XVI domenica tempo ordinario – anno C – 2019
Gen 18,1-10a; Col 1,24-28; Lc 10,38-42
Nella sua vita Abramo vive un’esperienza inattesa e sconvolgente: l’incontro con un Dio che passa come ospite, si fa accogliere e dà inizio ad una vita nuova. Il racconto di quanto accade alle querce di Mamre nell’ora più calda del giorno è espressione di tale evento. Dio si fa incontro presso l’albero e vicino alla tenda. In una prima parte l’accoglienza, nella seconda un colloquio.
Alle querce di Mamre Abramo ospita tre visitatori. “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”. Non riconosce chi sono. Ma presta loro la sua ospitalità: si mette a correre, lui vecchio nell’ora più calda del giorno: “Appena li vide corse loro incontro…”. Va poi da Sara nella tenda per chiederle di preparare delle focacce. I gesti dell’ospitalità sono sinceri, generosi, immediati. Dopo la prima parte del racconto in cui è Abramo che agisce di più, la seconda parte concentra l’attenzione su Sara e sulla tenda. Sara riceve la promessa di un figlio. E’ una promessa che la fa ridere perché era qualcosa di impossibile (e il nome Isacco verrà da questo riso). E la parola che giunge è: “C’è forse qualche cosa di impossibile al Signore?’. Il Dio visitatore è Dio che suscita vita. L’ospitalità che allarga i pali della tenda alla presenza di ospiti sconosciuti è esperienza in cui si genera una fecondità desiderata e inattesa perché proprio nell’ospitalità si fa esperienza del venire di Dio nella vita. E Jahwè può aprire fecondità inaudite e conosce i segreti dei cuori.
Betania, villaggio vicino a Gerusalemme, era luogo dove Gesù trovava accoglienza presso la casa di amici: Lazzaro, Marta, Maria. Betania è luogo dell’amicizia vissuta, e del riposo che l’amicizia offre. Luca, racconta una scena in questa casa subito dopo la parabola del buon samaritano, da leggere insieme, scorgendo continuità tra la domanda ‘maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?’, la parabola del samaritano e l’episodio di Betania.
L’atteggiamento di Marta tutta presa dai molti servizi è presentato spesso come contrapposto a quello di Maria, seduta ai piedi di Gesù. E’ stato così dato risalto la scelta migliore di Maria, la contemplazione in contrasto con l’attività. Ma tale lettura è limitata e forse fuorviante.
Un lettura diversa può essere fatta in una lettura nel contesto: nel capitolo 9 Luca narra la partenza verso la Passione (Lc 9,51). Gesù poi presenta a più riprese le condizioni poste a chi intende seguirlo (9, 57-62), sceglie i settantadue e li invia indicando loro uno stile di vita (10, 1-20), dice che il Padre si rivela ai piccoli (10, 21-24). Racconta poi al dottore della legge la parabola del samaritano (10,29-37), poi visita le sorelle e infine lascia ai suoi la preghiera del Padre Nostro. Il racconto con gradualità delinea il profilo dei discepoli autentici.
Nella parabola del samaritano Gesù aveva indicato quello straniero come colui che sa provare compassione e si è fatto prossimo. Si era fermato e ‘aveva visto’ quell’uomo da soccorrere lungo la strada: ciò che persone religiose avevano pur visto, ma senza fermarsi. Il samaritano aveva agito concretamente ponendo gesti di cura e vicinanza: aveva compreso di essere lì e in quell’ora prossimo a quell’uomo sofferente. Per Gesù ciò che sta al centro e dà senso alla vita è questa cura e questo servizio, il farsi prossimi perché il Dio della Bibbia è Dio che scende a liberare.
Nella casa di Betania, Marta e Maria divengono così quasi due aspetti di un unico profilo che è la vita del discepolo. Il discepolo che accoglie e dona amicizia a Gesù. Esse esprimono così il volto di chi si fa prossimo. Marta è ‘presa dai tanti servizi’. Accanto a lei Maria ascoltava la parola di Gesù. E’ il medesimo atteggiamento dell’indemoniato ‘che stava seduto ai piedi di Gesù’ in attesa di essere liberato (Lc 8,35). Luca non intende contrapporre la contemplazione all’azione, ma nei gesti e negli incontri di Betania ricorda l’essenziale di una vita con Gesù che si delinea come ascolto e come servizio, come prossimità vissuta al Signore e agli altri nei gesti della cura.
Ogni autentica attività di servizio sgorga dall’ascolto della Parola e ogni ascolto significa stare seduti ai piedi di Gesù, gesto proprio del discepolo per vivere quanto lui stesso ha vissuto. La vita del discepolo è indicata nella compresenza di ascolto e servizio. L’ascolto di Gesù si compie in gesti concreti di prossimità. Il servizio vive e si rende possibile nell’ascolto, degli altri e di Dio, in una ospitalità aperta.
Una lettura femminista di questo passo biblico ha aperto anche nuove considerazioni nel pensare alla situazione originaria delle chiese e alla presenza delle donne così come voluto da Gesù nel suo convocare attorno a sè una comunità di uguali: A parere di Elisabeth Schlüsser Firoenza, i due “tipi” costituiti da Marta e Maria non sono in riferimento alla vita attiva e alla vita contemplativa, ma sono due compiti: la “diaconia” e l’“ascolto della Parola”. Il verbo greco diakonèin indica appunto il “servire” e Marta attua un servire che non è preparazione di un pasto. Esso va interpretato allora come il servizio ecclesiale, la diaconia. Dietro la figura di Marta si nasconde quindi il riferimento alla donna responsabile del servizio della comunità cristiana. E la sua protesta a Gesù è perché è lasciata sola con quelle responsabilità. Importante è che la scena avviene nella casa che è proprio il luogo originario delle prime comunità cristiane (e non il tempio e la chiesa!).
«La chiesa domestica era l’inizio della chiesa in una determinata città o in una regione; offriva spazio per la predicazione della Parola, per il culto, come pure per la mensa comune, sociale ed eucaristica … La chiesa domestica, per la sua ubicazione, offriva uguali opportunità alle donne, perché tradizionalmente la casa era considerata la sfera propria delle donne e le donne non erano escluse dalle attività che vi si svolgevano … la sfera pubblica nella comunità cristiana era nella casa e non fuori. La comunità era ‘nella casa di lei’. Perciò sembra che la domina della casa in cui si riuniva l’ekklesía avesse una responsabilità di primo piano per la comunità e per le riunioni nella chiesa domestica… In conclusione: la letteratura paolina e gli Atti ci permettono ancora di riconoscere che le donne avevano il loro posto fra i missionari e i leaders più eminenti del movimento cristiano primitivo. Erano apostole e ministri come Paolo e alcune erano sue collaboratrici. Insegnavano, predicavano e gareggiavano nella corsa per l’evangelo. Fondarono chiese domestiche e, come eminenti ‘patrone’, usarono la loro influenza a favore di altri missionari e cristiani. Se paragoniamo la loro funzione direttiva con il ministero delle diaconesse venute più tardi, colpisce il fatto che la loro autorità e il loro ministero non erano limitati alle donne e ai bambini e non erano esercitati solo in ruoli e funzioni specificamente femminili» (E.Schüssler Fiorenza, In memoria di lei, 201-202).
Alessandro Cortesi op
Invisibili
In Italia le conseguenze di norme governative che mirano ad ottenere facile risonanza mediatica senza risolvere i problemi della povera gente stanno producendo una nuova categoria di persone: i cosiddetti ‘invisibili’, quelli che non devono stare da nessuna parte, gli sgomberati e gli esclusi, senza differenza tra provenienze etniche o geografiche. Sono le vittime della politica delle ruspe. Sono i centomila invisibili che progressivamente occupano le pieghe marginali della vita sociale e delle nostre città, con sofferenze che non si possono comprendere e con conseguenze devastanti per la stessa vita sociale.
“Italiani e immigrati, rom e sinti, il popolo degli almeno centomila invisibili che nessuno riuscirà mai a censire, già finiti o destinati a finire nei prossimi mesi sotto la ruspa di Matteo Salvini. (…) Persone di ogni etnia che, anche se prese in carico dai servizi sociali dei Comuni nell’immediatezza degli sgomberi, dopo un’accoglienza temporanea in dormitori o case famiglia finiscono per tornare in strada o in altre occupazioni abusive. Nessuno dunque sa veramente quanti siano gli invisibili che abitano le strade delle periferie, i portici delle stazioni o i giardini pubblici. Quel che è certo è che la raffica di sgomberi senza alcun piano preventivo di ricollocamento ordinata da Matteo Salvini, dalle baraccopoli-ghetto degli immigrati ai centri di accoglienza, dalle occupazioni di palazzi ai campi rom, ne ingrossa le file. Creando tutto fuorché sicurezza. L’unico numero certo è quello che si riferisce ai migranti ed è una delle medaglie che Salvini si appunta fiero al petto. In un anno di sua presenza al Viminale, gli immigrati nel circuito dell’accoglienza sono scesi da 167.000 a 107.000. Sessantamila persone fuori da strutture grandi e piccole, che si sommano alle diecimila che già vivevano nelle baraccopoli in Calabria e in Puglia”. (Alessandra Ziniti, Centomila invisibili, “La Repubblica” 17 luglio 2019)
E’ questo il quadro di un Paese in cui non si sta attuando alcuna scelta per governare la complessità dei problemi, ma si rincorre l’acclamazione di chi ha bisogno di illusioni, la rabbia di chi vuole presentato un capro espiatorio colpevole dei propri disagi, il plauso per chi sa essere il più sbruffone, bullo con i deboli e imbonitore di folle delle piazze virtuali.
In questo clima in cui prevale la barbarie e il cinismo del linguaggio e delle azioni si sono levate in questi giorni voci insolite, che provengono dal silenzio, allarmate e sofferenti, che richiamano ad un rispetto dei riferimenti fondamentali di umanità e di accoglienza soprattutto per chi è più vulnerabile: sono le voci dei monasteri di clarisse e carmelitane che hanno scritto al presidente Mattarella, ricordando che “solo la paziente arte dell’accoglienza reciproca può mantenerci umani e realizzarci come persone”.
“Tramite voi chiediamo che le istituzioni governative si facciano garanti della loro dignità, contribuiscano a percorsi di integrazione e li tutelino dall’insorgere del razzismo e da una mentalità che li considera solo un ostacolo al benessere nazionale. Accanto alle tante problematiche e difficoltà ci sono innumerevoli esempi di migranti che costruiscono relazioni di amicizia, si inseriscono validamente nel mondo del lavoro e dell’università, creano imprese, si impegnano nei sindacati e nel volontariato. Queste ricchezze non vanno svalutate e tante potenzialità andrebbero riconosciute e promosse. La nostra semplice vita di sorelle testimonia che stare insieme è impegnativo e talvolta faticoso, ma possibile e costruttivo. Solo la paziente arte dell’accoglienza reciproca può mantenerci umani e realizzarci come persone. Siamo anche profondamente convinte che non sia ingenuo credere che una solidarietà efficace, e indubbiamente ben organizzata, possa arricchire la nostra storia e, a lungo termine, anche la nostra situazione economica e sociale. È ingenuo piuttosto il contrario: credere che una civiltà che chiude le proprie porte sia destinata ad un futuro lungo e felice, una società tra l’altro che chiude i porti ai migranti, ma, come ha sottolineato papa Francesco, «apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti». Ciò che ci sembra mancare oggi in molte scelte politiche è una lettura sapiente di un passato fatto di popoli che sono migrati e una lungimiranza capace di intuire per il domani le conseguenze delle scelte di oggi” ( Clarisse e Carmelitane scalze di Monasteri italiani, Noi, sorelle, preoccupate e in preghiera per questo Paese e i migranti senza voce, “Avvenire” 14 luglio 2019)
La mentalità di razzismo, di esclusione, di rifiuto di gestire con criteri di giustizia e solidarietà la situazione di tanti non è solo emergenza in Italia. Di fronte alle scelte dell’amministrazione Trump negli USA si sono pronunciati i vescovi soprattutto in considerazione delle condizioni di numerosi bambini spaventose e inaccettabili. In una lettera a Trump il presidente dei vescovi statunitensi, il cardinale Daniel Di Nardo a nome della Conferenza episcopale scrive: «possiamo e dobbiamo rimanere un Paese che offre rifugio ai bambini e alle famiglie in fuga dalla violenza, dalle persecuzioni e dalla povertà estrema».
«Questa indicibile conseguenza di un sistema di immigrazione fallito, insieme alle crescenti segnalazioni delle condizioni disumane in cui versano i bambini sotto la custodia del governo federale alla frontiera statunitense, scuotono la coscienza e richiedono un’azione immediata».
Con riferimento alla foto del migrante che ha trovato la morte insieme alla sua figlia nel tentativo di attraversare il Rio grande scrive: «Questa immagine grida giustizia al cielo e mette a tacere la politica… Chi può guardare questa immagine e non vedere i risultati dei fallimenti di tutti noi nel trovare una soluzione umana e giusta alla crisi dell’immigrazione? Purtroppo questa immagine mostra la situazione quotidiana dei nostri fratelli e sorelle. Non solo il loro grido raggiunge il cielo. Raggiunge tutti noi e ora deve raggiungere il nostro governo federale. Tutte le persone, indipendentemente dal loro Paese d’origine o dal loro status giuridico, sono fatte a immagine di Dio e devono essere trattate con dignità e rispetto».
Mons. Raffaele Nogaro, parlando delle norme in vigore e in via di approvazione in Italia in una intervista ha detto: «Sono indignato verso alcune norme, volute dal governo e approvate dal Parlamento, che sono violente, che calpestano la dignità degli esseri umani e offendono la vita umana. Purtroppo le parole brutali del ministro Salvini sul tema della sicurezza vengono accolte con simpatia da molti cattolici, ma anche da tanti preti e diversi vescovi». (…) «Non è possibile affermare la sicurezza di alcuni compromettendo la vita e la dignità di altre persone che sono in difficoltà, come i migranti. Il primo decreto sicurezza, e ora anche questo decreto bis, se verrà approvato, condannano i poveri e i migranti. Ma condannano anche coloro che li salvano e li difendono. E lo fanno creando ed alimentando menzogne sull’opera delle persone e delle organizzazioni di buona volontà, come le ONG. Per questo dico che l’unica via è la disobbedienza civile a queste leggi ingiuste» (Luca Kocci, Monsignor Nogaro: ‘Disobbedienza civile contro le leggi ingiuste’, “Il manifesto” 17 luglio 2019).
In questa situazione del mondo nel cuore dell’estate di quest’anno 2019 ascoltiamo le pagine dell’ospitalità di Abramo e della accoglienza di Gesù nella casa di Marta e Maria quale richiamo al cuore del vangelo da attuare nella nostra vita.
Alessandro Cortesi op
XVII domenica tempo ordinario – anno C – 2019
Gen 18,20-21.23-32; Col 2,12-14; Lc 11,1-13
Luca presenta Gesù che viene spinto dai suoi ad insegnare a pregare come ha fatto Giovanni. Ciò avviene mentre ‘si trovava in un luogo a pregare’ e solo quando ebbe finito i suoi discepoli si rivolgono a lui chiedendo di insegnare loro a pregare.
Gesù non insegnava ai suoi a pregare, ma pregava. Luca presenta questo insegnamento quasi come una forzatura da parte dei discepoli preoccupati di non essere al pari di altri. La preghiera di Gesù si connota nel vangelo di Luca per essere un’esperienza di allontanamento e di tranquillità. In luoghi deserti Gesù rimane solo, per dare spazio ad una presenza e all’incontro che è cuore della sua esistenza.
Pregare per Gesù non è esercizio interiore né questione di metodo, non è nemmeno qualcosa che si insegna e s’impara. Ha piuttosto a che fare con la relazione, è imparare a stare con Dio stesso, a dargli spazio nella vita, uno spazio che non è fuori della vita ma nella vita stessa. La preghiera per Gesù è lasciarsi coinvolgere in un incontro. Ogni regola, ogni formula è insufficiente e addirittura sviante. Ogni modello nasconde il tradimento del cuore dell’incontro. Sta qui la debolezza e la forza delle poche parole che Gesù lascia ai suoi, il Padre nostro. Una preghiera tutta centrata nel dire a Dio ‘abbà’, balbettio di bambini, apertura ad un Dio che prende in braccio le sue creature, che ha cura e sa ciò di cui abbiamo bisogno.
Al centro della preghiera sta questa confidenza unica e forse solo questo è l’essenziale. E’ l’esperienza insondabile del Padre come Abbà che si comunica. La preghiera è stare nella fragilità di fronte a Dio che vuole bene. La scoperta di Dio che si china sui suoi figli, il Dio vicinissimo e che soffre accanto e con noi.
Le affermazioni presenti nel Padre nostro ed espresse come richieste, di fatto costituiscono affermazioni di fede; Gesù sa bene e lo dice che il Padre conosce ciò di cui abbiamo bisogno’.
Le richieste del Padre nostro divengono allora scoperta di una presenza di Dio vicino. Il nome, la sua santità si sta manifestando. Dio rivela il suo nome quando libera e salva, ed attua il regno quando prende la parte degli oppressi liberandoli. Il suo sta regno sta venendo, nonostante ogni contraddizione. Le prime due richieste riguardano il realizzarsi del progetto di Dio: il suo nome ci è comunicato, il regno viene. Queste formule provengono dalla preghiera ebraica del Qaddish pronunciata a conclusione delle letture nella sinagoga: ‘Esaltato e santificato sia il suo grande nome nel mondo che egli creò secondo la sua volontà; domini il suo regno nel tempo della vostra vita e nei vostri giorni e durante la vita di tutta la casa d’Israele presto e in un tempo vicino’. Così nel Capodanno si dice: ‘Padre nostro e nostro re, perdona e rimetti tutte le nostre colpe…; cancella secondo la tua grande misericordia tutti i nostri delitti’ (Shemoneh Esreh VII). Le altre tre richieste, sono quelle del pane, del perdono e della fortezza nella prova: il pane è necessità quotidiana e semplice dell’uomo. è anche simbolo della comunione, della gioia condivisa e della fraternità con cui si identifica il regno di Dio. Il perdono è movimento che ha origine solamente dall’alto, da Dio, eppure passa attraverso il perdono dato e ricevuto. Anche il perdono è dono da invocare e ricevere, e via per scoprire la possibilità di rapporti nuovi con Dio e con gli altri.
L’ultima invocazione è a non lasciarci soccombere nella prova. Gesù proprio nel momento della prova vivrà un pregare più intenso e diviene esempio per noi (Lc 22,39-46): la lotta è sostenuta nel rapporto profondo con il Padre.
Gesù indica ai suoi uno sguardo al regno dono del Padre e l’impegno per rapporti nuovi. La parabola del giudice iniquo che si lascia smuovere solo dall’insistenza della vedova indica la preghiera può essere respiro che segna tutta la vita. L’incontro con Dio è fecondo oltre ogni attesa: ‘Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate vi sarà aperto’.
Alessandro Cortesi op
Pregare nella vita
Troppo spesso la preghiera è relegata ad un fatto religioso staccato dalla vita di tutti, dal quotidiano. Troppo spesso è per questo interpretata in modi che la privano della sua apertura ad essere esperienza possibile, umana, ordinaria. Spesso è soffocata in forme che non hanno nulla da dire e che non incidono in un cambiamento della vita, e non danno gioia. Pensare alla preghiera è lasciarsi riportare al cuore del vangelo oltre i possibili fraintendimenti, perchè prima di tutto è esperienza di incontro e scoperta di presenze.
Parlare della preghiera esige innanzitutto di fare un’operazione di chiarificazione e di semplicità. Una certa educazione ha troppo spesso sottolineato dimensioni non centrali, accessorie: si è finito per confondere la preghiera con le tante parole o con certe forme di ritualità. Il dire le preghiere è divenuto il criterio per assimilare la preghiera ad una serie di parole dette. Trascurando peraltro l’ascolto, la disponibilità ad accogliere senza avere obiettivi di efficienza e di produzione.
La preghiera è spazio regalato all’incontro, le sue radici stanno nell’ascolto, come la vita è nei suoi inizi innanzitutto ascoltare, imparare a vedere, crescere accogliendo una relazione. Stare davanti a… lasciarsi accogliere nel calore di una relazione, nell’avventura di ricercare un volto…
C’è una ritrosia di Gesù nel comunicare ai suoi un metodo, una modalità, una ricetta per pregare. Sta forse in questa distanza un segreto da imparare. La preghiera non è entrare in una dimensione che separa dalla vita ma è forse affinare i sensi per scorgere nella vita il dono di una presenza, vicina, il Dio delle cose e dei volti. Se il primo passo della preghiera è non dire molte parole, ma imparare ad ascoltare, la prima scoperta possibile è che il Dio di Gesù è Dio dell’ascolto, che sa udire il respiro e il grido che proviene dalla vita. E’ questione di presenza, non di parole o di riti particolari.
Abbiamo tutto incasellato in forme liturgiche articolate, raffinate, con la minaccia di non mutare nessun aspetto… ma spesso in questa ritualità non si dà spazio alla vita. La vita che è fatta del rumore e della fatica, della passione e della delusione, del progettare e della cura…
Si impara a pregare ma non perché si ripetono incessantemente esercizi che riportano una mentalità da palestra e generano il sentimento di una capacità e di efficienza di chi è superiore e allenato.
Pregare forse va pensato come respiro: respiro che mette a contatto con un respiro più grande, la brezza di un vento dello Spirito che corre dove vuole, che spalanca finestre chiuse, che guida verso cammini dove scorgere una presenza di Dio lontana dai luoghi deputati. Ma anche respiro per imparare a accogliere le voci delle persone e delle cose: preghiera è poter guardare le cose, le ‘cose’ della creazione e le ‘cose’ di tutti i giorni come via di incontro. Stare nelle cose di ogni giorno apprendendo che in quel tessuto di vita è all’opera Colui che si fa incontro a noi non lontano ma vicino… la sua parola è nel tuo cuore perché tu la compia. E la preghiera può essere respiro non solo che riceve ma che si dà. La vita quotidiana può essere animata da un’aria nuova: l’incontro con Dio della tenerezza e della cura offre un senso, una luce nuova ai piccoli gesti, alle ore di ogni giorno.
Alessandro Cortesi op
Alessandro Cortesi op