Cene ultime (III parte) – Cenacoli fiorentini del Quattrocento
(in rapporto ad una visita ai Cenacoli del ‘400 di Firenze – 31 marzo 2012)
“Venuta la sera si mise a tavola con i dodici. Mentre mangiavano disse : ‘In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà’. Ed essi profondamente rattristati cominciarono ciascuno a domandargli: ‘Sono forse io Signore?’. Ed egli rispose: ‘Colui che ha messo con me la mano nel piatto è quello che mi tradirà. Il figlio dell’uomo se ne va , come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mt 26, 21-24).
Dopo che Gesù nell’ultima cena ha comunicato ai suoi la tragica parola che riguarda il tradimento, la narrazione evangelica non si attarda a descrivere il clima di quel momento. Ma proprio questo attimo è colto dagli artisti come tempo da fissare cercando di esprimere nel ritratto dei volti di Gesù e degli apostoli e nella loro gestualità i sentimenti, le reazioni, i pensieri e tutto quanto era contenuto nel cuore di ognuno dei presenti e nell’ambiente del cencaolo.
Questo momento fu così scelto da grandi artisti del Quattrocento fiorentino per decorare la parete di fondo dei grandi refettori conventuali. Secondo la tradizione monastica il momento del pranzo comune doveva essere vissuto in silenzio e nella meditazione. Esso costituiva un tempo per collegare il momento del nutrimento al mistero del dono dell’eucaristia e all’ultima cena di Gesù con gli apostoli.
Durante il Trecento la scena dell’Ultima Cena aveva costituito uno dei momenti ripresi nei cicli di affreschi riguardanti la vita di Gesù e la sua passione in particolare. A Firenze l’esempio trecentesco di ultima cena si può trovare nel refettorio dei francescani di santa Croce. Di fatto l’ultima cena costituisce uno degli elementi dell’affresco dell’intera parete che risulta coperta interamente da diverse immagini che rinviano tra l’altro alla vita di san Francesco e di san Bonaventura. Siamo nel 1340 circa e l’opera è di Taddeo Gaddi. L’ultima cena è rappresentata alla base di una grande croce che affonda le radici proprio sulla mensa eucaristica. La croce ha i caratteri del lignum vitae, l’albero che genera frutti di vita. Così ai piedi della croce sono raffigurati san Francesco e san Bonaventura, l’iniziatore del movimento francescano e colui che ne diede organizzzazione. Francesco e Bonaventura sono proposti come esempi dis antità ce trae la sua linfa dal dono di vita di Cristo nell’eucaristia.
Agli inizi del Quattrocento, l’invenzione della prospettiva offre un potente strumento per poter raffigurare la cena secondo modalità nuove e la cena diviene motivo considerato a sé stante e dipinto in modo da occupare l’intera parete di fondo dei refettori.
Un secolo più tardi rispetto al cenacolo di Taddeo Gaddi, nel 1447, nel refettorio dell’antico monatsero delle benedettine di sant’Apollonia, Andrea del Castagno affresca con l’immagine dell’ultima cena la parete di fondo, ad ovest e si rifà all’impostazione di Taddeo Gaddi. In questo refettorio anche qui la cena è posta al di sotto di una fascia superiore in cui vengono presentati i momenti della crocifissione, della risurrezione di Cristo e della deposizione nel sepolcro. Nella scena della risurrezione Andrea Del Castagno presenta un Cristo dal volto imberbe che esce dalla tomba portando un vessillo di vittoria, in una raffigurazione che sottolinea la freschezza giovanile di una nuova vita che ha vinto i lacci della morte.
Andrea Del Castagno riprende l’impostazione che già Giotto aveva dato alla sua raffigurazione della cena nella Cappella degli Scrovegni, già ripresa da Taddeo Gaddi, ed utilizza la prospettiva per dare profondità allo spazio che appare quasi schiacciato. Arricchisce poi di una nuova luce l’intero ambiente. Il cenacolo appare come una scatola aperta da un lato, una quinta teatrale al cui interno è in atto il dramma dell’ultima cena. Si tratta di una esecuzione pitorica secondo le regole della prospettiva che Filippo Brunelleschi aveva individuato e che trovò accoglienza negli artisti del primo Quattrocento a Firenze.
La scena della cena è inserita in un ambiente coperto da un tetto di cui è visibile un versante della copertura in coppi ed embrici alternati e con un soffitto a travicelli. Andrea descrive la sala del cenacolo adorna di marmi preziosi. Alle pareti sono infatti visibili pannelli con lastre di marmo policromo. Gli apostoli sono seduti su un sedile marmoreo e alle loro spalle è visibile un arazzo ornato con fiori. Sopra i riquadri marmorei delle pareti un intreccio di trentatré occhielli e mezzo con una raffinata allusione all’età di Cristo al momento della morte.
Le figure degli apostoli sono presentate in una monumentalità che ne esalta i tratti psicologici di ognuno. Con intensa penetrazione dei sentimenti e dei caratteri infatti Andrea esprime nella raffigurazione dei volti le reazioni di fronte all’annuncio del tradimento da parte di Gesù. La scena è attraversata da un forte movimento e da una partecipzione di emozioni. Gesù al centro ha lo sguardo rivolto a Giovanni che è reclinato con il capo sulla tavola, appoggiato al braccio destro.
Pietro appare stupito e interrogativo e volge lo sguardo preoccupato verso Gesù. Alla sua destra Giacomo tiene un bicchiere tra le due manied è come immobile pensieroso. Accanto a lui Tommaso appare raffigurato in atteggiamento di chiaro scetticismo, con il capo rivolto verso l’alto e la mano sul mento a sostenerlo.
Tommaso è l’apostolo che nel IV vangelo afferma la sua esigenza di vedere per credere anche dopo che gli altri gli riferiscono ‘Abbiamo visto il Signore’. “Se non vedo nelle sue mani il legno dei chodi e non metto la mia mano nel suo fianco , io non credo” (Gv 20,25). All’estremità sinistra della tavola Filippo sta discutendo con il vicino seduto alla sua destra. Così dalla parte opposta si riconosce Andrea con la folta capigliatura bianca riccioluta e la barba che discende abbondante come cascata si rivolge ad incontrare lo sguardo rattristato e intimidito di Bartolomeo che forse pone a se stesso la domanda se non sia lui in qualche modo il traditore del maestro. Accanto a lui Taddeo sembra quasi voler allontanare con il gesto delle mani questo annuncio che a lui appare un peso troppo grande da sopportare. E all’estremità destra della tavola Simone si copre la faccia con la mano in un gesto sconsolato quasi a dire l’impossibilità di quanto sta per avvenire. E l’ultimo apostolo a destra ha il volto con uno sguardo quasi impietrito. Giuda appare distaccato dagli altri, l’unico senza il disco dorato dell’aureola sul capo, posto davanti a Gesù, con la chioma nera e la barba scura, lo sguardo penetrante e e il naso adunco.
Circa trent’anni più tardi, nel 1476, Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio, riprende i motivi di Taddeo Gaddi e di Andrea del Castagno nella raffigurazione dell’Ultima cena nella badia di Passignano. La sua opera doveva rimanere entro vincoli stabiliti dal momento che la parete era già affrescata con le scene della cacciata dal paradiso terrestre e con l’episodio dell’omicidio di Caino. In questo refettorio dei monaci vallombrosani Ghirlandaio raffigura l’ultima cena come momento di rinnovata offerta dell’alleanza rotta nel peccato dei progenitori e nella violenza fratricida di Caino. Gesù, nuovo Abele, donando se stesso, conferma che Dio non viene meno al dono della sua alleanza che vince anche la violenza e il peccato.
A Firenze Ghirlandaio dipinge altri due refettori: il primo è quello del refettorio di Ognissanti il secondo nel complesso conventuale di san Marco. Egli esegue queste due opere attorno al 1480. I due cenacoli sono assai simili e tuttavia forse, proprio in un confronto dalle differenze si possono riscontrare come essi intendano raffigurare momenti diversi seppur vicini dell’ultima cena.
Nella Cena del refettorio di Ognissanti si rende palpabile il senso dell’agitazione e il movimento dinamico dei corpi, espressione dell’agitazione dei sentimenti, nel momento immediatamente successivo alla parola di Gesù sul tradimento. In questo cenacolo un elemento è proprio e caratteristico. Sulla sinistra in basso vi sono due brocche e sulla destra un bacile: allusione alla lavanda dei piedi e ricordo di questo momento fondamentale della cena. La mensa appare apparecchiata con cura e l’uso della prospettiva consente di far notare allo spettatore i cibi (pane, formaggio, frutta), le ampolle e le stoviglie sulla tavola.
La tovaglia di lino è ricamata con ricami propri della tradizione di tessitura perugina. La tovaglia stesa sulla tavola allude al lenzuolo su cui Gesù viene avvolto nella sepoltura. Sulla mensa sino visibili pani e ampolle che contengono acqua e vino rosso. Anche questo elemento può essere un riferimento alla morte e al fiotto di sangue e acqua dal costato di Gesù dopo la sua morte (Gv 19,34). L’acqua è anche simbolo dell’umanità. Cipriano di Cartagine già nel III secolo così scriveva parlando dell’eucaristia: “quando el calice si mescola l’acqua al vino, il popolo è raccolto intorno a Cristo e la folla dei credenti è riunita e congiunta a colui nel quale ha fede. Questa unione e congiunzione di acqua e vino si realizza mescolandoli nel calice del Signore, in modo che quell’altra mescolanza non si possa scindere, così come la chiesa non può essere divisa e separata da Cristo” (Epistulae 63).
Un ulteriore elemento carico di simbolismi è costituito dalla presenza di frutti di varie specie sulla mensa. A sinistra si riconoscono due mele, poi numerose ciliegie disseminate su tutta la tavola e sull’estremità destra due arance. Si può tentare di collegare questi frutti ad una simbologia racchiusa in essi. Le mele rinviano al peccato, le ciliegie alle gocce di sangue rosso di Cristo, le arance sono simbolo del paradiso. Così pure la raffigurazione della vegetazione che compare dietro la sala del cenacolo, all’esterno, rinvia al giardino lussurreggiante, all’hortus conclusus, lo spazio riferito a Maria ma anche al cuore dei religiosi che nella loro interiorità sono invitati a ritrovare la dimensione di riconciliazione propria dell’Eden. Non sfugge a chi osserva anche la presenza di volatili. In particolare un pavone raffigurato sulla destra ed una pernice sul davanzale della finesta alla sinistra: ancora è qui da cogliere un simbolismo secondo il quale il pavone rinvia all’immortalità ed è simbolo della risurrezione. Mentre la pernice reca in sè un riferimento negativo, connesso alla stoltezza ed alla furbizia. Nel simbolismo racchiuso in questo affrontarsi di pavone e pernice nel cenacolo di Ognissanti si può cogliere l’affrontamento di bene e male. Il pavone in modo simbolico già evoca la risurrezione, mentre la pernice richiama e si collega al gesto di Giuda. Così anche le scene di caccia, con la presenza di uccelli come le anatre o i falconi, sono evocazione della lotta tra bene e male, dello scontro tra malvagità e bontà. Ma la presenza delle quaglie è anche riferimento al miracolo della manna nel deserto, quando al popolo che mormorava Dio inviò la manna come cibo inatteso e gratuitamente donato. Un rinvio all’eucaristia e al gesto di Gesù nell’ultima cena.
Anche il cenacolo di san Marco è opera del Ghirlandaio. Rispetto a quello di Ognissanti l’atmosfera appare più pacificata, quasi che il momento fissato nell’affresco sia l’attimo in cui dopo l’annuncio del traditore ognuno si ferma , più pensoso a riflettere e a interiorizzare quanto sta per accadere.
Elemento originale e tipico di questo cenacolo è la scritta che appare sulla fascia superiore rispetto alla spalliera dove sono seduti gli apostoli: Ecce dispono vobis sicut disposuit mihi Pater meus regnum ut edatis et bibatis super mensam meam in regno meo.
E’ citazione di Luca 22,29-30: “io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno”. E’ importante questa iscrizione perché rinvia al cuore dell’annuncio di Gesù che concerne il regno, secondo il disegno del Padre, e invita i dodici ad una speranza nel regno che si compirà nella dimensione escatologica. La cena di Gesù è ultima ma rinvia ad un futuro in cui si potrà ancora mangiare e bere insieme: sarà un mangiare e bere insieme con lui, nel regno che è dono del Padre. Questa espressione pone tutta la figurazione dell’ultima cena nel segno del compimento del regno, ed è espressione della speranza di Gesù e della certezza della fedeltà del Padre anche di fronte alla morte. In questo cenacolo compare la figura per certi aspetti enigmatica del gatto che si volge verso lo spettatore, forse rinvio alla figura dell’eretico, forse evocazione della presenza di una forza maligna e del peccato che ha preso Giuda.
Una celebre ultima cena del Quattrocento fiorentino è quella del refettorio delle terziarie francescane legato alla regola della beata Angela da Foligno, opera attribuita al Pietro Vannucci detto il Perugino, attorno al 1485. E’ detto perciò cenacolo del Foligno.
L’atmosfera di questa cena è soffusa di una tenerezza che esprime da un lato attesa e dall’altro di misericordia. Giuda, nella sua posiziome distaccata dalgi altri, davanti a Gesù, si volge guardando a chi osserva, mentre lo sguardo di Gesù raggiunge lui. Quello di Giuda è forse un tentativo di dialogo, un’apertura interrogativa sul dramma che la sua vicenda rappresenta. Il suo atteggiamento è quasi di ricerca di soccorso nel non sapere uscire dalla spirale del male e del tradimento. Lamano destra abbandonata sulla tavola la sinistra che regge in mano il sacchetto con il denaro. Lo raggiunge, anche se Giuda non lo incrocia, perché è voltato, lo sguardo di Gesù. Gli comunica solo la tenerezza della compassione e della misericordia, il perdono ancora offerto, senza alcune venatura d’ira e di tensione, ma solo pervaso di nostalgia di amicizia.
Un altro esempio di cenacolo fiorentino è quello affrescato da Andrea Del Sarto (1486-1530) nel refettorio di San Salvi a Firenze. L’antica chiesa dell’abbazia fondata da san Giovanni Gualberto fu costruita attorno al 1048, in aperta campagna fuori le mura di Firenze. Il convento ospitò la comunità dei monaci vallombrosani. San Salvi era stato vescovo di Amiens nel VII sec. Era questa una tappa nel pellegrinaggio che conduceva in città di Firenze e all’Annunziata. Ai primi anni del ‘500 il convento fu ampliato e furono costruiti il refettorio, lavabo e cucine.
L’affresco fu realizzato tra il 1511 e il 1525 sulla parete di fondo del refettorio davanti all’entrata. Fu compiuto in 64 giornate e combina nello stile elementi dell’arte rinascimentale con spunti del manierismo. La parte iniziata per prima riguarda le pitture del sottarco che inquadra l’Ultima Cena; su di esso sono dipinti 5 medaglioni con rappresentati (da sinistra): San Giovanni Gualberto, San Salvi, la Trinità al centro al posto della più tradizionale Crocifissione, San Bernardino degli Uberti e San Benedetto.
Il padre di Andrea era sarto. da qui l’attributo Del Sarto riferito a Andrea che fu allievo di Piero di Cosimo e poi divenne un artista rinomato che nella sua pittura affianca elementi dello stile di Raffaello, Michelangelo e Leonardo. Nel contempo inaugura la nuova “maniera”. Andrea Del Sarto supera la tradizione a lui precedente. Innerva tuta la scena di una luminosità che rinvia all’arte di Michelangelo. Offre nel suo tratteggiare le figure una intensa penetrazione psicologica.
Influenzato dal cenacolo di leonardo a Milano risulta Firenze la pittura del Franciabigio nel Cenacolo della Calza mentre Alessandro Allori è autore della raffigurazione della cena nel cenacolo di santa Maria del Carmine ormai nella seconda metà del ‘500
Per approfondimenti:
Cristina Acidini Luchinat, Rosanna Caterina Proto Pisani (edd.), La tradizione fiorentina dei cenacoli, Firenze 1997
Rosanna Caterina Proto Pisani, Il Cenacolo di sant’Apollonia, ed. Sillabe Livorno 2002.
Rosanna Caterina Proto Pisani, Il cenacolo di ‘Fuligno’ a Firenze, ed. Sillabe Livorno 2009.
Luca Frigerio, Cene ultime, ed. Ancora Milano 2011.
Alessandro Cortesi op
Domenica delle palme e della passione del Signore – 2012
Is 50,4-7; Fil 2,6-11, Mc 14,1-15,47
In questa domenica ascoltiamo per intero la narrazione della passione di Gesù secondo Marco. Caratteristica dello scrivere di Marco è presentare la successione degli avvenimenti in modo sobrio e scarno: lascia parlare i fatti, dà spazio agli eventi eppure nella sua narrazione sta anche una profonda rilettura di quanto è accaduto alla luce della Pasqua.
Al cuore della passione secondo Marco sta la domanda ‘chi è Gesù?’. E’ la domanda che guida tutto il vangelo. Marco aveva iniziato il suo scritto con le parole che esprimevano questo tema di fondo, questione centrale della fede. Gesù è indicato come il messia atteso (‘figlio di Dio’ è titolo del ‘re messia’ per es. nel Salmo 2,7): “Principio del vangelo di Gesù Cristo figlio di Dio” (Mc 1,1). Eppure nel corso dell’intera narrazione ogniqualvolta viene intuito un aspetto dell’identità di Gesù chi parla viene messo a tacere: non solo c’è l’intimazione a tacere rivolta ai demoni (1,24; 3,11), ma anche agli apostoli (9,7.9).
In questo vangelo l’identità di Gesù e il significato del suo agire rimangono una questione problematica, al punto che i suoi inviti a ‘tacere’ a non dire nulla di lui sono stati interpretati come una sorta di ‘segreto’. Il segreto che riguarda la sua identità di messia appunto. Ma non di segreto si tratta: piuttosto Marco, da abile narratore, accompagna chi legge il vangelo a scoprire poco alla volta il volto di Gesù, scoprendo che solo si può incontrarlo lasciandosi coinvolgere nel seguirlo, sulla strada che egli ha tracciato. Il lettore è così provocato a porsi in questione e tutti i racconti di incontro mirano a coinvolgere chi legge, a fargli scoprire il cambiamento possibile. Come è accaduto alla donna straniera e pagana siro-fenicia a cui Gesù fa scoprire che in lei era presente una fede che salva (Mc 7,24-30), come il cieco Bartimeo che, guarito dalla cecità, diviene il modello del discepolo che si mette a seguire Gesù verso Gerusalemme (Mc 10,46-52), come la donna anonima che Marco presenta in un gesto delicato e coraggioso dell’unzione del corpo di Gesù a Betania (Mc 14,3-9).
Marco è consapevole del pericolo di costruire un’immagine falsata di Gesù, di proiettare su di lui le attese di un messia diverso da quello che egli effettivamente fu. Soprattutto nel racconto della passione, egli presenta Gesù nella situazione di paura ed angoscia, in preda allo sfinimento ed alla debolezza umana. Presenta Gesù sempre più solo finchè anche gli apostoli lo lasciarono “Tutti allora abbandonatolo, fuggirono” (14,50). Così Marco presenta Gesù debole e inerme sulla croce oggetto della sfida: “ha salvato altri, non può salvare se stesso” (Mc 15,31). Gesù è messia che salva non salvando se stesso, ma perdendo la sua vita.
Tre chiavi di lettura possono essere individuate per accostare queste pagine di Marco:
Una prima chiave di lettura è il grido che accoglie Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme: ‘benedetto…’. E’ una invocazione di gioia ed è saluto di fronte al messia. Ma Gesù è messia che delude le attese la voce della folla ‘benedetto’ (Mc 11,9) all’ingresso a Gerusalemme. E il grido ‘crocifiggilo’ (Mc 15,13-14) fa eco in modo drammatico all’invocazione ‘benedetto’. E’ sempre la folla a gridare, la folla che si lascia prima entusiasmare, poi manipolare. Gesù è così presentato da Marco come ‘re’, come messia, ma c’è un processo drammatico che si svolge perché Gesù è messia che delude le attese di tipo politico e di conquista del potere, quelle attese che avevano suscitato l’entuasismo della folla. La sua via non è orientata alla conquista del potere ma si pone nella logica del servizio: “il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita” (Mc 10,45). Il suo essere re è diverso. Se da un lato Gesù rivendica con questo gesto di ingresso a Gerusalemme in modo silenzioso la sua identità di messia, nello stesso tempo indica come la sua esistenza è vita donata a favore di tutti. Marco sottolinea questa delusione che Gesù genera. Questo costituisce l’ostacolo più forte. L’agire di Gesù che libera e guarisce è percepito come una minaccia dal potere religioso e da quello politico sin dall’nizio del vangelo quando – dice Marco – erodiani e farisei si accordarono per metterlo a morte (Mc 3,6). Gesù non è un messia di tipo politico. Non è venuto a instaurare un nuova forma di nazionalismo o di dominio. Gesù delude quindi profondamente queste attese. Il suo cammino di messia si pone nei termini di una vita perduta nella gratuità. Qui sta la fecondità della sua vita.
Una seconda chiave di lettura della passione di Marco è il gesto compiuto da Gesù nel tempio, quando si mise a scacciare coloro che vendevano e i cambiamonete. Durante il processo è riportato anche un detto attribuito a Gesù: ”Lo abbiamo udito mentre diceva: ’Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro non fatto da mani d’uomo’ (Mc 14,58). Questo gesto di Gesù nel tempio insieme alle sue parole provoca una dura reazione di scribi e farisei che lo interrogano con tono di sfida: “Con quale autorità fai queste cose?” (Mc 11,28). E già si delinea una ostilità e la decisione di eliminarlo: “E cercavano di catturarlo” (Mc 12,12). Marco indica in questo modo la critica di Gesù al tempio e suggerisce che Gesù è il nuovo tempio dell’incontro con Dio: il suo corpo è il luogo di un incontro che si apre ad un’accoglienza da parte di tutti. Il velo del tempio si squarciò – dice Marco – al momento della morte di Gesù (Mc 15,38), simbolo di una nuova comunicazione fra cielo e terra. Così come Gesù aveva visto squarciarsi i cieli al momento del battesimo (Mc 1,10). Tale squarcio è anche segno di un rapporto con Dio che passa attraverso l’incontro con l’umanità crocifissa. Marco nel momento della morte di Gesù presenta il Cristo come nuovo tempio, luogo dell’incontro con Dio che si realizza eliminando ogni barriera che divide lo spazio di Dio dallo spazio dell’uomo, che divide le persone tra vicini e lontani. A tutti, a partire dal centurione pagano è possibile proclamare quanto nel vangelo solamente la voce di Dio aveva annunciato: ‘Questi è il mio Figlio, l’amato’ (cfr Mc 1,11; 9,7).
Una terza chiave di lettura è la presenza dei discepoli: Marco è qui molto abile e molto provocatorio per la chiesa di ogni tempo. I discepoli che Gesù ha chiamato, che ha condotto a seguirlo, che ha anche inviato nel suo nome, lo abbandonano e lo lasciano solo. Sono presentati nella condizione di chi non riesce e non si apre a comprendere. Hanno un cuore indurito. Non vivono l’ostilità e il rifiuto come i sacerdoti e gli scribi, ma non comprendono fino a tradirlo. Uno di coloro
che Gesù aveva scelto, Giuda, lo consegna in cambio di denaro. Ma anche Pietro lo rinnega. Tutti i discepoli sono coinvolti in questa incomprensione. Marco sottolinea in parallelo le vicende di Giuda e di Pietro che rinnegano il loro maestro. L’agire di Giuda e Pietro incornicia il momento della cena e della passione accentuando la scelta di Gesù di rimanere fedele all’amore, di rimanere obbediente al disegno di gratuità e di vita del Padre, di darsi nonostante il rifiuto e l’incomprensione (Mc 14,10-11.66-72).
Tuttavia nello stesso tempo, mentre tutti fuggono e lo lasciano solo, altre figure si affacciano, e sono presenze di lontani, di discepoli nuovi. E’ una donna che a Betania inattesa giunge nella casa di Simome e rotto il vaso di alabstro versò il profumo sul suo capo (Mc 14,3-9). E’ Simone di Cirene indicato come ‘un tale che passava’ (Mc 15,21) che viene obbligato ad aiutarlo a portare la croce sulla via del Calvario. E’ infine un centurione, pagano e straniero che sotto la croce, avendolo visto spirare in quel modo dice: ‘Veramente quest’uomo era figlio di Dio’ (Mc 15,39). Proprio nel momento della morte di Gesù Marco annota due particolari: per la prima volta nel vangelo risuona una professione di fede senza che venga imposto il silenzio. Questa voce che dice l’identità profonda di Cristo sta sulla bocca di un pagano, appartenente al mondo romano, lontano dalla legge e dalle osservanze giudaiche. E’ una professione che riconosce il volto del messia nel crocifisso che ha dato la sua vita per tutti. Ed è una parola che esprime il significato che Gesù stesso aveva dato alla sua vita e alla sua morte e che egli stesso aveva indicato ai suoi nei segni dell’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mc 14,24). Ancora un altro discepolo dell’ultima ora è Giuseppe d’Arimatea presentato come “membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio” (Mc 15,43). Giuseppe chiese il corpo di Gesù e comprato un lenzuolo lo depose dalla croce. Marco sembra così dire che l’accoglienza di Gesù si compie in chi lo segue sulla via della croce, in chi nutre apertura e disponibilità a lasciarsi cambiare dall’amore, in chi è aperto alla ricerca del regno di Dio. Oltre ogni barriera e appartenenza religiosa e culturale.
L’unica presenza che accompagna fino alla fine Gesù nel cammino della passione è quella delle donne: “Vi erano anche alcune donne che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Ioses e Salome, le quali, quando era in Galilea lo seguivano e lo servivano e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme” (Mc 15,40-41). Marco annota questa presenza di servizio e di attenzione, collegandola a quel gesto che apre la passione, il gesto una donna, un gesto fondamentale che offre una luce su tutta la passione: “in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto” (14,9). C’è un’importanza particolare di questo gesto che si situa come interruzione nel complotto per l’arresto. E’ un gesto di attenzione sul corpo di Gesù che contrasta con i maltrattamenti a cui viene sottoposto nella passione. Questo gesto apre ad un dibattito: qualcuno indignato osserva che ha sprecato denaro. Questa azione fa da contraltare al gesto di Giuda: Giuda tradisce Gesù in cambio di denaro, la donna di Betania spreca molto denaro per ungere Gesù. Si attua così uno scambio diverso perché il gesto della donna esce dai criteri del calcolo e dell’utilità e si pone nella logica dell’accoglienza, dello ‘spreco’ nell’incontro (14,6-8). Il profumo prezioso sprecato e versato è segno di relazione vissuta nell’amore. E Gesù commentando questo gesto parla del suo corpo: “ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura” (Mc 14,8). Riceve l’unzione come unzione funebre di un vivente e sposta così il senso del gesto: dalla cura e affetto alla profezia della morte. Questa unzione diviene quindi profezia che la morte non sarà l’ultima parola. E’ già annuncio del superamento della morte: per questo l’annuncio del vangelo rimarrà legato alla memoria di lei. Perché è un gesto che richiama il nucleo del vangelo. Perché al cuore del vangelo sta la morte e risurrezione di Gesù, una perdita che diviene feconda. Marco indica Gesù nella passione come il messia che serve passando attraverso la sofferenza e perde la sua vita per salvare. La sua è una vita perduta che diviene feconda di amore.
Leggere oggi la passione di Gesù non può andare senza una domanda su come tale evento può illuminare il nostro presente. Abbiamo vissuto un anno segnato dai rivolgimenti nel mondo arabo. Una lettera di mons. Maroun Lahham vescovo di Tunisi dal titolo “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, apre uno squarcio per leggere la luce e la fecondità della passione e risurrezione di Gesù nella nostra storia:
“Se davvero pensiamo che, agli occhi della fede, l’immolazione nel fuoco di un giovane, questo grande grido di disperazione, e la catena di avvenimenti che ne è seguita, non hanno alcun rapporto con il mistero pasquale, mistero di sofferenza, di morte e di risurrezione del Verbo fatto carne nella nostra umanità; che il grande movimento che pervade il popolo tunisino, il grande soffio di giustizia, la grande sete di pace, l’aspirazione profonda alla dignità non hanno nulla a che vedere con la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, allora stiamo seduti su una bella nuvola, a cullarci in passeggere illusioni. Ma se vi è uno stretto rapporto fra il mistero pasquale e la nostra storia, la storia dei popoli, quella di ieri, quella di oggi e quella di domani, abbiamo allora il dovere di dare un senso a questa storia nel nome stesso della nostra fede (…)
In Tunisia questi semi del regno sono maturati soprattutto fuori dalle frontiere visibili della Chiesa, ed è questo che ci ha sorpreso. Vi è certamente qui unalezione di umiltà, come vi è la constatazione che solo Dio è missionario…Il grido di un povero oppresso che ha ridato la speranza a tutto un popolo ci invita ad essere attenti ai segni di Dio che, nel cuore del linguaggio umano, ci svela la sua presenza… In breve non si tratta per no di dare lezioni, ancor meno delle direttive, per quanto belle, senza esservi personalmente coinvolti. si tratta di vivere il presente alla luce dell’amore e delle sue esigenze, nel rispetto assoluto dell’altro, cominciando dal più dimesso e dal più fragile (…)
La vocazione della Chiesa è amare il mondo come Dio lo ama, guardare il mondo con lo sguardo stesso di Dio. Ora, amare il mondo con l’amore di Dio significa cercare di «scrutarne» la storia della salvezza. Infatti, la storia della salvezza di un paese non coincide necessariamente con la storia della Chiesa in quel paese; e questo vale anche per la Tunisia. Membra del corpo del Verbo incarnato noi non ci sentiamo né al di fuori né stranieri ina lcuna storia, quelal del mondo come quella della Tunisia. Ci è anche dato di scorgervi i segni del regno di Dio, nella misura in cui ci lasciamo toccare da coloro che incontriamo nel nome del Vangelo…”.
Alessandro Cortesi op