At 1,1-11; Efes 1,17-23; Mt 28,16-20
Nella risurrezione Gesù è ‘innalzato’: dopo la risurrezione è in una vicinanza nuova e piena con il Padre. Nel racconto di Atti la presenza del Padre è evocata dall’immagine della ‘nube’ che ‘lo sottrasse’ allo sguardo dei discepoli. La nube è segno della presenza nascosta di Dio, inafferrabile e ricorda che Dio rimane velato e al di là della nostra portata.
L’umanità di Gesù è coinvolta in questa comunione nuova. Nella sua vita è stato uomo che ha vissuto per gli altri. Con la risurrezione il Padre conferma che la vita spesa per gli altri di Gesù è manifestazione del volto dell’Amore che vince la morte. Gesù è preso dal Padre e condotto ad essere ‘signore’.
Il movimento della salita richiama il salire al trono del re cantata nel salmo: ‘applaudite popoli tutti… ascende Dio tra le acclamazioni…Dio è re di tutta la terra… Dio siede sul suo trono santo’ (Sal 46): Jahwè che si innalza su tutti i popoli, unifica tutti. L’innalzamento di Gesù è visto come attuarsi del regno di Dio. la sua esperienza è movimento di discesa nel farsi servo. Nel suo scendere si rende visibile il volto di Dio dell’amore. Per questo ‘Dio l’ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome’ (Fil 2,9).
Al momento di essere elevato Gesù benedice i suoi discepoli. C’è un rapporto profondo tra l’essere elevato di Gesù e la benedizione che è rivolta ai suoi discepoli.
Gesù richiama i suoi a non lasciarsi prendere da vane curiosità sui tempi e sui momenti in cui si costituirà il ‘regno di Israele’. Piuttosto chiede loro di attendere rimanendo in ascolto della promessa del Padre, quella di essere battezzati in Spirito Santo.
Indica di rimanere a Gerusalemme, luogo della passione morte e risurrezione e di attendere al promessa del Padre. Li invita ad impegnarsi nella testimonianza fino agli estremi confini della terra. Il salire di Gesù rinvia al tempo della comunità, chiamata ad incontrarlo in modo nuovo: è il tempo dell’attesa ma anche tempo in cui lo Spirito verrà come ‘forza che li investe dall’alto’.
Nel racconto di Matteo gli undici videro Gesù si prostrarono ma alcuni dubitavano. Gesù affida ad una comunità fragile ila sua promessa e l’invio. Dice loro: “Andate… fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli”. Gesù invia ad immergere la propria vita e quella dei popoli nella vita di Dio che ha il volto della comunione dell’ospitalità e dell’amicizia. L’invio a fare discepoli non sorge da una istanza ad aumentare il numero degli appartenenti al gruppo, ma richiama al seguire il cammino seguito da Gesù stesso, camino di dono e servizio.
Spinge fuori la comunità in una responsabilità di incontro, di relazione nel quaggiù: ‘perché state a guardare il cielo?’. La promessa è una vicinanza nuova che si apre nel vuoto di una assenza: ‘ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’.
Alessandro Cortesi op
Sarò con voi tutti i giorni…
Dopo la fine dell’emergenza stanno riprendendo le celebrazioni delle messe nelle chiese. In questo periodo molte sono state le esperienze nuove che sono state attuate. Il fatto che nel periodo del lockdown siano venute meno le attività pastorali e le celebrazioni comunitarie in particolare l’eucaristia, ha prodotto una serie di reazioni diverse.
Talvolta ha regnato lo smarrimento evidenziatosi in molti modi. Si sono da un lato sviluppate nuove forme di preghiera e celebrazione nell’ambito domestico o tentativi di creare nuove modalità comunitarie di condivisione a distanza, d’altro lato si è assistito ad una sorta di rincorsa a riempire spazi percepiti troppo vuoti utilizzando i mezzi della comunicazione (TV, dirette facebook, registrazione di celebrazioni poi inviate) forse non accettando il messaggio dell’interruzione e del sostare che il tempo del confinamento ha proposto.
Proprio tali modalità hanno accentuato la differenza tra i presbiteri che continuavano a celebrare la messa e una comunità che, pur coinvolta, viveva nella condizione di assistere. E’ apparsa anche chiara la difficoltà delle comunità di individuare altre forme di celebrazione che non fossero la messa.
Nella diversità delle esperienze e dei tentativi si è assistito da un lato al riemergere di un vocabolario (ad esempio la ‘messa privata’ – ved. riflessione di Andrea Grillo al proposito) e di forme che fanno riferimento a mentalità preconciliari con tendenze di forte clericalizzazione e con accento sulla dimensione sacrale. D’altra parte è stato anche un periodo di creatività, di esperimenti attuati con spirito di disponibilità nell’attenzione del legame profondo tra celebrazione e vissuto personale e comunitario.
Raccolgo in questo momento di passaggio tre voci, tra le tante possibili, che offrono diversi spunti e domande proprio in questa fase in cui si attua un prudente nuovo inizio. In esse si può scorgere da un lato il richiamo a lasciarsi interrogare profondamente dai segni del tempo che abbiamo vissuto e stiamo vivendo (Mario Menin), la provocazione a scorgere dimensioni inedite della vita di fede in un tempo nuovo (René Poujol) e la proposta di un futuro che non potrà essere un ritorno a ciò che era prima (Derio Olivero).
Mario Menin, missionario saveriano, nel suo articolo ‘Chiese vuote. Per chi suona la campana?’ s’interroga sulle chiese vuote e legge quanto sta avvenendo come un segno che dovrebbe interrogare per un cambiamento della vita della chiesa. L’emergenza della pandemia ha solamente reso più evidente un processo già in atto da tempo:
“Perché non riconoscere allora nelle chiese vuote un segno di quanto potrà succedere in un futuro non molto lontano, se non riformeremo – più evangelicamente – le nostre comunità? E perché prendersela con il coronavirus, che ha soltanto evidenziato – in modo certamente disgraziato – lo svuotamento già in corso? Eppure di segnali d’allarme ne avevamo ricevuti dal Concilio Vaticano II in poi, specialmente in Europa e in gran parte dell’Occidente, dove molte chiese, monasteri e seminari si sono svuotati o chiusi. Li abbiamo snobbati come non rivolti a noi e alle nostre comunità. Ci siamo, invece, ostinati ad attribuire lo svuotamento a cause esterne, soprattutto al fenomeno della secolarizzazione – nelle sue varie dimensioni e tappe –, senza renderci conto, come recentemente asserito da papa Francesco, che ‘non siamo più in un regime di cristianità…’. Forse questo tempo di chiese vuote può aiutarci a far emergere il vuoto nascosto nelle nostre comunità, le nostalgie liturgiche tridentine, che rendono più problematico il riaggancio della Chiesa alla società di oggi e il recupero del ritardo “di duecento anni” denunciato dal card. Martini”.
L’analisi di Menin suggerisce di maturare consapevolezza di un cambiamento d’epoca che pur vede una forte resistenza in quanti cercano di mantenere i caratteri di una chiesa che si concepisce nel quadro di un regime di cristianità, preoccupata di potere, di privilegi, dell’inseguire un modello di comunità centrato sui preti secondo la visione tridentina, anziché coltivare una disponibilità ad una riforma. Indica concretamente la via di un riconoscimento di ministerialità diffusa:
“Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Esse ci insegnano che i problemi delle nostre comunità non sono tanto la mancanza di vocazioni o la scarsità di preti, quanto un nuovo modo di essere Chiesa, dove la ministerialità dei laici, delle donne e delle famiglie, sia riconosciuta come costitutiva della Chiesa stessa. Per questo dovremmo prendere più sul serio, anche in Italia, le proposte del Sinodo Panamazzonico”.
René Poujol, giornalista francese, in un aritcolo nel suo blog dal titolo ‘E se qualcuno preferisse altro alla messa?’, facendo riferimento alla situazione del suo Paese ne delinea i tratti e traendo spunto dalle parole del filosofo Denis Moreau prosegue la riflessione invitando a laciarsi interrogare profondamente dal’esperienza in atto (riprendo la traduzione dal sito http://www.finesettimana.org:
“Il 26 aprile, sul suo profilo Facebook, il filosofo Denis Moreau, di cui avevo accolto con favore il libro “Comment peut-on être catholique?” pubblicato nel 2018, pubblicava una strana confessione. Cito: ‘Dall’inizio del confinamento, da semplice fedele quale sono, non posso più assistere alla messa domenicale, esattamente come chiunque altro. Non ho mai perso una messa della domenica da più di 30 anni. Ma, onestamente, devo proprio ammettere che non mi manca poi così tanto non poter assistere alla messa di persona e fare la comunione’. Siamo onesti: prosegue affermando di dover, per il futuro, imparare ‘a desiderare e amare un po’ di più la messa domenicale’. Ma lo dice per meglio sottolineare quanto gli paia essenziale che la Chiesa sappia trarre tutte le conseguenze da quanto molti cattolici stanno vivendo durante queste settimane di confinamento.
(…) La diminuzione – per non dire il crollo – della pratica per quanto riguarda la messa domenicale, nel nostro paese, non è più da dimostrare. Sono colpito dal numero dei giovani cattolici, che pure sono credenti, che riconoscono, in privato, di annoiarsi alla messa e di andarci talvolta solo per dovere. (…)
Le settimane di confinamento che abbiamo vissuto sono state segnate, per molti cattolici, da una fioritura di pratiche spirituali, a volte nuove nella loro vita: preghiera personale, riscoperta delle Scritture, in particolare del Vangelo, liturgie familiari, partecipazione a reti “spi” [Software in the Public Interest] via internet, creazione di comunità “virtuali” magari effimere, il seguire le messe alla televisione, su internet o sulle reti sociali, relazioni multiple non esclusivamente di tipo liturgico mantenute con preti o diaconi della parrocchia, riflessioni condivise sul ‘dopo’… Di che alimentare, per alcuni, il desiderio di prolungare o di approfondire, in futuro, delle esperienze che si sono rivelate ricche di senso. Al punto da trascurare domani la messa domenicale? Non necessariamente, ma forse di comprendere, di sentire nel più profondo di se stessi, che la ‘mancanza’ provata era innanzitutto di natura comunitaria più che sacramentale nel senso classico del termine. Di che alimentare molti interrogativi – temibili – nelle diocesi dove la diminuzione drastica del clero è ormai evidente. Ma perché non delineare anche delle piste di ripresa? (…) Questo confinamento ci obbliga in qualche modo ad immaginare ciò che sarà la Chiesa del dopo, quella che dovrà imparare a vivere con pochi preti, meno eucaristie, sacramenti meno accessibili e più raramente dispensati. E con mia grande sorpresa, io che sono piuttosto pessimista per natura, trovo che ciò che sta succedendo nella Chiesa di Francia dia piuttosto ragioni di speranza. È in questo senso che bisogna intendere il titolo di un mio precedente post: Déconfiner les églises ou déconfiner l’Eglise? (Por fine alla chiusura delle chiese o alla chiusura della Chiesa?). Forse i nostri vescovi e i nostri preti potrebbero, a partire dal 2 giugno, l’indomani della Pentecoste, invitarci a discuterne!”.
Una terza voce in questo dibattito proviene dalle parole appassionate del vescovo Derio Olivero di Pinerolo, che ha vissuto personalmente la malattia del Covid-19 passando attraverso le diverse fasi della cura fino ad essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva e vivendo momenti drammatici che egli stesso ha raccontato dopo la guarigione.
Tornato alla sua diocesi ha scritto una lettera in cui invita ad un ritorno a celebrare che non potrà essere come prima, ma che auspica come un momento di ripensamento e rinnovamento radicale, con una attenzione nuova alle relazioni e a costruire tessuto di apertura, attenzione e cura per le persone superando barriere e confini:
“Non basta tornare a celebrare per pensare di aver risolto tutto. “Non è una parentesi”. Non dobbiamo tornare alla Chiesa di prima. O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni. (…) in modo netto e chiaro vi dico che non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra catechisti, animatori, collaboratori e praticanti. Abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi, dove si possa dire: ‘Qui si respira un clima di comunità, che bello trovarci!’. E all’esterno, con quelli che non frequentano o compaiono qualche volta per “far dire una messa”, far celebrare un battesimo o un funerale. Sogno cristiani che amano i non praticanti, gli agnostici, gli atei, i credenti di altre confessioni e di altre religioni. Questo è il vero cristiano. Sogno cristiani che non si ritengono tali perché vanno a Messa tutte le domeniche (cosa ottima), ma cristiani che sanno nutrire la propria spiritualità con momenti di riflessione sulla Parola, con attimi di silenzio, momenti di stupore di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore, momenti di preghiera in famiglia, un caffè offerto con gentilezza. Non cristiani ‘devoti’ (in modo individualistico, intimistico, astratto, ideologico), ma credenti che credono in Dio per nutrire la propria vita e per riuscire a credere alla vita nella buona e nella cattiva sorte. Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia. Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto. Credenti così riprenderanno voglia di andare in chiesa. Di andare a Messa, per nutrirsi. Altrimenti si continuerà a sprecare il cibo nutriente dell’Eucarestia. Guai a chi spreca il pane quotidiano (lo dicevano già i nostri nonni). Guai a chi spreca il ‘cibo’ dell’Eucarestia.”
Riflessioni importanti per vivere con consapevolezza il momento che stiamo vivendo.
Alessandro Cortesi op
Ascensione del Signore – anno B – 2024
At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Gesù tornerà: è questo l’annuncio della prima comunità. Il Risorto che ha vinto la morte non sarà più incontrato tornando al passato, ma viviamo ora nella sua assenza e Lui viene e tornerà E’ possibile ora vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.
Alla richiesta degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, cioè prevedere il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio a vana curiosità, a non lasciarsi distogliere da ciò che è più importanti. Sposta la loro attenzione, li invita a guardare il presente sperimentando sin d’ora il suo esserci in modo nuovo, nell’assenza. Chiede così di vivere l’attesa dando fiducia alla promessa del Padre; chiede di prepararsi a ricevere la forza dello Spirito. Lo Spirito scende come dono dall’alto e diviene fonte della testimonianza. La promessa del Padre è che tutti possano avere parte alla morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito è il dono di Gesù risorto e nello Spirito farà sentire la sua presenza. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma sarà possibile in modo nuovo, nella fede, nella forza dello Spirito. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: quando ci sono momenti di rivelazione di Dio nella Bibbia si richiama alla nube. Ora lo spazio di Gesù è lo spazio di Dio, una dimensione nuova rispetto allo spazio e al tempo umani che Gesù ha vissuto. La sua presenza continua e segnerà i cuori e si farà vicina nei segni del suo chiamare e passare: lo Spirito è dono che accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione ‘voi mi sarete testimoni’.
Alla fine del suo racconto Marco riporta un mandato di Gesù ai suoi: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che ha rivelato la signoria di Cristo sulla storia: è una signoria particolare perché si attua nel dono, nel servizio, nell’amore fino alla fine. I discepoli di Gesù sono ora inviati ad allargare lo sguardo, ad andare, a dare testimonianza di quanto Gesù ha fatto e detto. “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”. I segni e la parola sono al centro della testimonianza: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte è operante nella storia e procede con il corso della parola del vangelo, nonostante le contraddizioni. La testimonianza dei credenti dovrà confrontarsi con la fatica e il buio, ma conoscono la strada che Gesù ha percorso. Nel vangelo di Marco è questa la strada verso Gerusalemme, strada di fedeltà nell’essere uomo-per-gli-altri (Mc 10,45).
La seconda lettura offre un’ulteriore sottolineatura: ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona la presenza dello Spirito che conduce nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella comunità che sperimenta e accoglie la molteplicità di doni e di servizi, si può fare esperienza dell’agire dello Spirito; non eliminando le differenze, e non appiattendo le diversità. La chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come relazione di scambio e di incontro, divenendo icona della vita trinitaria. L’ascensione è festa della glorificazione di Cristo nella sua umanità e coinvolgimento di noi tutti nella comunione che sgorga dalla sua morte e risurrezione.
Alessandro Cortesi op
Una Dichiarazione del Movimento nonviolento
«Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».
È questo il cuore della dichiarazione di obiezione di coscienza che il Movimento Nonviolento lancia con la Campagna di Obiezione alla guerra. Una risposta, immediata e convinta, alle dichiarazioni del Capo di Stato maggiore, il generale Masiello: “L’Esercito italiano va potenziato: servono più tecnologie e più soldati”, un chiaro messaggio al governo per avere più fondi per il comparto militare, come se non bastassero i 28 miliardi previsti per il 2024, e un avvertimento per l’opinione pubblica, che si prepari a provvedimenti da mobilitazione pre bellica, come il ripristino della leva. Non solo i militaristi fondamentalisti come Vannacci e Bandecchi si sono subito allineati, ma l’intero coro governativo, in perenne parata militare, intona il ritornello “dobbiamo prepararci al rischio di prossimi conflitti”. Dunque è tempo di rispolverare il motto “né un soldo né un uomo per la guerra”, che va aggiornato con l’aggiunta di “né una donna”, perché la chiamata alle armi riguarda ormai tutti e tutte.
La procedura per dichiararsi obiettori di coscienza è semplice: si compila e si sottoscrive la Dichiarazione di obiezione, che viene mandata ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Viene anche chiesto alle autorità competenti che i nomi di coloro che sottoscrivono vengano inclusi in un apposito Albo dove siano elencati tutti gli uomini e tutte le donne che obiettano alla guerra e alla sua preparazione. In pratica si chiede di formalizzare l’elenco di coloro che fin da ora, e in futuro, non sono in alcun modo disponibili all’uso delle armi. Presso il Ministero della Difesa esiste già l’elenco degli obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare dal 1972 in poi, così come presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 in poi hanno già svolto il servizio civile.
La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti, giovani o adulti, donne e uomini, chiarisce che chi firma ripudia la guerra e vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). Inoltre chi aderisce a questa forma di obiezione di coscienza dichiara che non vuole sottrarsi al dovere di proteggere la comunità e quindi sollecita il Parlamento all’approvazione di una Legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.
Ai rumori di guerra sempre più forti, le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, rispondono spingendo sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione generale. La Russia ha annunciato il via libera alle esercitazioni con armi atomiche tattiche, dall’altra parte c’è chi ha già arruolato Dio come proprio alleato, e la Francia preme per l’invio di truppe nel teatro bellico. Gli ingredienti per far mettere l’elmetto e togliere la sicura, ci sono tutti.
La risposta immediata a questa follia in stile futurista, per cui “la guerra è la sola igiene del mondo”, è la fermezza del No, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi.
Mao Valpiana – Presidente del Movimento Nonviolento
La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento azionenonviolenta.it e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e inviata personalmente. Nei primi giorni di campagna, sono già migliaia le dichiarazioni compilate e raccolte.
Verona, 6 maggio 2024
(Pubblicato su il Manifesto del 7 maggio 2024, p. 5)