la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

IV domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

Gesù nel IV vangelo si presenta con l’immagine del buon pastore. E’ pastore preoccupato soprattutto che le sue pecore possano avere vita e per questo offre la sua stessa vita facendone dono per gli altri. Il riferimento va alla figura del servo di YHWH del Terzo Isaia: ‘non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto…si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori…” (Is 53,3-7). Si tratta del profilo di un condannato e sfigurato. E’ volto che si contrappone al volto di Gesù, ‘pastore bello’: la bellezza che comunica sta nell’orientamento della sua vita come dono: è la bellezza del gratuito, della novità di chi si consegna e si spende. Il pastore indicato nel IV vangelo porta infatti i tratti sconcertanti della figura del servo che dà la sua vita per tutti. Ed è contrapposto al mercenario, centrato su di un profitto da guadagnare, ripiegato sul proprio tornaconto. Il primo grande messaggio di questa pagina riguarda l’identità di Gesù come pastore che ha fatto della sua vita un dono in relazione con una comunità che raccoglie attorno a sé.

Un secondo messaggio è relativo al ‘conoscere’: il pastore ‘conosce’ le sue pecore, anzi si attua una conoscenza reciproca: ‘conoscere’ indica un coinvolgimento dell’esistenza e la reciprocità propria dell’amore. Non solo il pastore conosce ma anche le pecore conoscono. L’incontro con Gesù apre ad un incontro più grande che è quello tra il Figlio e il Padre: ‘come il Padre conosce me e io conosco il Padre’. Il dono di Gesù nel rapporto con i suoi è comunicazione di amicizia che coinvolge in una storia di relazione: ‘Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamati amici’. La conoscenza tra il Figlio e il Padre è relazione di dono e di accoglienza, reciprocità di vita; così il ‘conoscere’ che lega Gesù a noi è dono di incontro e diventa uno stare in lui. Da questo condividere la sua vita stessa matura una vita orientata a continuare le scelte che sono state le sue.

C’è un terzo messaggio da cogliere. Gesù è pastore che non chiude e pensa agli altri come nemici ma guarda oltre i confini: “ho altre pecore che non di quest’ovile”. Il raduno che Gesù attua supera le barriere di separazione: il suo sguardo raggiunge altre pecore di altri ovili. Il suo dono genera la possibilità di un incontro nuovo tra diversi e lontani. Ma soprattutto la sua cura tende a superare le barriere che dividono gli ovili e si rivolge ad un incontro dove sia possibile la condivisione nella diversità. In Gesù questa larghezza di orizzonti deriva dalla sua libertà: è l’attitudine di chi non pensa la sua vita come privilegio da difendere ma come dono: ‘io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo’.

La bellezza del pastore si rende visibile nella gratuità e nella libertà con cui offre la sua vita e rende così possibile un percorso di incontro e comunione, di reciprocità nell’amore.

Alessandro Cortesi op

In memoria di don Tonino Bello (18 marzo 1935- 20 aprile 1993)

Da un’intervista a don Tonino Bello al ritorno dalla marcia di Sarajevo – dicembre 1992)

“Abbiamo voluto dimostrare al mondo, all’Europa, all’Italia che ci sono segni alternativi alla violenza, si può trattare, si può entrare dove avvengono le guerre anche disarmati. Noi non abbiamo portato nulla né doni né armi. E chi ci voleva bloccare non era la gente che subisce la guerra ma i potenti che la manovrano, quelli che vogliono far credere che la guerra è inevitabile. Certo il nostro è stato davvero un gesto folle. Come è folle la pace, del resto. Al di fuori, cioè, del buon senso. Anche l’amore è aldilà del buon senso, della prudenza, dei reticoli delle nostre saggezze carnali.
Comunque, al di là di questa lucida follia (per i rischi e i pericoli che comportava), siamo felici di aver dato con questa spedizione dei segnali profetici all’Italia e all’Europa. La trattativa è possibile. La guerra è ormai incapace di risolvere i conflitti. Il bisogno di pace sta diventando endemico; la gente non vuol sentirne parlare di violenza armata. Ci è parso poi di aver fatto le prove generali di quelli che saranno eserciti di domani. Pensate al tempo in cui l’ONU si attrezzerà di un esercito di 300-400 mila obiettori di coscienza, esperti di strategie non violente, tecnici della difesa popolare nonviolenta…
Si risolveranno così i conflitti: con strategie preventive e con interventi riparatori nonviolenti! Questo è il futuro che ci aspetta. Questa è la profezia nuova che dobbiamo annunciare”

Nuova pubblicazione: Dante a veglia

E’ appena uscito per i tipi della casa editrice Nerbini di Firenze il volume ‘Dante a veglia’. Il volume contiene contributi di studio di: Francesco Bargellini, Mario Biagioni, Stefano Bindi, Giovanni Capecchi, Alessandro Cortesi, Laura Diafani, Giampaolo Francesconi, Roberta Gentile, Giovanna Frosini

Chi è interessato può fare richiesta a: info@bibliotecadeidomenicani.it.

Qui si può scaricare l’introduzione

e l’indice del volume

III domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è  coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.

E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.

Alessandro Cortesi op

II domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 4,32-35; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

Lo spirito e la pace sono i doni del Cristo risorto.

Negli Atti degli apostoli la vita della prima comunità è descritta, con sottolineatura della condivisione: la fede in Gesù risorto genera una vita di fraternità. Segni ne sono la condivisione dei beni ed una comunanza che parla da sè e attrae: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed un’anima sola”. La vita di questa comunità trova suo centro nella risurrezione di Gesù: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”. La fede nel Signore risorto genera innanzitutto comunione in lui e con gli altri.

Al cuore del vangelo sta una beatitudine rivolta a coloro che, senza vedere, crederanno: “Beati quelli che, pur non avendo visto crederanno”. Il IV vangelo è particolarmente attento a tratteggiare gli itinerari del credere. Tommaso vive la fatica e il dubbio e la sua esperienza diviene simbolo del percorso di ogni discepolo. Il suo cammino è passare da una fede intesa come verifica di evidenze, appoggiata sui segni e sul vedere, ad un credere che si affida alla testimonianza.

Gesù incontrato dai suoi come colui che si pone in mezzo reca due doni: la pace e lo Spirito. E’ il medesimo Gesù  incontrato prima della Pasqua, colui che ha vissuto la sofferenza e la morte. Non è un altro: la gloria della risurrezione è incomprensibile se slegata dalla passione e morte di Gesù che si è chinato a lavare i piedi. Per questo Gesù risorto mostra ai suoi le mani e il costato. E’ proprio lui, il medesimo. Nella risurrezione reca le ferite della passione. Così risponde all’esigenza di Tommaso ma fa cogliere l’identità e la continuità tra la sua esperienza prima della Pasqua e la sua vita nella condizione di risorto. La sua presenza ora non è più come quella di prima: chiede di essere incontrato nella fede, genera una gioia profonda nel cuore: l’incontro con lui sarà vissuto nell’accogliere la missione che egli affida e nel vivere i doni dello Spirito e della pace.

Gesù è quindi il medesimo che ha percorso le strade della Palestina, incontrando i suoi e annunciando il regno di Dio. E’ morto sulla croce. La sua presenza si rende ora vicina in modo nuovo: è il Risorto, che fa entrare i suoi in una nuova comunione con lui.

Ai suoi offre il dono dello Spirito: come sul primo uomo Adamo Dio aveva alitato un soffio di vita (Gn 2,7) così ora Gesù soffia sugli apostoli comunicando lo Spirito: una nuova creazione ha inizio: sulla croce l’ultimo respiro di Gesù era stato una consegna del suo spirito (Gv 19,30).

Lo Spirito è donato con la missione di continuare l’opera di Gesù del perdono: “Come il Padre ha mandato me così anch’io mando voi”: l’invio degli apostoli ha le sue radici nella missione del Figlio da parte del Padre. La missione del Padre che genera l’invio e manda gli apostoli ad essere continuatori dell’opera di salvezza di Cristo.

A conclusione sta un riassunto del vangelo: “Molti altri segni fece Gesù in presenza  dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

Credere è cammino, credere è esperienza di incontro e ogni percorso del credere conduce a condividere una vita donata. Accogliere e trasmettere i doni della pace e dello Spirito è per i credenti è partecipare alla risurrezione e farsene responsabili nella storia.

Alessandro Cortesi op

Domenica di Pasqua – anno B – 2024

Mimmo Paladino – crocifisso

At 10,34.37-43; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

“Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora vivo, trionfa”. L’annuncio della Pasqua è testimonianza che il crocifisso, appeso ad una croce, proprio lui è veramente risorto, ha vinto i lacci della morte e ora vivo apre la strada a tutti coloro che dalla sua morte sono stati liberati, che a lui si affidano nel percorso del credere.

“E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (prima lettura).

Il IV vangelo presenta il mattino di pasqua nel segno del ‘correre’ e del ‘vedere’. Maria di Magdala si reca al sepolcro ‘e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo’. Dopo il suo annuncio inizia una nuova corsa, quella di Simon Pietro e del discepolo che Gesù amava: ‘correvano insieme tutti e due’. E’ quasi una rincorsa dal sepolcro ai discepoli, dai discepoli al sepolcro. Maria vide e corse, Simon Pietro e l’altro discepolo correvano insieme. Giunge per primo il discepolo e vide, ma non entrò. Poi giunse Simon Pietro che ‘entrò nel sepolcro e vide le bende per terra e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non con le bende per terra, ma poggiato in un luogo a parte’. I segni lasciati inducono a pensare non ad un furto, non ad una forzatura peraltro impossibile della grande pietra, ma all’andarsene con calma di chi ha avuto il tempo di lasciare in buon ordine le bende e il sudario piegati; eppure il sepolcro vuoto e i segni non sono la prova della risurrezione. Infine entrò anche il discepolo ‘e vide e credette’.

Il progressivo correre e rincorrere di quella mattina del giorno dopo il sabato segnato dal molteplice vedere, di Maria, di Simon Pietro, del discepolo, si conchiude con un ‘vedere’ particolare: ‘e vide e credette’, un vedere che apre al credere e che penetra i segni per cogliervi il senso profondo: non è il vedere di uno spettatore o di un curioso o di un allibito osservatore, ma di un discepolo coinvolto e partecipe.

E’ un vedere che coinvolge ed è possibile solamente in un contesto di affidamento e di affetto: colui che vide e credette era il discepolo che Gesù amava. Il credere della fede – ci suggerisce il IV vangelo – sgorga laddove è presente uno sguardo capace di andare al di là e al di dentro, lo sguardo proprio dell’amore. Il vedere del discepolo è di tipo diverso dal vedere i medesimi segni sperimentato da Maria e da Simon Pietro: lo sguardo dell’amore precede non solo giungendo prima al sepolcro, ma anche attendendo che giunga Simon Pietro, che sarà posto a pascere le pecore affidate a lui da Gesù (cfr. Gv  21,15-19), e giungendo prima anche nel credere affidandosi. Tuttavia il brano si chiude con una osservazione che rinvia ad un percorso ulteriore del credere: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”.

Il credere che Cristo, il crocifisso, è risorto, conduce ad un nuovo modo di concepire la nostra esistenza, in rapporto con lui: egli ha operato una novità assoluta nella nostra esistenza con la sua risurrezione. E’ l’annuncio di Paolo ai Corinti (seconda lettura): la nostra pasqua, Cristo, è stata immolata. Rinviando alla tradizione della pasqua ebraica, Paolo invita a togliere ogni lievito vecchio, segno di impurità e di malizia. Pasqua è dono di ricominciamenti, nuiovo sguardo sulla vita, speranza oltre ogni speranza.

Alessandro Cortesi op

Una via crucis con il pensiero a Gaza

Vivere oggi la via crucis implica ricordare quanti oggi soffrono per l’oppressione e l’ingiustizia. Una via crucis con il pensiero a Gaza. E’ stata preparata con il gruppo AGESCI Pt3 – Pistoia

qui sotto scaricabile

172° giorno di guerra.
“Tu, mio rifugio, mio scudo! Spero solo in te: non deludere la mia attesa”
(Sal 118, 114. 117)
Signore, non è cessato il fuoco né si è fermata la guerra a Gaza
La Striscia è ancora sotto i bombardamenti, la gente in preda alla morte di chi non
ascolta né le nazioni Unite né la pietà e continua la carneficina.
Giovedì Santo di fame, di sete, di morte.
Gli ospedali, attaccati, assaliti e demoliti, non possono più accogliere per guarire, come
Al-Shifa.
I piccoli e i poveri gridano aiuto ma gli aiuti non vengono fatti passare per chi muore di
stenti.
Per questo gridiamo a te, Signore, salvaci! In questa Settimana Santa di morte, «non
deludere la mia attesa”.
Da chi possiamo aspettare la salvezza se non di te? Tu sei il nostro sostegno, tu sei la
nostra pace. Tu sei il Padre di tutti.
Al più presto agisci tu, o Padre. Porgi la tua mano e ferma la morte e la guerra.
Signore, pietà.
(Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme, 28 Marzo 2024)

Tutte le preghiere di mons. Sabbah sono scaricabili dal sito http://www.bocchescucite.org

Il senso liturgico del triduo pasquale

Sieger Köder, I due di Emmaus

Il triduo pasquale

I riti di queste giornate si compongono di due veglie (giovedì sera e sabato sera/domenica all’alba), della memoria della passione di venerdì, del silenzio del sabato.
 È importante sapere una cosa, che rimane nascosta: sono tre giorni, anche se sembrano quattro. Bisogna contarli come facevano gli antichi, da tramonto a tramonto. 1. Primo giorno del triduo (dal tramonto di giovedì al tramonto di venerdì): con due momenti di preghiera (giovedì sera e venerdì pomeriggio/sera). È la Pasqua rituale (giovedì) e la Pasqua storica (venerdì). 2. Secondo giorno del triduo (dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato): dove la Chiesa tace con il suo Signore che dorme. È la Pasqua escatologica.
 3. Terzo giorno del triduo (dal tramonto del sabato al tramonto della domenica): con la veglia pasquale che lo apre solennemente. È la Pasqua ecclesiale. Ogni giorno del triduo è “festa di Pasqua”. Una festa in tre giorni, che poi diventa di 50 giorni, fino a Pentecoste.

Fin dall’antichità nella notte di Pasqua si celebrano i sacramenti dell’iniziazione cristiana degli adulti, a conclusione di un cammino di maturazione nella fede cristiana (catecumenato). Ma anche per chi ha ricevuto il battesimo da bambino celebrare la pasqua è ritornare alla sorgente della propria identità: con il battesimo siamo stati “immersi” nel mistero pasquale di Gesù, sorgente per noi di vita nuova (Rom 6,1-11) siamo divenuti “nuove creature”. Nelle celebrazioni di questo triduo, siamo invitati a riscoprire le dimensioni della nostra fede in Cristo e, in particolare, approfondire il senso del “sacerdozio comune” che è fondamentalmente testimonianza della vita (LG 10-11): sono giorni in cui accogliere in libertà e responsabilità la missione messianica che abbiamo ricevuto.

Per la partecipazione al sacerdozio di Cristo, propria di tutti i battezzati, celebriamo insieme nell’assemblea ecclesiale. Nella Parola ascoltata e nella preghiera, nei gesti che compiremo, riconsegniamo le nostre esistenze a colui che è il Signore della nostra vita, sapendo che la nostra vita è radicata in Dio, da lui custodita con amore, e stiamo camminando verso un futuro di pienezza di vita, con tutta l’umanità. Il percorso orienta alla celebrazione della veglia pasquale, nella quale ascolteremo le parole della Lettera ai Romani (6,1-11) e proclameremo le promesse battesimali. Il battesimo è il principio e il dono di una partecipazione alla vita di Cristo, seme che deve crescere; il battesimo è dono che attende accoglienza e sviluppo. E’ cammino che si attua nella vita quotidiana.

Nei giorni del triduo vivremo tre passaggi, che corrispondono ad altrettante dimensioni del battesimo: il giovedì santo ci soffermeremo sulla dimensione ecclesiale, il venerdì sulla dimensione cristologica, il sabato e la domenica sulla dimensione escatologica.

Nel battesimo viene riplasmata la nostra identità a partire da un dono di vita in Cristo, con Cristo, per Cristo: il nostro nome, pronunciato alle porte della chiesa davanti alla comunità riunita espressione dell’unicità di ogni persona, è ancora pronunciato al momento dell’immersione nel fonte battesimale unito al nome del Dio Padre, Figlio, Spirito. La nostra identità è configurata e determinata dalla relazione con Gesù Cristo, il profeta del Regno di Dio, con la sua morte e la sua risurrezione, perché, immersi nel mistero della sua morte, rinasciamo a nuova vita (Rom 6,1-11).

Battezzati nella fede della chiesa, diveniamo soggetti che insieme costituiscono il corpo ecclesiale, portatori di una parola unica di esperienza, di vita, di fede; la vocazione cristiana è sempre “con/vocazione”, perché Dio volle salvare e santificare non individualmente ma costituendo un popolo (LG 9): serviamo Dio e l’umanità non da soli, ma insieme.

C’è infine, un’altra dimensione da richiamare: l’identità cristiana di coloro che sono rinati dal fonte è orientata e qualificata da un riferimento al “definitivo” di Dio ormai presente nella storia. In Cristo risuscitato la signoria del Dio della vita (il Regno di Dio, comunione con Dio e tra le persone e i popoli) segna già in modo iniziale la storia dell’umanità; nella fede in Gesù ne diveniamo partecipi in una forma nuova, consapevole e responsabile. Siamo uomini e donne a servizio del Regno di Dio, della sua forza che trasforma e umanizza. Il battezzato vede e vive il mondo «secondo la risurrezione del Crocifisso» (Gustavo Gutierrez).

Abbiamo ricevuto un’identità aperta, tra il già del Regno, che riconosciamo per la fede in Gesù, e il compimento non ancora avvenuto, ma desiderato, sperato, servito da tutti noi; una identità per certi aspetti “completa”, ma “in/compiuta”. Abbiamo ricevuto la nostra identità in dono dai nostri genitori, dalle persone che ci amano e che amiamo, dal dono di grazia di Dio nel battesimo; siamo chiamati ad attuarla fino al compimento del regno di Dio: «così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rom 6,4). E’ una identità di risposta e responsabilità. In Cristo viviamo un “sacerdozio” che non è fatto di riti o di culto nei luoghi e nelle logiche del sacro, della religione, ma è sacerdozio dell’esistenza: diamo culto a Dio donando la nostra vita per amore di tutti, come Gesù «offrendo i nostri corpi come sacrificio santo, gradito a Dio» (Rom 12,1-2). Abbiamo ricevuto e accolto una identità in divenire, di anticipo del Regno e di tensione verso il Regno di Dio nella sua pienezza, che si gioca in quella concreta trama dei rapporti umani che è la nostra, nel tempo e nello spazio delle nostre esistenze, del nostro lavoro, delle nostre scelte economiche e politiche, dei nostri affetti, delle nostre fatiche, delle nostre gioie.

Il Triduo pasquale ci introduce al mistero del Corpo di Cristo che è la Chiesa, ci “inizia” alla pasqua, che si celebra in tre giorni (triduo) e poi in sette volte sette giorni (cinquantina pasquale fino a Pentecoste).

La coscienza della centralità del Triduo pasquale è gradualmente riemersa negli ultimi 70 anni. La Settimana santa per secoli non riconobbe la centralità del Triduo. Anche quando il ‘Sacro Triduo’ venne valorizzato, come nel nuovo Ordo del 1955, esso appariva semplicemente equiparato agli «ultimi tre giorni della quaresima» ed era costituito dal giovedì, venerdì e sabato santo. Cominciava la mattina del giovedì e finiva con i Vespri del sabato, lasciando fuori la domenica di Risurrezione. Solo nel 1969 si giunge alla celebrazione attuale: il Triduo cambia nome (non più Sacro Triduo, ma Triduo pasquale), cambia “logica rituale” e cambia “interpretazione teologica”. La logica rituale considera il Triduo come tre giorni, contando da tramonto a tramonto: dalla Missa in Coena Domini del giovedì sera alla sepoltura la sera del venerdì (primo giorno); dal tramonto del venerdì a quello del sabato (secondo giorno), dalla Veglia pasquale ai Vespri della Domenica di Risurrezione (terzo giorno). Questo porta a una vera conversione sul piano teologico: il Triduo non riguarda più semplicemente la passione o la sepoltura del Signore, ma abbraccia passione morte e risurrezione: è insieme passione e passaggio (passio e transitus). E ogni giorno del triduo è Pasqua. Si esce così dalla tradizione che celebrava “due tridui” – il triduo della Passione e quello della Risurrezione – e si recupera la tradizione antica, che unifica in un solo triduo passione, morte e resurrezione del Signore.

Questa unità di struttura rituale e di interpretazione teologica rilegge il mistero pasquale, integrando la celebrazione ecclesiale nel mistero stesso. La pasqua rituale e la pasqua storica – ossia il rito della Cena e la morte in croce – con la pasqua escatologica del “sepolcro pieno” si compiono nella pasqua ecclesiale: come diceva s. Agostino il passaggio di Cristo (transitus Christi) si compie e si rinnova nel passaggio dei cristiani (transitus christianorum). La comunità celebrante è parte integrante del mistero celebrato: con il Signore risorge anche la sua Chiesa, che raccoglie il Triduo tra l’ultima cena con Gesù e la prima eucaristia con il Signore.

Nello svolgimento dei riti deve emergere questa triplice dimensione: recupero rituale dell’evento storico della cena-croce, comunione con i defunti e con il Cristo morto che libera dalla morte, evento ecclesiale del sepolcro vuoto e della risurrezione – battesimo della Chiesa con il suo Signore.

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Riporto qui di seguito una riflessione di Morena Baldacci sul silenzio del venerdì e del sabato santo (tratto da https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2018/04/il-silenzio-del-venerdi-santo-e-del.html)

Il silenzio del Venerdì Santo e del Sabato Santo

Morena Baldacci 

Il silenzio del Venerdì Santo e del Sabato Santo (Gennaio 2018)

«Era come agnello condotto al macello; maltrattato, non aprì bocca» (Is 53,7)

La liturgia del Triduo si apre e si chiude in silenzio. Nella Messa in Coena Domini, terminati i riti di comunione l’assemblea non è congedata, ma è invitata a sostare in silenzio e adorazione; la liturgia del Venerdì della Passione inizia con la solenne precessione silenziosa e la prostrazione; anche questa liturgia non conosce congedo, ma si prolunga nell’adorazione della Croce lungo tutto il giorno del Sabato Santo. Il Sabato santo, infine, è il giorno del “grande silenzio”, un giorno a-liturgico, cioè privo di celebrazioni (ad eccezione della preghiera dell’Ufficio delle letture e delle Lodi) in attesa della grande e solenne Veglia Pasquale nella Notte santa. A partire dall’ultimo rintocco delle campane della Messa della Cena del Signore fino al crepitìo del fuoco nella Veglia santa, tutto ammutisce.

Il silenzio dunque apre il tempo della Passione fino a schiuderlo con un grido: Luce di Cristo nella solenne veglia Pasquale. Dal silenzio sgorga il canto nuovo, grido di gioia che squarcia le tenebre del peccato e della morte e annuncia una grande gioia: Cristo è veramente risorto. Alleluia! Il silenzio dunque, come una grande inclusione, apre e chiude, annodando insieme, tutta la liturgia del Triduo pasquale.

Il silenzio del Venerdì e del Sabato è parte stessa della celebrazione del Triduo Pasquale e ha i suoi riti, tempi, spazi, gesti e significati. Non un mesto sentimento di tristezza e di lutto, ma l’espressione di una grande trepidazione e attesa. È il silenzio faticoso del seme che marcisce sotto terra, che l’uomo non vede e non sente crescere, ma che invoca fiducia e speranza. Come nel settimo giorno Dio riposò dalla sua opera, così nel settimo giorno anche Cristo riposa nel grembo della terra. Nel grembo freddo di un sepolcro il seme cade e si nasconde in attesa che la spiga germogli. È l’attesa della vita che cresce e si sviluppa nel silenzio del grembo per prorompere alla vita con un grido pieno di forza e di vita nuova.

Alcuni riti, in particolare, danno voce al silenzio del Venerdì e del Sabato santo:

a. La spogliazione dell’altare

b. La processione di ingresso del Venerdì santo

c. Il Sabato Santo

a) La spogliazione dell’altare

Così ci ricorda la lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, Paschalis Sollemnitatis: Terminata la messa viene spogliato l’altare della celebrazione. È bene coprire le croci della chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della domenica V di Quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle immagini dei santi” (n. 57).

Poche e sobrie parole che ci invitano a compiere un gesto suggestivo e toccante: “spogliare l’altare”. La spogliazione ci ricorda la Passione del Signore, il suo essere denudato, oltraggiato, deriso, umiliato. L’altare, simbolo di Cristo stesso, come il suo stesso corpo viene denudato dai suoi ornamenti: le luci, la croce, i fiori, la tovaglia. Così canta la preghiera di dedicazione dell’Altare: Questa pietra preziosa ed eletta sia per noi il segno di Cristo dal cui fianco squarciato scaturirono l’acqua e il sangue fonte dei sacramenti della Chiesa. Il rito della spogliazione dell’altare andrebbe ritualizzata con una liturgia semplice e al tempo stesso solenne. Qui il silenzio non solo deve impregnare ed imporsi sulle voci e sui rumori, ma dovrebbe poter “parlare” anche attraverso la dignità dei ministri, degli oggetti, dei luoghi e degli arredi.

b) La processione silenziosa e la prostrazione

Come abbiamo già ricordato, la liturgia della Passione del Signore inizia in silenzio. Un silenzio rituale che accompagna la processione dei ministri e culmina nella prostrazione ai piedi dell’Altare. Così ricordano le norme sulle celebrazioni delle feste pasquali: “il rito inizia con l’entrata silenziosa e la prostrazione del presidente, senza canto di ingresso e senza il saluto; quel silenzio diventa un gesto simbolico molto eloquente: «tale prostrazione, come rito proprio di questo giorno, si conservi con cura, per il significato che assume di un’umiliazione dell’«uomo terreno» e della mestizia dolorosa della Chiesa. Durante l’ingresso dei ministri i fedeli rimangono in piedi. Quindi anche loro si inginocchiano e pregano in silenzio». (Congregazione per il Culto Divino, Paschalis Sollemnitatis, 65). Questo rito, essenziale e solenne, domanda una buona arte celebrativa: un incedere solenne, una dignità del passo, dell’inchino e della prostrazione. Senza farsi tentare da inutili enfatizzazioni, la bellezza di questo rito è eloquente, si richiede solo di evitare frettolosità e inutili e inopportune parole di monizioni e didascalie.

c) Infine, il giorno del Sabato Santo è per la Chiesa un giorno di attesa nel silenzio e nel riposo. Così infatti sottolinea la lettera circolare Paschalis sollemnitatis: “Il Sabato Santo la Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua passione e morte, la discesa agli inferi e aspettando nella preghiera e nel digiuno la sua risurrezione”. La particolarità di questo giorno, infatti, è quella di non prevedere alcun rito, ma solo un grande “vuoto” di silenzio e di attesa, celebrazione di un “tempo sospeso”: «In questo giorno così silenzioso ma così carico di attesa si consuma un intervallo misterioso: è un tempo senza alleanza, riservato esclusivamente all’azione invisibile di Dio. Questo intervallo contiene la mancanza di parola, che va dalla consegna dello Spirito sulla Croce da parte di Gesù fino alla sua presenza gloriosa nella luce della Pasqua» (E. Menichelli, La discesa agli inferi).” Il consiglio, dunque, è quello di resistere alla tentazione di riempire questo tempo, ma al tempo stesso custodirlo da frenetiche attività di preparazione per le celebrazioni serali. Vi sono tuttavia in alcuni luoghi tradizioni che potrebbero essere valorizzate, come ad esempio l’Ora della Madre.

Un silenzio di brace

Cosa rivela il silenzio del Venerdì e del Sabato Santo? È invito a vivere e celebrare lo stesso silenzio di Gesù nella sua passione, morte e discesa agli inferi. Il maestoso silenzio di Gesù che domina sulla banalità di fronte a Erode (Lc. 23,8-11) che lo interroga “con molte domande” e a cui Gesù non risponde. Se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà: una parola sospesa in attesa del suo compimento perché il giusto ha posto interamente la sua fiducia nel Signore.

Con le parole di don Angelo Casati, vogliamo ringraziare Gesù per il dono del suo silenzio:

Ringrazio Gesù di essere passato in questo silenzio, il silenzio di Dio nella sua morte. Il passaggio della morte è doloroso, come è doloroso il passaggio stretto in parete per chi adora le vette: ti è chiesto di rimpicciolirti per sgusciare tra roccia e roccia, fino a scorticarti, pelle e braccia e mani, fino a sentirtele bruciare. Ma poi sei fuori, sei nell’immensità della vetta. Ebbene mi dà coraggio sapere che sono in cordata e che lui, lui il primo, Gesù, non perde, tiene avvinghiata a sé la fune, lui è di quelli che non vogliono perdere nessuno. A volte anche lo ringrazio perché non si è risparmiato in parete, lui, Gesù. Non è planato sulla vetta dall’alto, ha sudato e tremato nel giardino, è morto in un grido. E’ morto nel silenzio, il silenzio di Dio. Morto in un grido, che era di dolore, ma non di terrore. Lo ringrazio di non essere andato incontro alla morte con fare spavaldo, da eroe, ma come uno di noi. Come uno povero. Come me. Lo sentirò fino all’estremo compagno di cammino e di scalate. Compagno anche del turbamento del cuore: “Ora l’anima mia è turbata” (Gv 12, 27): disse nell’ora in cui, braccato, sentiva che il cerchio stava per chiudersi in una morte di croce.

Ma il silenzio della croce, lui ce l’ha ricordato, non era silenzio morto, silenzio senza futuro. Era silenzio di attesa. Era il silenzio del seme nella terra. Non era spegnimento. Era brace.

Come brace di fuoco

sotto coltre

pesante d ceneri,

come chicco di grano

in terra nera

il tuo corpo a riposo

nell’ombra stupita

di una grotta.

E pietra e soldati

a presidiare la morte.

E che sia morto per sempre.

E fu triduo di silenzio.

E noi a contare

con te giorni di silenzio,

l’angoscia del nulla,

il peso del fallimento,

la tomba sigillata,

il tuo silenzio, o Dio.

Arde nel silenzio

come brace il tuo corpo

sfioriamo a mani sospese

le ceneri.

Ascoltiamo il tepore:

sarà fuoco

sarà vento della risurrezione.

Domenica delle Palme e della Passione del Signore – anno B – 2024

Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

Nel racconto della passione che Marco riprende da una antica narrazione a lui precedente Gesù è presentato nel far progressivamente emergere i tratti più autentici della sua vita. “Principio del vangelo di Gesù Cristo figlio di Dio”: così era iniziato il racconto. L’intero vangelo, è ‘bella notizia’ dell’annuncio del regno portato da Gesù. Ma insieme è anche ‘bella notizia’ di Gesù stesso: Marco lo indica come il messia atteso (‘figlio di Dio’ – titolo del re messia nel Salmo 2,7). Tuttavia nel corso della narrazione quando qualcuno indicava l’identità di Gesù gli veniva imposto di tacere. Marco è ben consapevole dei rischi di un’immagine falsata di Gesù: anche se viene proclamato messia non viene compresa la sua via e tanto meno è seguita. Al cuore del racconto della passione sta la questione del suo autentico volto e della sequela degli autentici discepoli.

Gesù è ritratto da Marco nel momento dell’angoscia, in preda allo sfinimento di fronte al male. Vive una progressiva solitudine anche da parte dei suoi più vicini “Tutti allora abbandonatolo, fuggirono” (14,50). Nell’orto degli ulivi provando paura si affida all’Abbà. Così sta in silenzio di fronte al sommo sacerdote e davanti a Pilato. Secondo la logica umana le vie da perseguire sono quelle della potenza e della violenza; Gesù invece sta inerme davanti al sommo sacerdote e afferma in modo paradossale la pretesa di essere lui il Figlio dell’uomo, figura del giudice degli ultimi tempi (cfr. Dan 7).

Marco riferisce la debolezza di Gesù, il suo arrendersi nella fatica: non riesce a portare il trave della croce al punto che un certo Simone di Cirene che tornava dai campi fu costretto a portarlo (14,21). E sotto la croce la gente diceva: “ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo” (14,32-33). Gesù è deriso come incapace di dare salvezza. Il suo volto è quello del messia umiliato e torturato: e non scende dalla croce. Sulla croce si rivolge al Padre con le parole iniziali del salmo 22,2: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, espressione della sua solitudine e dell’abbandono del giusto che soffre. Il salmo 22 si conclude in una invocazione di affidamento a Dio che non abbandona il giusto suo servo. Marco delinea i tratti di un messia che sperimenta la debolezza e attua la sua missione nel fare della sua vita un dono di sé fino alla fine, come colui che affida al Padre la sua causa.

Al momento della morte di Gesù Marco annota due particolari: il centurione pagano indica l’identità di Gesù senza essere messo a tacere: “veramente quest’uomo era figlio di Dio”. E’ un pagano, lontano dalla legge e dalle osservanze, colui che riconosce il volto del messia nel crocifisso ed esprime l’attitudine del discepolo. E’ un messia diverso: non della violenza ma del servizio non della forza ma del dono. Gesù l’aveva indicato nei segni dell’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (14,24).

La sua morte dal punto di vista storico è l’esito di un complotto dei capi del potere politico e religioso, ma nel modo in cui Gesù la affronta e la vive è fedeltà radicale all’annuncio del regno, e affidamento all’Abbà.

Nel momento della sua morte ‘il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso’. Marco indica un simbolo: si apre il velo. Ogni barriera tra Dio e l’umanità è aperta. Per  tutti si rende possibile scorgere nel condannato della croce il volto del Figlio amato (cfr Mc 1,11; 9,7). La morte di Gesù manifesta il volto di un messia che apre ad un rapporto nuovo con Dio. Gesù si rende solidale con tutti i crocifissi della storia e indica nei volti di chi soffre e di chi è oppresso il luogo in cui incontrare Dio stesso.

Alessandro Cortesi op

V domenica Quaresima anno B – 2024

Ger 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

Il libro della consolazione di Geremia rinvia ad una alleanza nuova scritta nel profondo del cuore: sarà compimento della promessa e del dono di Jahwè ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20,1): “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo”. Quella reciproca appartenenza, nucleo profondo dell’alleanza, sarà una realtà nuova interiore che trasformerà l’intimo dei cuori.

La pagina della lettera agli Ebrei conduce a vedere in Cristo il Figlio che imparò l’obbedienza dalle cose che patì e in lui si compie l’alleanza promessa: “reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.” Cristo una volta per tutte si è offerto con un atto di amore definitivo per noi. In lui si compie l’alleanza definitiva.

La lettera guarda a Gesù Cristo che nella passione ‘offrì preghiere con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà’. La via seguita da Cristo è quella della fedeltà al Padre e questi l’ha esaudito non perché l’ha liberato dalla passione e dalla morte ma perché lo ha sostenuto nella fedeltà alla testimonianza dell’amore: il mistero di Dio è infatti l’amore debole e inerme che si dà fino alla fine. La salvezza per noi ha la sua origine nel dono di amore di Gesù.

‘Vogliamo vedere Gesù’ è il desiderio di qualcuno che s’interroga su di lui. Nel IV vangelo il termine ‘vedere’ è utilizzato per indicare una attitudine a cogliere la dimensione profonda degli eventi ed il loro significato. ‘Vogliamo vedere Gesù’ è la domanda della comunità giovannea che esprime la tensione a cogliere il mistero profondo dell’identità di Gesù. A questo punto è riportato un discorso di Gesù che parla di  glorificazione e di morte nel contempo: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto per terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto.”

L’ora è momento decisivo in cui si fa chiaro il senso della sua esistenza: Gesù come Figlio obbediente (in ascolto) si consegna al Padre e intende la sua vita a sua vita come seme gettato. Consegnato nel tradimento, in realtà egli stesso liberamente si consegna. E nel suo morire genera una fecondità nuova. La gloria di Gesù si rivela nel dono della sua vita e nell’amore sulla croce.  “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”. Per il IV vangelo l’ora di Gesù è l’ora della croce: in quel momento tutti volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto; è anche l’ora in cui, innalzato da terra, Gesù attira tutti a sé. L’ora di Gesù non è un momento cronologico, ma un tempo che anticipa ogni futuro e attua una rivelazione. Fa vedere infatti la profondità dell’amore di Dio per l’umanità.

Gesù apre la strada a coloro che lo hanno seguito. Quest’ora è avvertita in modo drammatico: Gesù vive paura ed angoscia di fronte a quest’ora ed invoca ‘Padre glorifica il tuo nome’. Il Padre è coinvolto e presente nell’ora di Gesù, e conferma la via che Gesù sta seguendo.

Il IV vangelo indica sulla croce il rivelarsi della ‘gloria’ di Dio, l’ora in cui si manifesta l’amore senza limiti del Padre che Gesù ha testimoniato ‘fino al segno supremo’: il Figlio rende visibile il volto del Padre  (cfr Gv 1,18). Coloro che hanno visto la sua ‘gloria’ sono chiamati a vivere come lui, come chicco di grano caduto sulla terra.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Quaresima – anno B – 2024

2Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

E’ la domenica segnata da un invito alla gioia per il dono di salvezza, la grande opera di Dio  che apre a scelte di opere attuate nella luce.

La prima lettura presenta quasi una sintesi del cammino di alleanza, il continuo riproporsi del dono di incontro da parte di Dio per mezzo dell’invio dei profeti: “Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri…” (2Cr 36,15-16). Ma questi inviati spesso hanno trovato l’indifferenza, il rifiuto, e l’atteggiamento ostile di chi non voleva ascoltare la loro parola. L’amara conclusione pone l’assenza di orizzonti nello scoppio dell’ira di Dio.

Eppure si presenta un rinnovato gesto di fedeltà inatteso, proveniente da Dio che sceglie un re pagano, Ciro di Persia per liberare Israele dall’esilio. Nel 538 a.C. infatti si aprì al popolo d’Israele la possibilità del ritorno nella terra di Canaan dopo l’esilio a Babilonia (cfr. 2Cr 36,22-23). Le vie di Dio passano attraverso l’opera di un imperatore pagano che apre percorsi di liberazione e di giustizia

Nel quadro del dialogo tra Gesù e Nicodemo, maestro ebreo e conoscitore dele Scritture, è presentata la medesima contrapposizione tra l’agire fedele di Dio e il dramma che si compie nella storia: si tratta di una crisi, ossia momento di una scelta. Un giudizio si svolge nel cuore di quanti si trovano di fronte a Gesù, di fronte alla sua pretesa di credere in lui: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”

Gesù rende vicino il Dio che ama il mondo. Non viene per compiere un giudizio od un castigo. La questione di fondo è la scelta. Sta qui un appello alla responsabilità umana di fronte a Gesù. La sua presenza non lascia indifferenti, la sua parola e il suo agire sono provocazione ad una decisione davanti a lui. E’ la crisi della scelta tra luce e tenebre. Si può scegliere di porre la vita secondo orizzonti di luce oppure attuare opere di tenebre: “la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno scelto le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Il IV vangelo pone chiaramente la necessità di una scelta davanti a Gesù. Credere in lui implica  un movimento del cuore e della vita: è orientamento della propria esistenza nell’affidarsi. Andare verso di lui porta ad avere in lui la vita eterna: è una comunione che apre al rapporto vivo per sempre con Dio. L’immagine proposta da Gesù è quella dell’innalzamento: nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al serpente posto in alto sull’asta da Mosè (Num 21,4-9) per trovare guarigione e salvezza. Gesù indica una rinascita possibile, che deve compiersi dall’alto e di nuovo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Gesù verrà innalzato, quando sulla croce è posto su di una posizione più alta di tutti gli altri. Umanamente quello è il segno dell’ignominia, è il fallimento; ma lì Gesù manifesta il limite estremo a cui arriva l’amore del Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Il Figlio in quel momento rivela davanti al mondo la gloria di Dio. Gesù sulla croce pone un inevitabile interrogativo a tutti coloro che lo guardano: è possibile vivere le opere della luce, un orientamento della vita nella luce che implica un affidarsi a lui, al suo percorso di dono e di gratuità, oppure attuare le opere delle tenebre, scelte di morte e di egoismo. E’ questo il giudizio che si compie. Si parla di opere: è sempre possibile attuare scelte di luce attuando un cambiamento pe passare dalle tenebre, scelte di male e violenza a scelte di vita.  

Alessandro Cortesi op

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