chiamato ad andare oltre, che porta le ferite di una attesa e di una tensione. Rimarrà sempre cammino di ricerca che rende vicini e capaci di avvertire la sofferenza di tutti coloro che cercano e che sperimentano il dolore di una assenza e di un vuoto nella vita. Rimarrà sempre ricerca che mai può possedere ma sempre sarà sfidata nel leggere i segni e nell’ascoltare una Parola che si fa vicina in parole umane. Sempre alla ricerca di una presenza viva eppure non disponibile, in attesa della sua venuta. Se il grande tesoro della fede pasquale è l’annuncio che Gesù ha vinto la morte, questo tesoro è da custodire nella memoria della via seguita da Gesù, nel custodire la parola della croce, non con la presunzione di chi possiede, ma nella consapevolezza di un dono di presenza da accogliere continuamente.

Alessandro Cortesi op

Domenica delle Palme – anno C – 2013

DSCF1885Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56

Ascoltare ancora una volta il racconto della passione è come ritornare agli inizi, ai primi passi della comunità dopo la Pasqua. E’ riandare a quel primo nucleo di ricordi di Gesù, della sua passione, una narrazione di eventi, scolpiti nella memoria e consegnati allo scritto. Gli inizi stanno in un racconto, dove, al primo posto è la memoria di una condanna ingiusta, di un complotto di potere contro un innocente, un giusto. Al centro rimane quell’uomo, profeta di Nazareth. Fino all’uccisione. Ma il buio di quella vicenda e di quella morte non è l’ultima parola. “Dio ha costituito Santo e giusto quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36) è l’affermazione coraggiosa di Pietro negli Atti che formula l’annuncio della fede pasquale. Proprio la vicenda della passione di Gesù e il racconto che la custodisce svelano contraddizioni: una grande opposizione compare tra il male causato dall’azione convergente dei poteri religioso e politico e il bene e la vita che è l’opera di Dio: “voi avete rinnegato il Santo e il Giusto e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita ma Dio lo ha risuscitato dai morti e noi ne siamo testimoni” (At 3,14).

Il primo brusio dell’annuncio cristiano è affermazione che Dio lo ha risuscitato. Ma il risorto è il medesimo Gesù, il giusto, che è stato condannato e ucciso alla morte infamante della croce. In questa affermazione scandalosa sta il paradosso del credere e la vita di coloro che cercano di seguire Gesù sulla sua via. Per questo è importante ritornare sempre a quel racconto.

Tornare ai primi passi, alla memoria di un succedersi di eventi a Gerusalemme nella festa di Pasqua, nella primavera dell’anno 30. E’ questa la prima attenzione da avere nell’ascoltare il racconto della passione. Nelle diverse redazioni dei vangeli il racconto offre anche sottolineature specifiche che dicono sguardi particolari, sprazzi di luce in una pluralità di interpretazioni e di elementi sottolineati.

Ci sono alcuni tocchi propri di Luca su cui sostare: il primo è il modo in cui Gesù muore.

Luca al momento della morte di Gesù non fa cenno come Marco alle parole del salmo 2: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Riporta invece le parole di un altro salmo: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. E’ ancora indicazione che Gesù anche nel momento della morte vive questo momento estremo nella preghiera. Rimane fedele sino alla fine al pregare ripetendo le parole del salmi, la preghiera del suo popolo. Luca dice che Gesù muore in una situazione di preghiera. Ma in questa sottolineatura invita a cogliere come tutta la vita di Gesù sia entro la grande linea di un affidamento. Anche la sua morte  come l’intero percorso della vita. E’ la preghiera nel suo senso più profondo: affidamento e consegna al Padre, è lo stare nello spazio del Padre che Luca aveva suggerito proprio all’inizio del vangelo. “Io devo rimanere nelle cose del Padre mio” (Lc 2,49) era stata la risposta di Gesù dodicenne a Maria e Giuseppe che lo cercavano e lo trovarono nel Tempio.

Tutta la vita di Gesù si pone in questo affidamento e parla del volto di Dio ma anche del volto dell’uomo. Parla del volto di Dio perché Gesù viene indicato come il Figlio in rapporto al Padre. Nel momento del battesimo aveva accolto la voce del Padre che diceva “Tu sei il mio Figlio, l’amato…” (Lc 3,22). Ora Gesù si presenta come il Figlio che si rivolge a Dio chiamandolo Padre con una intimità unica: “Padre nelle tue mani…”. Ma il morire di Gesù in atteggiamento di preghiera parla anche del volto dell’uomo. Ci dice che anche la morte può essere vissuta come ultima consegna della vita a Dio, e può essere vissuta in quella fiducia che le mani del Padre non vengono meno. Gesù ha vissuto l’ingiusta condanna e la stessa morte non sottraendosi, ma trasformandole da realtà subita in esperienza della consegna e dell’essere uomo per gli altri sino alla fine. Non vive in un atteggiamento di sottomissione passiva, ma nella libera decisione di rendere anche quel momento come esperienza di affidamento senza riserve a Dio e dono di salvezza e servizio. La sua morte non è scissa da tutto il suo cammino di vita e per questo le prime comunità vivranno il percorso del ricordare quanto Gesù aveva fatto e detto nella sua vita.

C’è un secondo tratto importante. Lo si coglie nel leggere il vangelo di luca in continuità con gli Atti degli apostoli. Luca ci dice che la vicenda di Gesù continua in tutti coloro che come giusti sono condannati e in tutti coloro che vivono il martirio nel fare della propria morte il luogo di un affidamento  A Dio nella fiducia che la sua vicinanza non viene meno. Gesù muore come un giusto e come un testimone. E’ il giusto che diviene esempio per i testimoni che lo seguono perché coloro che lo hanno seguito nel suo cammino possano seguirlo anche nel modo in cui ha vissuto la morte. Ecco perché Luca vede il martirio di Stefano, negli Atti come un riproposizione del martirio di Gesù. Anche Stefano è ritratto mentre prega e mentre si affida a Dio anche nel momento in cui la violenza ingiusta si scatena contro di lui (At 7,59-60).

Infine Luca evidenzia che la croce è un evento da guardare: si tratta di uno ‘spettacolo’ (Lc 23,48) a cui le folle accorrono ed è un evento da ‘contemplare’. Di fronte alla visione del crocifisso ognuno ritrova il senso della sua esistenza e la verità su di sé. Così Luca parla di Pietro che piange (Lc 22,62) del ladrone che riconosce il male che ha fatto (Lc 23,40-42) delle folle che, ‘dopo aver visto’, tornano battendosi il petto, consapevoli della compromissione con male nella loro vita (Lc 23,48) e aperte ad un nuovo cammino. La visione della croce apre a cogliere il buio ma anche la possibilità di uscita dal buio nel riconoscere il male e nel vederlo vinto nella mitezza di Gesù. Luca presenta Gesù come nonviolento e inerme che entra a Gerusalemme come un re che non ha potere, ‘umile che cavalca un asino’ (Lc 19,28-40), che non salva se stesso ma salva gli altri, che porta pace, che desidera il bene e la felicità per le persone. Di fronte alla morte di Gesù tutti i personaggi stanno pensosi osservando (Lc 23,35) e tale osservare porta ad una possibilità nuova di impostare la propria vita e apre ad un futuro di cambiamento.

Infine Luca vede proprio sulla croce nel momento della morte non la vittoria della solitudine , ma il germogliare di una comunione: “oggi sarai con me nel paradiso” è la promessa di Gesù al buon ladrone che riconosce in lui il giusto. Il morire di Gesù non è luogo di solitudine, ma evento di incontro e comunione. Ed è evento che segna in modo nuovo il tempo: l’oggi di ogni momento della vita, ma anche l’oggi che è il momento della morte diviene un oggi trasfigurato.

Tre tratti propri della lettura di Luca che possono richiamarci a tre riflessioni per la nostra vita

Si presenta spesso la preghiera in modi che la confondono con pratiche di meditazione, con metodi di rasserenamento psicologico o con forme di devozione: ma la preghiera è dimensione ben più profonda della nostra esistenza e forse presente in molti modi diversi anche in chi non pensa di pregare. E’ una apertura di fondo del cuore, è in radice intendere la vita non come possesso e opera nostra o nella linea dell’attivismo e dell’efficienza anche religiosi. Preghiera è in radice affidamento del cuore, un comprendere la vita nei suoi momenti quotidiani come esperienza del gratuito, del dono e dell’incontro. Quante persone pregano senza saperlo ogniqualvolta portano nel loro pensiero e nel loro ricordo la cura di altri, l’amore per qualcuno, lo sguardo di premura a situazioni, la preoccupazione per i deboli, il senso della gratuità e della bellezza, l’affidamento della propria vita a Dio quando le forze vengono meno… La preghiera passa attraverso tutte le mani a cui ci si consegna e in tutti i gesti che accolgono un affidamento. Il morire di Gesù pregando offre un senso e un valore al nostro vivere nei suoi anfratti più quotidiani e spesso trascurati nelle considerazioni religiose. Ed offre senso anche al morire di chi proprio nel venir meno delle forze vive la consegna agli altri e attraverso di loro l’affidamento al Signore stesso.

Gesù è il testimone mite. Nel tempo dell’aggressività la mitezza è virtù da riscoprire: il mite non è affatto un impaurito e sottomesso. Gesù oppone alla violenza che si concentra attorno a lui, la mitezza del forte che vive in profondo la sua libertà. Solo così rompe la catena della violenza. La sua mitezza è una testimonianza ancora non recepita nei cammini di chiesa. Il modo di intendere l’impegno è spesso nei termini della domanda su come vincere, su come affermare in modo forte una presenza per via di imposizione e in termini politici o attraevrso una dottrina che pone limiti ed esigenze e non apre a percorsi di responsabilità. Gesù capovolge questa pretesa e indica la via della inermità, che è invece autentica profezia: è un modo di vivere che non impone ma si propone e proprio per questo suscita fascino e contagio. La testimonianza del mite reca in sè un segreto profondo che è possibilità di riconoscimento e di accoglienza dell’altro come uomo debole e fragile. Tale riferimento appare tanto più attuale nell’anniversario vicino della Pacem in terris (aprile 1963-2013) documento in cui per la prima volta si parla della guerra come follia, scelta contraria alla ragione umana: la mitezza è l’attitudine attiva della nonviolenza che unica può sconfiggere la vacuità della violenza nelle sue diverse forme. E’ capacità di passione e compassione.

Gesù vive la sua morte come evento di comunione: offre un senso alla vita del ladrone vicino a  lui dciendo che c’è un futuro e sarà un futuro di stare insieme.  La vita può cambiare nella linea della cura e dell’attenzione ai poveri, alle vittime, a chi lasciato escluso e in disparte. Gesù accoglie il ladrone che accanto a lui era punito come malfattore. Accogliendo lui dice una accoglienza possibile  e aperta per chiunque si apra alla visione della croce scoprendo il senso profondo della sua vita come incontro, per chiunque sperimenti il rifiuto del male che si esprime nelle diverse forme di violenza e di esclusione e la possibilità di un futuro nuovo.
Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

Parole e segni che aprono cammino

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«Nell’elezione avevo accanto a me il cardinale arcivescovo di San Paolo Claudio Hummes, un grande amico. Quando le cose diventavano “pericolose” lui mi confortava e quando i voti sono arrivati a due terzi  lui mi ha  abbracciò e mi baciò dicendomi: “Non dimenticare i poveri”. E subito in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi ho pensato alle guerre. E Francesco è l’uomo della pace e così è venuto il nome nel mio cuore. Francesco, uomo della povertà, uomo che ama e custodisce il Creato… L’uomo povero, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri» (Francesco, vescovo di Roma, ai giornalisti 16 marzo 2013)

 

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Dal discorso di Laura Boldrini, nuova presidente della Camera (16 marzo 2013)

«Vorrei innanzitutto indirizzare il mio saluto rispettoso al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano».

«Faccio i miei auguri soprattutto ai più giovani: a chi siede per la prima volta in quest’aula. Sono sicura che insieme riusciremo nell’impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane».

«Arrivo a questo incarico dopo aver trascorso tanti anni a difendere e rappresentare i duiritti degli ultimi in Italia e nel mondo. E’ un’esperienza che mi accompagnerà sempre e che metto al servizio di questa Camera».

«Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Abbiamo l’obbligo di fare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri: dobbiamo garantirli uno a uno. Quest’Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale. Dovremo farci carico dell’umiliazione delle donne uccise da violenza travestita da amore. Dovremo stare accanto ai detenuti che vicono in condizioni disumane e degradanti. Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di perdere la Cig, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato. Ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce gli effetti della scarsa cura del nostro territorio».

«In Parlamento sono stati scritti dei diritti costruiti fuori da qui e che hanno liberato l’Italia e gli italiani dal fascismo. Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e dei morti per la mafia, che oggi vengono ricordati a Firenze».

«Molto dobbiamo anche al sacrifio di Aldo Moro e della sua scorta. Scrolliamoci di dosso ogni indugio, nel dare piena dignità alla nostra istituzione che sta per riprendere la centralità del suo ruolo».

«Facciamo di questa Camera la casa della buona politica. Il nostro lavoro sarà trasparente, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani».

«Sarò, la presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato, ruolo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese».

«L’Italia è Paese fondatore dell’Unione europea, dobbiamo lavorare nel solco del cammino tracciato da Altiero Spinelli. Lavoriamo perché l’Europa torni ad essere un grande sogno, un luogo della libertà, della fraternità e della pace. Anche i protagonisti della vita religiosa ci spingono a fare di più, per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice, venuto emblematicamente “dalla fine del mondo”».

«Un saluto anche alle istituzioni internazionali e – permettetemi – anche un pensiero per i molti, troppi volti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce».

«La politica deve tornare ad essere una speranza, una passione».

V domenica di Quaresima anno C – 2013

DSCF1707Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11:

Camminare, percorrere strade verso la libertà, è esperienza al cuore della fede: un cammino che distoglie dal passato e apre al futuro: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”

Nel buio dell’esilio la parola profetica indica orizzonti di speranza: è uno sguardo che non solo registra i segni del cambiamento politico in atto ma ne indica il senso profondo. C’è un agire creativo di Dio che non smette la sua opera: creatore di novità nella storia e creatore in modi nuovi di un popolo che cammini alla sua luce. Il profeta intravede nel quotidiano una nuova esperienza che tocca la fede della comunità: la riporta al senso del viaggio, la provoca a tornare alla radice della sua identità.

Nella strada che ora si apre si delinea il ripetersi di un cammino antico: un ‘esodo’, questa volta con caratteri di novità. E’ un nuovo esodo, il ripetersi di passaggio vissuto dal popolo d’Israele dalla schiavitù alla libertà, dalla condizione servile alla scoperta di un Dio che si china sulle vittime e ascolta il grido dell’oppresso. E’ la scoperta di Dio che scende a liberare: la sua fedeltà e la sua compagnia nel cammino è la grande scoperta vissuta nel deserto, laddove non ci sono templi, non c’è sacerdozio, non istituzioni di potere, ma solo la cura di Dio che si fa vicino e solidale e la sua compagnia: non il Dio del tempio, ma il Dio della tenda, che plasma e si crea un popolo nel percorso verso la libertà. Un esodo si rinnova ed è occasione per scoprire ancora il volto di un Dio che fa nuove le cose. E’ Lui il creatore e colui che può ricominciare una storia di alleanza: il Dio che ha plasmato l’uomo dal fango è colui che plasma un popolo capace di ascoltare e di camminare verso la comunione: ‘aprirò anche nel deserto una strada’. Come nel deserto Israele aveva camminato verso la terra promessa ora ancora dovrà vivere questa esperienza del ritorno scoprendo ancora e in modo nuovo l’alleanza con Dio: ‘il popolo che io ho plasmato canterà le mie lodi’. L’alleanza si allarga a comprendere popoli e terre lontane. La grande novità, ciò che sta per germogliare è un rapporto nuovo con Dio stesso, opera del suo amore e del suo perdono. Anche di fronte al peccato d’Israele, alla sua infedeltà e al fascino esercitato dagli idoli antichi e nuovi, si ripropone la promessa del Dio fedele: ‘avrò fornito acqua al deserto fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto’.

L’annuncio della misericordia e del perdono di Dio sta al centro dell’agire di Gesù: la pagina del cap. 8 di Giovanni è un testo che risente il linguaggio di Luca e che forse proviene dal vangelo stesso di Luca: una pagina che ha fatto difficoltà ad essere accolta per la dismisura della misericrodia che in essa respira. Gesù va oltre la legge. Davanti ad una donna sopresa in adulterio e condotta a lui per metterlo alla prova scribi e farisei fanno riferimento alle procedure previste: le prescrizioni della Legge  (Lv 20,10.13) prevedevano misure crudeli. La questione è posta a Gesù per verificare se si permetteva di andare contro la legge di Mosè, oppure si dimostrava duro esecutore delle prescrizioni. La vita di una persona, il volto di una donna, la vittima più debole, viene posta a servizio di un dibattito sui principi.  E’ una provocazione in cui nessuno spazio è lasciato nel considerare la vita di una persona, i suoi sentimenti, la sua fragilità. E Gesù non risponde. Sceglie il silenzio, non accetta di entrare in questa logica. Si china e si alza ripetutamente per rispondere a testa alta davanti a coloro che lo mettono alla prova. Accetta di stare davanti a quella donna, in silenzio e solo facendo un  gesto: ‘Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito per terra’. Questa enigmatica annotazione rinvia ad un testo di Geremia: “Sarà scritto sulla polvere chi si allontana da te, poiché essi hanno abbandonato il Signore, la fonte dell’acqua sprizzante” (Ger 17, 13b). Scrive per terra che quegli scribi e farisei sono come polvere. Prigionieri della loro logica sono allontanati da Dio. Così Gesù disorienta gli orgogliosi detentori delle soluzioni teologiche e di una morale che avvilisce le persone. Pone i presenti nella condizione di chi deve interrogarsi per primo sulla propria condizione: è troppo facile essere accusatori di altri, soprattutto nei confronti della donna, vittima ella stessa. Piuttosto il peccato è la condizione di tutto il popolo e si annida nei comportamenti più irreprensibili o nello zelo religioso che condanna gli altri. Profeti, come Osea, avevano parlato di Israele come di una sposa adultera (Os 2). Gesù compie così un gesto profetico che è richiamo alla lontananza da Dio. Ma al medesimo tempo di fronte alla donna comunica la sua compassione e vicinanza: sta qui la novità di Dio che apre al futuro, richiamando alla responsabilità. ‘Chi di voi è senza peccato, scagli la pietra contro di lei’. Per primo si rivolge a lei, parla alla donna, la riconosce come un ‘tu’ che gli sta di fronte. La sofferenza e l’umiliazione di lei sono cariche di senso; la riconosce con quella dignità che le era stata tolta due volte, dalla accusa pubblica e dall’indicarla come peccatrice da parte di chi si riteneva giusto. E le apre il futuro del dono di Dio che non è di condanna ma di vita: ‘Neanch’io ti condanno, va’ e non peccare più’. Gesù non guarda al passato e indica di non fermarsi al passato. Apre invece ad un futuro nuovo, vede i germogli di una vita nuova nel cuore di quella donna. Le sua parole sono così promessa di possibilità di una storia nuova. Non c’è condanna ma attesa, non solitudine ma fiducia nella relazione. Nei suoi gesti Gesù è testimone del volto di Dio vicino, che prende su di sé la miseria umana e la trasfigura.

Un messaggio importante per noi oggi si può trarre da queste letture. Vi sono segni, i germogli che siamo anche oggi invitati a leggere. In essi è da cogliere un agire di Dio che è agire creatore e agire creativo nella storia. Nonostante le contraddizioni e il buio i germogli invitano ad un cammino da riprendere, da continuare e che si apre.

Non è cammino solo di singoli ma di popolo ed è un cammino in cui si plasma qualcosa. Oggi è cammino di una chiesa chiamata a riscoprire l’essenziale, a vivere in modo più semplice spogliandosi di tanti orpelli di potere e di compromesso. I passaggi della rinuncia da parte di Benedetto XVI e la scelta di un nuovo papa che si è presentato con il nome di Francesco, in modo semplice, sottolinenado di essere ‘vescovo di Roma’, chiesa che presiede nella carità, sono segni che rinviano ad un cammino comune che apra una stagione di riforme nella chiesa stessa. Cambiamenti che riportino alla semplicità del vangelo e al cammino di un popolo, un cammino insieme, che testimoni la fraternità. Una chiesa centrata sul vangelo, che cammina sulle orme del suo Signore, che vive il dialogo e la misericordia, accogliendo innanzitutto lo sguardo di Gesù sull’umanità. E’ un cammino che s’incontra e condivide il cammino di popoli invitati a scorgere i segni di modi nuovi di vivere, di liberazione da sistemi che generano ingiustizia e schiavitù, di comunicazione nuova nella solidarietà. Un cammino in cui vi possa essere fiducia e futuro così come le parole di Gesù sono state per la donna apertura di libertà e dono di fiducia. C’è una creazione continua a cui offrire attenzione e dare respiro, è l’agire di Dio che fa nuove persone e situazioni e cammini e attende accoglienza fiduciosa.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Quaresima – anno C – 2013

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Gs 5,9-12; Sal 33; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

Un gesto attorno ad una tavola; una storia di fratelli che per diversi percorsi sono spinti a riconoscere il senso della loro vita; l’immagine di una casa. Attorno a questi tre poli vorrei leggere la meravigliosa pagina di Luca che si può percorrere come un piccolo vangelo essenziale.

Il gesto di Gesù: attorno ad una tavola, in un banchetto Gesù condivide l’accoglienza che gli è offerta e accanto a lui siedono – dice Luca – ‘pubblicani e peccatori’. Luca è attento nel sottolineare questo motivo come causa di uno sguardo sospettoso che diviene mormorazione: mormoravano tra loro. E sono i farisei e gli scribi a mormorare. Ma anche sottolinea una distanza. Mentre pubblicani e peccatori ascoltavano Gesù, scribi e farisei mormoravano. Non ascoltano, non si lasciano mettere in discussione dall’agire di Gesù, non sanno leggere dentro quella ospitalità che è segno di una condivisione che abbatte barriere, che esce dalla mentalità di una religione che divide e rende superiori. O forse proprio per questo, perché comprendono che il clericalismo che sta alla base del loro modo di vivere la religione  è posto in discussione dall’ospitalità di Gesù. L’annuncio di Gesù si rende innanzitutto vicino nel suo stare a tavola con gli esclusi, nel suo andare oltre le logiche del merito e dell’osservanza. Si rende ospite e condivide l’ospitalità rimanendo accanto, facendosi accogliente. Il banchetto è così segno di un incontro con Dio che sta dentro la vita, passa attraverso gli incontri e il gesto umano dello stare a tavola insieme. Ed è anche incontro che vede la possibilità di accoglienza per chi è tenuto lontano. Gesù accoglieva pubblicani e peccatori, gli esclusi dal punto di vista sociale e religioso. Ci potremo chiedere oggi in quale modo la cena del Signore, lo stare a tavola nel suo nome è luogo di accoglienza o è divenuto luogo di separazione e di allontanamento. Così nella sua ultima intervista testamento il cardinale Carlo Maria Martini ricordava la sofferenza vissuta da tanti che non sono accolti alla mensa del Signore e ai sacramenti e si chiedeva: non sono forse i sacramenti stessi, memoria dell’agire di Gesù, mezzi di guarigione? Sono aiuti nel cammino per orientare la vita verso il Signore e non luoghi in cui si stabilisce chi sta dentro e chi sta fuori. Gesù, un rabbi che amava i banchetti, viveva il momento dello stare a tavola come gesto che parlava di Dio, della sua accoglienza delle persone, del suo sguardo che in modi diversi va incontro e offre perdono e solo così suscita stupore e conversione.

Una storia di fratelli, non la parabola del figliol prodigo. Perché al centro sta la figura del padre che va incontro, per primo, al figlio che si era allontanato rivendicando la sua emancipazione lontano dalla casa ed esce poi incontro in modo anche al secondo figlio, quello che era rimasto, incapace di liberarsi da una logica di rapporto servile e di inautenticità. Una parabola che parla quindi innanzitutto di un padre e che è pronunciata da Gesù quando viene criticato perché accoglie gli esclusi. Nel suo agire egli afferma la pretesa di rendere gesto quello che è l’agire stesso di Dio il Padre nella gioia di vivere un banchetto che possa accogliere tutti i suoi figli e li possa condurre in modi diversi a quel cambiamento che per ciascuno è scoperta di un dono, di una presenza appassionata di amore al cuore della loro esistenza.  E’ una pagina che racconta l’amore sofferto di un uomo in ricerca di costruire fraternità e di aprire i cuori alla fraternità possibile. In questo senso è racconto di una fraternità possibile che si fondi sullo stupore di una scoperta nuova: la relazione con un tu che si prende cura e sa attendere, proporre e accogliere. Perché non è sufficiente, ci dice questo racconto, vivere il passaggio della scoperta di essere accolti e considerati unici e di essere guardati con quello sguardo consumato del Padre che da lontano vede il figlio tornare e gioisce e gli corre incontro. Non basta: il sogno del padre è anche una nuova fraternità, aprire i cuori dei due a scoprire che la casa è incontro di fratelli. E’ una pagina che rompe con la logica dell’individualismo e spalanca la possibilità di una fraternità nuova, vissuta non come dipendenza ma come accoglienza dell’altro, nell’attesa e nell’ascolto del suo cammino.

E’ infine la storia di una casa. In un film da poco uscito nelle sale ‘Tutti contro tutti’ (regista Rolando Ravello), è raccontata in modi leggeri una storia drammatica del nostro tempo che tratteggia la situazione di lotta tra poveri in una periferia multiculturale di città dove s’incrociano povertà e differenze. Una famiglia, ritornando dalla prima comunione del figlio trova il proprio appartamento, in un palazzone popolare, occupato da altri. Da qui una vicenda dai tratti grotteschi, comici e drammatici, che porta all’ occupazione, da parte degli sfrattati, del pianerottolo delle scale e di qui ad uno sgretolamento di rapporti mentre attorno si scatena una lotta di tutti contro tutti: nel quartiere popolato da immigrati lo scontro di italiani contro stranieri, gli affari dei delinquenti contro gli onesti, l’ostilità nei confronti dei rom, il bullismo tra i ragazzi a scuola, fino al disgregarsi dei rapporti nella famiglia. Ma forse il punto su cui il film concentra l’attenzione e su cui ritroverei un’interessante provocazione in rapporto alla parabola del padre e dei figli è l’interrogativo sull’importanza della casa. In un tema scritto a scuola dal piccolo Lorenzo mentre viveva questa intricata vicenda si concentrano alcune semplici riflessioni nel cogliere come la mancanza di casa aveva condotto ad un frammentarsi di relazioni: e così dice che una casa non è solo alcune stanze, la cucina, il salotto e il bagno. Una casa è qualcosa di molto di più: la casa è la quotidianità fatta della presenza di ognuno, tessuta dei gesti di ognuno, del suo lavoro, dei suoi sentimenti, dei suoi difetti ma del dono di presenza di ognuno.

Oggi la questione della casa angoscia tanti: la mancanza di un luogo dove vivere, la difficoltà di pagare il mutuo o l’affitto, l’attenzione alla gestione della casa e il peso di tutti i pagamenti per poterci vivere. Potremmo legare queste considerazioni alla casa del padre della parabola: è una casa in cui il suo sogno è che non vi sia lotta di tutti contro tutti, ma apertura a vie di fraternità, scoprendosi perdonati. Tutta la fatica del padre è aprire a cogliere che il peccato è non riconoscere l’amore offerto, vivere una vita chiusa alle relazione. Da tale riconoscimento potrà nascere un cambiamento di direzione, una conversione, ma è movimento di gioia che apre a fare festa e a scoprire il gusto di stare in una casa come luogo di incontro, di incrocio, di comunità. Fare casa è il sogno del padre: in questo desiderio potremmo ritrovare radice per costruire case comuni di fraternità possibili.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno C – 2013

DSCF3260Es 3,1-15; Sal 102; 1Cor 10,1-12; Lc 13,1-9

Un roveto, una torre, un albero di fico che non germoglia. Tre immagini che aprono a tre percorsi di riflessione sui testi di questa domenica di quaresima, una domenica segnata da una grande parola: ‘se non vi convertite, perirete…’

Di cambiamento si tratta, in un tempo in cui si avverte l’urgente necessità di cambiare, nella società, nella chiesa, nel modo di vivere anche a livello personale troppo condizionato da poteri e modelli imperanti. Gesù invita alla conversione richiamando la pazienza di Dio, il suo sguardo colmo di attesa.

Mosè, mentre segue il gregge è incuriosito dal bruciare di un roveto che è avvolto dal fuoco ma non si consuma. Il roveto è segno di aridità e di desolazione, eppure anche lì Dio si rende presente. Il roveto nel deserto è arbusto poco attraente, inospitale, irto di spine. Eppure proprio tra quelle spine, simbolo della condizione di un popolo oppresso, si fa vicino Dio. Dio rivolge la sua parola a Mosè dal roveto.  E Mosè vive due atteggiamenti di fronte al roveto: innanzitutto si lascia colpire da questo fuoco e si avvicina con curiosità e interesse. Mosè non vive in modo indifferente, ma si lascia interrogare dalle situazioni, da ciò che accade vicino a lui. E’ un uomo con gli occhi aperti, in ricerca. Prima di accostarsi al roveto si toglie i sandali. Percepisce che per ascoltare e comprendere ciò che interroga si deve vivere in una attitudine di rispetto e di accoglienza. Assume l’atteggiamento di chi apprende e si lascia stupire da quanto incontra. Togliersi i sandali: gesto che esprime la scoperta che quel luogo è terra visitata, e il suo entrarvi chiede ascolto e riverenza. In quella terra così inospitale, laddove Mosè si scopre straniero, Dio si comunica: quella terra è il deserto, sono le spine, è terra per molti aspetti profana. Proprio lì Mosè scopre che ci si deve togliere i sandali, così come Giacobbe quando disse ‘Qui c’era Dio e io non lo sapevo’. Il Dio di Abramo, il Dio dei padri, si fa vicino in modi non programmabili, che spaesano le costruzioni umane. E chiede di avere occhi che scrutano e piedi nudi per camminare e attraversare una terra profana e tutta di Dio, che diviene terra visitata, in cui Dio rivolge la sua parola. E’ il paradosso di un comunicarsi che passa dentro la fragilità, dentro la normalità, spesso negletta, di ciò che accade, nella natura e nella storia. Mosè accoglie così il nome di Dio: il suo essere promessa, ‘ci sarò’, sarò vicino. Si farà conoscere in un incontro vitale solo nel cammino, solo nel coinvolgimento, e si manifesterà in quel nome ‘io sarò con te’ che dice apertura al futuro e incontro da accogliere sempre in modi nuovi.

Una torre è il secondo simbolo. Gesù nel suo parlare accenna ad un fatto triste di cronaca, il crollo di una torre che aveva provocato molti morti. Ma invita a non fermarsi al fatto di cronaca cercando di far rientrare la fede dentro ad un calcolo di sicurezze. Dietro a quel fatto si potrebbero ricercare tante risonanze: forse il crollo di una torre aveva dato origine a quella riflessione che sta al cuore della vicenda di Babele, la grande città che pretendeva di costruire una torre che giungesse sino al cielo, a sostituirsi al cielo, a divenire il cielo per un popolo uniformato e reso schiavo. E quel crollo non era rimasto un dato di cronaca ma era stato letto da persone capaci di cogliere un messaggio profondo di conversione, una parola importante sul volto di Dio e sul volto dell’umanità. Una torre che crolla non è solo un fatto di cronaca ma reca messaggi profondi. E così quanti crolli di torri nella storia possono rimanere dati di cronaca oppure essere letti come passaggi che aprono al cambiamento. Il crollo delle torri gemelle, per molti apsetti è rimasto icona mediatica: una terribile immagine ripettuta migliaia di volte in ogni schermo di due aerei guidati da terroristi che si schiantano contro luoghi simbolici. Un evento che dal punto di vista della cronaca ha dato inizio al XXI secolo. Un evento che poteva generare riflessione ripensamenti, conversione e poteva generare un’altra storia. Dietro a quel crollo un monito, per lo più inascoltato e tenuto lontano. Così di fronte ai crolli delle torri di un sistema di capitalismo finanziario basato su mammona del denaro e sull’inseguimento dell’utile particolare uno sguardo di fede può leggervi un monito di conversione, di cambiamento. Davanti lo spettacolo della devastazione della violenza, ma anche di fronte alla considerazione dei frutti perversi di una seminagione di disprezzo e superiorità, di ingiustizia  globale e di mentalità di scontro di culture un monito su possibili strade diverse che l’umanità potrebbe percorrere: ‘se tu comprendessi la via della pace…’. La parola di Gesù è invito a non fermarsi al contingente, a vivere la ricerca propria di Mosè, il suo lasciarsi interrogare, la sua disponibilità a togliersi i sandali per cogliere quali chiamate di Dio si rendono presenti in una storia segnata dal male, dall’oppressione, dall’ingiustizia. Sono chiamate per un cambiamento  per germogliare frutti nuovi, diversi…

Un albero di fico rinsecchito. Così appre per tanti aspetti la nostra vita, la vita di una società incapace di comunicare vita e futuro, la vita di una chiesa bloccata in giochi di potere, nella sterilità di non accettazione del cambiamento, della necessità di purificazione. Nella parabola del fico è centrale la figura del vignaiolo: ‘padrone attendi…’. E’ l’attitudine di chi si pone in mezzo, di chi intercede e si fa voce della pazienza del Padre. Il tempo e le occasioni di ogni giorno sono lo spazio della pazienza di Dio che per primo attende il nostro fiorire alla vita, il nostro aprirci ad un cambiamento che non dovrebbe far temere.  Ma è cambiamento esigente ed urgente, soprattutto nel tempo in cui la situazione drammatica della povertà e della iniquità a livello globale provocano la chiesa a rivedere le forme anche esteriori della sua testimonianza. Forse si potrebbe leggere anche il passaggio nella vita della chiesa che stiamo viendo come momento che potrebbe aprire novità impensate alla luce di un gesto di debolezza e di riconoscimento di ciò che è essenziale. Questo ha indicato il ritiro di Benedetto XVI che nei suoi ultimi discorsi ha offerto squarci di semplicità di vangelo richiamando al fatto che la chiesa non è organizzazione, ma corpo vivente, popolo di Dio in cammino, fatto di relazioni. Ciò che ha suscitato attenzione in questi giorni non è stata la sottigliezza di argomentazioni ma la semplicità di gesti di spossessamento e di fragilità, la capacità di comunicazione nel riconoscimento di comune umanità. E’ forse apertura ad un cambiamento non solo interiore indispensabile e essenziale, ma anche esteriore, di stili di vita, di modi di governo condivisi in una chiesa che scopre la chiamata alla conversione nel divenire più umile e povera, più capace di essere rivolta al suo Signore e di compassione e condivisione con l’umanità, capace di pazienza e fiducia ad immagine del Padre?

Alessandro Cortesi op

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