la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “ottobre, 2020”

Vita e opere di Adriana Zarri

Il Centro Espaces Giorgio La Pira e la Biblioteca dei domenicani di Pistoia promuovono un incontro di presentazione del volume Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri, Il Mulino, 2020.

SABATO 31 OTTOBRE 2020 ALLE ORE 17.00

Introduce l’incontro fr. Alessandro Cortesi op

Interviene l’autrice Mariangela Maraviglia

Sarà possibile seguire la presentazione a distanza su piattaforma Zoom inviando una e-mail di richiesta. Nei giorni precedenti all’evento riceverete sulla vostra posta elettronica l’invito con il link a cui connettersi.

Per info e prenotazioni: info@bibliotecadeidomenicani.it o 346.6176464 (lun – mer – ven ore 9.00-13.00)

In memoria di don Bruno

Ho appreso questa sera la notizia della morte avvenuta quest’oggi di don Bruno Maggioni. Lo ricordo come un maestro, una autentica guida capace di introdurre a appassionare all’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture.

Lo ricordo come figura fondamentale nella formazione biblica di tante generazioni. Ho avuto anch’io da ragazzo il dono di poter seguire il suo insegnamento, non quello ufficiale – ha insegnato per tutta la vita nel seminario di Como, alla Cattolica di Milano, alla Facoltà teologica del’Italia settentrionale – ma quando veniva a Vicenza, spesso nei week-end al Movimento studenti negli anni ’70 e ’80, nelle scuole domenicali della Parola, poi nei campi estivi, in tante altre occasioni di incontri e convegni.

Ho apprezzato il dono della semplicità del suo parlare, lo sforzo di chiarire e di aprire la porta della Parola a chi si accostava per la prima volta al linguaggio biblico. Ricordo la sua saggezza antica che esprimeva nel suo sguardo capace di far sorridere e di far sì che l’ascolto di una pagina biblica fosse sempre unito ad un riferimento alla vita per un rinnovamento della vita stessa. Ricordo il suo accento marcatamente lombardo e il suo intercalare: ‘comprendete?’ quando con passione insisteva  su un passaggio importante.  Ricordo la sua insistenza sul tema della via di Gesù e della via del discepolo…

Rifuggiva con la ritrosia e la discrezione dei grandi da tutto ciò che era modo di apparire in forme di intellettualismo o di protagonismo. I suoi richiami al centro, all’essenziale, al cuore del vangelo senza lasciarsi disperdere da tutto ciò che è accessorio sono una luce: ha continuato tutta la vita a rileggere il vangelo con la passione di una parola per la vita e richamando ad un tornare al vangelo e a Gesù per scoprire l’autentico senso dell’esistenza.

Il Signore che lui ha incontrato nel suo cammino di fede lo accolga come servo buono e fedele: a conclusione del suo cammino terreno porta con sè la gratitudine di tanti a cui ha trasmesso la gioia del vangelo.

Alessandro Cortesi op       

Solennità di tutti i santi – anno A – 2020

Cattedrale di Anagni, affresco della cripta di san Magno

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

La festa di tutti i santi indica due orizzonti. Da un lato conduce a scorgere la testimonianza di tutti coloro che nella vita, in modo spesso nascosto, senza clamore e protagonismi, hanno vissuto – pur con i loro limiti – l’amore, attuando cioè una umanità bella, capace di relazione e di dono: hanno cioè camminato secondo la via tracciata da Gesù. Hanno partecipato della luce di Dio, la sua santità, di Lui che è unico santo, e ne sono stati testimoni. Il loro cammino attrae e motiva la speranza del nostro cammino.

In secondo luogo questa festa parla del disegno di Dio su ogni volto: ogni uomo e donna proviene da uno sguardo di amore del Padre, reca in sè una chiamata ad un disegno di felicità, di bene e di compimento.

Nel libro dell’Apocalisse è presentata “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e all’Agnello”.

Nella grande visione della liturgia del cielo che l’autore profetico di Apocalisse presenta, questa folla numerosa sta ad indicare tutti coloro che hanno testimoniato che la salvezza viene da Dio. Si sono affidati a lui e recano ora i segni della testimonianza: le vesti candide, cioè una vita buona e i rami di palma segno della testimonianza.

Stanno in piedi davanti al trono dell’unico Dio e davanti all’agnello che nell’Apocalisse è simbolo di Cristo crocifisso e risorto. Con riferimento all’agnello del rito pasquale, l’agnello Gesù Cristo è rappresentato ferito ma ritto in piedi. Sono moltissimi, una moltitudine incalcolabile nella diversità e singolarità di cammini unici e diversi. Questa immagine suggerisce che la santità è una realtà plurale che va oltre ogni differenza, ogni cultura e popolo e che tutti unisce in un cammino comune di umanità che si apre ad un dono di salvezza.

“Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente”. Essere figlie e figli è già un dono presente nella vita, da riconoscere e da accogliere. Farsi custodi di questo amore del Padre che ama e rispondervi è vocazione al cuore di ogni esistenza: chiede di orientare la vita ad un incontro che fa andare oltre e camminare verso ciò che ancora non sappiamo. Saremo simili a lui, cioè siamo orientati ad essere capaci di una vita piena, nella comunione.

La pagina delle beatitudini parla dell’esistenza di chi è povero, afflitto, mite, affamato. Non esalta queste condizioni ma è annuncio che Dio prende le difese di chi è umiliato e si fa vicino a chi soffre. Sono condizioni di umanità: essere santi non è questione di esistenze particolari o di percorsi sovrumani. Ma nella vicenda umana si attua l’accoglienza della fedeltà di Dio. E Dio si fa vicino a chi è misericordioso, a chi è semplice e diritto, a chi opera per la pace, a chi soffre per la giustizia. Chi vive così non pretende di farsi Dio ma accoglie la propria umanità e accoglie un Dio vicino.

Le beatitudini descrivono il profilo di Gesù e di tutti coloro con cui Gesù si identifica: è profilo umano di chi come Gesù ha scelto nella sua esistenza di orientarsi alla cura e all’attenzione agli altri. Per questo diviene speranza di futuro per i molti. Una vita secondo le beatitudini è già inizio di un mondo nuovo e diverso, quello annunciato e testimoniato da Gesù, che rovescia i criteri del dominio, della supremazia, dello sfruttamento, ed ha presentato una via di felicità nell’acconsentire a ciò che sta al profondo dell’essere umano.

Santità non è un percorso di persone eccezionali, non dipende da meriti o da sforzi che negano la realtà della nostra umanità: è invece cammino di chi si scopre amico di Dio, aperto ad accogliere la sua amicizia e trasmetterla nella vita. Il divenire simili a Lui si compie facendo della vita un cammino di disponibilità e di dono.       

Alessandro Cortesi op

Una scheda: ‘chiamata alla santità’ – lettura di alcune opere di Marc Chagall

XXX domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Una inquadratura dal film ‘Il vangelo secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini

Es 22,21-27; 1Tess 1,5-10; Mt 22,34-40

Negli ultimi capitoli del suo vangelo, Matteo, dopo aver narrato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (cap. 21) raccoglie una serie di controversie in cui Gesù è interrogato e messo alla prova da diverse categorie di persone che costituiscono le élites religiose e i capi del popolo. Al cap. 22 dopo la questione del tributo a Cesare suscitata da farisei e erodiani e quella sulla risurrezione sulla quale Gesù è provocato dai sadducei, gli viene posta una questione discussa su cui non c’era accordo tra le scuole: quale il più grande comandamento della legge.

La legge era sintetizzata nelle dieci parole dell’alleanza: tuttavia la tradizione aveva aggiunto ai dieci comandamenti centinaia di precetti (613 comandamenti) che costituivano nell’immaginario religioso una sorta di siepe per proteggere l’osservanza del nucleo della legge stessa. Erano norme che regolavano tutti i momenti della vita. Ma varie erano le proposte ad individuare il nucleo della legge stessa: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» è la domanda che gli viene posta.

Gesù risponde in piena fedeltà al testo biblico e riprende due versetti presenti nei libri della Torah. II primo è un testo tratto dal Deuteronomio che richiama la fondamentale professione di fede che veniva ripetuta più volte al giorno nella preghiera dello Shemà: ‘ascolta Israele… amerai il Signore Dio con tutto il cuore… il Signore è uno’.

“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6,4-5).

Si tratta del comandamento che richiama a riferire la vita in tutte le sue dimensioni a Dio quale unico Signore dell’esistenza. E’ il primo comandamento perché richiama l’affidamento al Dio dell’alleanza, e chiede di non avere altri idoli nella vita ma riconoscere un solo Signore a cui affidarsi. E’ un comandamento riconosciuto e su cui si era articolata una vasta tradizione di pratiche e osservanze.

Gesù richiama all’amare Dio che è al cuore di questo comandamento: non sempre amare Dio corrisponde con le forme dei sacrifici, delle offerte delle preghiere e devozione praticati per offrire un culto che può essere scisso dalla vita.

La prassi cultuale e liturgica ha una grande forza nel far sentire a posto con Dio e gratificati nell’aver compiuto opere  questo. Spesso è limitata ad aspetti esteriori senza coinvolgimento e può essere una forma di tranquillizzazione della coscienza dal momento che svolgere liturgie, preghiere o devozioni non turba particolarmente la vita e non genera di per sè cambiamenti nelle scelte e nell’operare. Gesù a tal riguardo condivideva la critica aspra dei profeti in Israele: essi sollevavano l’accusa ad un culto vuoto fatto di sacrifici e offerte mentre la vita va in altre direzioni e viene praticata la disonestà, l’ingiustizia andando contro la volontà di Dio.

Gesù per questo aggiunge nella sua risposta il riferimento ad un altro comandamento. E riprende a tal riguardo un altro versetto biblico dal libro del Levitico: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lev 19,18). Richiama quindi non qualcosa di nuovo, bensì un orientamento che era ben presente nella tradizione biblica: non si può amare Dio se insieme non si vivono relazioni nuove di autentico amore verso il prossimo. I rapporti con gli altri sono il luogo di verifica dell’amore verso Dio.

Gesù, pienamente inserito nella fede d’Israele riconduce alla profondità della alleanza. Questo secondo comandamento, dice Gesù, è simile al primo. Il secondo comandamento è simile al primo in quanto ne è la trasparenza. In tal senso Gesù riporta tutta la questione sul più grande dei comandamenti ad una radicalità che interroga su di una prassi diversa. Gesù non è preoccupato di elaborare una teoria della morale o una costruzione teologica. Piuttosto chiede una prassi coerente in cui l’amore verso Dio si verificato nell’amore verso gli altri, in un unico e inscindibile movimento.

Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti: legge e profeti indicano tutta la Scrittura ebraica che è testimonianza dell’incontro di Dio che ha fatto alleanza con Israele e coinvolge in una storia di libertà.

Chi attua gesti di ascolto, accoglienza, cura, accompagnamento verso gli altri attua già in questo l’amore di Dio. E’ liberante ed è l’indicazione di Gesù sapere che dove ‘avete fatto qualcosa ad uno dei fratelli più piccoli’ lì c’è già incontro con Dio e amore per Lui. Questo fa superare la mentalità di chisura e di oppressione della religione per aprirsi all’incontro con Dio che coinvolge la fede e si attua nel rapporto con gli altri. E chi desidera coltivare l’amore di Dio è invitato a porre in pratica scelte di gratuità e attenzione verso gli altri. 

In questa sua risposta Gesù pone una critica ad un modo di intendere la fede come legata a tutte quelle tradizioni di uomini che finiscono per oscurare le esigenze prime della  fedeltà a Dio. E’ ciò che accadeva ai suoi tempi ed è ciò che accade oggi.

In questo senso Gesù comunica anche una immagine di Dio diversa dal Dio di una religione del culto e dell’appartenenza culturale e ripropone il volto del Dio dell’Esodo e dell’alleanza, il Dio che ascolta il grido dei poveri e delle vittime e scende a liberarli per aprire percorsi di libertà nell’amore che si prende carico dell’altro.

Può essere interessante ricordare a tal proposito quanto Paolo dice nella lettera ai Galati “Voi infatti… siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso”.

Alessandro Cortesi op

Fanatismo e fede

Abbiamo assistito attoniti in questi ultimi giorni all’uccisione compiuta in modo crudele di Samuel Paty professore di storia alla periferia di Parigi, colpevole per il suo assassino di aver mostrato a lezione ai suoi studenti le vignette satiriche su Maometto. Chi ha compiuto quel gesto efferato l’ha accompagnato con l’invocazione al nome di Dio, nella pretesa che la soppressione di una vita fosse un gesto di fedeltà e culto a Dio.

E’  un fatto su cui riflettere: c’è infatti il rischio di indignarsi solo momentaneamente o di derubricare gesti come questo come una radicalizzazione religiosa senza considerare le sue profonde implicazioni e senza porre il problema su cosa fare per contrastare tale violenza che si connette alla religione. Compare benché invano, il nome di Dio. Benché le tradizioni religiose siano fonti di opposizione alla violenza nella storia tuttavia la violenza si è accompagnata alla religione in varie modalità, e ciò va considerato attentamente.

Le osservazioni di un possono essere d’aiuto ad indicare alcune questioni in gioco.

In una recente intervista a Le Monde (19.10.20) Adrien Candiard, domenicano francese autore del testo Comprendre l’islam. Ou plutôt: pourquoi on n’y comprend rien (Flammarion, 2016) ha offerto una serie di interessanti spunti. Osserva come i gesti di fanatismo religioso spesso sono accostati da un punto di vista meramente sociologico e psicologico. In questa linea essi costituirebbero espressioni di un eccesso di religione e la loro cura si porrebbe nella linea di ridurre l’attenzione alla dimensione religiosa nell’educazione e nella vita pubblica.

Candiard critica tale approccio e propone una lettura diversa: “C’è … una diagnosi sbagliata nel fatto di non affrontare il fanatismo come un errore religioso, ma di affrontarlo solo come una devianza sociale o psicologica”. Propone di scorgere nei gesti dei fanatici religiosi un errore che tocca aspetti al cuore dell’esperienza religiosa:  “il principale errore teologico del fanatismo è non lasciare spazio alla fede. Dietro il costante riferimento a Dio, c’è una sostituzione di Dio con altri oggetti, come il culto o i comandamenti, che certo fanno parte della pratica religiosa, ma non sono Dio. Questi oggetti finiti e limitati sono pertanto considerati come assoluti e illimitati, e questo è un errore teologico ben conosciuto sotto il nome di idolatria”.

Il fanatismo costituisce quindi un orientamento idolatrico. Si oppone radicalmente ad un accostamento sincero al volto di Dio perché opera una sostituzione: Dio diventa un idolo. Si può pensare al vitello d’oro, ma anche a tutte le immagini di Dio elaborate da uomini in costruzioni teologiche considerate assolute, oppure l’idolatria per un sistema sacrale e religioso di cui si pretende di essere detentori.

Candiard preferisce utilizzare il termine fanatismo rispetto ad altri (come fondamentalismo o integralismo) spiegando che non indica una radicalità. Chi uccide o mette le bombe non è un religioso radicale ma qualcuno che ha sostituito Dio con una costruzione religiosa umana di cui si titiene detentore e possessore: “La caratteristica del fanatismo non è andare fino in fondo nelle cose, ma deviarle”.  

Per contrastare tale fanatismo suggerisce di intraprendere nuove vie che tengano conto di questioni specificamente teologiche: “bisogna smetterla di fare come se la religione non esistesse… Bisogna riaffermare che le religioni portano, anch’esse, delle riflessioni razionali e che, quando si formano delle menti al pensiero critico, esse non possono essere escluse dall’insegnamento. Bisogna preparare gli alunni ad affrontare e a prendere sul serio i discorsi teologici”.

Sono temi che andrebbero affrontati anche in una considerazione nella educazione scolastica a livello pubblico per poter contribuire alla formazione di un pensiero critico e di comprensione seria dell’esperienza religiosa e – aggiungerei – della distinzione fondamentale tra religione e fede su cui oggi si può notare una incomprensione generalizzata. La violenza in nome di Dio che è idolatria provoca a riflettere su come estirparla senza entrare nella medesima logica di aggressione, di intolleranza e di repressione cieca rispetto alle esigenze educative.     

Smettere di essere proprietari di Dio, accettare di disfarsi delle difese armate e di un’attitudine aggressiva, aprirsi alla sfida del dialogo, riconoscere la dignità dell’altro: è questo un orizzonte di impegno che rimane aperto e richiama a quell’unico e più grande comandamento “Amerai Dio… amerai il prossimo tuo…”.

Alessandro Cortesi  op

SPUNTI PER UN APPROFONDIMENTO: Ma chi sono i farisei?

“Se riconosciamo che gli ebrei di oggi si sentono discendenti dei farisei allora dobbiamo capire che non possiamo parlare male dei progenitori dei nostri amici. Noi vogliamo poterne parlare su una base più veritiera e con un amore vero per l’altro”. (Joseph Sievers, docente di storia e letteratura giudaica al Pontificio Istituto Biblico)

Qui di seguito una parte del testo del saluto di papa Francesco ad un convegno internazionale tenutosi nel 2019 promosso dal Pontificio Istituto Biblico sul tema Gesù ed i farisei. Un riesame interdisciplinare

(…) Do il benvenuto ai partecipanti al Convegno su “Gesù e i Farisei. Un riesame interdisciplinare”, che intende affrontare una domanda specifica e importante per il nostro tempo e si presenta come un risultato diretto della Dichiarazione Nostra aetate. Esso si propone di capire i racconti, a volte polemici, riguardanti i Farisei nel Nuovo Testamento e in altre fonti antiche. Inoltre, affronta la storia delle interpretazioni erudite e popolari tra ebrei e cristiani. Tra i cristiani e nella società secolare, in diverse lingue la parola “fariseo” spesso significa “persona ipocrita” o “presuntuoso”. Per molti ebrei, tuttavia, i Farisei sono i fondatori del giudaismo rabbinico e quindi i loro antenati spirituali.

La storia dell’interpretazione ha favorito immagini negative dei Farisei, anche senza una base concreta nei resoconti evangelici. E spesso, nel corso del tempo, tale visione è stata attribuita dai cristiani agli ebrei in generale. Nel nostro mondo, tali stereotipi negativi sono diventati purtroppo molto comuni. Uno degli stereotipi più antichi e più dannosi è proprio quello di “fariseo”, specialmente se usato per mettere gli ebrei in una luce negativa.

Recenti studi riconoscono che oggi sappiamo meno dei Farisei di quanto pensassero le generazioni precedenti. Siamo meno certi delle loro origini e di molti dei loro insegnamenti e delle loro pratiche. Pertanto, la ricerca interdisciplinare su questioni letterarie e storiche riguardanti i Farisei affrontate da questo convegno aiuterà ad acquisire una visione più veritiera di questo gruppo religioso, contribuendo anche a combattere l’antisemitismo.

Se prendiamo in considerazione il Nuovo Testamento, vediamo che San Paolo annovera tra quelli che una volta, prima di incontrare il Signore Gesù, erano i suoi motivi di vanto anche il fatto di essere «quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3, 5).

Gesù ha avuto molte discussioni con i Farisei su preoccupazioni comuni. Ha condiviso con loro la fede nella risurrezione (cfr. Mc 12, 18-27) e ha accettato altri aspetti della loro interpretazione della Torah. Se il libro degli Atti degli Apostoli asserisce che alcuni Farisei si unirono ai seguaci di Gesù a Gerusalemme (cfr. 15, 5), significa che doveva esserci molto in comune tra Gesù e i Farisei. Lo stesso libro presenta Gamaliele, un leaderdei Farisei, che difende Pietro e Giovanni (cfr. 5, 34-39).

Tra i momenti più significativi del Vangelo di Giovanni c’è l’incontro di Gesù con un fariseo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei (cfr. 3, 1). È a Nicodemo che Gesù spiega: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (3, 16). E Nicodemo difenderà Gesù prima di un’assemblea (cfr. Gv 7, 50-51) e assisterà alla sua sepoltura (cfr. Gv 19, 39). Comunque si consideri Nicodemo, è chiaro che i vari stereotipi sui Farisei non si applicano a lui, né trovano conferma altrove nel Vangelo di Giovanni.

Un altro incontro tra Gesù e i capi religiosi del suo tempo è riportato in modi diversi nei Vangeli sinottici. Ciò riguarda la questione del “grande” o “primo comandamento”. Nel Vangelo di Marco (cfr. 12, 28-34) la domanda viene posta da uno scriba, non diversamente identificato, che instaura un dialogo rispettoso con un insegnante. Secondo Matteo, lo scriba diventa un fariseo che stava cercando di mettere alla prova Gesù (cfr. 22, 34-35). Secondo Marco, Gesù conclude dicendo: «Non sei lontano dal regno di Dio» (12, 34), indicando così l’alta stima che Gesù ha avuto per quei capi religiosi che erano davvero “vicini al regno di Dio”.

Rabbi Aqiba, uno dei rabbini più famosi del secondo secolo, erede dell’insegnamento dei Farisei (S. Eusebii Hieronymi, Commentarii in Isaiam, III, 8: pl 24, 119.), indicava il passo di Lv 19, 18: «amerai il tuo prossimo come te stesso» come un grande principio della Torah (Sifra su Levitico 19, 18; Genesi Rabba 24, 7 su Gen 5, 1). Secondo la tradizione, egli morì come martire con sulle labbra lo Shemà, che include il comandamento di amare il Signore con tutto il cuore, l’anima e la forza (cfr. Dt 6, 4-5. Testo originale e versione italiana in Talmud Babilonese, Trattato Berakhòt, 61 b, Tomo ii, a cura di D. G. Di Segni, Giuntina, Firenze 2017, pp. 326-327). Pertanto, per quanto possiamo sapere, egli sarebbe stato in sostanziale sintonia con Gesù e il suo interlocutore scriba o fariseo. Allo stesso modo, la cosiddetta regola d’oro (cfr. Mt 7, 12), anche se in diverse formulazioni, è attribuita non solo a Gesù, ma anche al suo contemporaneo più anziano Hillel, di solito considerato uno dei principali Farisei del suo tempo. Tale regola è già presente nel libro deuterocanonico di Tobia (cfr. 4, 15).

Quindi, l’amore per il prossimo costituisce un indicatore significativo per riconoscere le affinità tra Gesù e i suoi interlocutori Farisei. Esso costituisce certamente una base importante per qualsiasi dialogo, specialmente tra ebrei e cristiani, anche oggi.

In effetti, per amare meglio i nostri vicini, abbiamo bisogno di conoscerli, e per sapere chi sono spesso dobbiamo trovare il modo di superare antichi pregiudizi. Per questo, il vostro convegno, mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata dei Farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione. Sono sicuro che tali studi, e le nuove vie che apriranno, contribuiranno positivamente alle relazioni tra ebrei e cristiani, in vista di un dialogo sempre più profondo e fraterno. Possa trovare un’ampia risonanza dentro e fuori la Chiesa Cattolica, e al vostro lavoro possano essere concesse abbondanti benedizioni dall’Altissimo o, come direbbero molti dei nostri fratelli e sorelle ebrei, da Hashèm. Grazie”.

XXIX domenica tempo ordinario anno A

Bernardo Strozzi, Il tributo della moneta, Firenze Uffizi, prima metà del XVII sec.

Is 45,1.4-6; 1Tess 1,1-5; Mt 22,15-21

“Mostratemi la moneta del tributo! Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: Di chi è quest’immagine e l’iscrizione? Gli risposero: di Cesare! Allora disse loro: rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”

Gesù è messo alla prova da farisei e erodiani. Essi costituiscono un primo gruppo che sfida Gesù in modo polemico. Alla loro provocazione seguirà quella dei sadducei sulla questione della risurrezione e poi ancora i farisei sul comandamento più grande e sulla signoria del messia nei confronti del re Davide. In tal modo Matteo vede raccogliersi contro Gesù i maggiori gruppi che guidavano Israele in quel tempo. Gli pongono davanti ad una moneta utilizzata per pagare una tassa ai romani che dominavano la Palestina. “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?” La domanda recava in sè un tranello. Riconoscere il tributo significava affermare il dominio romano e venir meno al riferimento all’unico Dio Signore. Rifiutare il tributo a Cesare poteva condurre all’accusa di rivolta contro i romani che erano le forze di occupazione e avevano il controllo militare e sociale della Palestina. Sulla moneta peraltro c’era l’effigie di Cesare e questo fatto poteva essere riconoscimento idolatrico di un potere che si pensava come divino.   

Il riferimento a Cesare emerge quindi perché nelle monete era scolpita l’effigie dell’imperatore. Le parole di Gesù risultano enigmatiche. Gesù non ha la moneta e con le sue parole smaschera coloro che volevano metterlo in difficoltà denunciandone l’atteggiamento ipocrita: proprio loro hanno in mano la moneta segno dell’idolatria. Di fatto non offre una risposta ma respinge il tranello e rinvia ad una responsabilità dei suoi interlocutori: ‘Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio’.

Un primo livello di interpretazione di questa espressione può essere nella direzione di scorgere come Gesù ponga una distinzione tra la sfera di Cesare, quella della politica, e ciò che compete a Dio. La frase è una grande indicazione che apre a non confondere la dimensione della fede con altri aspetti della vita, come l’ambito politico o quello economico, che hanno una propria autonomia. Non dalla fede deriva necessariamente una opzione politica o economica. A Cesare vanno pagate le tasse perché la sfera economica è di competenza dello Stato, le monete portano l’effigie dell’autorità imperiale e allo stato si deve rispondere nel riconoscimento delle competenze proprie. Si tratta di affermazione di separazione tra la sfera religiosa e quella dello stato e di un riconoscimento della responsabilità umana nel condurre le cose di questo mondo. D’altra parte a Dio spetta un riconoscimento che non viene meno e che non può essere preso o sostituito da nessun Cesare.

Tuttavia c’è un altro livello su cui riflettere. Ciò che sta a cuore a Gesù è l’urgenza di accogliere il regno di Dio. Sono giunti i tempi ultimi e la sua chiamata è a donare la vita in riferimento a Dio. Che cosa compete a Dio? Che cosa è da riferire a Lui? Le monete portano l’effigie di Cesare segno del potere statale. Gesù non intende il suo annuncio del regno di Dio come  proposta di instaurare un potere terreno che si contrappone a quelli esistenti. Tuttavia presenta una critica radicale ad ogni potere introducendo l’invito a dare a Dio ciò che è di Dio. C’è una riferimento della vita a Dio che non può essere ridotta alla sfera di Cesare e che pone la questione di relativizzare ogni potere terreno e non considerarlo assoluto. La dimensione politica non può essere il tutto ed esaurire la vita della persona, anzi c’è un primato da dare al riferimento a Duo.

Le monete recano iscritta l’immagine di Cesare, ma dov’è l’immagine di Dio? Il riferimento va immediatamente ai testi della Genesi in cui si parla dell’uomo immagine di Dio (Gen 1,26). La vita umana è in se stessa immagine di Dio. Dare a Dio quello che è di Dio implica allora scorgere l’immagine di Dio è impressa in ogni volto e da qui deriva il compito di ritornargli ciò che è suo, ovvero la cura per la vita dei suoi poveri e il dono di se stessi.

Se nelle monete imperiali appare l’effigie di Cesare, nel volto dell’uomo vivente traluce l’immagine di Dio. A Dio allora compete non solo una sfera tra altre della vita umana ma è da dare a Dio la totalità dell’esistenza. Gesù non si pone tuttavia nei termini di un fondamentalista. Ci sono ambiti dell’esistenza che provengono da Dio ma affidati alla responsabilità umana di creature a cui è stata affidata una autonomia ed un mandato. Ma non si tratta di una competenza assoluta e che elimina o esclude il riferimento fondamentale a Dio.

I discepoli di Gesù sono chiamati innanzitutto a non confondere l’immagine di Dio con l’immagine di Cesare, a non identificare in una forza politica o in un governo umano la presenza di Dio, unico Signore che sta oltre ogni realizzazione umana. Sono poi chiamati a riconoscere l’immagine di Dio presente in ogni persona che esige un riferimento totale della vita pur riconoscendo gli ambiti di competenza della politica dell’economia e delle altre sfere dell’esistenza: si tratta di una competenza autonoma, ma non sganciata, non autosufficiente. Questa non può pretendere di esaurire l’intera esistenza umana né può pretendere di assoggettarla come mero ingranaggio di un sistema. Gesù rivendica per sé la libertà profonda di fronte al tranello che gli è posto e richiama i suoi alla fatica della libertà che non è mai scissa da responsabilità e cura.

Alessandro Cortesi op

Scelte quotidiane di giustizia

Nell’enciclica ‘Fratelli tutti’ si può ritrovare una dura critica al sistema economico dominante a livello globale fondato su una visione neoliberista presentata come indiscutibile. Al n. 22 si legge: “Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati. Cos ì al n. 168: Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti.

E’ una critica ad una economia che uccide e che genera scarti, considerando gli stessi esseri umani come scarti da lasciare ai margini e di cui poter fare a meno.

Nel 1993 si tenne all’arena di Verona una grande assemblea di “Beati i costruttori di pace”. L’assemblea aveva come slogan “Quando l’economia uccide, bisogna cambiare”. In quell’evento fu espressa una  forte denuncia al sistema capitalista come responsabile di ingiustizia a livello globale e si indicavano azioni di cambiamento nell’ambito economico.

Da lì prese origine l’esperienza dei Bilanci di giustizia, un orientamento a promuovere il cambiamento possibile a partire dalla dimensione locale e dall’attenzione agli stili di vita. L’insistenza è stata posta in articolare sui comportamenti quotidiani e sull’importanza di orientare gli stili di vita personali e collettivi ad un consumo responsabile e critico nella propria vita di tutti i giorni.

Coloro che hanno aderito a questo progetto hanno utilizzato lo strumento del bilancio: ogni mese si trattava di verificare le modalità di spesa in vista di orientarle nel senso di riduzioni di sprechi, di uso più responsabile delle risorse e nel rispetto dell’ambiente. I bilanci individuali inviati alla segreteria nazionale della Campagna, divenivano oggetto di valutazioni e studi complessivi. Questo sforzo che toccava il quotidiano ha condotto a modificare stili di vita e a scorgere la possibilità di un uso più consapevole delle risorse e di scelte di sobrietà che hanno condotto ad attuare una liberazione dalla logica di consumo per dare primato alle relazioni sociali. Caratteristica di questo impegno è il suo partire dal basso con l’intento di contribuire ad un cambiamento che progressivamente coinvolga ambiti sempre più ampi della società. 

Anche i Gruppi di acquisto solidale e i Distretti di economia solidale si sono sviluppati nell’ottica di perseguire finalità analoghe a quelle dei Bilanci di giustizia.

Un gruppo di ricerca interuniversitario Territori in libera transizione (Tilt) ha condotto uno studio sull’esperienza dei Bilanci “Pratiche e visioni del cambiamento e dell’apprendimento”. Lo studio ha posto in risalto le caratteristiche dell’esperienza evidenziandone il ruolo educativo e l’incidenza nel trasmettere una sensibilità per la giustizia, la solidarietà e la custodia dell’ambiente. Ha altresì evidenziato lo sforzo di tenere insieme in modo creativo approfondimento teorico sulle diverse questioni attinenti al consumo, all’utilizzo dell’energia e alla gestione delle spese e individuazioni di azioni pratiche. Oltre a tutto questo tale resistenza alla dipendenza da un consumo che nel contesto attuale è divenuto ossessivo e onniavvolgente, la pratica di ricerca di nuovi stili di vita ha aperto anche la via a considerare aspetti della spiritualità nella vita. L’appiattimento su di una dimensione puramente materiale costituisce uno dei più grandi impoverimenti dell’esistenza.

Bilanci di giustizia costituisce a tutt’oggi un’esperienza che ha sollevato un grave problema del nostro tempo individuando vie per attuare dal basso un cambiamento tanto più urgenti nel quadro attuale in cui l’emergenza ambientale e climatica e la pandemia pone nuove sfide a rivedere stili di vita e modalità di utilizzo delle risorse e di consumo.

Sono queste le esperienze  che esprimono quanto la enciclica ‘Fratelli tutti’ indica come impegno da valorizzare:  

“È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità; ricordiamoci che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma» (FT 78).

Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

Isaia utilizza l’immagine del banchetto per parlare di un incontro dei popoli che è visto come orizzonte finale della storia. Il monte di Sion sarà luogo del convergere di tanti cammini e Dio stesso avrà preparato un cibo da condividere tra tutti. Questo ritrovarsi nella festa e nella gioia di una tavola dove mangiare insieme è immagine di un futuro in cui la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro. Il Signore che prepara un banchetto di cibi buoni e abbondanti per tutti è anche colui che elimina la morte e toglie il velo che copre la faccia dei popoli. Apre la possibilità di una vista nuova, di incontro e di vita. L’immagine del banchetto nella Bibbia è poi stata utilizzata quale segno collegato alla venuta del messia che porta a compimento la promessa di Dio.

Nei vangeli si parla spesso di pasti a cui Gesù partecipò: alle nozze a Cana (Gv 2, 1-11), con i pubblicani e peccatori a casa di Matteo (Mt 9,10-13), nella casa di Simone in cui Gesù incontra la donna peccatrice (Lc 7,36-50), a casa di Zaccheo (Lc 19,1-9), attorno alla tavola a casa di Marta e Maria (Lc 10,38-42), la condivisione sui prati verdi della Galilea quando i pani vennero distribuiti (Mc 6,30-44; 8,1-9). Gesù visse poi in una cena il momento di addio ai suoi prima della sua morte. E’ poi una costante nei racconti pasquali l’insistenza sul ‘mangiare insieme’: con i due di Emmaus (Lc 24,30) e sulla riva del lago di Tiberiade (Gv 21,4-13).

Anche nel suo insegnamento Gesù spesso richiama l’immagine del banchetto ad es. nella parabola del grande banchetto (Lc 14,16-24), in quella delle vergini stolte e sagge con sullo sfondo una cena di nozze (Mt 25,1-12) e quando si trova ad ammirare la fede del centurione ricorda ancora questo stare a mensa con Abramo Isacco e  Giacobbe, in un banchetto futuro che raduna tutti i giusti da provenienze diverse: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La parabola degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) è posta nel contesto della discussione polemica di Gesù con le autorità giudaiche presso il tempio di Gerusalemme. E’ un momento di scontro in cui Gesù pone la sua critica contro coloro che vivono la religione come motivo di potere, senza attuare un cambiamento della vita, cioè una religione senza affidamento a Dio, ma ridotta a fatto identitario o a norme che escludono e rendono indifferenti. Le parole di Gesù vengono riprese dalla comunità di Matteo in un tempo successivo di scontro e polemiche tra comunità e giudaismo: il riferimento alla città data alle fiamme può essere un rinvio ai tragici eventi del 70 d.C. E’ peraltro certamente una parola rivolta ai capi dei sacerdoti e i farisei e notabili del popolo (Mt 21,45; 21,23).

In essa sono riunite due parabole con diverse accentuazioni La prima è quella del banchetto in cui gli invitati non accolgono l’invito, la seconda riguarda l’invitato senza la veste adatta per la festa.

Un re dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di indifferenza, di disprezzo e violenza. Gli invitati hanno altro di cui occuparsi sono in una condizione di sicurezza e di indifferenza: sono coloro che vivono la religione come una condizione di privilegio e di sicurezza e hanno perso di vita l’incontro con Dio stesso. E’ questa una parola di denuncia verso coloro i capi dei sacerdoti e notabili. A fronte di una mancata accoglienza del suo invito il padrone invia ancora i servi a chiamare ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’.

L’agire di Gesù manifesta come il Padre ami chi vive una condizione di peccato e si apre alla consapevolezza di essere salvato. Coloro invece che si credono giusti vivono una profonda difficoltà a cogliere la verità della loro vita di fronte a Dio, non avvertono l’esigenza di lasciarsi accogliere e perdonare da Dio. Gesù critica questa religiosità falsa indicandola come ‘ipocrisia’: è l’atteggiamento di chi solo manifesta una religiosità fatta di gesti esteriori per essere ammirati dagli uomini ma non coltiva il coinvolgimento interiore della fede (Mt 6,6.7.16). Matteo presenta la chiamata di Dio che fa entrare ‘buoni e cattivi’: Dio ama non allontanandosi dai peccatori, ma assumendo su di sé il peccato e perdonando, offrendo misericordia.

La scena del banchetto si tramuta rapidamente in una scena di tribunale: c’è un invitato che non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. Nel linguaggio biblico la veste indica il comportamento degli uomini, l’agire, la coerenza tra fede e vita (in Ap 19,8, la veste di lino, data alla sposa dell’agnello, indica ‘le opere giuste dei santi’). Partecipare al banchetto è incontro con Dio che richiede un cambiamento della vita nei gesti, nelle scelte, nel modo concreto di condurre la vita.

Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una religiosità che si nutre solo di proclamazioni senza riferimento alla vita: ‘Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli’ (Mt 7,21).

La parabola richiama che la via per partecipare al banchetto dell’incontro con Dio è l’operare seguendo Gesù in modo concreto aprendosi alla fraternità. In ciò si fa la volontà del Padre: non nel rivendicare una appartenenza di gruppo o una sicurezza derivante dal ruolo religioso ma nel compiere scelte e gesti di cura e accoglienza verso l’altro (Mt 16,27; 25,31-46).

Alessandro Cortesi op

Invito

La tradizione palestinese del wajib prevede che le partecipazioni ad un matrimonio siano recapitate personalmente e direttamente a ciascuno degli invitati. Centinaia di inviti casa per casa: famiglie amiche, zii e zie, cugini e cugine, familiari di diverso grado.

Nel film di Annemarie Jacir, che nel titolo richiama tale tradizione, è questo il compito a cui si dedica Abu Shadi, stimato insegnante arabo che si prepara a diventare preside, alla vigilia del matrimonio della figlia Amal in un periodo che si avvicina al Natale.

Shadi, suo figlio, architetto che da anni ha lasciato la Palestina e vive a Roma, è rientrato a Nazareth per aiutarlo nell’impegno della distribuzione degli inviti. Il film descrive le numerose visite condotte in ottemperanza a tale dovere. Padre e figlio si recano su per ripide scale o in mezzo a popolosi condomini, presso conoscenti e amici entrando nelle diverse case e ambienti di vita.

Le visite accompagnano a cogliere la vita di una rete di relazioni di famiglie e amici. Nel percorrere ampie strade congestionate dal traffico o strette vie di una Nazareth contemporanea paradigma di diversità e complessità, si illuminano frammenti di piccole storie personali o familiari intrecciate e collocate nella storia più grande del conflitto tra palestinesi e israeliani che segna pesantemente le esistenze e la vita cittadina.

Le scelte del figlio Shadi di rimanere a vivere lontano, in Italia, la sua convivenza con la sua compagna che ha un padre dell’OLP, il suo stesso lavoro, ma anche il suo modo di vestire non corrisponde alle attese del padre, anzi incontra un lui un profondo e sofferto rifiuto. Nel distribuire gli inviti emergono progressivamente differenze sia per la distanza generazionale sia per un diverso modo di guardare e affrontare la realtà. Si vengono anche a conoscere aspetti nascosti della storia familiare in cui la madre da tempo ha lasciato la famiglia. Ora, attesa per il matrimonio imminente, vive all’estero con un nuovo marito che proprio in quei giorni sta per morire.

“E’ con la saggezza che si costruisce una casa ed è con la comprensione che la si fortifica”: questa è la frase posta nell’invito di nozze di Amal. Emerge una tensione di fondo tra l’assuefazione di Abu Shadi nel dover vivere in una condizione di oppressione e di sudditanza in una situazione di dolore e conflitto accettato con rassegnazione e il senso di rivolta e di libertà del figlio che non intende accettare e non riesce a comprendere quanto realtà di ingiustizia e conflitto possano condizionare la quotidianità.

Su tutto prevale tuttavia una profonda nostalgia per una sintonia e complicità vissuta in un tempo lontano, una stagione della vita felice: si fanno strada progressivamente parole di sincerità e di autentica comunicazione tra figlio e padre. E si delinea anche il profilo più autentico dell’interiorità di un padre che soffre la solitudine e il senso di impotenza di fronte alla complessità della vita: malato di cuore e nel contempo capace di una sensibilità all’altro celata da una ruvidezza.

Il film di Annemarie Jacir è motivo per riflettere sul significato dell’invito a partecipare ad una festa di nozze, paradigma di intreccio di vite e storie, momento dell’esperienza umana che rinvia all’intreccio delle relazioni nella loro complessità gioie e interruzioni. E’ anche rinvio a scorgere la nostalgia di incontro che ogni festa di nozze con i suoi inviti reca con sè. “Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze…”

Alessandro Cortesi op

Link al film: Annemarie Jacir, Wajib – Invito al matrimonio 2017

Lettura di una immagine

La parabola del banchetto e degli invitati – Codex aureus Epternacensis (f 77v)

L’immagine va letta dal basso verso l’alto. In basso a sinistra sono raffigurati i poveri e gli ammalati, invitati da un servo e con fatica raggiungono la sala del banchetto. Nella fascia in alto a sinistra si ritrovano i poveri (indicati con la scritta pauperes) seduti con chi li ha invitato (homo quidam) ad una tavola apparecchiata e con i cibi. Nella fascia centrale – con riferimento alla versione della parabola di Luca (Lc 14,18-20) a destra si può vediamo l’uomo invitato che ha comprato un campo e un altro con i suoi buoi. Il terzo invitato si vede in basso a destra insieme con la sua sposa perché si è sposato e si scusa di non poter accettare l’invito alle nozze. I tre che rifiutano l’invito si voltano in un’altra direzione, mentre i poveri tendono verso l’alto. Il servitore in piedi accanto al tavolo sulla destra arriva portando il cibo e nella mano sinistra regge un bastone bianco girato verso il basso. Questo gesto, insieme alla parte del tavolo vuoto alla destra dell’ospite, sta ad indicare che l’invito è stato ripetuto.

Nella figura dell’ospite è racchuso il riferimento a Dio stesso, che ha invitato tutte le persone a sé. Chi viene invitato per primo si scusa e si giustifica di non poter partecipare perché ha cose migliori e più importanti da fare. D’altra parte, i poveri accettano volentieri l’invito. Con fatica e con l’aiuto ma tutti sostenuti dalla grazia di Dio, sono arrivati alla mensa del Signore. La tavola preparata a festa, le scodelle d’oro e il pane segnato con una croce indicano la mensa eucaristica e la comunione in cielo. Il povero seduto accanto al padrone di casa viene preso per mano. Un gesto che esprime il desiderio di Dio di avere accanto a sé tutti coloro che invita e lo sguardo di amore che rivolge perché si giunga ad accogliere il suo invito di comunione. (ac)

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