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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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Ascensione del Signore – anno B – 2024

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Gesù tornerà: è questo l’annuncio della prima comunità. Il Risorto che ha vinto la morte non sarà più incontrato tornando al passato, ma viviamo ora nella sua assenza e Lui viene e tornerà   E’ possibile ora vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Alla richiesta degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, cioè prevedere il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio a vana curiosità, a non lasciarsi distogliere da ciò che è più  importanti. Sposta la loro attenzione, li invita a guardare il presente sperimentando sin d’ora il suo esserci in modo nuovo, nell’assenza. Chiede così di vivere l’attesa dando fiducia alla promessa del Padre; chiede di prepararsi a ricevere la forza dello Spirito. Lo Spirito scende come dono dall’alto e diviene fonte della testimonianza. La promessa del Padre è che tutti possano avere parte alla morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito è il dono di Gesù risorto e nello Spirito farà sentire la sua presenza. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma sarà possibile in modo nuovo, nella fede, nella forza dello Spirito. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: quando ci sono momenti di rivelazione di Dio nella Bibbia si richiama alla nube. Ora lo spazio di Gesù è lo spazio di Dio, una dimensione nuova rispetto allo spazio e al tempo umani che Gesù ha vissuto. La sua presenza continua e segnerà i cuori e si farà vicina nei segni del suo chiamare e passare: lo Spirito è dono che accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione ‘voi mi sarete testimoni’.

Alla fine del suo racconto Marco riporta un mandato di Gesù ai suoi: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che ha rivelato la signoria di Cristo sulla storia: è una signoria particolare perché si attua nel dono, nel servizio, nell’amore fino alla fine. I discepoli di Gesù sono ora inviati ad allargare lo sguardo, ad andare, a dare testimonianza di quanto Gesù ha fatto e detto. “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”.  I segni e la parola sono al centro della testimonianza: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte è operante nella storia e procede con il corso della parola del vangelo, nonostante le contraddizioni. La testimonianza dei credenti dovrà confrontarsi con la fatica e il buio, ma conoscono la strada che Gesù ha percorso. Nel vangelo di Marco è questa la strada verso Gerusalemme, strada di fedeltà nell’essere uomo-per-gli-altri (Mc 10,45).

La seconda lettura offre un’ulteriore sottolineatura: ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona la presenza dello Spirito che conduce nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella comunità che sperimenta e accoglie la molteplicità di doni e di servizi, si può fare esperienza dell’agire dello Spirito; non eliminando le differenze, e non appiattendo le diversità. La chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come relazione di scambio e di incontro, divenendo icona della vita trinitaria. L’ascensione è festa della glorificazione di Cristo nella sua umanità e coinvolgimento di noi tutti nella comunione che sgorga dalla sua morte e risurrezione.

Alessandro Cortesi op

Una Dichiarazione del Movimento nonviolento

«Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».

È questo il cuore della dichiarazione di obiezione di coscienza che il Movimento Nonviolento lancia con la Campagna di Obiezione alla guerra. Una risposta, immediata e convinta, alle dichiarazioni del Capo di Stato maggiore, il generale Masiello: “L’Esercito italiano va potenziato: servono più tecnologie e più soldati”, un chiaro messaggio al governo per avere più fondi per il comparto militare, come se non bastassero i 28 miliardi previsti per il 2024, e un avvertimento per l’opinione pubblica, che si prepari a provvedimenti da mobilitazione pre bellica, come il ripristino della leva. Non solo i militaristi fondamentalisti come Vannacci e Bandecchi si sono subito allineati, ma l’intero coro governativo, in perenne parata militare, intona il ritornello “dobbiamo prepararci al rischio di prossimi conflitti”. Dunque è tempo di rispolverare il motto “né un soldo né un uomo per la guerra”, che va aggiornato con l’aggiunta di “né una donna”, perché la chiamata alle armi riguarda ormai tutti e tutte.

La procedura per dichiararsi obiettori di coscienza è semplice: si compila e si sottoscrive la Dichiarazione di obiezione, che viene mandata ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Viene anche chiesto alle autorità competenti che i nomi di coloro che sottoscrivono vengano inclusi in un apposito Albo dove siano elencati tutti gli uomini e tutte le donne che obiettano alla guerra e alla sua preparazione. In pratica si chiede di formalizzare l’elenco di coloro che fin da ora, e in futuro, non sono in alcun modo disponibili all’uso delle armi. Presso il Ministero della Difesa esiste già l’elenco degli obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare dal 1972 in poi, così come presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 in poi hanno già svolto il servizio civile.

La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti, giovani o adulti, donne e uomini, chiarisce che chi firma ripudia la guerra e vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con  la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). Inoltre chi aderisce a questa forma di obiezione di coscienza dichiara che non vuole sottrarsi al dovere di proteggere la comunità e quindi sollecita il Parlamento all’approvazione di una Legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.

Ai rumori di guerra sempre più forti, le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, rispondono spingendo sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione generale. La Russia ha annunciato il via libera alle esercitazioni con armi atomiche tattiche, dall’altra parte c’è  chi ha già arruolato Dio come proprio alleato, e la Francia preme per l’invio di truppe nel teatro bellico. Gli ingredienti per far mettere l’elmetto e togliere la sicura, ci sono tutti.

La risposta immediata a questa follia in stile futurista, per cui “la guerra è la sola igiene del mondo”, è la fermezza del No, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi.

Mao Valpiana – Presidente del Movimento Nonviolento

La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento azionenonviolenta.it e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e inviata personalmente. Nei primi giorni di campagna, sono già migliaia le dichiarazioni compilate e raccolte.

Verona, 6 maggio 2024

(Pubblicato su il Manifesto del 7 maggio 2024, p. 5)

III domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è  coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.

E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno B – 2023

Is 61,1-2.10-11; 1Tess 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

“Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri”. Il profeta riconosce al cuore della sua vita un invio: mandato a portare il lieto annuncio ai poveri nella forza dello Spirito. E’ inviato per la gioia: deve porre gesti di cura e liberazione, fasciare piaghe dei cuori, liberare i prigionieri. Il suo annuncio si rende vicino in gesti di liberazione. La prassi da attuare indica lo stile di Dio, la misericordia ed apre un tempo segnato dalla misericordia. Questa novità segna la vita del profeta e lo coinvolge per primo: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza”. Il mantello della giustizia lo avvolge perché “il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti”. Lo sguardo si allarga a comprendere un sogno di giustizia e di pace che coinvolge tutte i popoli chiamati ad accogliere una azione di Dio stesso che pur tra le contraddizioni sta facendo germogliare una novità nella storia.

Nella pagina del vangelo Giovanni il battista è chiamato a rendere testimonianza in rapporto a Gesù. Giovanni sperimenta il rifiuto della sua azione ed è accostato con ostilità e sospetto. Ma le sue risposte a chi lo interroga sono tutte rivolte ad un altro: la sua missione di ‘testimone’ lo orienta in rapporto alla luce ed in questo si oppone alle tenebre della violenza. “Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce”. Così parla di se stesso quale ‘voce’ che richiama a preparare una via: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore”. La sua esistenza è rivolta verso, indica qualcuno, è protesa ad una preparazione e suscita una ricerca: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me”. Il gesto da lui proposto a tutti, l’immersione come battesimo intende coinvolgere in questa ricerca e attesa. E’ preparazione e chiede cambiamento e conversione. Attesa e disponibilità per un cambiamento della vita. Tutta l’attenzione è fatta convergere su Gesù. Nei tratti del Battista si può ritrovare il profilo dell’uomo di Dio: nella prova, consapevole della propria fragilità, pur affrontando le delusioni per il mancato riconoscimento e le sofferenze per il rifiuto, si mantiene fedele, testimonia la luce. Vive la testimonianza di una gioia che viene da Dio, dal suo dono. E prepara un incontro.

“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4-5): Paolo indica una gioia che non è fuga dalla storia e nemmeno chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò che angustia e opprime. Rallegrarsi non è l’attitudine dei superficiali e degli indifferenti ai drammi ed alle tragedie della stori e del vivere, ma lo stile di chi accoglie il venire del Signore. Non è illusione vana ma lo sguardo profondo che trae la sua forza dal fatto che il Signore è vicino. E il Signore è vicino perché è entrato in questa nostra storia legandola a sé in modo definitivo. Continua a farsi vicino nelle chiamate all’interno della storia personale e collettiva. E’ vicino perché attendiamo il suo ritorno come raduno e come incontro, fine della storia, porto di ogni navigazione. La radice più profonda della gioia sta nella consolazione di una presenza che viene.

Alessandro Cortesi op

XII domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Ger 20,10-13; Rom 5,12-15; Mt 10,26-33

“il Signore è al mio fianco come un prode valoroso per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere”

La pagina di Geremia riporta l’espressione di una confessione personale. La vicenda del profeta sorge dall’accoglienza generosa di una chiamata percepita quale appello ineludibile nella propria vita: Geremia propone l’immagine della parola proveniente da Dio posata sulle labbra deboli di un uomo per dire la forza di questa chiamata ed il coinvolgimento che essa ha generato in lui. Questa parola reca in se stessa la spinta ad annunciare e testimoniare. Ma da quel momento il profeta si è trovato a dover affrontare pericoli e ostilità. In pagine dense di passione Geremia non nasconde i pensieri nascosti che si affacciano alla sua mente: il desiderio di abbandonare tutto, l’idea di ritirarsi e di non assecondare più quell’entusiasmo iniziale di testimonianza. Tuttavia avverte nel suo cuore come un fuoco ardente. Nonostante i pesi  e l’ostilità continua a vivere in una consapevolezza della presenza di Dio stesso al suo fianco. Come qualcuno forte che lo sorregge e difende, come un prode valoroso. I nemici non potranno prevalere. Questa pagina respira dei passaggi di recupero di una profonda fiducia e di un faticoso superamento del timore. Geremia confida che il Signore scruta il cuore e la mente. Si apre ad un volto di Dio che non lo risparmia dalle sofferenze ma che gli sta accanto e lo guida così come libera la vita dei poveri.  A lui ha affidato la sua vita. Dalla paura e dal senso di impotenza passa alla fiducia e alla scoperta di un volto nuovo di Dio: “cantate inni al Signore, lodate il Signore perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori”. La sua confessione è sincera, non nasconde la crisi, la rivolta e d’altra parte legge la sua vita in un rapporto unico con Dio quale presenza interiore e vicina.

Le parole di Gesù riportate da Matteo sono un invito alla fiducia. In esse riprende la convinzione propria della tradizione: “Un uccello non cade a terra senza il volere del cielo, tanto meno l’uomo” (Talmud Shebit 9,38d). I passeri, uccelli piccoli e insignificanti erano venduti per uno spicciolo di rame. Guardando i passeri Gesù parla di Dio. Il suo sguardo alla natura e agli animali si fa spazio di stupore per la presenza stessa di Dio non al di fuori ma nel tessuto stesso della creazione. Parla così del Padre come Dio delle piccole cose. E gli elementi  insignificanti della natura, del mondo animale sono letti come rinvio al Dio che non trascura le minuzie spesso invisibili. Gesù racconta così il Dio della cura e dell’attenzione. Il suo sguardo si lascia afferrare dalla vita e dalle quotidiane vicende dei suoi figli.

Gesù invita a non lasciarsi vincere dalla paura che blocca e rinchiude. Invita anche a  a non coltivare attitudini di conservazione e di difesa, che rendono la vita asfittica e segnata dalla tristezza. Il timore è per chi può togliere il respiro della vita (l’anima), non per chi può uccidere … “voi valete più di molti passeri”

Gesù richiama ad fiducia serena, di abbandono senza riserve di accoglienza dello sguardo del Dio dei passeri. E’ una fiducia non sognante e disincarnata ma forza che alimenta la testimonianza e il coraggio nelle difficoltà. Nel momento della prova il discepolo dovrà ricordare la testimonianza stessa di Cristo e vivere una solidarietà con lui fino alla fine. Confessare il Signore Gesù davanti agli uomini è percorrere la strada di Gesù stesso e affrontare anche lo scandalo della morte. Gesù non propone ai suoi una via di successo mondano, arricchimenti o gratificazioni sociali: li chiama a condividere  il cammino da lui percorso, la via del dono e dell’amore, la via del seme gettato che perdendosi si fa fecondo di vita per altri e di amore: è l’amore rimane per sempre ed è più forte della morte stessa.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2021

Ascensione, dai Vangeli di Rabbula, VI sec. d.C. Miniatura su pergamena, 34 x 27 cm. Folio 13v. Firenze, Biblioteca Laurenziana

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11)

La narrazione dell’ascensione è un altro modo per esprimere l’evento della Pasqua. Il crocifisso non è rimasto rinchiuso nel buio della morte ma ha vinto la morte con il suo amore ed è vivente in modo nuovo.

La comunità dei suoi discepoli è chiamata a vivere nell’assenza di Gesù, in un vuoto che tuttavia è abitato dalla promessa di un incontro.  Verrà: l’umiliato nella morte, tornerà nella gloria. Ma la sua presenza non è solo attesa in vista del ritorno. Si apre sin d’ora la possibilità di vivere un incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Di fronte alle richieste degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, ossia di dominare il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio ad una curiosità che impedisce di guardare al presente e di aprirsi a lui in modo nuovo. Invita per questo ad attendere: è attesa fondata sulla promessa del Padre, sulla sua fedeltà. Ed è attesa di ricevere la forza dello Spirito, fonte della testimonianza. Lo Spirito è il dono di Cristo risorto: il suo agire nella comunità continua per mezzo dello Spirito. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma nella forza dello Spirito.

‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: la nube nella Bibbia rinvia alle teofanie. La sua presenza è quella di Dio che si fa vicino e chiede uno sguardo rinnovato capace di scorgere i segni che ci ha lasciato: lo Spirito guida nell’esperienza dell’incontro con lui nella fede e rende testimoni della sua risurrezione: ‘voi mi sarete testimoni’.

Ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona lo Spirito, presenza-dono che conduce ad entrare nella relazione di amore del Padre e del Figlio. La comunità è coinvolta in questa chiamata ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella chiesa si attua allora una molteplicità di doni e una diversità di servizi, frutto dell’azione dello Spirito; nell’accogliere molteplicità e varietà, la chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come comunione:

“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11-12).

Gesù affida ai suoi il mandato: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che compie la signoria di Cristo sulla storia e sul mondo, una signoria particolare perché signoria del servizio e dell’amore fino alla fine. I discepoli sono inviati ad un camminare e operare che li supera e sta dentro a quanto essi vivono: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20).

Alessandro Cortesi op

Non dimenticare Gerusalemme

“Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace,” e richiedono un intervento urgente. La violenza usata contro i fedelimina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un’altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all’umanità da Dio stesso”.

Così si esprime la dichiarazione del patriarcato latino di Gerusalemme del 9 maggio 2021 (riportata integralmente dal sito www.oasiscenter (https://www.oasiscenter.eu/it/dichiarazione-patriarcato-latino-gerusalemme-violenze-gerusalemme)  

La dichiarazione riprende le affermazioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani secondo cui con tali determinazioni  lo stato di diritto viene “applicato in modo intrinsecamente discriminatorio”. La questione del quartiere di Sheikh Jarrah non è una disputa tra privati ma è denunciato nei termini di “un tentativo ispirato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa”.

La dichiarazione ricorda anche il diritto di accesso ai Luoghi santi e denuncia le manifestazioni di forza con cui è stato negato tale diritto ai palestinesi proprio durante il mese di preghiera di Ramadan alla moschea di Al Aqsa.

“Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l’anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri. La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque.”

Viene richiamato il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite che se fossero attuate costituirebbero una via di soluzione al conflitto in atto e potrebbero aprire la via per un riconoscimento di due Stati e per porre fine alle politiche di discriminazione di violazione continua e quotidiana di diritti umani fondamentali perseguite dall’amministrazione di Israele nei confronti dei palestinesi. La dichiarazione ricorda che Gerusalemme è città sacra alle tre religioni monoteiste “in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l’uguaglianza e la pace”.

E’ poi richiamato che la costruzione della pace richiede innanzitutto l’attuazione di rapporti di giustizia e riconociemnto dei diritti umani. Sulla base dell’ingiustizia nessuna pace sarà possibile: “Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l’ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette. Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme”.

“Siamo sull’orlo di un baratro. Scene da buio della specie, con linciaggi da una parte e dall’altra, assalto a sinagoghe e moschee, vanno condannate e fermate. Non è questo odio tra i popoli che serve anche e soprattutto alla parte infinitamente più debole, quella palestinese, come dimostra la sproporzione delle vittime. Questo odio ci ripugna e probabilmente chiama in causa le tre religioni monoteiste che sul Medio Oriente qualche responsabilità nel conflitto ce l’hanno. Ora occorrerebbe invece una vera mobilitazione democratica, consapevole del precipizio rappresentato da un’altra guerra in Medio Oriente e nel già mortale Mediterraneo, perché la crisi di Gerusalemme è il cuore della crisi internazionale”. Così scrive Tommaso Di Francesco (Un silenzio complice dell’orrore, “il manifesto” 14 maggio 2021) osservando: “E insieme servirebbe una vera iniziativa diplomatica internazionale per fermare la crisi arrivata sull’orlo del baratro. Purtroppo in verità, guardando quel che accade e ai veti nel Consiglio di sicurezza Onu, non c’è né l’una né l’altra (…) Del resto di che sorprendersi, così si porta a termine l’espulsione definitiva anche nel luogo più simbolico, dove i militari israeliani sparano, in pieno Ramadan, come in un tiro segno. Infatti nella Cisgiordania occupata centinaia di insediamenti dei coloni integralisti hanno espulso così tanti palestinesi dalla loro terra che non esiste più la continuità territoriale perché nasca uno Stato palestinese – senza dimenticare il Muro, lo sradicamento violento delle colture, l’abbattimento delle case, i posti di blocco che spezzano la vita, la repressione quotidiana con uccisioni che non fanno notizia nei media occidentali, le migliaia di detenzioni arbitrarie”.

Così in un’intervista all’agenzia AdnKronos ha affermato Moni Ovadia, artista musicista e scrittore di origine ebraica: “La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. (…) Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare a pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Netanyahu. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”. (intervista adnkronos 11.05.21 https://www.adnkronos.com/moni-ovadia-politica-israele-infame-e-senza-pari-strumentalizza-shoah_3151RAi6zwnLmC7HGWrGLY)

Il pensiero di questi giorni pasquali corre a Gerusalemme, città che reca in sé una chiamata e un sogno di pace ma in cui ancora in questi giorni si rendono presenti i gesti della sopraffazione, dell’ingiustizia e della violenza. L’attenzione a quanto sta avvenendo a Gerusalemme e in Palestina riporta alle parole di Gesù  “ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme ma di attendere l’adempimento delle promesse del Padre” (At 1,4) e all’impegno a pregare e operare perché non sia lasciato spazio a ideologie estremiste che negano possibilità di vivere al popolo palestinese  e perché l’orientamento a percorrere sentieri di giustizia applicando le risoluzioni dell’ONU possa aprire a nuova stagione di pace e non di guerra.

“Se mi dimentico di te, Gerusalemme, / si dimentichi di me la mia destra; / mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, / se non innalzo Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 137,4-6).

Alessandro Cortesi op  

IV domenica tempo ordinario – anno B – 2018

IMG_2075.jpgDeut 18,15-20; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28

“Il Signore disse: Io susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Deut 18,16). Profeta è l’uomo della Parola, la cui vita è segnata da un incontro e da una chiamata. Contesta i falsi volti di Dio e la religiosità che si allea con il potere. Richiama al volto di Dio protettore dello straniero, dell’orfano, della vedova e ad un culto che si attua nella vita (Is 1,16-17). Il profeta si contrappone al re sta come voce critica che richiama la Parola nei confronti della tentazione continua di ridurre il rapporto con Dio ad una giustificazione del predominio sugli altri, delle strutture di ingiustizia e della guerra (cfr. Am 5,14-15).

La pagina del vangelo di Marco presenta Gesù come profeta ‘uomo della parola’, dell’insegnamento. Il verbo ‘insegnare’ ritorna con insistenza: “si mise ad insegnare. Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità…”.

Il tempo è il giorno di sabato, memoria del riposo di Dio nella creazione e dell’alleanza nel dono della legge. Il luogo è la sinagoga, uno dei vari luoghi in cui Gesù passa nell’arco della giornata di Cafarnao descritta nel capitolo 1 del vangelo di Marco. Nel luogo della comunità e della Parola Gesù presenta un insegnamento pacato, non gridato, una parola che incontra la vita. Un insegnamento che attira ed affascina perché espressione di una autenticità e libertà, di chi dice una parola che sgorga dall’interiorità della sua esistenza, come testimonianza.

Marco sottolinea la contrapposizione tra l’insegnamento di Gesù e il grido dell’uomo posseduto da uno spirito immondo. Proprio lì al centro del luogo religioso: “si mise a gridare: ‘che c’entri con noi Gesù nazareno? Io so chi tu sei: il santo di Dio!’. E Gesù lo sgridò: ‘Taci, esci da quell’uomo’. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”

Una voce grida l’identità di Gesù in modo prepotente. Gesù invita al silenzio: ‘Ammutolisci ed esci da lui’. Al centro del luogo religioso è presente la forza del male come grido violento che contrasta l’insegnamento di Gesù. Il suo insegnare si fa gesto di liberazione e apre il passaggio dal grido all’ascolto. L’ascolto è l’attitudine fondamentale del credente. Non una parola che fa morire, ma una parola che fa vivere.

Quell’uomo gridava, dominato dal male, contro la parola di Gesù: riconosce la sua identità come proveniente da Dio: ‘il santo di Dio’. Eppure Gesù lo sgrida: si contrappone alla violenza che divide (satana) e tiene schiavi. Quell’uomo sembra forte perché grida e s’impone ma è dominato e oppresso. Con la sua parola Gesù restituisce quell’uomo a se stesso, apre ad una libertà nuova.

Marco delinea in Gesù il modello di un educatore. Nella sua opera apre spazi alla crescita, alla vita di ognuno. Ed è sottolineata la meraviglia perché il suo insegnamento era ‘nuovo’, una parola significativa. La parola di Gesù richiama così la promessa annunciata nel Deuteronomio: “All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: Questi è davvero il profeta” (Gv 7,40; cfr. Gv 6,14). E’ insegnamento che tocca la vita, che apre rapporti di libertà.

Il dono di essere profeti nel popolo di Dio è dono di ascolto di questa parola che può coinvolgere e trasformare la nostra esistenza.

Alessandro Cortesi op

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Milano, Museo della Shoah, Binario 21

Insegnare: coltivare la memoria

«Ho dovuto diventare vecchia per accettare di vedere le cose che mi erano capitate sotto gli occhi e che mi ero limitata a guardare». Con queste parole Liliana Segre sintetizza il suo percorso: lo situa tra “guardare” e “vedere”. Pochi giorni fa ha ricevuto a sorpresa la nomina di senatrice a vita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quale testimone dello sterminio nazista e delle sofferenze del popolo ebraico e di tutti coloro che furono perseguitati dalle leggi razziali del 1938 in Italia, di cui quest’anno ricorre l’anniversario.

Ha vissuto un lento percorso per poter scorgere in profondità ciò che aveva vissuto e che ha segnato nella sofferenza la sua esistenza. «Io per troppi anni ho guardato senza vedere. Tutto: dai mucchi di cadaveri alle compagne inginocchiate. E quelle che si sono attaccate ai fili elettrici per uscire». Il suo percorso stato quello di una bambina di una famiglia borghese a Milano che ad un certo punto, a seguito delle leggi razziali, avverte gli sguardi insospettiti, percepisce l’emarginazione crescente attorno a sé e attorno alla sua famiglia.

Aveva otto anni quando le impedirono di recarsi a scuola. In un lento e progressivo percorso di rifiuto l’allontanamento e l’emarginazione divengono sempre più sensibili e conducono in modo repentino da una vita agiata e felice ad una condizione di incertezza e incredulità: molte famiglie ebree fuggono, altre sono incerte ed incredule di fronte al male di cui non si percepiscono i confini. I Segre attendono, fino agli inizi di dicembre del 1943 quando tentano anch’essi di fuggire in Svizzera ma vengono fermati. Riportati a Milano, incarcerati a san Vittore, saranno deportati ad Auschwitz. Dal binario 21 a fine gennaio parte il treno con i vagoni piombati della deportazione. All’arrivo nel lager Liliana è separata dal padre che non rivedrà più e condotta ai lavori forzati. Sopravvive allo sterminio, alla fame e alla marcia del ritorno dopo la liberazione del campo alla fine di aprile 1945. Ma molti anni seguiranno prima che possa passare dall’aver guardato al vedere e a maturare la capacità di raccontare e ricordare.

“Liliana Segre riconquista il diritto a vedere. Comincia a parlare della Shoah nelle scuole di Milano, e da allora non smette più. Parla ai giovani studenti, affinché sappiano. Perché una cosa è leggere un libro di storia, e tutt’altra emozione è sentire la voce e osservare gli occhi e i gesti di che “là” c’è stato. Non è vero che con la generazione dei testimoni, che inesorabilmente ci lascia, anche il ricordo sia destinato ad affievolirsi. Perché chi ha voluto e saputo parlare, come Liliana Segre, ha riacceso la fiamma della memoria. Il ricordo è una cosa viva, che passa da una generazione all’altra, come una candela serve ad accenderne un’altra – l’immagine è di Dina Wardi. Chi la guarda, non può non vederla, la fiamma. Per quanto buio abbia fatto, allora. E per quante ombre possano ancora scendere, ora”. (Giulio Busi, Memoria e testimonianza, Liliana Segre senatrice a vita, “Il Sole 24 Ore” del 20 gennaio 2018)

Dopo aver ricevuto la nomina a senatrice Liliana Segre ha detto “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare… Porterò al Senato la voce di chi subì le leggi razziali…». Parole che sono state pronunciate mentre messaggi e proclami di esclusione e gesti di razzismo si diffondono per l’Europa, si fanno slogan di campagne elettorali nel nostro paese, e il buio dell’odio si presenta ancora con le sue ombre.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno B – 2017

Pieter Bruegel il vecchio predica di san Giovanni Battista 1566 Museo delle Belle arti Budapest(Pieter Bruegel il vecchio, Predica di Giovanni Battista, 1566, Museo Belle Arti Budapest)

Is 61,1-11; 1Tess 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

La terza parte del libro di Isaia è opera di uno o più profeti nel periodo dopo l’esilio. Viene ripreso l’annuncio di consolazione e di speranza del secondo Isaia (Is 40-55) profeta della fine dell’esilio che, leggendo gli eventi, indicava la strada di un nuovo esodo.

Dopo il ritorno dall’esilio però l’esperienza dell’ingiustizia e dell’oppressione genera delusione. Il terzo Isaia medita sulla storia come luogo in cui Dio si rivela e propone un annuncio di speranza: nonostante le contraddizioni e il male Dio non abbandona il suo popolo. Il suo agire è come madre: “Come un figlio che la madre consola, così anch’io vi consolerò… (Is 66,13-14; cfr. Is 49,14s). Lo sguardo del profeta si spinge ad indicare un tempo definitivo e finale, annunciando la speranza di cieli nuovi e terra nuova.

Tratto specifico della sua teologia è l’apertura universale: la salvezza comprende tutti i popoli della terra. In un futuro nuovo i popoli apparterranno a Dio che ama di amore eterno: “Li chiameranno ‘popolo santo’, ‘redenti dal Signore’, e tu sarai chiamata ‘ricercata’ e ‘città non abbandonata’ (Is 62,11-12).

Il profeta avverte la chiamata a portare il lieto annuncio ai poveri, il ‘vangelo’ come bella notizia di gioia a chi ha il cuore ferito, vive in condizione di oppresso, è prigioniero. La lieta notizia è annuncio di un tempo di misericordia del Signore. L’intera pagina è pervasa della gioia: il profeta inviato dovrà consolare, versare olio di letizia e canto di lode.

Un tempo nuovo si apre: Israele sarà ‘popolo di sacerdoti’ e anziché umiliazione si vivrà l’esperienza della gioia e la possibilità di ricostruire città abbandonate. Ed anche lo straniero, avrà posto a questa gioia. La pagina si conclude con l’immagine dello sposo che si prepara per incontrare la sposa, rinvio al rapporto tra Dio fedele e il popolo d’Israele. E’ anno di giubileo (Lev 25,8-17) di liberazione degli schiavi, di condono del debito e redistribuzione delle terre. Il profeta si presenta come annunciatore di questo evento, un anno di misericordia del Signore.

La visione si allarga a cogliere la fecondità dell’agire di Dio: al centro sta l’immagine del giardino in cui il Signore fa germogliare giustizia e lode davanti a tutti i popoli. Il dono di vita di JHWH coinvolge Israele e tutti i popoli.

Gesù nel suo discorso inaugurale nella sinagoga di Nazareth, riprende queste parole presentandosi come il profeta inviato ad annunciare il tempo della grazia (Lc 4,16-21).

Anche nella pagina del vangelo i temi centrali sono la gioia e la testimonianza. La figura di Giovanni Battista compare sin dal prologo di Giovanni. Il venire della Parola, luce che illumina ogni uomo è preparata da un testimone: ‘venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce ma doveva render testimonianza alla luce… “

Nel quarto vangelo l’azione del ‘testimoniare’ è orientata alla figura di Gesù, e rinvia ad un’esperienza diretta di incontro con lui. Il battista parla di sé dicendo che non è lui il messia e indica “in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”.

La sua testimonianza si situa in un’atmosfera di ostilità e opposizione. ‘I giudei’ nel IV vangelo sono simbolo di chi è preoccupato di sé e del proprio potere. Da essi Giovanni Battista viene interrogato con sospetto: le tenebre della presunzione e dell’autosuffi-cienza si contrappongono alla luce. Giovanni dice la sua identità fragile, rivolta ad altro, non autosufficiente: è solamente ‘voce’ … di colui che grida nel deserto: raddrizzate la via del Signore…’ -. Il gesto dell’immersione nelle acque del Giordano, il battesimo da lui proposto, è segno di preparazione ad un intervento di Dio stesso, segno di attesa e di disponibilità ad un cambiamento della vita. Tutta l’attenzione è fatta convergere su Gesù.

Nei tratti del Battista si delinea il profilo del credente che nelle difficoltà vive la gioia del testimone e sta in rapporto con Gesù lasciandosi coinvolgere nella conoscenza di lui che significa incontro e cambiamento della vita.

La gioia è il motivo centrale di questa terza domenica di avvento: è una gioia motivata dall’attesa perché ‘il Signore viene’: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4-5).

Alessandro Cortesi op

Nacimiento_de_San_Juan_Bautista_(Artemisia_Gentileschi).jpg(Artemisia Gentileschi, Nascita di Giovanni Battista – 1635)

Testimone di luce

Artemisia Gentileschi, pittrice del XVII secolo, dipinse questa tela a olio nel 1635, mentre era a Napoli. Commissionata dal vicerè di Napoli, il conte duca Olivares, questa tela era parte di una serie di dipinti sulla vita del Battista. E’ un’opera della maturità di quest’artista che come donna visse tutte le difficoltà per affermarsi con le sue capacità di pittrice in un mondo dominato da uomini. Vittima di violenza in giovane età non smise di lottare per realizzare con la sua arte la capacità e la sensibilità propria delle donne. In questo quadro Artemisia offre una sua personale interpretazione della figura del Battista fissando il momento della nascita.

Sulla sinistra in secondo piano nella penombra si scorge la figura di Elisabetta che manifesta nella contrattura del volto la sofferenza del parto appena avvenuto. Vicino a lei una donna che l’assiste e davanti a lei Zaccaria appare seduto, l’ampia fronte stempiata. Chiuso nel suo mutismo, sta scrivendo su di un foglio il nome del bambino. La scena di destra è composta di più presenze, movimentata e viva. E’ il riflesso di una nascita in un tempo e in una ambiente contemporaneo all’artista, nella Napoli del ‘600, all’interno di un palazzo in cui sullo sfondo s’intravede un panorama sui monti, forse allusione al Vesuvio?

Il neonato Giovanni è accudito da alcune donne che sono vestite nelle fogge della Napoli di quel tempo. I loro movimenti denotano la gioia per la nascita, gli sguardi esprimono dialogo e scambio. I gesti esprimono la calma energia di chi sa prestare aiuto con modi forti e fermi nel tenere in braccio il neonato, nel lavarlo con l’acqua calda preparata e nel predisporre la fasciatura con le fasce tenute già tra le mani per avvolgerlo. Il dialogo dei volti parla di una curiosità e interesse attorno al piccolo che tende le mani in segno di aiuto. In particolare l’ancella di sinistra con la mano sotto il mento è fissata in una posa familiare e nello stesso tempo attenta e interrogativa. In quei gesti quotidiani, attorno a quel momento di vita venuta alla luce il dipinto fa emergere una luminosità particolare.

Artemisia offre un’interpretazione personale di un aspetto della figura di Giovanni, riprendendo sì la narrazione dell’infanzia secondo il vangelo di Luca, ma anche tenendo presente la descrizione del Batista che il IV vangelo offre: “venne come testimone per dare testimonianza alla luce”. La luce e l’ombra nel dipinto di Artemisia costituiscono un elemento rilevante che rende affascinante la composizione. Vi è infatti presentato un contrasto profondo tra lo scuro e la chiarità della luce. Ne risultano esaltati i colori degli abiti, le sfumature delle carnagioni, la luminosità degli sguardi.

La nudità avvolta di luce di Giovanni, al centro, tenuto da mani forti, costituisce il luogo del riflettersi di una luce, riverberata dalla camicia bianca dell’ancella inginocchiata sul catino nell’atto di sciacquare, che si riflette sui volti e sugli abiti delle altre donne a lui intorno. Nella sua vita il Battista è testimone di luce, quella luce che illumina ogni uomo e donna e rende i gesti quotidiani della cura luogo in cui scorgere una presenza di luce. L’incarnazione è annuncio che tutto l’umano, la relazione di sguardi e parole, i gesti del far crescere, la corporeità sono luogo di incontro con Dio. Battista è testimone di questa luce che illumina ogni volto.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

II domenica – tempo ordinario anno A – 2017

img_1465Is 49,3.5-6; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34

‘Rendere testimonianza’ è il verbo del discepolo. Tutta la sua vita sta appesa sul filo di un incontro. Giovanni Battista è così presentato paradossalmente come il discepolo: colui che rende testimonianza, che ‘vede’ e indica la presenza di Gesù anche se non lo conosce. Il suo annuncio è rivolto verso un altro: ‘in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete’ (Gv 1,26). Invita ad un incontro, a conoscere Gesù: ‘sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere ad Israele’ (Gv 1,31). La sua prima testimonianza è l’annuncio di qualcuno che viene dopo di lui. Il gesto dell’immersione nel Giordano esprime un’attesa: ‘Ecco colui del quale io dissi: dopo di me viene un uomo che mi è passato davanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo…’ (1,30). Giovanni Battista è testimone che sta sulla soglia, indica una presenza da scoprire. Non la possiede, non ricerca la sua grandezza ma è rivolto ad altro.

Gesù viene dopo il Battista, ma era da prima. E’ lui la Parola di Dio, il Verbo, che si è fatto carne ed è venuto ad abitare nella storia. Giovanni non lo conosceva ma accoglie nella sua vita la chiamata e l’invio di Dio ad essere testimone: “Io non lo conoscevo, ma colui che mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: l’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito santo” (Gv 1,33)

La sua azione è risposta e come i profeti scopre che nella sua vita c’è un invio: ancora per dono del Padre può riconoscere Gesù.

Gesù è presentato come uomo su cui lo Spirito si ferma e rimane: la sua vita è pervasa da questo soffio di vita. Risuonano in queste righe pagine del Primo testamento: ‘Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza…’ (Is 11,2) ‘Ecco il mio servo… ho posto il mio spirito su di lui’ (Is 42,1).

Gesù viene così riconosciuto come uomo che vive nello Spirito: la sua vita affonda le sue radici nella comunione, con il Padre e con lo Spirito. Per questo comunica la forza del soffio di Dio a noi: con lui inizia un nuovo battesimo, una nuova creazione. Agli inizi lo Spirito aleggiava sulle acque (Gen 1,2) dopo il diluvio una colomba aveva annunciato ancora sopra le acque un mondo nuovo. Ora una colomba, vista da Giovanni sopra Gesù, indica l’inizio di una storia nuova.

La testimonianza di Giovanni è tutta centrata in questo incontro e rivolta al volto di Gesù: ‘E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio’ (Gv 1,34).

Il verbo ‘vedere’ ha una particolare importanza nel IV vangelo il discepolo è chiamato a ‘vedere’: ‘Dio nessuno l’ha mai visto, proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato’ (Gv 1,18). Gesù nel suo essere figlio spiega il Padre, lo racconta nella sua vita umana nei suoi gesti. Il suo agire è via per incontrare Dio stesso. E il discepolo è colui, colei che rende testimonianza e sperimenta questo vedere.

Giovanni Battista vede Gesù come l’agnello: ‘Ecco l‘agnello di Dio che toglie il peccato del mondo’. Il secondo Isaia aveva parlato del ‘servo di Jahwè’ come di un agnello: “Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca: era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Il ‘servo’ ha dato la sua vita in libertà per essere solidale fino in fondo con gli altri e per portarne i pesi, si è reso solidale con tutto un popolo e il tratto primo della sua vita è la nonviolenza. Il quarto vangelo narra che Gesù morì mentre nel tempio venivano sacrificati gli agnelli della Pasqua, (Gv 19,36). Agnello rinvia quindi al suo essere lui stesso il servo, alla antica Pasqua, la partenza dall’Egitto con il segno dell’agnello (Es 12).

Gesù è visto come agnello che si fa solidale: prende su di sé il peso del peccato, ciò che tiene lontani dall’accogliere il farsi vicino di Dio. Lo porta via, vivendo la sua vita come solidarietà e consegna fino alla fine come il ‘servo’ che non s’impone ma offre la sua vita in riscatto per molti (cfr Is 52,13-53,12). L’agnello è immagine che rinvia alla pasqua. La via del discepolo sarà seguire Gesù fino alla pasqua di morte e risurrezione.

Alessandro Cortesi op

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Prender su di sè

Sette minuti è un tempo breve, quasi insignificante. Ma dietro a sette minuti può celarsi un universo di pesi, sofferenze, fatiche. Può nascondersi lo sfruttamento e la lotta per la dignità. Il film “7 minuti” di Michele Placido e Stefano Massini (2016), girato su di una sceneggiatura scritta originariamente per il teatro da Stefano Massini, è ispirato ad una storia reale avvenuta a Yssingeaux in Francia nel 2012: ma è anche specchio tante storie che segnano il mondo del lavoro nel tempo della globalizzazione e della crisi.

Il film ambienta la scena in una fabbrica del centro Italia, nei giorni vicini alla festa del Natale. Tutto attorno, una città ingrigita dal freddo e dalla crisi economica che morde fa da contorno, un po’ distratta, un po’ partecipe nel seguire gli aggiornamenti dei servizi televisivi, in un intrecciarsi nervoso di vite diverse, specchio di tempi in cui la vita delle operaie esprime la vicenda di un mondo fatto di diversità, di conflitti, di paure.

Tra di loro infatti ci sono le immigrate, albanesi e africane, ci sono le anziane operaie che hanno trascorso una vita in quella fabbrica – tra di esse una è interpretata da Fiorella Mannoia al suo esordio cinematografico – vi sono donne giovani e mature con i loro drammi di povertà, di lotta per la vita, di violenza e ingiustizia subita magari in silenzio per non perdere lavoro e pane. La fabbrica in crisi, a rischio di chiusura, sta vivendo giornate decisive nella prospettiva di essere acquisita da parte di una compagnia straniera.

La manager francese, figura inquietante nella suo fare sbrigativo, nell’affettata cortesia dei modi, non riesce a nascondere il senso di superiorità e la sua indifferenza nel suo giungere in Italia per un affare da disbrigare il più velocemente possibile. La sua unica preoccupazione è concludere in tempi brevi e senza complicazioni la trattativa secondo modalità già sperimentate per non suscitare reazioni, per tornare in serata nel suo mondo familiare dorato, un mondo altro rispetto al mondo delle lavoratrici che sostano ai cancelli.

Il film ripercorre la lunga giornata che deve segnare la conclusione dell’accordo con i proprietari italiani desiderosi anch’essi di chiudere secondo il loro stile di gestione familistica italiana che ha unito paternalismo, mire di solo profitto e sottile sfruttamento contrabbandato per assistenzialismo. Un tempo colmo di tensione quello dell’attesa, che raccoglie attorno alla fabbrica tessile le paure e le speranze dei dipendenti, quasi tutte donne, e fa emergere tensioni e drammi, dubbi talvolta insolvibili tra necessità di lavorare e desiderio di lotta per la dignità propria e altrui.

La riunione tra la dirigenza e la manager francese si prolunga per tutta la mattinata fin oltre l’ora di pranzo, sfidando la resistenza delle delegate del consiglio di fabbrica che attendono in locali spogliatotio, squallidi e freddi, la loro portavoce, esasperate dall’attesa. Anche all’esterno i picchetti delle centinaia di dipendenti attendono notizie che possono determinare non solo i loro posti ma la vita delle loro famiglie, il loro futuro. Anche lì la preoccupazione appare solo quella di poter continuare a lavorare.

Il ritorno della portavoce Bianca, interpretata magistralmente da Ottavia Piccolo, tra le delegate con la richiesta di una decisione da prendere insieme nel tempo di due ore, segna l’inizio di un confronto drammatico. Le richieste dei nuovi acquirenti appaiono innocue, addirittura vantaggiose: la fabbrica non chiude, non vi saranno licenziamenti, né sono previste delocalizzazioni. L’unica richiesta posta in calce ad una lettera indirizzata ad una per una delle delegate sindacali è di approvare la riduzione della pausa pranzo di sette minuti. Un’inezia. Una riduzione che sui quindici minuti previsti potrebbe non fare alcun problema.

Ma dietro a quei sette minuti può celarsi un ricatto molto più profondo: quella pausa che decenni prima era di quarantacinque minuti si è venuta nel tempo restringendo sempre più. Può sembrare nulla e molte voci di queste donne che appaiono come immerse nell’acqua nel tentativo di non affogare nella lotta quotidiana per sostenere figli e casa, dove spesso mariti sono assenti o anch’essi senza lavoro e in cassa integrazione, fanno presenti le ragioni del perché non si possa rinunciare a tale offerta. Ne va della possibilità di lavorare, ne va del pane subito per le proprie famiglie. Ne va del superamento della grande paura di perdere il lavoro, di una chiusura immediata. Tutto nel quadro di considerazioni esistenziali, umane, legate al proprio presente e alle proprie situazioni personali. Eppure nel dialogare difficile, teso, in cui emergono invidie, spaccature, ferite ma in cui anche si rende vivo il dramma di violazioni sopportate e di ingiustizie patite in silenzio, si fa strada piano piano la consapevolezza che quei sette minuti sono un sorta di prova: un primo passo per saggiare quanto sono disposte a cedere pur di lavorare, quale dose di ingiustizia sono disposte a sopportare. Sono un modo per metterle l’una contro l’altra togliendo ogni ragione di solidarietà comune. Sembra nulla, ma tocca la dignità; reca in sé il boccone avvelenato di un lavoro inteso come concessione ed elemosina che non si può rifiutare ma solo accettare senza regole, ognuna per conto suo, e senza condizioni perché non c’è alternativa.

Le parole di queste donne sono talvolta disarticolate povere, preda di emozioni senza filtro, sono parole urlate insieme ad insulti tra scatti di rabbia e aggressività che trova via di sfogo nel pianto e nell’offesa, sono grida di oppressi. Sono espressione della sensibilità di chi da immigrata ricorda come prima cosa è salvarsi e poi pensare ai diritti e a tutto il resto, sono la disperata invocazione di chi sa che senza quello stipendio precipita nella marginalità con i figli, sono sconsolata confessione di ingiustizie patite e di umiliazioni sopportate pur di portare il pane a casa. La discussione spacca quella piccola assemblea di undici donne, ne provoca l’affiorare dei sentimenti più ostili e la sfiducia che giunge ad opporre le une alle altre.

Fino a minare la forza pacata della portavoce, Bianca, donna che dalla sua età matura sa vedere lungo e porta la sofferenza per la scelta drammatica in cui vede costretta lei stessa e le sue compagne, porta il peso della loro immaturità e della mancanza di consapevolezza, ed esprime una saldezza intensa e interiore, vissuta in un silenzio più forte di una protesta gridata.

Alla fine la decisione esprime una resistenza, ma lascia aperta la domanda sulle condizioni del lavoro oggi. Quelle donne sono state caricate di un peso insopportabile: hanno preso su di sé non solo la preoccupazione per la loro vita ma nel loro faticoso confronto hanno assunto la vita di tante altre. … L’agnello ha preso su di sé il peccato del mondo. ‘Prendere su di sé’ è anche la storia di tanti che si fanno carico di altri nella loro vita…

Alessandro Cortesi op

 

Pentecoste – anno B – 2015

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(Pentecoste – William Congdon)

At 2,1-11; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27;16,12-15

Ci sono alcuni verbi che segnano le letture di questa festa: parlare (in altre lingue), camminare (secondo lo Spirito) e dare testimonianza. Sono tre verbi che riguardano la vita dei credenti. C’è poi un verbo che sintetizza la missione dello Spirito: vi guiderà… alla verità tutta intera.

Parlare in altre lingue. La narrazione della discesa dello Spirito nel giorno di Pentecoste, mentre il giorno stava per finire, nel momento inatteso e come dono, è espressa da Luca in una serie di immagini. E’ narrazione che reca in sé il tentativo di rendere tangibile un’esperienza interiore e profonda: la prima comunità dopo la morte di Gesù si trova investita di una forza nuova e vive un’esperienza di trasformazione e di apertura inattesa.

Per dire la discesa dello Spirito si fa così riferimento ai prodigi dell’esodo, al momento dell’alleanza e del dono della legge ad Israele (cfr. Es 19,3-20): ol vento, imprendibile e imprevedibile, il fuoco che investe e trasforma mutando la paura in coraggio, un parlare nuovo, capace di comunicare nelle lingue diverse. Lo Spirito inaugura un percorso diverso da quello di Babele: lì la pretesa di avere una sola torre e di imporre una sola lingua sotto un dominio che impone il silenzio, qui la possibilità di comunicare che rende ciascuno in grado di intendere nella propria lingua. Lì la pretesa di un potere unico, qui la presenza della diversità dei popoli. Lì un disegno di egemonia, qui il compimento delle promesse dei profeti (Gioele 3,1-5): ‘io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diventeranno profeti i vostri figlie le vostre figlie’. Dio rimane fedele ed è la sua fedeltà l’origine del dono dello Spirito per tutti i popoli della terra. La presenza dello Spirito è dono che rende presente la promessa di Dio a Babele, quando portò scompiglio nella costruzione della torre. Vento, fuoco e parola in lingue diverse rinviano ad una novità possibile, ad una apertura che rompe le chiusure, ad una diversità riconciliata di razze popoli e lingue: è un dono nuovo da accogliere di riconoscersi figli legati insieme, chiamati a costruire una storia di riconciliazione.

Camminare (secondo lo spirito). Il dono dello Spirito genera una vita nuova: ma è una vita in cui c’è da camminare con tutta la precarietà e i rischi del cammino. Camminare è accogliere la legge dello Spirito, legge di libertà e di dono di sé. Perché nella vita c’è la possibilità di un ripiegamento radicale: il vivere secondo il proprio egoismo, nella preoccupazione solo del proprio interesse e nella dimenticanza degli altri: tutto ciò Paolo lo sintetizza nell’espressione ‘legge della carne’. ‘Carne’ è qui sinonimo di ‘egoismo’, di una vita preoccupata di interessi, comodità e indifferente alla sofferenza dell’altro. Non è discorso dualista che disprezza la sessualità e la corporeità (come spesso si intende ‘la carne’), piuttosto Paolo indica come l’egoismo può segnare ogni aspetto dell’esistenza. A questo modo di intendere la vita si oppone radicalmente la ‘legge dello Spirito’. Una vita nell’apertura e che si comprende come cammino aperto a crescere a nuove comprensioni e maturazioni sempre nuove è una vita che porta frutto. I frutti sono “…amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dono di sé”. Sono questi i segni che indicano i tratti di una vita – in tutte le sue componenti – nella quale si apre la disponibilità a farsi orientare dalla forza dello Spirito.

Dare testimonianza “Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal principio” (Gv 15,26-27).

Il Paraclito ‘consolatore’ è colui che sta accanto e sostiene: è questo ciò che ha vissuto Gesù, e lo Spirito è presentato come presenza vicina di chi sarà il grande suggeritore – vi suggerirà ciò che dovrete dire -, e la grande guida – vi guiderà alla verità tutta intera-. Lo Spirito è indicato come presenza interiore, non racchiudibile, che starà così accanto nel momento della prova, nella faticosa testimonianza quotidiana. E’ lo Spirito di Cristo risorto vivente e da incontrare pur nelle contraddizioni della storia. La presenza dello Spirito è soffio silenzioso che guida all’esperienza dell’incontro con Gesù. E’ lui la verità tutta intera, una verità che non è dottrina da conoscere e di cui pensarsi padroni, ma persona vivente: ‘Io sono la via la verità e la vita’.

Lo Spirito guida e accompagna a lui perché totalmente rivolto a quanto Gesù ha compiuto: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà”. Lo Spirito è presenza dono, capace di ospitalità. Il Iv vangelo parla dello Spirito come  presenza di accoglienza senza limiti nei confronti del Padre, presenza dono che introduce nella relazione tra Padre e Figlio, nella comunione dell’amore che è il volto di Dio: “Tutto quello che il Padre possiede è mio, per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16,15).

minoromero2006cast_499x785Alcune riflessioni per noi oggi

Parlare lingue nuove. 23 maggio 1915: con la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria l’Italia inaugurava il tempo tragico della ‘grande guerra’. Grande perché è stata diversa da tutte le guerre precedenti, grande perché è entrata in ogni famiglia e nelle piccole storie delle persone in una Europa che ha sperimentato come mai prima le sofferenze che la guerra reca con sè e l’assurdità di tanta violenza che ha prodotto dolore e morte. A distanza di tempo da quel giorno le domande sono molte. Ad un secolo di guerre devastanti è seguito un tempo di una guerra diffusa, costituita di tanti conflitti regionali, ma anche da una grande atmosfera di armamento globale, armamento delle coscienze, imbarbarimento delle attitudini verso l’altro, fondamentalismi religiosi e intolleranze razziste. E’ una atmosfera ammorbata quella che respiriamo nel quotidiano, dove la violenza diffusa è generatrice di guerra. In questo tempo in cui ritornano gli appelli alla violenza per scacciare violenze e orrori è da coltivare una memoria sulla assurdità della guerra, è da maturare attenzione alle cause dei conflitti in corso che generano vittime e devastazioni, è importante non lasciarsi vincere dall’indifferenza, lasciar spazio all’ascolto delle voci dei piccoli, di chi è colpito dalla violenza, e porre gesti di vicinanza. Parlare lingue nuove è oggi lasciare spazio al soffio dello Spirito che spinge a comunicare, a tracciare percorsi di pace e giustizia.

Camminare secondo lo Spirito. Lo spirito soffia in chi dà testimonianza al vangelo, e la testimonianza al vangelo è stare dalla parte dei poveri e vivere in solidarietà con loro. Romero è uno dei testimoni delle esigenze del vangelo che ha pagato con la vita la sua scelta per la giustizia, la scelta di alzare la voce contro le sopraffazioni e si è scontrato con chi nella chiesa cercava il compromesso con il potere. Mons. Oscar Arnulfo Romero ucciso il 24 marzo 1990 sarà riconosciuto beato ufficialmente dalla chiesa sabato 23 maggio. In questa occasione è opportuno riflettere sulle parole di Jon Sobrino, uno dei gesuiti sopravvissuti al massacro del 16 novembre 1989 alla Università Centro Americana di El Salvador perché si trovava in Thailandia in quel momento (“La Stampa-Vatican Insider”, 21 maggio 2015): «Sul serio… lo dico sul serio: non mi è mai interessata la beatificazione di Romero (…) Quando l’hanno ammazzato, la gente di qui – non gli italiani e nemmeno in Vaticano – ma i salvadoregni, i nostri poveri, hanno detto subito: ‘È santo!’. Pedro Casaldaliga quattro giorni dopo ha scritto un gran poema: ‘¡San Romero de América, pastor y mártir nuestro!’. Ricorda che anche Ignacio Ellacuria, abbattuto a pochi metri da qui, «tre giorni dopo l’assassinio di Romero ha detto Messa in un aula della Uca, e nell’omelia ha detto: ‘Con monsignor Romero Dio è passato per El Salvador'”. “Ero in Tailandia quel giorno e per questo non mi hanno ucciso, ho visto correre il sangue di molta gente nel Salvador, non mi interessano le beatificazioni, spero che le mie parole aiutino a conoscere di più e meglio Ellacuria, vediamo se seguiamo il suo cammino, questo è quello che mi interessa”. La beatificazione di Romero, ‘martire degli incontri’ dovrebbe porre interrogativi sul cambiamento dello stile di chiesa in una chiara determinazione a vivere il vangelo in modo incarnato nella storia, realizzando percorsi di chiesa come popolo di Dio, stando dalla parte degli ultimi e delle vittime.

Dare testimonianza. Una parola di frère Roger di Taizé a dice anni dalla sua morte: “Non arrestarti mai, cammina con i tuoi fratelli, corri verso la meta, seguendo le tracce di Cristo”.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Pasqua – anno B – 2015

3709436_orig(Georges Rouault – Gesù e cinque apostoli Metropolitan Museum of Art)

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

L’annuncio della risurrezione è al cuore della vita della comunità cristiana. Nei discorsi disseminati nel libro degli Atti degli Apostoli, si possono rintracciare gli schemi fondamentali della prima predicazione su Gesù quale primo sviluppo dell’annuncio della fede: al centro sta la testimonianza della morte e della risurrezione di Cristo: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,4).

Nel discorso a Gerusalemme (At 3,12-26) Pietro evidenzia una radicale opposizione. Da un lato l’agire di chi ha condannato Gesù in riferimento agli abitanti di Gerusalemme, ‘voi e i vostri capi’: l’ignoranza, il rifiuto, il rinnegamento e l’uccisione di Gesù. D’altra parte in linea opposta sta l’azione potente di Dio che non lo ha lasciato nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: è lui il Padre, a cui Gesù come Figlio ha affidato tutta la sua vita rivolgendosi a Lui come Abbà, a cui ha consegnato la sua vita nel momento della morte (Lc 23,46): è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La nostra fede oggi si fonda sulla testimonianza di chi ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione. L’esperienza dei primi testimoni fu quella del suo farsi incontro, il medesimo di prima, ma ora vivente in modo nuovo, nella condizione di una vita nuova oltre la morte. Gesù non è tornato alla vita di prima, la sua risurrezione è evento assolutamente nuovo e la sua presenza reale e vicina chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede.

Il Padre rialzando Gesù ha portato a compimento – dice Pietro – ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. La Pasqua è evento insieme di passione morte e risurrezione. L’annuncio dei profeti racchiude l’attesa di un messia che avrebbe attuato la promessa di Dio e avrebbe agito secondo lo stile di Jahwè. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento letterale di una previsione; piuttosto, e molto più profondamente, di una coerenza tra l’agire di Dio nella storia della salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret.

Luca legge tale legame profondo alla luce di quanto è avvenuto nella Pasqua di Gesù. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie ‘che non sono le vostre vie’, per sentieri altri rispetto a quelli dell’apparenza, del potere e della violenza. Cristo compie le Scritture perché si pone inerme davanti al rifiuto, vive lo stile del servizio, si pone dalla parte di e con chi umanamente è disprezzato e tenuto ai margini, percorre la via della misericordia e del perdono, ha il profilo del povero.

Nella prima comunità poteva esserci il rischio di dimenticare che Gesù aveva scelto di vivere come povero, con coloro che erano i poveri di Jahwè, si era messo dalla parte delle vittime, accettando di restare fedele fino in fondo alla via del servizio: Luca presenta questo nel vangelo nel percorso deciso di Gesù verso Gerusalemme sapendo che lì avrebbe incontrato il rifiuto e la condanna. La risurrezione è evento di conferma da parte del Padre che quella via verso Gerusalemme è la via della vita e della risurrezione. E’ il crocifisso che il Padre ha glorificato: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Le narrazioni delle apparizioni di Gesù nei vangeli costituiscono approfondimenti riguardo l’annuncio della risurrezione di Gesù e indicazione su come possiamo incontrarlo nella nostra vita. Luca presenta un incontro con il Risorto a Gerusalemme, centro del suo vangelo, là dove tutto era iniziato, nel tempio (Lc 1,8) e dove ora gli undici e gli altri con loro sono provocati ad aprirsi ad un modo nuovo di incontro con lui.

La prima preoccupazione in questi racconti sta nel presentare il Risorto come il medesimo Gesù crocifisso: la sua presenza è viva e reale. Gesù è veramente risorto. Luca era preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche, presenti probabilmente all’interno della sua comunità, di chi era permeato di cultura e sensibilità greca che deprezzava la dimensione della corporeità. Costoro erano propensi ad accettare la risurrezione come una sorta di immortalità dell’anima ma nulla più. L’annuncio della risurrezione è invece sconvolgente e nuovo. Gesù – dice Luca – non è un fantasma. L’invito a toccare e guardare, è invito ad aprirsi ad un incontro che coinvolge e trasforma profondamente l’esistenza in tutti i suoi aspetti. ‘Sono proprio io’. L’incontro con il risorto si attua in un coinvolgimento della corporeità, ma in una condizione totalmente nuova e perciò investe la dimensione storica dell’esistenza umana.

L’incontro con il risorto avviene nell’esperienza del mangiare insieme: egli per primo chiede qualcosa da mangiare e mangia con loro. In questo gesto sta il significato della condivisione e della concretezza della presenza di Cristo che rimane, anche se ora in modo nuovo, che richiede un percorso di fede. Il mangiare insieme richiama l’esperienza dello stare a tavola di Gesù con pubblicani e peccatori, così come il segno dell’ultima cena in cui Gesù ha manifestato di stare in mezzo ai suoi come colui che serve. Nel mangiare con lui e nel condividere la comunità viene radunata di nuovo dal suo saluto: ‘Pace a voi’. Gesù, in mezzo ai suoi, apre loro la mente all’intelligenza delle Scritture: invita perciò a ritornare alle Scritture scoprendo il disegno di fedeltà di Dio nella storia il luogo in cui incontrare il Risorto.

I doni del risorto sono il saluto di pace e l’apertura della mente per tornare alle Scritture. E’ questo l’orizzonte entro il quale poter vivere oggi l’esperienza del Risorto che ci fa suoi testimoni.

DSCF5592Alcune riflessioni per noi oggi

Gesù chiese loro: Avete qualcosa da mangiare?… “Nutrire il pianeta, Energia per la vita” è il tema dell’Esposizione universale di Milano 2015. Si tratta di una grande manifestazione che pone tanti interrogativi ed evidenzia anche la profonda contraddizione di un mondo in cui si organizza un evento di tale grandezza e non si attuano politiche per dare il pane indispensabile alla vita per tutti. Il rischio è quello di fermarsi alla retorica grandiosa di una manifestazione che non pone quale priorità effettive scelte di lotta alla fame e alla malnutrizione. Grandi multinazionali che sfruttano la terra, la rubano ai contadini e impediscono colture tradizionali faranno mostra di sé all’Expo con i loro finanziamenti.

Tuttavia in questo evento si può rintracciare anche una sfida che pone al centro la questione della possibilità di cibo per tutti oggi nel pianeta e le vie per poter mangiare insieme oggi in modo sano e recuperando quel rapporto fondamentale con la terra, nel rispetto e nella cura.

Mangiare e mangiare insieme è esperienza umana che racchiude una molteplicità di significati: il cibo è innanzitutto frutto di lavoro. E’ il lavoro diversificato dalla coltivazione, alla trasformazione, al commercio, fino alla scelta degli ingredienti per la preparazione di un piatto alla cottura o al dosaggio degli ingredienti.

Il cibo preparato e condiviso è poi il segno di un dono che si riceve: un dono che proviene dalla terra e da Dio stesso, riconosciuto in diverse tradizioni religiose quale fonte della vita e di ogni nutrimento. Ma il cibo è anche dono di chi l’ha preparato, che racchiude la cura e la pazienza, l’affetto di chi si è dedicato nell’attività del cucinare. Attorno al cibo può sorgere l’esperienza della gratitudine per un dono che si riconosce venire da altro e per il lavoro di persone racchiuso in ogni cibo che si mangia.

Mangiare insieme è anche rito in cui si attuano relazioni e in cui si vive una sapienza che sta dentro ai sapori e alle preparazioni dei diversi cibi e sta anche nell’incontro che attorno al cibo si attua. Sapore è termine legato ad una sapienza che ha controni relazionali. Attorno al cibo si vive poi anche la forte esperienza del ricordo, come chi reca nella memoria i sapori e i profumi dei cibi della propria infanzia o di momenti di vita vissuti insieme, o come chi migrante, proprio attraverso il cibo, vive l’esperienza della memoria della propria terra e della comunione con persone con cui ha condiviso la tavola.

Mangiare insieme è esperienza di convivialità: proprio nella convivialità, nel mangiare insieme la prima comunità cristiana scorge un luogo umanissimo d’incontro con il risorto. E’ questa una provocazione a pensare oggi come attuare una convivialità quotidiana capace di accogliere tale dono e come pensare questa convivialità nel dare possibilità a tutti di una alimentazione sufficiente, buona e sana in un mondo affamato di pane quotidiano e di relazioni autentiche.

Alessandro Cortesi op

Appendice: tratto da Gloria Riva, Il pesce, il pendolo e una luce per l’umanità, “Avvenire” del 14 agosto 2014

Chagall400-1“… Il sostantivo ICTYS (pesce in greco), fin dalle origini della cristianità fu considerato acronimo del nome di Gesù: Iesous Christos Theou Uios Soter, ovvero Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. All’indomani della passione Cristo mostra a Pietro come la Chiesa, assisa alla sua mensa, avrebbe mangiato, nei secoli, il cibo della passione. Così 2000 anni dopo un artista ebreo come Chagall per delineare il dramma di un secolo di persecuzioni realizzò una tra le più suggestive sue opere: il tempo è un fiume senza rive.

Immerso nel blu del mistero campeggia un pendolo, segno dello scorrere del tempo; nelle acque del fiume una barca a remi è condotta da un uomo solitario e, dall’altra parte, una coppia amoreggia sulle rive: siamo noi, tutti noi con i nostri affanni e i nostri amori, quasi incuranti degli incendi di persecuzione che rinfocolano qua e là. Ad avvertirci del fuoco che divampa è il grosso pesce sopra il pendolo, Cristo stesso, le cui pinne sono ali infuocate e dal quale, curiosamente, sbuca un braccio che regge un violino. In Cristo Chagall vede tutti gli ebrei passati dentro il fuoco della persecuzione. Eppure quando dipinge quest’opera (dal 1933 al 1939) la shoah non era ancora iniziata. Proprio per questo, per una sorta di spirito profetico dell’artista, il dipinto è paradigma della persecuzione che travolge ogni generazione con i suoi flutti minacciosi, anche la nostra, anche quella cristiana. Eppure già l’ebreo Chagall intuiva che Cristo trionfa, che Egli sta sopra, sopra i gorghi del male, sopra l’inarrestabile corsa del tempo. Cristo si mostra all’uomo credente con la sua insopprimibile vitalità, con le sue ali di fuoco puntate verso l’eternità. Cristo, soprattutto, mostra al Pietro di ieri e di oggi la via d’uscita: quella simboleggiata dal volino, il cui arco, dopo il quadrante dell’orologio, è l’unico punto lucente del quadro. Sì, la via d’uscita è quella della bellezza, che come ebbe a dire Baudelaire, fa intravedere all’anima gli splendori attraverso la tomba”. (Gloria Riva)

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