Is 49,3.5-6; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34
‘Rendere testimonianza’ è il verbo del discepolo. Tutta la sua vita sta appesa sul filo di un incontro. Giovanni Battista è così presentato paradossalmente come il discepolo: colui che rende testimonianza, che ‘vede’ e indica la presenza di Gesù anche se non lo conosce. Il suo annuncio è rivolto verso un altro: ‘in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete’ (Gv 1,26). Invita ad un incontro, a conoscere Gesù: ‘sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere ad Israele’ (Gv 1,31). La sua prima testimonianza è l’annuncio di qualcuno che viene dopo di lui. Il gesto dell’immersione nel Giordano esprime un’attesa: ‘Ecco colui del quale io dissi: dopo di me viene un uomo che mi è passato davanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo…’ (1,30). Giovanni Battista è testimone che sta sulla soglia, indica una presenza da scoprire. Non la possiede, non ricerca la sua grandezza ma è rivolto ad altro.
Gesù viene dopo il Battista, ma era da prima. E’ lui la Parola di Dio, il Verbo, che si è fatto carne ed è venuto ad abitare nella storia. Giovanni non lo conosceva ma accoglie nella sua vita la chiamata e l’invio di Dio ad essere testimone: “Io non lo conoscevo, ma colui che mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: l’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito santo” (Gv 1,33)
La sua azione è risposta e come i profeti scopre che nella sua vita c’è un invio: ancora per dono del Padre può riconoscere Gesù.
Gesù è presentato come uomo su cui lo Spirito si ferma e rimane: la sua vita è pervasa da questo soffio di vita. Risuonano in queste righe pagine del Primo testamento: ‘Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza…’ (Is 11,2) ‘Ecco il mio servo… ho posto il mio spirito su di lui’ (Is 42,1).
Gesù viene così riconosciuto come uomo che vive nello Spirito: la sua vita affonda le sue radici nella comunione, con il Padre e con lo Spirito. Per questo comunica la forza del soffio di Dio a noi: con lui inizia un nuovo battesimo, una nuova creazione. Agli inizi lo Spirito aleggiava sulle acque (Gen 1,2) dopo il diluvio una colomba aveva annunciato ancora sopra le acque un mondo nuovo. Ora una colomba, vista da Giovanni sopra Gesù, indica l’inizio di una storia nuova.
La testimonianza di Giovanni è tutta centrata in questo incontro e rivolta al volto di Gesù: ‘E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio’ (Gv 1,34).
Il verbo ‘vedere’ ha una particolare importanza nel IV vangelo il discepolo è chiamato a ‘vedere’: ‘Dio nessuno l’ha mai visto, proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato’ (Gv 1,18). Gesù nel suo essere figlio spiega il Padre, lo racconta nella sua vita umana nei suoi gesti. Il suo agire è via per incontrare Dio stesso. E il discepolo è colui, colei che rende testimonianza e sperimenta questo vedere.
Giovanni Battista vede Gesù come l’agnello: ‘Ecco l‘agnello di Dio che toglie il peccato del mondo’. Il secondo Isaia aveva parlato del ‘servo di Jahwè’ come di un agnello: “Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca: era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Il ‘servo’ ha dato la sua vita in libertà per essere solidale fino in fondo con gli altri e per portarne i pesi, si è reso solidale con tutto un popolo e il tratto primo della sua vita è la nonviolenza. Il quarto vangelo narra che Gesù morì mentre nel tempio venivano sacrificati gli agnelli della Pasqua, (Gv 19,36). Agnello rinvia quindi al suo essere lui stesso il servo, alla antica Pasqua, la partenza dall’Egitto con il segno dell’agnello (Es 12).
Gesù è visto come agnello che si fa solidale: prende su di sé il peso del peccato, ciò che tiene lontani dall’accogliere il farsi vicino di Dio. Lo porta via, vivendo la sua vita come solidarietà e consegna fino alla fine come il ‘servo’ che non s’impone ma offre la sua vita in riscatto per molti (cfr Is 52,13-53,12). L’agnello è immagine che rinvia alla pasqua. La via del discepolo sarà seguire Gesù fino alla pasqua di morte e risurrezione.
Alessandro Cortesi op
Prender su di sè
Sette minuti è un tempo breve, quasi insignificante. Ma dietro a sette minuti può celarsi un universo di pesi, sofferenze, fatiche. Può nascondersi lo sfruttamento e la lotta per la dignità. Il film “7 minuti” di Michele Placido e Stefano Massini (2016), girato su di una sceneggiatura scritta originariamente per il teatro da Stefano Massini, è ispirato ad una storia reale avvenuta a Yssingeaux in Francia nel 2012: ma è anche specchio tante storie che segnano il mondo del lavoro nel tempo della globalizzazione e della crisi.
Il film ambienta la scena in una fabbrica del centro Italia, nei giorni vicini alla festa del Natale. Tutto attorno, una città ingrigita dal freddo e dalla crisi economica che morde fa da contorno, un po’ distratta, un po’ partecipe nel seguire gli aggiornamenti dei servizi televisivi, in un intrecciarsi nervoso di vite diverse, specchio di tempi in cui la vita delle operaie esprime la vicenda di un mondo fatto di diversità, di conflitti, di paure.
Tra di loro infatti ci sono le immigrate, albanesi e africane, ci sono le anziane operaie che hanno trascorso una vita in quella fabbrica – tra di esse una è interpretata da Fiorella Mannoia al suo esordio cinematografico – vi sono donne giovani e mature con i loro drammi di povertà, di lotta per la vita, di violenza e ingiustizia subita magari in silenzio per non perdere lavoro e pane. La fabbrica in crisi, a rischio di chiusura, sta vivendo giornate decisive nella prospettiva di essere acquisita da parte di una compagnia straniera.
La manager francese, figura inquietante nella suo fare sbrigativo, nell’affettata cortesia dei modi, non riesce a nascondere il senso di superiorità e la sua indifferenza nel suo giungere in Italia per un affare da disbrigare il più velocemente possibile. La sua unica preoccupazione è concludere in tempi brevi e senza complicazioni la trattativa secondo modalità già sperimentate per non suscitare reazioni, per tornare in serata nel suo mondo familiare dorato, un mondo altro rispetto al mondo delle lavoratrici che sostano ai cancelli.
Il film ripercorre la lunga giornata che deve segnare la conclusione dell’accordo con i proprietari italiani desiderosi anch’essi di chiudere secondo il loro stile di gestione familistica italiana che ha unito paternalismo, mire di solo profitto e sottile sfruttamento contrabbandato per assistenzialismo. Un tempo colmo di tensione quello dell’attesa, che raccoglie attorno alla fabbrica tessile le paure e le speranze dei dipendenti, quasi tutte donne, e fa emergere tensioni e drammi, dubbi talvolta insolvibili tra necessità di lavorare e desiderio di lotta per la dignità propria e altrui.
La riunione tra la dirigenza e la manager francese si prolunga per tutta la mattinata fin oltre l’ora di pranzo, sfidando la resistenza delle delegate del consiglio di fabbrica che attendono in locali spogliatotio, squallidi e freddi, la loro portavoce, esasperate dall’attesa. Anche all’esterno i picchetti delle centinaia di dipendenti attendono notizie che possono determinare non solo i loro posti ma la vita delle loro famiglie, il loro futuro. Anche lì la preoccupazione appare solo quella di poter continuare a lavorare.
Il ritorno della portavoce Bianca, interpretata magistralmente da Ottavia Piccolo, tra le delegate con la richiesta di una decisione da prendere insieme nel tempo di due ore, segna l’inizio di un confronto drammatico. Le richieste dei nuovi acquirenti appaiono innocue, addirittura vantaggiose: la fabbrica non chiude, non vi saranno licenziamenti, né sono previste delocalizzazioni. L’unica richiesta posta in calce ad una lettera indirizzata ad una per una delle delegate sindacali è di approvare la riduzione della pausa pranzo di sette minuti. Un’inezia. Una riduzione che sui quindici minuti previsti potrebbe non fare alcun problema.
Ma dietro a quei sette minuti può celarsi un ricatto molto più profondo: quella pausa che decenni prima era di quarantacinque minuti si è venuta nel tempo restringendo sempre più. Può sembrare nulla e molte voci di queste donne che appaiono come immerse nell’acqua nel tentativo di non affogare nella lotta quotidiana per sostenere figli e casa, dove spesso mariti sono assenti o anch’essi senza lavoro e in cassa integrazione, fanno presenti le ragioni del perché non si possa rinunciare a tale offerta. Ne va della possibilità di lavorare, ne va del pane subito per le proprie famiglie. Ne va del superamento della grande paura di perdere il lavoro, di una chiusura immediata. Tutto nel quadro di considerazioni esistenziali, umane, legate al proprio presente e alle proprie situazioni personali. Eppure nel dialogare difficile, teso, in cui emergono invidie, spaccature, ferite ma in cui anche si rende vivo il dramma di violazioni sopportate e di ingiustizie patite in silenzio, si fa strada piano piano la consapevolezza che quei sette minuti sono un sorta di prova: un primo passo per saggiare quanto sono disposte a cedere pur di lavorare, quale dose di ingiustizia sono disposte a sopportare. Sono un modo per metterle l’una contro l’altra togliendo ogni ragione di solidarietà comune. Sembra nulla, ma tocca la dignità; reca in sé il boccone avvelenato di un lavoro inteso come concessione ed elemosina che non si può rifiutare ma solo accettare senza regole, ognuna per conto suo, e senza condizioni perché non c’è alternativa.
Le parole di queste donne sono talvolta disarticolate povere, preda di emozioni senza filtro, sono parole urlate insieme ad insulti tra scatti di rabbia e aggressività che trova via di sfogo nel pianto e nell’offesa, sono grida di oppressi. Sono espressione della sensibilità di chi da immigrata ricorda come prima cosa è salvarsi e poi pensare ai diritti e a tutto il resto, sono la disperata invocazione di chi sa che senza quello stipendio precipita nella marginalità con i figli, sono sconsolata confessione di ingiustizie patite e di umiliazioni sopportate pur di portare il pane a casa. La discussione spacca quella piccola assemblea di undici donne, ne provoca l’affiorare dei sentimenti più ostili e la sfiducia che giunge ad opporre le une alle altre.
Fino a minare la forza pacata della portavoce, Bianca, donna che dalla sua età matura sa vedere lungo e porta la sofferenza per la scelta drammatica in cui vede costretta lei stessa e le sue compagne, porta il peso della loro immaturità e della mancanza di consapevolezza, ed esprime una saldezza intensa e interiore, vissuta in un silenzio più forte di una protesta gridata.
Alla fine la decisione esprime una resistenza, ma lascia aperta la domanda sulle condizioni del lavoro oggi. Quelle donne sono state caricate di un peso insopportabile: hanno preso su di sé non solo la preoccupazione per la loro vita ma nel loro faticoso confronto hanno assunto la vita di tante altre. … L’agnello ha preso su di sé il peccato del mondo. ‘Prendere su di sé’ è anche la storia di tanti che si fanno carico di altri nella loro vita…
Alessandro Cortesi op
Ascensione del Signore – anno B – 2024
At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Gesù tornerà: è questo l’annuncio della prima comunità. Il Risorto che ha vinto la morte non sarà più incontrato tornando al passato, ma viviamo ora nella sua assenza e Lui viene e tornerà E’ possibile ora vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.
Alla richiesta degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, cioè prevedere il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio a vana curiosità, a non lasciarsi distogliere da ciò che è più importanti. Sposta la loro attenzione, li invita a guardare il presente sperimentando sin d’ora il suo esserci in modo nuovo, nell’assenza. Chiede così di vivere l’attesa dando fiducia alla promessa del Padre; chiede di prepararsi a ricevere la forza dello Spirito. Lo Spirito scende come dono dall’alto e diviene fonte della testimonianza. La promessa del Padre è che tutti possano avere parte alla morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito è il dono di Gesù risorto e nello Spirito farà sentire la sua presenza. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma sarà possibile in modo nuovo, nella fede, nella forza dello Spirito. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: quando ci sono momenti di rivelazione di Dio nella Bibbia si richiama alla nube. Ora lo spazio di Gesù è lo spazio di Dio, una dimensione nuova rispetto allo spazio e al tempo umani che Gesù ha vissuto. La sua presenza continua e segnerà i cuori e si farà vicina nei segni del suo chiamare e passare: lo Spirito è dono che accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione ‘voi mi sarete testimoni’.
Alla fine del suo racconto Marco riporta un mandato di Gesù ai suoi: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che ha rivelato la signoria di Cristo sulla storia: è una signoria particolare perché si attua nel dono, nel servizio, nell’amore fino alla fine. I discepoli di Gesù sono ora inviati ad allargare lo sguardo, ad andare, a dare testimonianza di quanto Gesù ha fatto e detto. “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”. I segni e la parola sono al centro della testimonianza: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte è operante nella storia e procede con il corso della parola del vangelo, nonostante le contraddizioni. La testimonianza dei credenti dovrà confrontarsi con la fatica e il buio, ma conoscono la strada che Gesù ha percorso. Nel vangelo di Marco è questa la strada verso Gerusalemme, strada di fedeltà nell’essere uomo-per-gli-altri (Mc 10,45).
La seconda lettura offre un’ulteriore sottolineatura: ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona la presenza dello Spirito che conduce nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella comunità che sperimenta e accoglie la molteplicità di doni e di servizi, si può fare esperienza dell’agire dello Spirito; non eliminando le differenze, e non appiattendo le diversità. La chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come relazione di scambio e di incontro, divenendo icona della vita trinitaria. L’ascensione è festa della glorificazione di Cristo nella sua umanità e coinvolgimento di noi tutti nella comunione che sgorga dalla sua morte e risurrezione.
Alessandro Cortesi op
Una Dichiarazione del Movimento nonviolento
«Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».
È questo il cuore della dichiarazione di obiezione di coscienza che il Movimento Nonviolento lancia con la Campagna di Obiezione alla guerra. Una risposta, immediata e convinta, alle dichiarazioni del Capo di Stato maggiore, il generale Masiello: “L’Esercito italiano va potenziato: servono più tecnologie e più soldati”, un chiaro messaggio al governo per avere più fondi per il comparto militare, come se non bastassero i 28 miliardi previsti per il 2024, e un avvertimento per l’opinione pubblica, che si prepari a provvedimenti da mobilitazione pre bellica, come il ripristino della leva. Non solo i militaristi fondamentalisti come Vannacci e Bandecchi si sono subito allineati, ma l’intero coro governativo, in perenne parata militare, intona il ritornello “dobbiamo prepararci al rischio di prossimi conflitti”. Dunque è tempo di rispolverare il motto “né un soldo né un uomo per la guerra”, che va aggiornato con l’aggiunta di “né una donna”, perché la chiamata alle armi riguarda ormai tutti e tutte.
La procedura per dichiararsi obiettori di coscienza è semplice: si compila e si sottoscrive la Dichiarazione di obiezione, che viene mandata ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Viene anche chiesto alle autorità competenti che i nomi di coloro che sottoscrivono vengano inclusi in un apposito Albo dove siano elencati tutti gli uomini e tutte le donne che obiettano alla guerra e alla sua preparazione. In pratica si chiede di formalizzare l’elenco di coloro che fin da ora, e in futuro, non sono in alcun modo disponibili all’uso delle armi. Presso il Ministero della Difesa esiste già l’elenco degli obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare dal 1972 in poi, così come presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 in poi hanno già svolto il servizio civile.
La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti, giovani o adulti, donne e uomini, chiarisce che chi firma ripudia la guerra e vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). Inoltre chi aderisce a questa forma di obiezione di coscienza dichiara che non vuole sottrarsi al dovere di proteggere la comunità e quindi sollecita il Parlamento all’approvazione di una Legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.
Ai rumori di guerra sempre più forti, le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, rispondono spingendo sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione generale. La Russia ha annunciato il via libera alle esercitazioni con armi atomiche tattiche, dall’altra parte c’è chi ha già arruolato Dio come proprio alleato, e la Francia preme per l’invio di truppe nel teatro bellico. Gli ingredienti per far mettere l’elmetto e togliere la sicura, ci sono tutti.
La risposta immediata a questa follia in stile futurista, per cui “la guerra è la sola igiene del mondo”, è la fermezza del No, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi.
Mao Valpiana – Presidente del Movimento Nonviolento
La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento azionenonviolenta.it e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e inviata personalmente. Nei primi giorni di campagna, sono già migliaia le dichiarazioni compilate e raccolte.
Verona, 6 maggio 2024
(Pubblicato su il Manifesto del 7 maggio 2024, p. 5)