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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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V domenica di Pasqua – anno B 2024

At 9,26-31; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

L’immagine della vigna è familiare ad Israele ed alla Bibbia; l’ulivo con la vite è parte del panorama mediterraneo.

La vigna ritorna tante volte nei testi biblici: è segno del popolo d’Israele che Dio guarda con cura appassionata. E’ segno di promessa e benevolenza. D’altro lato parla di infedeltà, di dimenticanza e di durezza di cuore.

Anche nel IV vangelo la vite è immagine ripresa nei discorsi dell’ultima cena: attorno ad essa è tessuto il secondo discorso di addio di Gesù ai capp. 15 e 16, che succede in modo un po’ problematico al primo discorso che occupa i capp. 13 e 14 perché questo termina con le parole: ‘Alzatevi, andiamo via di qui’ (Gv 14,31). Il riferimento alla vite si può accostare alla benedizione  sul vino, uno dei momenti del rito della pasqua ebraica. In tale contesto il richiamo alla vigna con le sue valenze di dolcezza e cura ma anche di drammatica infedeltà e giudizio, è ripresa. Gesù dice: ‘Io sono la vera vite’ e la vite diventa uno degli elementi che compare in una di queste formule ‘Io sono’ che il IV vangelo usa per indicare l’identità di Gesù.

La vite passa da essere rinvio ad Israele ad indicare la presenza stessa di Gesù: la vera vite è lui. Nella metafora si può cogliere la sua vicenda personale ma anche la dimensione comunitaria, la comunicazione di vita che da lui proviene. In lui si compie la cura e la fedeltà colma di affetto del Padre che la vite come simbolo racchiudeva. Ancora è lui che porta quei frutti che il Padre si attendeva: frutti di misericordia. Sono giunti allora in lui i tempi ultimi.

Ma nelle parole di Gesù questa identificazione della vite con la sua persona si apre anche ad un altro aspetto: in lui si compie una comunicazione nuova, una comunione di vita. Tutti coloro che a lui sono uniti e traggono la linfa che da lui proviene sono colore che credono nel suo nome: sono tralci viventi della sua stessa vita e potranno portare frutto in questo legame.

‘Rimanete in me’ è l’invito ripetuto più volte in questa pagina: all’inizio del IV vangelo alla domanda di Gesù ‘Che cosa cercate?’ i discepoli lo seguirono e ‘rimasero’ presso di lui lui (Gv 1,39). Il verbo ‘rimanere’ dice una familiarità di vita, un legame di amicizia, una intimità di condivisione. L’offerta di amicizia di Gesù ai suoi genera una reciprocità: i tralci rimangono nella vite ma è anche Gesù che rimane nei suoi e sta qui la possibilità di portare frutto.

L’essere discepoli di Cristo si attua nei frutti che esprimono lo stile della sua presenza e il senso della sua vita. Gli stessi tralci non vivono da soli, distaccati gli uni dagli altri, ma insieme: Gesù propone ai suoi un ‘rimanere’ che implica accogliere e vivere come comunità. Motivazione e forza dello stare insieme sta nella forza di vita che da lui proviene. “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è  coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.

E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.

Alessandro Cortesi op

Domenica delle Palme e della Passione del Signore – anno B – 2024

Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

Nel racconto della passione che Marco riprende da una antica narrazione a lui precedente Gesù è presentato nel far progressivamente emergere i tratti più autentici della sua vita. “Principio del vangelo di Gesù Cristo figlio di Dio”: così era iniziato il racconto. L’intero vangelo, è ‘bella notizia’ dell’annuncio del regno portato da Gesù. Ma insieme è anche ‘bella notizia’ di Gesù stesso: Marco lo indica come il messia atteso (‘figlio di Dio’ – titolo del re messia nel Salmo 2,7). Tuttavia nel corso della narrazione quando qualcuno indicava l’identità di Gesù gli veniva imposto di tacere. Marco è ben consapevole dei rischi di un’immagine falsata di Gesù: anche se viene proclamato messia non viene compresa la sua via e tanto meno è seguita. Al cuore del racconto della passione sta la questione del suo autentico volto e della sequela degli autentici discepoli.

Gesù è ritratto da Marco nel momento dell’angoscia, in preda allo sfinimento di fronte al male. Vive una progressiva solitudine anche da parte dei suoi più vicini “Tutti allora abbandonatolo, fuggirono” (14,50). Nell’orto degli ulivi provando paura si affida all’Abbà. Così sta in silenzio di fronte al sommo sacerdote e davanti a Pilato. Secondo la logica umana le vie da perseguire sono quelle della potenza e della violenza; Gesù invece sta inerme davanti al sommo sacerdote e afferma in modo paradossale la pretesa di essere lui il Figlio dell’uomo, figura del giudice degli ultimi tempi (cfr. Dan 7).

Marco riferisce la debolezza di Gesù, il suo arrendersi nella fatica: non riesce a portare il trave della croce al punto che un certo Simone di Cirene che tornava dai campi fu costretto a portarlo (14,21). E sotto la croce la gente diceva: “ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo” (14,32-33). Gesù è deriso come incapace di dare salvezza. Il suo volto è quello del messia umiliato e torturato: e non scende dalla croce. Sulla croce si rivolge al Padre con le parole iniziali del salmo 22,2: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, espressione della sua solitudine e dell’abbandono del giusto che soffre. Il salmo 22 si conclude in una invocazione di affidamento a Dio che non abbandona il giusto suo servo. Marco delinea i tratti di un messia che sperimenta la debolezza e attua la sua missione nel fare della sua vita un dono di sé fino alla fine, come colui che affida al Padre la sua causa.

Al momento della morte di Gesù Marco annota due particolari: il centurione pagano indica l’identità di Gesù senza essere messo a tacere: “veramente quest’uomo era figlio di Dio”. E’ un pagano, lontano dalla legge e dalle osservanze, colui che riconosce il volto del messia nel crocifisso ed esprime l’attitudine del discepolo. E’ un messia diverso: non della violenza ma del servizio non della forza ma del dono. Gesù l’aveva indicato nei segni dell’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (14,24).

La sua morte dal punto di vista storico è l’esito di un complotto dei capi del potere politico e religioso, ma nel modo in cui Gesù la affronta e la vive è fedeltà radicale all’annuncio del regno, e affidamento all’Abbà.

Nel momento della sua morte ‘il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso’. Marco indica un simbolo: si apre il velo. Ogni barriera tra Dio e l’umanità è aperta. Per  tutti si rende possibile scorgere nel condannato della croce il volto del Figlio amato (cfr Mc 1,11; 9,7). La morte di Gesù manifesta il volto di un messia che apre ad un rapporto nuovo con Dio. Gesù si rende solidale con tutti i crocifissi della storia e indica nei volti di chi soffre e di chi è oppresso il luogo in cui incontrare Dio stesso.

Alessandro Cortesi op

V domenica Quaresima anno B – 2024

Ger 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

Il libro della consolazione di Geremia rinvia ad una alleanza nuova scritta nel profondo del cuore: sarà compimento della promessa e del dono di Jahwè ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20,1): “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo”. Quella reciproca appartenenza, nucleo profondo dell’alleanza, sarà una realtà nuova interiore che trasformerà l’intimo dei cuori.

La pagina della lettera agli Ebrei conduce a vedere in Cristo il Figlio che imparò l’obbedienza dalle cose che patì e in lui si compie l’alleanza promessa: “reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.” Cristo una volta per tutte si è offerto con un atto di amore definitivo per noi. In lui si compie l’alleanza definitiva.

La lettera guarda a Gesù Cristo che nella passione ‘offrì preghiere con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà’. La via seguita da Cristo è quella della fedeltà al Padre e questi l’ha esaudito non perché l’ha liberato dalla passione e dalla morte ma perché lo ha sostenuto nella fedeltà alla testimonianza dell’amore: il mistero di Dio è infatti l’amore debole e inerme che si dà fino alla fine. La salvezza per noi ha la sua origine nel dono di amore di Gesù.

‘Vogliamo vedere Gesù’ è il desiderio di qualcuno che s’interroga su di lui. Nel IV vangelo il termine ‘vedere’ è utilizzato per indicare una attitudine a cogliere la dimensione profonda degli eventi ed il loro significato. ‘Vogliamo vedere Gesù’ è la domanda della comunità giovannea che esprime la tensione a cogliere il mistero profondo dell’identità di Gesù. A questo punto è riportato un discorso di Gesù che parla di  glorificazione e di morte nel contempo: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto per terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto.”

L’ora è momento decisivo in cui si fa chiaro il senso della sua esistenza: Gesù come Figlio obbediente (in ascolto) si consegna al Padre e intende la sua vita a sua vita come seme gettato. Consegnato nel tradimento, in realtà egli stesso liberamente si consegna. E nel suo morire genera una fecondità nuova. La gloria di Gesù si rivela nel dono della sua vita e nell’amore sulla croce.  “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”. Per il IV vangelo l’ora di Gesù è l’ora della croce: in quel momento tutti volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto; è anche l’ora in cui, innalzato da terra, Gesù attira tutti a sé. L’ora di Gesù non è un momento cronologico, ma un tempo che anticipa ogni futuro e attua una rivelazione. Fa vedere infatti la profondità dell’amore di Dio per l’umanità.

Gesù apre la strada a coloro che lo hanno seguito. Quest’ora è avvertita in modo drammatico: Gesù vive paura ed angoscia di fronte a quest’ora ed invoca ‘Padre glorifica il tuo nome’. Il Padre è coinvolto e presente nell’ora di Gesù, e conferma la via che Gesù sta seguendo.

Il IV vangelo indica sulla croce il rivelarsi della ‘gloria’ di Dio, l’ora in cui si manifesta l’amore senza limiti del Padre che Gesù ha testimoniato ‘fino al segno supremo’: il Figlio rende visibile il volto del Padre  (cfr Gv 1,18). Coloro che hanno visto la sua ‘gloria’ sono chiamati a vivere come lui, come chicco di grano caduto sulla terra.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno B – 2024

Es 20,1-17; 1 Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

Dopo l’alleanza con Noè e la pagina della promessa ad Abramo la terza domenica di quaresima accompagna a sostare sul dono della legge di Mosè. Le dieci parole della legge acquisiscono il loro significato dalla prima parola, loro inizio e fondamento: “Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto”. La parola di Dio che dice appartenenza e legame sorge dal dono di una relazione vivente, da una promessa di vicinanza e fedeltà. Il Dio dell’alleanza avrà per sempre il tratto del liberatore, colui che è sceso ascoltando il grido della sofferenza per trarre fuori Israele dalla schiavitù. La legge  si fa declinazione di una parola di alleanza e cura. Diviene indicazione di una via su cui Israele è chiamato a camminare per essere tra i popoli testimone del Dio liberatore e per trasmettere ad altri il dono della liberazione.

“Si avvicinava intanto la pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme” (Gv 2,13). Il gesto di Gesù della cacciata dei venditori dal tempio è posto dal IV vangelo nel quadro della Pasqua agli inizi della sua attività pubblica. A differenza dei vangeli sinottici che lo pongono poco prima degli ultimi giorni a Gerusalemme ancora in rapporto all’arresto alla condanna e alla passione e morte.

Il gesto di Gesù non è solamente una critica ad un modo di vivere la religione che riduce il luogo del tempio segno della presenza di Dio, ad un mercato. Gesù critica come i profeti  lo snaturamento del vero culto di cui il tempio era segno e che egli stesso riconosceva. Questo suo gesto – vicino alla Pasqua – assume anche una valenza di profezia. Gesù viene ad indicare la fine della ricerca di un culto a Dio nel tempio. Il suo corpo, la sua vita è ‘tempio’. Il culto a cui egli richiama non è risolvibile in gesti di offerta e di devozione, ma è coinvolge la vita, implica un guardare al suo corpo di torturato del Golgota, che s’identifica con tutti i torturati della storia. Il tempio, luogo d’incontro con Dio, è da scorgere nella sua umanità che si lega ad ogni volto di vittima e oppresso. E la grade questione che attraversa il IV vangelo è la provocazione ad un nuovo rapporto con Dio: è un nuovo culto che non si pone come sostituzione di un altro ma chiede una attitudine in spirito e verità (cfr. Gv 4,21-24). Non più su un tempio o un altro Dio cerca i suoi adoratori. “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono  che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”.

L’intero IV vangelo conduce il lettore in un cammino del ‘credere’: il segno del tempio rinvia alla persona di Gesù  si fa invito ad incontrare il Padre in spirito e verità. Sul volto del crocifisso si può scorgere la gloria di Dio, la rivelazione dell’amore.

La quaresima è cammino che guida ad accogliere Gesù Cristo potenza e sapienza di Dio.

Alessandro Cortesi op

II domenica di Quaresima – anno B – 2024

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Rm 8,31-34; Mc 9,2-10

L’intera quaresima, i quaranta giorni, è cammino orientato alla Pasqua, tempo per coltivare una disponibilità interiore al ascoltare Gesù come Figlio che conduce ad incontrare l’amore del Padre.

Al centro della liturgia della Parola di questa domenica è la narrazione dell’esperienza vissuta dagli apostoli con Gesù sul monte: è un racconto di luce e di incontro che va letto nel punto particolare in cui Marco lo colloca nel suo vangelo. Viene infatti subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea (8,29). Pietro aveva riconosciuto in Gesù il volto del messia atteso (cfr. Mc 8,27-33): ma la via del messia che Gesù propone a Pietro è lontana da attese e orizzonti di potere. Pietro viene rimproverato perché attende da Gesù un messia del dominio, capace di affermazione e di violenza e Gesù invece si situa in un altra linea. Inizia infatti a annunciare che la sua via sarà segnata da sofferenza e ingiusta ostilità e condanna. Da allora inizia a insegnare che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire. In questo cammino l’episodio sul monte è segno di speranza. I discepoli nella luce del Tabor ricevono un annuncio per affrontare lo scandalo della croce: la via che Gesù sta percorrendo non è senza senso e non è buio ma in essa si racchiude un orizzonte di luce e di gloria.

“Gesù fu trasfigurato”: il verbo al passivo suggerisce che Dio stesso è il soggetto di quanto si compie in Gesù. L’esperienza indicibile viene descritta con il linguaggio della luce e dello splendore. Marco è attento a non far pensare alla metamorfosi degli dèi, ben conosciuta in ambito romano. Narra invece di vesti splendenti e bianche, come nessun lavandaio potrebbe renderle, segno di vicinanza unica a Dio. E Gesù sul monte è accompagnato dai tre discepoli che saranno con lui anche nell’orto del Getsemani (Mc 14,33). Con questo particolare Marco suggerisce un collegamento tra questo momento di luce e la passione di Gesù. Così anche la presenza di Mosè e di Elia, profeti di cui si attendeva il ritorno negli ultimi tempi è segno di un momento in cui passato presente e futuro si uniscono. Per comprendere Gesù si deve entrare nella storia di alleanza di cui Mosè e Elia sono i paradigmi.

Di fronte allo splendore i discepoli sono presi dallo spavento.  è timore di fronte al rivelarsi dell’identità di Gesù. Pietro propone di fare tre tende – con allusione alla festa ebraica delle capanne festa che anticipa il riposo della fine dei tempi -. Ma non è questo il momento della gioia e del riposo, è invece questo il tempo dell’ascolto. Inoltre la tenda rinvia al luogo della dimora: ora la dimora è la stessa umanità di Gesù, è lui la nostra casa.

La nube che avvolge nell’ombra, evocazione della presenza di Dio nella tradizione dell’Esodo (Es 16,10;24,18) lascia spazio ad un’altra voce: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo”. La voce, come al momento del battesimo al Giordano, esprime il mistero dell’identità di Gesù, il Figlio, l’amatissimo: la voce è rivolta non solo a Gesù ma ai discepoli ed invita all’ascolto di lui (cfr. Dt 18,15).

Come sull’Oreb Dio aveva manifestato a Mosè la sua identità donando l’alleanza ora su un monte alto Gesù viene indicato come ‘il Figlio’. La voce nella nube richiama solo all’ascolto di lui. I discepoli sono chiamati a rivolgersi a lui solo e ad ascoltarlo lasciandosi coinvolgere nel suo cammino. Sul volto del servo sofferente che va verso Gerusalemme emergono i tratti del Figlio amatissimo, che rivela le profondità dell’amore del Padre. Sul monte l’esperienza dei discepoli apre al mistero dell’amore di Dio vicino e diviene appello a lasciarsi illuminare dall’incontro con lui: Ascoltatelo.

Alessandro Cortesi op

V domenica tempo ordinario anno B – 2024

Gb 7,1-4.6-7; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39

“Gesù, uscito dalla sinagoga, si recò subito in casa di Simone e Andrea. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei”

Nel suo vangelo Marco presenta Gesù passare dalla riva del lago alla sinagoga, poi ad una casa, la casa di Simone e Andrea. Nella sua giornata di Cafarnao Gesù incontra persone e ad ognuna offre accoglienza e apertura di futuro. Ancora alla sera davanti alla porta gli portavano tutti gli ammalati e gli indemoniati e infine, ‘al mattino quand’era ancor buio’, in un luogo deserto ‘là pregava’.

Nella casa di Simone e Andrea Gesù lo informano al suo ingresso che la suocera di Simone è a letto con la febbre. Gesù le si fa vicino, la rialza prendendola per mano. Non ci sono parole o gesti eclatanti o prodigiosi. Gesù prende per mano. In questo gesto così familiare e delicato manifesta la forza che vince il male: la febbre ‘la lasciò’.

Gesù nei suoi gesti annuncia che il regno di Dio è giunto e ciò significa possibilità di vita buona e salvezza. I gesti di potenza e di liberazione sono innanzitutto segni del regno e rinviano all’annuncio del regno (cfr. Mc 5,20): Nei suoi gesti rende manifesta la sua identità di liberatore e medico ed il suo agire apre anche a seguirlo e farsi testimoni del suo stile.

Gesù si accosta a persone segnate dalla sofferenza, si fa vicino e si prende cura. il suo ascolto della sofferenza dell’altro e la sua apertura ad accogliere chi incontra apre a scorgere la vicinanza della potenza di Dio più forte del male, Nel suo agire si rende vicina la volontà di Dio di restituire ogni persona a se stesso e di operare per la liberazione ce tocchi tutti gli aspetti. Gesù guarda sempre non tanto alla malattia ma alla persona; non c’è mai accenno alla rassegnazione di fronte al male, né atteggiamenti di tipo fatalistico, e neppure inviti che esortino alla sofferenza quale modo di avvicinarsi a Dio. Il suo atteggiamento di fondo è la compassione: nel suo farsi accanto rompe la solitudine e l’isolamento propri della sofferenza, fa propria la sofferenza dell’altro e ne porta insieme il peso.

La suocera di Simone liberata dalla febbre è ‘rialzata’. Con l’uso di questo verbo Marco fa una sottile allusione al ‘rialzarsi’ della resurrezione di Cristo. Chi, malato, incontra Gesù e la forza di vita del suo accostarsi è inserito nella corrente di vita della risurrezione, partecipa alla nuova vita della risurrezione. Il discepolo è chi ‘si mette a servire’ così come fa la suocera di Simone. Il servizio diviene il segno di una vita guarita e ridonata nella relazione autentica con gli altri.

Alessandro Cortesi op

IV domenica tempo ordinario – anno B – 2024

Dt 18,15-20; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28

“Il Signore disse: Io susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt 18,16)

Non un ‘lettore del futuro’, non un mago che risponde a domande relative ad una vita già predeterminata nelle linee delle mani o delle carte. Profeta è invece uomo, donna della Parola. La sua condizione è ben distante dalla illusoria conoscenza dei venditori di certezze. E’ invece la precarietà e la fragilità di chi ha accolto l’invito di una chiamata ed imposta la vita sull’ascolto della parola di Dio. La sua parola richiama così ad una fedeltà a Dio che passa attraverso relazioni nuove di giustizia, di cura per gli altri. Il richiamo alla parola di Dio si accompagnerà con lo scontro con ogni istituzione che chiude la parola in un sistema in un possesso di una classe clericale o di una élite di sapienti o schiaccia le vite impedendo parole di bene. Le voci dei profeti si alzeranno soprattutto per richiamare il disegno di pace di Dio contro l’ingiustizia, la prevaricazione e la guerra.

Marco nel suo vangelo presenta Gesù come ‘uomo della parola’. Egli infatti insegna ed il suo insegnare è parola che fa trasparire la direzione della sua esistenza. Coinvolge chi lo ascolta perché proveniente da un’esperienza di libertà interiore “non come gli scribi”. Nel giorno di sabato, giorno della memoria del riposo di Dio e del dono della legge, al centro della sinagoga Gesù insegna nella sinagoga, luogo della comunità e luogo della Parola. E’ il suo un insegnamento pacato, non gridato, parola capace di incontrare le attese e le sofferenze di chi ascoltava e sapeva essere benedizione, apertura alla speranza.

Marco sottolinea il contrapporsi di questo insegnamento di Gesù – maestro che non s’impone ma attrae e coinvolge – con il grido di un uomo dominato da uno spirito immondo –. Lì, al centro del luogo religioso, della sinagoga -: “si mise a gridare: ‘che c’entri con noi Gesù nazareno? Io so chi tu sei: il santo di Dio!’. E Gesù lo sgridò: ‘Taci, esci da quell’uomo’. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”

Gesù impone di tacere ad una voce che grida la sua identità in modo prepotente. Invita al silenzio: ‘Ammutolisci ed esci da lui’. La forza del male è presentata in contrasto con la Parola. Con la sua parola Gesù porta liberazione. Il suo insegnare diviene gesto di liberazione e apre il passaggio dal grido all’ascolto. Non una parola che rende schiavi e domina facendo morire, ma un parola che apre la possibilità di vivere.

Con la sua parola Gesù restituisce quell’uomo a se stesso, attua una liberazione che è permettere che la persona sia se stessa, non sdoppiata o dominata. Marco delinea in Gesù il modello di un educatore che lascia spazio alla crescita, alla vita di ognuno.

La parola di Gesù richiama il profeta annunciato nel Deuteronomio: “All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: ‘Questi è davvero il profeta’ (Gv 7,40; cfr. Gv 6,14). Non si tratta di una ‘dottrina’, piuttosto di  una parola capace di toccare la vita e di accoglierla e prendersi cura.

Il dono di essere profeti nel popolo di Dio è dono di ascolto di questa parola che può coinvolgere e trasformare la nostra esistenza.

Alessandro Cortesi op

Battesimo di Gesù – anno B – 2024

Is 55,1-11; 1Gv 5,1-9; Mc 1,7-11

Battesimo di Gesù: una festa che rinvia al momento fondamentale del rapporto tra Gesù e il Battista ed al gesto di immersione nel fiume Giordano. A chiusura del tempo liturgico di Natale offre uno squarcio sull’identità profonda di Gesù e sulla sua missione.

Marco inizia il suo vangelo presentando il Battista e il momento imbarazzante del battesimo di Gesù. Dopo essere disceso nelle acque una voce dal cielo indica la sua identità: Gesù è figlio, amato. Sta in questa voce dall’alto l’interpretazione di quel gesto e l’indicazione del suo cammino. Altre due volte nel vangelo ricorrerà una voce: al momento della trasfigurazione una voce dall’alto, come al battesimo, da Dio, proclama Gesù il Figlio, l’amato. E’ indicazione di uno squarcio in cui si dà nella voce di Dio l’interpretazione di un’esperienza. Ma il punto di arrivo del racconto di Marco sarà sotto la croce dove un centurione, un pagano, un lontano ed escluso dalla considerazione religiosa, si apre a riconoscere Gesù come messia: nel vederlo morire a quel modo nella scelta della nonviolenza e della solidarietà riconosce in quell’uomo, nel condannato sulla croce, il messia, l’atteso (‘figlio di Dio’ ha questo significato nell’uso dei vangeli). Gesù pone in crisi ogni idea di messia e quindi anche di Dio legata alla potenza e al dominio, alla violenza e all’esclusione; sono gli irregolari, i lontani, gli inaspettati e marginali coloro che nel vangelo di Marco si pongono a seguirlo mentre tutti – anche i più vicini – lo abbandonano. Essi invece lo seguono perché hanno colto nel suo volto una vicinanza debole di chi sa compatire e non offre potere ma sceglie la via del dono e della condivisione.

Marco presenta Gesù tra i tanti che si accostano al Battista rispondendo al suo appello ad una conversione del cuore: condividono la radicalità della testimonianza di Giovanni nel deserto di Giuda. Il deserto è richiamo all’esodo, esperienza fondante della fede di Israele, tempo di fragilità e di affidamento, di cammino e ricerca. Il deserto costituisce un elemento essenziale in ogni autentica esperienza di fede. Lì anche Gesù si accosta a Giovanni insieme a tanti accorsi per ricevere ‘un battesimo di conversione per il perdono dei peccati’. Questo gesto esprime la solidarietà profonda di Gesù con tutti coloro che sentono il peso del peccato. Peccato come incapacità di trovare nelle proprie risorse il senso profondo della vita, peccato come incapacità di vivere le esigenze della giustizia e della relazione autentica con Dio e con gli altri, peccato come orientamento sbagliato delle energie umane verso orizzonti di egoismo, di potere e sopraffazione.

Ma soprattutto chi si recava dal Battista avvertiva una parola di accoglienza senza condizioni, una possibilità di futuro non dipendente da forme religiose, ma fondata sul dono di Dio. Ritrovavano l’eco dell’invito  di Isaia segnato dalla gratuità e dallo spazio aperto a tutti: “O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite” (Is 55,1). Una possibilità di benedizione che non dipende da riti e formule umane ma dal dire il bene di un Dio compassionevole nella vita di ognuno dei suoi figli e figlie per aprire futuro di bene possibile. Gesù prende parte ad un cammino di chi vive consapevolezza di non essere giusto e di essere nell’attesa un dono di cambiamento e di speranza.

Il figlio in cui il Padre si compiace ha il volto del servo che si immerge nel cammino dell’umanità. E’ il volto del servo sofferente presentato da Isaia: ‘Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui’ (Is 42,1).

La voce del Padre costituisce così una proclamazione di fede della comunità di Marco, che vede in Gesù che si fa solidale a tutti, il servo/figlio che ha unito il suo cammino a quello di chi soffre senza più potersene staccare. Per dire loro che non soli, per aprire una speranza oltre la sofferenza e la morte. Nel suo immergersi nelle acque del Giordano Gesù trova inizio al suo cammino di figlio e mostra di essere il messia che si pone a fianco e com-patisce ogni umana sofferenza.    

Alessandro Cortesi op

XXXIV domenica tempo ordinario – anno A – Gesù Cristo re dell’universo

Ez 34,11-12.15-17; 1Cor 15,20-16.28; Mt 25,31-46

“Venite benedetti dal Padre mio prendete possesso del regno preparato per voi sin dall’origine del mondo…” La grande scena del giudizio del Figlio dell’uomo conclude il capitolo 25 di Matteo centrato sui temi del ritorno del Signore, dell’attesa, della responsabilità e della vigilanza.

“Quando il Figlio dell’uomo verrà…”. Tutta la storia umana e il cammino dei popoli – Matteo usa un termine per indicare tutte le genti – sono indirizzati ad un incontro che vede al centro un ‘venire’… verrà. Questa pagina del vangelo, posta prima della narrazione della passione e morte, conduce a scorgere la fine della storia: l’incontro con Gesù come Figlio dell’uomo. Figlio dell’uomo è titolo ripreso dal libro di Daniele (cap. 7). In Daniele  indica una figura che proviene dal cielo e alla fine dei tempi compie un giudizio sulla storia mostrando come l’ultima parola non è quella dei dominatori ma la parola di Dio stesso. Il Figlio dell’uomo da Matteo è identificato in modo paradossale con Gesù che vive la passione (Mt 26-27). Proprio davanti al sommo sacerdote Gesù riprende l’annuncio del libro di Daniele: “d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo“.

Il regno che il Figlio dell’uomo rappresenta è di tipo diverso dai domini della potenza umana: è un regno che ha come criterio la parola della croce. Gesù è quindi il re con tratti paradossali L’intera pagina è da leggere ponendo attenzione alla prima parte che assume risalto proprio per il contrasto con la seconda parte: ‘venite benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sin dall’origine del mondo’. La fine della storia appare indicata nei termini di una grande accoglienza, e sarà una parola definitiva di comunione: ‘Venite’.

La scena presenta l’accoglienza di tutti coloro che hanno dato attenzione concreta all’altro, anche senza adesione esplicita a Gesù. Indica quindi che un giudizio si sta compiendo nelle scelte quotidiane nel modo di intendere e vivere il rapporto con gli altri. Nell’incontro con gli assetati, i senza dimora, i rifugiati, i poveri senza mezzi di sostentamento, i malati, i carcerati si compie un incontro con Gesù stesso. La domanda al re colma di stupore rivela il messaggio centrale di questa scena: “Quando ti vedemmo affamato e ti demmo da mangiare o assetato e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino e ti ospitammo, nudo e ti coprimmo? Quando ti vedemmo infermo o in carcere e venimmo a trovarti?”

Il regno di Gesù non è costruzione di potere mondano, non è un progetto politico di dominio, non si identifica con alcun sistema religioso che pretende affermazione e privilegi. Il regno si attua nella condivisione con la vita dei poveri: ed in questa apertura all’altro nella sua povertà è già incontro con Dio che desidera la vita e la liberazione dei suoi figli, di tutti. Il regno si sta attuando laddove percorsi di giustizia, di custodia, di accoglienza, di pace sono aperti. Il regno sarà infine un dono quando sarà rivelato il senso profondo della nostra vita.

Questa pagina presenta una provocazione alla comunità a non pretendere di rinchiudere la presenza di Gesù entro i limiti di un riconoscimento esplicito di lui. La comunità di Gesù ha come suo fine il lasciare spazio alla crescita del regno. In essa si rende presente la chiamata ad intendere la vita al servizio del regno. Nelle parole del re che siede e chiama ‘venite’ si un annuncio decisivo: l’incontro con lui avviene nell’incontro con il volto del povero. D’ora in poi egli si identifica con i più piccoli: e così richiama all’incontro con i volti di chi soffre.

La scena del re e del giudizio manifesta come il giudizio va considerato non in un futuro mitico, ma nella quotidianità della nostra vita: nel presente e nelle scelte concrete di rapporto agli altri possiamo vivere la compassione oppure possiamo vivere l’indifferenza e l’allontanamento. In questo incontro si sta attuando un giudizio: se incontrare Cristo o allontanarsi da Lui. Gesù ci raggiunge e viene nei volti dei poveri con cui Lui  si è reso solidale fino alla fine.

Alessandro Cortesi op

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