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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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Ascensione del Signore – anno B – 2024

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Gesù tornerà: è questo l’annuncio della prima comunità. Il Risorto che ha vinto la morte non sarà più incontrato tornando al passato, ma viviamo ora nella sua assenza e Lui viene e tornerà   E’ possibile ora vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Alla richiesta degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, cioè prevedere il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio a vana curiosità, a non lasciarsi distogliere da ciò che è più  importanti. Sposta la loro attenzione, li invita a guardare il presente sperimentando sin d’ora il suo esserci in modo nuovo, nell’assenza. Chiede così di vivere l’attesa dando fiducia alla promessa del Padre; chiede di prepararsi a ricevere la forza dello Spirito. Lo Spirito scende come dono dall’alto e diviene fonte della testimonianza. La promessa del Padre è che tutti possano avere parte alla morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito è il dono di Gesù risorto e nello Spirito farà sentire la sua presenza. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma sarà possibile in modo nuovo, nella fede, nella forza dello Spirito. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: quando ci sono momenti di rivelazione di Dio nella Bibbia si richiama alla nube. Ora lo spazio di Gesù è lo spazio di Dio, una dimensione nuova rispetto allo spazio e al tempo umani che Gesù ha vissuto. La sua presenza continua e segnerà i cuori e si farà vicina nei segni del suo chiamare e passare: lo Spirito è dono che accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione ‘voi mi sarete testimoni’.

Alla fine del suo racconto Marco riporta un mandato di Gesù ai suoi: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che ha rivelato la signoria di Cristo sulla storia: è una signoria particolare perché si attua nel dono, nel servizio, nell’amore fino alla fine. I discepoli di Gesù sono ora inviati ad allargare lo sguardo, ad andare, a dare testimonianza di quanto Gesù ha fatto e detto. “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”.  I segni e la parola sono al centro della testimonianza: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte è operante nella storia e procede con il corso della parola del vangelo, nonostante le contraddizioni. La testimonianza dei credenti dovrà confrontarsi con la fatica e il buio, ma conoscono la strada che Gesù ha percorso. Nel vangelo di Marco è questa la strada verso Gerusalemme, strada di fedeltà nell’essere uomo-per-gli-altri (Mc 10,45).

La seconda lettura offre un’ulteriore sottolineatura: ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona la presenza dello Spirito che conduce nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella comunità che sperimenta e accoglie la molteplicità di doni e di servizi, si può fare esperienza dell’agire dello Spirito; non eliminando le differenze, e non appiattendo le diversità. La chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come relazione di scambio e di incontro, divenendo icona della vita trinitaria. L’ascensione è festa della glorificazione di Cristo nella sua umanità e coinvolgimento di noi tutti nella comunione che sgorga dalla sua morte e risurrezione.

Alessandro Cortesi op

Una Dichiarazione del Movimento nonviolento

«Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».

È questo il cuore della dichiarazione di obiezione di coscienza che il Movimento Nonviolento lancia con la Campagna di Obiezione alla guerra. Una risposta, immediata e convinta, alle dichiarazioni del Capo di Stato maggiore, il generale Masiello: “L’Esercito italiano va potenziato: servono più tecnologie e più soldati”, un chiaro messaggio al governo per avere più fondi per il comparto militare, come se non bastassero i 28 miliardi previsti per il 2024, e un avvertimento per l’opinione pubblica, che si prepari a provvedimenti da mobilitazione pre bellica, come il ripristino della leva. Non solo i militaristi fondamentalisti come Vannacci e Bandecchi si sono subito allineati, ma l’intero coro governativo, in perenne parata militare, intona il ritornello “dobbiamo prepararci al rischio di prossimi conflitti”. Dunque è tempo di rispolverare il motto “né un soldo né un uomo per la guerra”, che va aggiornato con l’aggiunta di “né una donna”, perché la chiamata alle armi riguarda ormai tutti e tutte.

La procedura per dichiararsi obiettori di coscienza è semplice: si compila e si sottoscrive la Dichiarazione di obiezione, che viene mandata ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Viene anche chiesto alle autorità competenti che i nomi di coloro che sottoscrivono vengano inclusi in un apposito Albo dove siano elencati tutti gli uomini e tutte le donne che obiettano alla guerra e alla sua preparazione. In pratica si chiede di formalizzare l’elenco di coloro che fin da ora, e in futuro, non sono in alcun modo disponibili all’uso delle armi. Presso il Ministero della Difesa esiste già l’elenco degli obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare dal 1972 in poi, così come presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 in poi hanno già svolto il servizio civile.

La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti, giovani o adulti, donne e uomini, chiarisce che chi firma ripudia la guerra e vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con  la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). Inoltre chi aderisce a questa forma di obiezione di coscienza dichiara che non vuole sottrarsi al dovere di proteggere la comunità e quindi sollecita il Parlamento all’approvazione di una Legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.

Ai rumori di guerra sempre più forti, le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, rispondono spingendo sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione generale. La Russia ha annunciato il via libera alle esercitazioni con armi atomiche tattiche, dall’altra parte c’è  chi ha già arruolato Dio come proprio alleato, e la Francia preme per l’invio di truppe nel teatro bellico. Gli ingredienti per far mettere l’elmetto e togliere la sicura, ci sono tutti.

La risposta immediata a questa follia in stile futurista, per cui “la guerra è la sola igiene del mondo”, è la fermezza del No, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi.

Mao Valpiana – Presidente del Movimento Nonviolento

La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento azionenonviolenta.it e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e inviata personalmente. Nei primi giorni di campagna, sono già migliaia le dichiarazioni compilate e raccolte.

Verona, 6 maggio 2024

(Pubblicato su il Manifesto del 7 maggio 2024, p. 5)

Ascensione del Signore – anno A – 2023

At 1,1-11; Efes 1,17-23; Mt 28,16-20

“Gesù fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo.”

Una festa tra la terra e il cielo da leggere in legame inscindibile con la Pasqua. Gesù ‘fu elevato in alto’. Il ‘cielo’ rinvia a ciò che sta in alto, contrapposto alla terra: il cielo è il luogo di Dio mentre la terra è luogo degli uomini. Il passaggio di Gesù tiene insieme queste due dimensione la terra e il cielo, la vita di Dio e la vita umana.

Gesù viene ‘innalzato’: con la risurrezione passa ad una vicinanza nuova con il Padre. La presenza del Padre è evocata dall’immagine della ‘nube’ segno del manifestarsi di Dio, presente anche se inafferabile (cfr. Es 13,21-22; 24,15-18; Lc 21,27; 1Ts 4,17). L’umanità di Gesù è assunta in una comunione nuova. Gesù è preso dal Padre e portato nella condizione di ‘signore’. La prima comunità è così condotta a riflettere sull’identità di Gesù: colui che è sceso, nel suo farsi servo è il medesimo di colui che sale, innalzato alla destra del Padre. Il movimento richiama l’ascesa al trono del re cantata nei salmi. “… lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli” (Ef 1,20, seconda lettura). La sua vita si pone nel discendere, nel farsi servo e così rende visibile il volto di Dio, volto dell’amore che si fa servizio e dono.

Nel salire Gesù lascia una benedizione ai suoi. La festa dell’Ascensione è invito a guardare Gesù, nel suo essere signore della storia: è il risorto, il medesimo crocifisso e umiliato. E’ anche richiamo alla responsabilità della comunità dopo la risurrezione: Gesù indica ai suoi di non lasciarsi prendere da vane curiosità sul futuro. Chiede loro ‘di non allontanarsi da Gerusalemme’, e di essere testimoni fino ai confini della terra.

L’ascensione rinvia al tempo della storia in cui incontrare in modo nuovo il Signore: è tempo di attesa in cui lo Spirito è ‘promessa del Padre’ e la ‘forza che li investe dall’alto’.

I discepoli sono chiamati a vivere la predicazione nella linea della conversione e del perdono dei peccati per tutti. Conversione e perdono sono due frutti della Pasqua.

L’impegno storico a costruire percorsi di conversione gli uni verso gli altri, di accoglienza del volto di Dio che guarda per primi ai poveri e ai piccoli è invio che  apre alla responsabilità del quaggiù: ‘perché state a guardare in alto?’. Nell’Ascensione appare la dimensione comunitaria che segna ogni percorso del credere.

Gesù è andato a preparare un posto e affida ai suoi il compito di fare comunione, di orientare la vita all’incontro con Cristo. La promessa è una vicinanza nuova: ‘ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – 2022

ms Egerton 608; XI sec. f.134r.

At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

Il cammino di Gesù è una salita verso Gerusalemme. Così Luca indica un movimento che segna la vicenda di Gesù: Gerusalemme sorge sull’altura  di Sion, ad essa i pellegrini si recavano provenendo da lontano, da terre di deserto e scorgendola da lontano sul monte, cantavano i salmi delle salite: ”Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore”.

Gesù in un passaggio decisivo della sua esistenza “si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). E Luca osserva che ciò avvenne: “Mentre stavano per compiersi i giorni della sua ascensione…”. Gesù sale alla città santa e da lì al Calvario e poi fin sulla croce. Tutto è salita. Luca legge questo movimento come un esodo: nel dialogo tra Mosè e Elia sul monte della trasfigurazione si dice che “parlavano dell’esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (9,31).

Dopo la sua morte il suo ‘alzarsi’ – la risurrezione – è ancora presentato come salita, questa volta alla destra del Padre: “li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo” (Lc 24,52).

Ascendere è movimento di salita, simbolo che racchiude l’intera vita di Cristo. Dalle strade della Palestina Gesù sale fino a stare accanto al Padre. Dalla terra, luogo della condivisione con la vita di chi cammina al cielo luogo di Dio che non dimentica la terra: Gesù è il ‘vivente’ che ha vinto la morte. Il suo ‘salire’ è percorso di tutta la sua esistenza e trova compimento nel portare tutto il suo cammino al Padre, tutta la terra al cielo. Nel suo salire Gesù benedice. D’ora in poi la sua assenza apre alla missione di coloro che sono investiti della forza dello Spirito Santo e sono chiamati a vivere in un’attesa colma di impegno: è la speranza del ritorno di Gesù.

La vita di Gesù è nella comunione con il Padre e la forza che viene dall’alto è il dono dello Spirito che accompagna ad incontrarlo in modo nuovo, a seguire le sue tracce, a percorrere la storia come cammino di ascolto verso la comunione con Lui.

Il cielo in cui Gesù sta alla destra del Padre è orizzonte ultimo di questa terra ma non toglie l’attenzione a questa terra in cui percorrere i passi che Gesù ha percorso. Passi di pace, passi di ospitalità, passi di cura, passi di affidamento e di consegna al Padre e agli altri.

La vita dei discepoli di Gesù trova il suo orientamento nella responsabilità a saldare insieme la terra con il cielo e a vivere la gioia del cammino: nella durezza di ogni salita c’è la vicinanza di Gesù e il soffio dello Spirito.

Alessandro Cortesi op

Sulle strade…

Nei giorni scorsi ci ha lasciati fr. Giacomo Grasso, domenicano della Provincia san Domenico in Italia. Docente di teologia sacramentaria, attento ai rapporti tra teologia e architettura (oltre ad altri suo è il testo Come costruire una chiesa. Teologia, metodo, architettura, Borla 2000), vivace predicatore, dinamico ed estroverso nel suo viaggiare attraverso l’Italia facendo sempre riferimento alla sua Genova. Infaticabile assistente nelle tante routes e campi a cui partecipava, è stato una figura di rilievo nella storia dello scoutismo in Italia. Univa fermezza e stabilità di pensiero con sincera apertura all’incontro e all’ascolto. E’ stato primo Baloo d’Italia dell’AGESCI, assistente della Branca RS dal 1974 al 1980 e della formazione capi dal 1979 fino al 1981. E’ stato poi Assistente nazionale del Movimento Adulti Scout Italiani (MASCI) dal 1980 al 1992. Cappellano CICS dal 1977 al 1981 per il suo servizio internazionale è stato insignito dell’onorificenza della “Fraternità internazionale” nel 1992. Autore di tanti saggi di spiritualità scout (da ricordare Sulle strade. Spiritualità per chi cammina, Gribaudi 1988) ha collaborato a lungo con la redazione della rivista “R/S Servire”, rivista di formazione e di approfondimento su temi educativi e culturali.

In un suo articolo su Note di pastorale giovanile del 1978 in cui sintetizzava gli aspetti principali della spiritualità scout così scriveva sottolineando l’aspetto della strada, strumento fondamentale del metodo educativo scout insieme alla comunità e al servizio in vista di quella finalità che egli indicava come “la costruzione di una persona che sappia, come dice Baden-Powell, condurre da sé la propria barca. Con l’aiuto di Dio”:

“Con questa espressione si indica genericamente la vita all’aria aperta, e più propriamente il «far strada» a piedi (una eccezione è data unicamente dall’impresa in bicicletta, ma qui privilegio la strada a piedi). È la strada dei pellegrini, è la strada di chi si sa in Cristo (Gesù ha detto di sé: «Io sono la strada», Gv 14,6), è la strada che da Abramo all’ultimo dei credenti esprime un itinerario di fede, dall’esilio alla patria.
Far strada, da soli: sono momenti rari ma privilegiati, tecnicamente vengono chiamati «hyke», permettono il deserto, e in esso il silenzioso contemplare di quanto ci circonda, partendo dalla personale solitudine, dalla propria piccolezza, per arrivare alla grandezza e all’amore di chi ha immerso l’uomo in un clima di salvezza (la Creazione vista alla luce dell’Alleanza), fanno constatare tutti i limiti di cui uno è portatore: la stanchezza, il sonno, anche la paura; e i limiti della società che ci circonda: la diffidenza (non è facile trovare una casa nella quale essere ospitati per passare la notte), lo scherno. Ma anche la ricchezza che dà una situazione di povertà, di libertà; e gli incontri insospettati con gente semplice, piena di disponibilità. Far strada con la propria comunità: l’esempio più classico è la «route» che richiede una buona preparazione, e poi, nella fatica di un percorso, fa cadere le maschere, evidenzia le solidarietà, ma anche gli egoismi, permette il confronto reciproco e la lettura, fatta insieme, delle piccole e grandi realtà che uno, insieme agli altri, incontra. Un fiore al quale si riesce dare un nome, un paese da conoscere, una famiglia con la quale spartire la cena e la gioia che ne segue, un fuoco attorno al quale ritrovare il calore dell’amicizia e la profondità del silenzio. Un cielo stellato da contemplare durante una «veglia alle stelle» (si tratta di una lunga veglia, dal tramonto all’alba, durante la quale alla lettura – sia della Bibbia che di altri testi – si alternano i silenzi e la presentazione delle costellazioni, ciascuna delle quali assume un volto e un nome, permettendo ancora una volta la lode di Dio).
Tutti possono far strada (è abbastanza abituale per le comunità accogliere anche handicappati). Ma è indispensabile una preparazione talora minuziosa. Anche questa preparazione è momento di spiritualità, perché la vita in Cristo non s’improvvisa. Richiede, anche se è strada, anzi proprio perché è strada, «stabilità» e «fermezza»”.

E così concludeva: “La spiritualità scout, spiritualità da «monaci delle cose», da «contemplativi della realtà», passa attraverso il vissuto che diventa «segno», in qualche modo sacramento, della salvezza compiutasi in Gesù Cristo. La Parola annunciata, e poi concretizzata nella vita – e nei sacramenti –, rappresenta il riferimento indispensabile perché, nella Fede, il vissuto divenuto «segno», rimandi al suo significato profondo” (…) Ancora una volta non può che nascere l’invito. «Vieni con me, fratello». Solo così, dall’intreccio sperimentato di strada, comunità, servizio, può derivare un quadro vivo della spiritualità scout che, come si dice tra noi, «entra dagli scarponi»”.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2021

Ascensione, dai Vangeli di Rabbula, VI sec. d.C. Miniatura su pergamena, 34 x 27 cm. Folio 13v. Firenze, Biblioteca Laurenziana

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11)

La narrazione dell’ascensione è un altro modo per esprimere l’evento della Pasqua. Il crocifisso non è rimasto rinchiuso nel buio della morte ma ha vinto la morte con il suo amore ed è vivente in modo nuovo.

La comunità dei suoi discepoli è chiamata a vivere nell’assenza di Gesù, in un vuoto che tuttavia è abitato dalla promessa di un incontro.  Verrà: l’umiliato nella morte, tornerà nella gloria. Ma la sua presenza non è solo attesa in vista del ritorno. Si apre sin d’ora la possibilità di vivere un incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Di fronte alle richieste degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, ossia di dominare il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio ad una curiosità che impedisce di guardare al presente e di aprirsi a lui in modo nuovo. Invita per questo ad attendere: è attesa fondata sulla promessa del Padre, sulla sua fedeltà. Ed è attesa di ricevere la forza dello Spirito, fonte della testimonianza. Lo Spirito è il dono di Cristo risorto: il suo agire nella comunità continua per mezzo dello Spirito. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma nella forza dello Spirito.

‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: la nube nella Bibbia rinvia alle teofanie. La sua presenza è quella di Dio che si fa vicino e chiede uno sguardo rinnovato capace di scorgere i segni che ci ha lasciato: lo Spirito guida nell’esperienza dell’incontro con lui nella fede e rende testimoni della sua risurrezione: ‘voi mi sarete testimoni’.

Ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona lo Spirito, presenza-dono che conduce ad entrare nella relazione di amore del Padre e del Figlio. La comunità è coinvolta in questa chiamata ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella chiesa si attua allora una molteplicità di doni e una diversità di servizi, frutto dell’azione dello Spirito; nell’accogliere molteplicità e varietà, la chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come comunione:

“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11-12).

Gesù affida ai suoi il mandato: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che compie la signoria di Cristo sulla storia e sul mondo, una signoria particolare perché signoria del servizio e dell’amore fino alla fine. I discepoli sono inviati ad un camminare e operare che li supera e sta dentro a quanto essi vivono: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20).

Alessandro Cortesi op

Non dimenticare Gerusalemme

“Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace,” e richiedono un intervento urgente. La violenza usata contro i fedelimina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un’altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all’umanità da Dio stesso”.

Così si esprime la dichiarazione del patriarcato latino di Gerusalemme del 9 maggio 2021 (riportata integralmente dal sito www.oasiscenter (https://www.oasiscenter.eu/it/dichiarazione-patriarcato-latino-gerusalemme-violenze-gerusalemme)  

La dichiarazione riprende le affermazioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani secondo cui con tali determinazioni  lo stato di diritto viene “applicato in modo intrinsecamente discriminatorio”. La questione del quartiere di Sheikh Jarrah non è una disputa tra privati ma è denunciato nei termini di “un tentativo ispirato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa”.

La dichiarazione ricorda anche il diritto di accesso ai Luoghi santi e denuncia le manifestazioni di forza con cui è stato negato tale diritto ai palestinesi proprio durante il mese di preghiera di Ramadan alla moschea di Al Aqsa.

“Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l’anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri. La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque.”

Viene richiamato il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite che se fossero attuate costituirebbero una via di soluzione al conflitto in atto e potrebbero aprire la via per un riconoscimento di due Stati e per porre fine alle politiche di discriminazione di violazione continua e quotidiana di diritti umani fondamentali perseguite dall’amministrazione di Israele nei confronti dei palestinesi. La dichiarazione ricorda che Gerusalemme è città sacra alle tre religioni monoteiste “in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l’uguaglianza e la pace”.

E’ poi richiamato che la costruzione della pace richiede innanzitutto l’attuazione di rapporti di giustizia e riconociemnto dei diritti umani. Sulla base dell’ingiustizia nessuna pace sarà possibile: “Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l’ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette. Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme”.

“Siamo sull’orlo di un baratro. Scene da buio della specie, con linciaggi da una parte e dall’altra, assalto a sinagoghe e moschee, vanno condannate e fermate. Non è questo odio tra i popoli che serve anche e soprattutto alla parte infinitamente più debole, quella palestinese, come dimostra la sproporzione delle vittime. Questo odio ci ripugna e probabilmente chiama in causa le tre religioni monoteiste che sul Medio Oriente qualche responsabilità nel conflitto ce l’hanno. Ora occorrerebbe invece una vera mobilitazione democratica, consapevole del precipizio rappresentato da un’altra guerra in Medio Oriente e nel già mortale Mediterraneo, perché la crisi di Gerusalemme è il cuore della crisi internazionale”. Così scrive Tommaso Di Francesco (Un silenzio complice dell’orrore, “il manifesto” 14 maggio 2021) osservando: “E insieme servirebbe una vera iniziativa diplomatica internazionale per fermare la crisi arrivata sull’orlo del baratro. Purtroppo in verità, guardando quel che accade e ai veti nel Consiglio di sicurezza Onu, non c’è né l’una né l’altra (…) Del resto di che sorprendersi, così si porta a termine l’espulsione definitiva anche nel luogo più simbolico, dove i militari israeliani sparano, in pieno Ramadan, come in un tiro segno. Infatti nella Cisgiordania occupata centinaia di insediamenti dei coloni integralisti hanno espulso così tanti palestinesi dalla loro terra che non esiste più la continuità territoriale perché nasca uno Stato palestinese – senza dimenticare il Muro, lo sradicamento violento delle colture, l’abbattimento delle case, i posti di blocco che spezzano la vita, la repressione quotidiana con uccisioni che non fanno notizia nei media occidentali, le migliaia di detenzioni arbitrarie”.

Così in un’intervista all’agenzia AdnKronos ha affermato Moni Ovadia, artista musicista e scrittore di origine ebraica: “La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. (…) Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare a pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Netanyahu. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”. (intervista adnkronos 11.05.21 https://www.adnkronos.com/moni-ovadia-politica-israele-infame-e-senza-pari-strumentalizza-shoah_3151RAi6zwnLmC7HGWrGLY)

Il pensiero di questi giorni pasquali corre a Gerusalemme, città che reca in sé una chiamata e un sogno di pace ma in cui ancora in questi giorni si rendono presenti i gesti della sopraffazione, dell’ingiustizia e della violenza. L’attenzione a quanto sta avvenendo a Gerusalemme e in Palestina riporta alle parole di Gesù  “ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme ma di attendere l’adempimento delle promesse del Padre” (At 1,4) e all’impegno a pregare e operare perché non sia lasciato spazio a ideologie estremiste che negano possibilità di vivere al popolo palestinese  e perché l’orientamento a percorrere sentieri di giustizia applicando le risoluzioni dell’ONU possa aprire a nuova stagione di pace e non di guerra.

“Se mi dimentico di te, Gerusalemme, / si dimentichi di me la mia destra; / mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, / se non innalzo Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 137,4-6).

Alessandro Cortesi op  

Proposta di una celebrazione domestica domenicale – VII domenica di Pasqua – Ascensione del Signore

IMG_8362A questo link nel sito http://www.insiemesullastessabarca.it è possibile scaricare la proposta di una celebrazione domestica della domenica VII di Pasqua – festa dell’Ascensione del Signore – 24 maggio 2020

 

Ascensione del Signore – anno A – 2020

IMG_8348At 1,1-11; Efes 1,17-23; Mt 28,16-20

Nella risurrezione Gesù è ‘innalzato’: dopo la risurrezione è in una vicinanza nuova e piena con il Padre. Nel racconto di Atti la presenza del Padre è evocata dall’immagine della ‘nube’ che ‘lo sottrasse’ allo sguardo dei discepoli. La nube è segno della presenza nascosta di Dio, inafferrabile e ricorda che Dio rimane velato e al di là della nostra portata.

L’umanità di Gesù è coinvolta in questa comunione nuova. Nella sua vita è stato uomo che ha vissuto per gli altri. Con la risurrezione il Padre conferma che la vita spesa per gli altri di Gesù è manifestazione del volto dell’Amore che vince la morte. Gesù è preso dal Padre e condotto ad essere ‘signore’.

Il movimento della salita richiama il salire al trono del re cantata nel salmo: ‘applaudite popoli tutti… ascende Dio tra le acclamazioni…Dio è re di tutta la terra… Dio siede sul suo trono santo’ (Sal 46): Jahwè che si innalza su tutti i popoli, unifica tutti. L’innalzamento di Gesù è visto come attuarsi del regno di Dio. la sua esperienza è movimento di discesa nel farsi servo. Nel suo scendere si rende visibile il volto di Dio dell’amore. Per questo ‘Dio l’ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome’ (Fil 2,9).

Al momento di essere elevato Gesù benedice i suoi discepoli. C’è un rapporto profondo tra l’essere elevato di Gesù e la benedizione che è rivolta ai suoi discepoli.

Gesù richiama i suoi a non lasciarsi prendere da vane curiosità sui tempi e sui momenti in cui si costituirà il ‘regno di Israele’. Piuttosto chiede loro di attendere rimanendo in ascolto della promessa del Padre, quella di essere battezzati in Spirito Santo.

Indica di rimanere a Gerusalemme, luogo della passione morte e risurrezione e di attendere al promessa del Padre. Li invita ad impegnarsi nella testimonianza fino agli estremi confini della terra. Il salire di Gesù rinvia al tempo della comunità, chiamata ad incontrarlo in modo nuovo: è il tempo dell’attesa ma anche tempo in cui lo Spirito verrà come ‘forza che li investe dall’alto’.

Nel racconto di Matteo gli undici videro Gesù si prostrarono ma alcuni dubitavano. Gesù affida ad una comunità fragile ila sua promessa e l’invio. Dice loro: “Andate… fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli”. Gesù invia ad immergere la propria vita e quella dei popoli nella vita di Dio che ha il volto della comunione dell’ospitalità e dell’amicizia. L’invio a fare discepoli non sorge da una istanza ad aumentare il numero degli appartenenti al gruppo, ma richiama al seguire il cammino seguito da Gesù stesso, camino di dono e servizio.

Spinge fuori la comunità in una responsabilità di incontro, di relazione nel quaggiù: ‘perché state a guardare il cielo?’. La promessa è una vicinanza nuova che si apre nel vuoto di una assenza: ‘ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’.

Alessandro Cortesi op

img_8233Sarò con voi tutti i giorni…

Dopo la fine dell’emergenza stanno riprendendo le celebrazioni delle messe nelle chiese. In questo periodo molte sono state le esperienze nuove che sono state attuate. Il fatto che nel periodo del lockdown siano venute meno le attività pastorali e le celebrazioni comunitarie in particolare l’eucaristia, ha prodotto una serie di reazioni diverse.

Talvolta ha regnato lo smarrimento evidenziatosi in molti modi. Si sono da un lato sviluppate nuove forme di preghiera e celebrazione nell’ambito domestico o tentativi di creare nuove modalità comunitarie di condivisione a distanza, d’altro lato si è assistito ad una sorta di rincorsa a riempire spazi percepiti troppo vuoti utilizzando i mezzi della comunicazione (TV, dirette facebook, registrazione di celebrazioni poi inviate) forse non accettando il messaggio dell’interruzione e del sostare che il tempo del confinamento ha proposto.

Proprio tali modalità hanno accentuato la differenza tra i presbiteri che continuavano a celebrare la messa e una comunità che, pur coinvolta, viveva nella condizione di assistere. E’ apparsa anche chiara la difficoltà delle comunità di individuare altre forme di celebrazione che non fossero la messa.

Nella diversità delle esperienze e dei tentativi si è assistito da un lato al riemergere di un vocabolario (ad esempio la ‘messa privata’ – ved. riflessione di Andrea Grillo al proposito) e di forme che fanno riferimento a mentalità preconciliari con tendenze di forte clericalizzazione e con accento sulla dimensione sacrale. D’altra parte è stato anche un periodo di creatività, di esperimenti attuati con spirito di disponibilità nell’attenzione del legame profondo tra celebrazione e vissuto personale e comunitario.

Raccolgo in questo momento di passaggio tre voci, tra le tante possibili, che offrono diversi spunti e domande proprio in questa fase in cui si attua un prudente nuovo inizio. In esse si può scorgere da un lato il richiamo a lasciarsi interrogare profondamente dai segni del tempo che abbiamo vissuto e stiamo vivendo (Mario Menin), la provocazione a scorgere dimensioni inedite della vita di fede in un tempo nuovo (René Poujol) e la proposta di un futuro che non potrà essere un ritorno a ciò che era prima (Derio Olivero).

Mario Menin, missionario saveriano, nel suo articolo ‘Chiese vuote. Per chi suona la campana?’ s’interroga sulle chiese vuote e legge quanto sta avvenendo come un segno che dovrebbe interrogare per un cambiamento della vita della chiesa. L’emergenza della pandemia ha solamente reso più evidente un processo già in atto da tempo:

“Perché non riconoscere allora nelle chiese vuote un segno di quanto potrà succedere in un futuro non molto lontano, se non riformeremo – più evangelicamente – le nostre comunità? E perché prendersela con il coronavirus, che ha soltanto evidenziato – in modo certamente disgraziato – lo svuotamento già in corso? Eppure di segnali d’allarme ne avevamo ricevuti dal Concilio Vaticano II in poi, specialmente in Europa e in gran parte dell’Occidente, dove molte chiese, monasteri e seminari si sono svuotati o chiusi. Li abbiamo snobbati come non rivolti a noi e alle nostre comunità. Ci siamo, invece, ostinati ad attribuire lo svuotamento a cause esterne, soprattutto al fenomeno della secolarizzazione – nelle sue varie dimensioni e tappe –, senza renderci conto, come recentemente asserito da papa Francesco, che ‘non siamo più in un regime di cristianità…’. Forse questo tempo di chiese vuote può aiutarci a far emergere il vuoto nascosto nelle nostre comunità, le nostalgie liturgiche tridentine, che rendono più problematico il riaggancio della Chiesa alla società di oggi e il recupero del ritardo “di duecento anni” denunciato dal card. Martini”.

L’analisi di Menin suggerisce di maturare consapevolezza di un cambiamento d’epoca che pur vede una forte resistenza in quanti cercano di mantenere i caratteri di una chiesa che si concepisce nel quadro di un regime di cristianità, preoccupata di potere, di privilegi, dell’inseguire un modello di comunità centrato sui preti secondo la visione tridentina, anziché coltivare una disponibilità ad una riforma. Indica concretamente la via di un riconoscimento di ministerialità diffusa:

“Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Esse ci insegnano che i problemi delle nostre comunità non sono tanto la mancanza di vocazioni o la scarsità di preti, quanto un nuovo modo di essere Chiesa, dove la ministerialità dei laici, delle donne e delle famiglie, sia riconosciuta come costitutiva della Chiesa stessa. Per questo dovremmo prendere più sul serio, anche in Italia, le proposte del Sinodo Panamazzonico”.

René Poujol, giornalista francese, in un aritcolo nel suo blog dal titolo ‘E se qualcuno preferisse altro alla messa?’, facendo riferimento alla situazione del suo Paese ne delinea i tratti e traendo spunto dalle parole del filosofo Denis Moreau prosegue la riflessione invitando a laciarsi interrogare profondamente dal’esperienza in atto (riprendo la traduzione dal sito http://www.finesettimana.org:

“Il 26 aprile, sul suo profilo Facebook, il filosofo Denis Moreau, di cui avevo accolto con favore il libro “Comment peut-on être catholique?” pubblicato nel 2018, pubblicava una strana confessione. Cito: ‘Dall’inizio del confinamento, da semplice fedele quale sono, non posso più assistere alla messa domenicale, esattamente come chiunque altro. Non ho mai perso una messa della domenica da più di 30 anni. Ma, onestamente, devo proprio ammettere che non mi manca poi così tanto non poter assistere alla messa di persona e fare la comunione’. Siamo onesti: prosegue affermando di dover, per il futuro, imparare ‘a desiderare e amare un po’ di più la messa domenicale’. Ma lo dice per meglio sottolineare quanto gli paia essenziale che la Chiesa sappia trarre tutte le conseguenze da quanto molti cattolici stanno vivendo durante queste settimane di confinamento.

(…) La diminuzione – per non dire il crollo – della pratica per quanto riguarda la messa domenicale, nel nostro paese, non è più da dimostrare. Sono colpito dal numero dei giovani cattolici, che pure sono credenti, che riconoscono, in privato, di annoiarsi alla messa e di andarci talvolta solo per dovere. (…)

Le settimane di confinamento che abbiamo vissuto sono state segnate, per molti cattolici, da una fioritura di pratiche spirituali, a volte nuove nella loro vita: preghiera personale, riscoperta delle Scritture, in particolare del Vangelo, liturgie familiari, partecipazione a reti “spi” [Software in the Public Interest] via internet, creazione di comunità “virtuali” magari effimere, il seguire le messe alla televisione, su internet o sulle reti sociali, relazioni multiple non esclusivamente di tipo liturgico mantenute con preti o diaconi della parrocchia, riflessioni condivise sul ‘dopo’… Di che alimentare, per alcuni, il desiderio di prolungare o di approfondire, in futuro, delle esperienze che si sono rivelate ricche di senso. Al punto da trascurare domani la messa domenicale? Non necessariamente, ma forse di comprendere, di sentire nel più profondo di se stessi, che la ‘mancanza’ provata era innanzitutto di natura comunitaria più che sacramentale nel senso classico del termine. Di che alimentare molti interrogativi – temibili – nelle diocesi dove la diminuzione drastica del clero è ormai evidente. Ma perché non delineare anche delle piste di ripresa? (…) Questo confinamento ci obbliga in qualche modo ad immaginare ciò che sarà la Chiesa del dopo, quella che dovrà imparare a vivere con pochi preti, meno eucaristie, sacramenti meno accessibili e più raramente dispensati. E con mia grande sorpresa, io che sono piuttosto pessimista per natura, trovo che ciò che sta succedendo nella Chiesa di Francia dia piuttosto ragioni di speranza. È in questo senso che bisogna intendere il titolo di un mio precedente post: Déconfiner les églises ou déconfiner l’Eglise? (Por fine alla chiusura delle chiese o alla chiusura della Chiesa?). Forse i nostri vescovi e i nostri preti potrebbero, a partire dal 2 giugno, l’indomani della Pentecoste, invitarci a discuterne!”.

Una terza voce in questo dibattito proviene dalle parole appassionate del vescovo Derio Olivero di Pinerolo, che ha vissuto personalmente la malattia del Covid-19 passando attraverso le diverse fasi della cura fino ad essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva e vivendo momenti drammatici che egli stesso ha raccontato dopo la guarigione.

Tornato alla sua diocesi ha scritto una lettera in cui invita ad un ritorno a celebrare che non potrà essere come prima, ma che auspica come un momento di ripensamento e rinnovamento radicale, con una attenzione nuova alle relazioni e a costruire tessuto di apertura, attenzione e cura per le persone superando barriere e confini:

“Non basta tornare a celebrare per pensare di aver risolto tutto. “Non è una parentesi”. Non dobbiamo tornare alla Chiesa di prima. O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni. (…) in modo netto e chiaro vi dico che non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra catechisti, animatori, collaboratori e praticanti. Abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi, dove si possa dire: ‘Qui si respira un clima di comunità, che bello trovarci!’. E all’esterno, con quelli che non frequentano o compaiono qualche volta per “far dire una messa”, far celebrare un battesimo o un funerale. Sogno cristiani che amano i non praticanti, gli agnostici, gli atei, i credenti di altre confessioni e di altre religioni. Questo è il vero cristiano. Sogno cristiani che non si ritengono tali perché vanno a Messa tutte le domeniche (cosa ottima), ma cristiani che sanno nutrire la propria spiritualità con momenti di riflessione sulla Parola, con attimi di silenzio, momenti di stupore di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore, momenti di preghiera in famiglia, un caffè offerto con gentilezza. Non cristiani ‘devoti’ (in modo individualistico, intimistico, astratto, ideologico), ma credenti che credono in Dio per nutrire la propria vita e per riuscire a credere alla vita nella buona e nella cattiva sorte. Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia. Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto. Credenti così riprenderanno voglia di andare in chiesa. Di andare a Messa, per nutrirsi. Altrimenti si continuerà a sprecare il cibo nutriente dell’Eucarestia. Guai a chi spreca il pane quotidiano (lo dicevano già i nostri nonni). Guai a chi spreca il ‘cibo’ dell’Eucarestia.”

Riflessioni importanti per vivere con consapevolezza il momento che stiamo vivendo.

Alessandro Cortesi op

 

Ascensione del Signore – anno C – 2019

ascensione.jpgAt 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

L’intero vangelo di Luca è strutturato attorno al tema del viaggio. Gesù percorre la strada verso Gerusalemme e il suo viaggio è una salita, una ‘ascensione’. Gerusalemme è infatti posta sul colle di Sion e i pellegrini che andavano verso la città santa la vedevano da lontano come meta posta in alto. Tanti salmi cantano così l’ascensione verso Gerusalemme, al tempio di Dio ed erano usati mentre si saliva verso Gerusalemme. Luca nel suo vangelo presenta così il cammino di Gesù come salita a Gerusalemme: “Mentre stavano per compiersi i giorni della sua ascensione, Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Nell’episodio della trasfigurazione, nel dialogo tra Mosè e Elia, essi “parlavano dell’esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (9,31).

Nel racconto della passione Gesù sale al Calvario e poi sulla croce. Il suo risvegliarsi dal sonno della morte, il suo ‘alzarsi’, è presentato da Luca nei termini di salita alla destra del Padre: “Gesù li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,52-53).

Ascendere è movimento di salita, ed esprime tutta la vita di Cristo: il suo percorso è una salita che Luca indica sfociare non solo fino a Gerusalemme ma ancora più in alto nello stare accanto al Padre. Il cielo, simbolo del divino, è la sfera in cui Gesù vive ora nella condizione del ‘vivente’ (è questo il titolo del risorto per Luca), colui che ha vinto la morte. Il suo ‘salire’ si compie portando con sé tutto al Padre. E salendo al cielo lascia una benedizione. Non rimane senza legame con i suoi e con la terra. Non sarà più presente, la comunità dovrà vivere nella sua assenza, nell’attesa di un ritorno, e d’ora in poi sulla terra si svolgerà la missione di coloro che sono investiti della forza dello Spirito Santo e sono chiamati a vivere un nuovo incontro con lui e nella speranza.

Nel movimento della ascensione quindi Luca legge la nuova vita di Gesù oltre la morte e il sorgere del cammino della chiesa: Gesù ora vive nella comunione con il Padre, e dona la forza dall’alto, il dono dello Spirito perché l’incontro con lui si attua nella sua assenza, attraverso i suoi testimoni.

Il movimento che lo porta in alto è inizio di un grande raduno. Il quarto vangelo esprime questo dicendo : ‘quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me’ (Gv 12,32). Colui che sulla croce era stato visto come il fallito, proprio sulla croce ha manifestato l’amore fedele fino alla fine. Nel dono di sé e nel farsi servo sta il senso più profondo della vita di Gesù e del cammino che Gesù indica ai suoi.

La lettera agli Ebrei vede nella corporeità di Gesù risorto una strada che si apre per un salita nel nuovo tempio, il tempio celeste che è comunione con Dio. Non ci sono più esclusi o condizioni particolari per entrarvi: Gesù con il suo sangue, cioè con la sua vita, ha aperto una strada nuova. E’ una via che è una persona: è Gesù, nella sua corporeità, la via nuova e vivente. “Avendo, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne…. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso”.

La festa dell’ascensione è un aspetto della festa della Pasqua: indica un passaggio aperto per un incontro nuovo, di vita, con il Padre. E’ anche festa di speranza per la chiesa, comunità chiamata a non rimanere a guardare il cielo, ma ad impegnarsi sulla terra annunciando la presenza nuova del Signore e accompagnando all’incontro con Lui nello Spirito.

Alessandro Cortesi op

Vendita gomitoli onlineRancore e speranza

Qualche commentatore ha evidenziato come in Italia il grande vincitore delle elezioni europee sia stato non solo e non tanto un capo-popolo, che dirige un partito politico, quanto piuttosto un sentimento diffuso che ha fatto sì che molte persone si siano affidate alle illusorie promesse di chi si è presentato come salvatore. Non la paura è il sentimento predominante. E pure la paura è stata alimentata a piene mani con una presentazione dei problemi e della realtà deformate e capaci di suscitare allarme e opposizione di fronte all’altro, all’immigrato, al più povero. Ma più che la paura è il rancore l’atteggiamento dominante. E’ sentimento che viene coltivato e che da tanto tempo costituisce un legante di esperienze e persone assai diverse. Il rancore è proprio di chi avverte la propria situazione come segnata da disagio e da tradimenti e cerca di individuare un capro espiatorio colpevole della mancata realizzazione di aspirazioni o del venir meno di condizioni di privilegio, di benessere e o di soluzione al proprio disagio.

Il rancore alimenta anche quell’attitudine populista che si può sintetizzare nel sentimento di una bontà racchiusa nel popolo, depositario di ogni tipo di virtù, e di una colpa propria di una élite il cui carattere principale sarebbe l’egoismo. Una contrapposizione di bene e male considerati interamente separati da una parte e dall’altra senza possibilità di mediazione e di democrazia.

A partire dagli anni 80 in Italia a più riprese varie fasce della società si sono affidate a diverse figure percepite come ‘salvatori del popolo’ che hanno vissuto parabole di affermazione e di discesa talvolta in modo più lungo, altre volte in modo più rapido, ma sempre contrapponendo promesse di soluzioni mirabolanti ad effettive realizzazioni assai deludenti, quando non concluse nel malaffare e nella corruzione. E’ la vicenda di diversi populismi che hanno segnato la storia recente del paese e che hanno visto il crescere di entusiasmi talvolta con risultati anche elettorali mirabolanti, e il successivo spegnersi e appassirsi di tante esaltazioni a fronte dell’incapacità di affrontare la complessità del reale.

E’ questo forse il principale problema di una popolazione italiana in certe fasce sociali caratterizzata dalla preoccupazione di trattenere e non perdere una ricchezza percepita come privilegio senza responsabilità sociale, nemmeno verso le generazioni più giovani, in altre aree segnata duramente da condizioni di disagio e di venir meno progressivo di sostegni sociali in condizioni di povertà.

Il rancore e la chiusura vengono a costituire il comune denominatore di una società ripiegata e incapace di pensare un futuro diverso e altro rispetto a nostalgie di un passato ormai alle spalle. Caratteristiche di un invecchiamento che non pensa al futuro e non lascia spazio alle aspirazioni dei giovani.

A fronte di tale sentimento prevalente sarebbe da auspicare un nuovo sguardo e la maturazione di un atteggiamento diverso nei confronti della vita, degli altri, del futuro. E’ questo l’atteggiamento di chi nel cuore coltiva la speranza, che non fa ricadere su altri le colpe di ciò che va male. La speranza è attitudine di chi avverte la problematicità della situazione e non pretende soluzioni miracolistiche in termini di esclusione degli altri. E’ legata alla mitezza propria di chi percepisce il proprio limite e nello stesso tempo cerca di costruire passo passo senza affidarsi ad illusioni. Soprattutto è consapevole che solo in una rinnovata solidarietà sociale e nella consapevolezza di appartenere ad un’unica comunità umana è possibile affrontare le difficoltà del presente, ricercando le cause profonde delle sofferenze e cercando di costruire insieme. Chi spera non vive ‘contro’, con giudizi perentori sugli altri e non riconoscendo il proprio limite. Al contrario vive ‘per’, nella tensione a mettere energie al servizio di un progetto comune, ad aprire vie di pensiero e di prassi ad una vita buona per tutti. “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza”.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2018

IMG_2872.jpgAt 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“perché state a guardare il cielo? … tornerà un giorno” (At 1,11) al cuore della fede fondata sulla Pasqua c’è una assenza e una nostalgia. Attesa di ritorno: tornerà… Non si incontra più Gesù come prima. E’ possibile custodire la sua promessa e l’esperienza d’incontro con lui può continuare in modo nuovo, nel modo dell’attesa, nella vita della comunità, nei segni da lui lasciati, nello sxogere l’operare dello Spirito.

Gli apostoli chiedono di ‘conoscere i tempi e i momenti’: è curiosità di prevedere il futuro. Gesù invita a non dare spazio a questa vana curiosità che impedisce di cogliere le cose più importanti. E’ inutile sprecare energie in questo sforzo. Piuttosto lo sguardo va orientato in altra direzione, al presente. Sin d’ora è vicino in modo nuovo. L’attitudine richiesta è quella dell’attesa, ‘attendere che si adempia la promessa del Padre’ e ricevere la forza dello Spirito. La promessa del Padre è per l’umanità, per poter partecipare alla vita in Cristo: l’essere immersi (battezzati) nello Spirito Santo e ricevere da lui forza.

Lo Spirito è il dono di Cristo risorto. Dopo la Pasqua l’incontro con Gesù può avvenire per opera dello Spirito, nella sua forza. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo delle persone. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: la nube è simbolo della penombra dello Spirito, che copre e rivela. Gesù è nella vita di Dio. Il suo ‘spazio’ è altro rispetto allo spazio e al tempo in cui Gesù ha vissuto la sua vita terrena. Ma la sua presenza continua, si rende vicina nell’interiorità e si fa vicina nei segni che ci ha lasciato: lo Spirito accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione. D’ora in poi l’incontro con Gesù sarà vissuto nell’incontro con qualcuno che in forza dell’agire dello Spirito, testimonia di Gesù, lo racconta e cammina sui suoi passi: ‘voi mi sarete testimoni’.

“Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Gesù invia i suoi a continuare l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) a offrire segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). Ed essi fanno l’esperienza di un agire che li precede e li accompagna e che non dalla loro forza ma dalla presenza del Signore si attua la comunicazione del vangelo: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano”.

I segni accompagnano la parola e dicono che la morte non è l’ultima parola. Gesù non lascia la sua chiesa dona lo Spirito, presenza-dono che conduce ad entrare nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. E’ vita nuova: i diversi doni, che provengono dallo Spirito, recano in sè la spinta ad essere messi a servizio per la comunione. Le differenze non vanno eliminate, ignorate, sopresse ma vi può essere condivisione di doni e servizi, segno della vita trinitaria. Unità di relazione in cui l’essere-con si fa essere-per e si può abitare nella reciprocità dell’amicizia.

Ascensione non è festa del distacco ma di una gioia diversa per un incontro nuovo con Cristo. Il Padre ha detto sì alla vita di Gesù e la sua umanità è principio di comunione. Vivere l’inconro con Gesù nel sentire la sua mancanza è esperienza di fede nel Dio di cui si avverte la mancanza. La preghiera stessa rimane domanda sospesa, senza risposta, ma anche rivolta come grido che non lascia che l’attesa venga meno.

Alessandro Cortesi op

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Lingue nuove

Lingue nuove sono le lingue diverse dei popoli. Parlare lingue nuove è esito di apertura a scorgere che la propria lingua non è senza legami con altre lingue diverse. E’ passaggio per superare lo sconforto dell’incapacità di comunicare. Parlare lingue nuove passa attraverso la fatica dell’accostarsi ad altri mondi, e si costruisce nell’apprendimento ad incontrare ascoltando e tessendo rapporti.

La possibilità di parlare lingue nuove è attraversamento che si attua nel tradurre le parole della propria lingua madre in parole altre. Nella traduzione l’estraneo si fa riconoscibile nei tratti del suo volto e diviene familiare, si costruiscono ponti che consentono avvicinamento e comprensione.

E’ stato soprattutto il filosofo Paul Ricoeur ad approfondire il paradigma della traduzione come via per affrontare la sfida dell’incontro con l’altro, per aprire vie di comunicazione nel mondo del pluralismo e per incontrare lo straniero, senza far venir meno la diversità, accettandola, e rendendola luogo di un riconoscimento possibile. Apprendere a parlare lingue nuove conduce a scoprire che le lingue umane non sono sistemi impermeabili e chiusi, ma sono come case aperte con porte e finestre che consentono passaggi e visite. Percorsi mai compiuti definitivamente e sempre da intraprendere di nuovo. Percorsi che accompagnano a riconoscere l’altro, ma anche a comprendere e riconoscere in modi nuovi la propria in lingua, la propria esistenza.

E’ possibile allora camminare verso quella che Paul Ricoeur indica come ospitalità linguistica?

“Ospitalità linguistica quindi, ove al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso sé, nella propria dimora di accoglienza, la parola dello straniero» (P.Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, Morcelliana, Brescia 2002, 50)

Tale ospitalità è orizzonte da ricercare continuamente ed implica la fatica della traduzione, scoprendo che la propria lingua è importante quale casa aperta ad accogliere, e nel contempo è anche importante la lingua dell’altro nella diversità. Solamente da tale intuizione può avere inizio l’avventura del parlare lingue nuove, di cercare di tradurre.

E’ veramente l’opposto dell’irrigidimento che chiude e rende impermeabili ad ogni comunicazione. E’ il contrario dei diktat che pretendono di parlare e intendere un’unica lingua che diviene lingua del potere e della violenza, è l’opposto del rifiuto del dialogo possibile che tanto segna il nostro quotidiano e lo tinge di intolleranza e di rifiuto degli altri.

“Tradurre significa rendere giustizia allo straniero, significa instaurare la giusta distanza da un insieme di linguaggio all’altro. La tua lingua è altrettanto importante della mia. È la formula dell’equità-uguaglianza. La formula della diversità riconosciuta” (P. Ricœur, Il Giusto, vol. 2, Effatà, Cantalupa (To) 2007, 51).

Imparare a tradurre diviene via per aprirsi ad un modo di tare insieme in cui il discorso tra le persone possa essere uno e nel medesimo tempo plurale. E’ esperienza che può aprire la via a maturare un orizzonte di impegno e di vita insieme, “un’etica della ospitalità linguistica e della convivialità” (D.Iervolino, Per una filosofia della traduzione, Morcelliana Brescia 2008, 125).

La diversità delle lingue è la babele di un mondo in cui chi parla in modi diversi non è capace d’intendersi, ma è anche la babele in cui i diversi accenti e suoni suscitano la curiosità dell’incontro, segnano così la benedizione di una umanità plurale, che si scopre chiamata a camminare insieme imparando a parlare lingue nuove. “Nella benedizione di Babele, dunque, è già prefigurato (…) il kerygma pentecostale del dono delle lingue, annuncio di una umanità riconciliata nel riconoscimento delle diversità” (D. Jervolino, Per una filosofia della traduzione, 119)

Alessandro Cortesi op

 

 

Ascensione del Signore – anno A – 2017

At 1,1-11; Efes 1,17-23; Mt 28,16-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”

Una festa tra la terra e il cielo quella dell’Ascensione: un modo di raccontare il mistero della Pasqua e della risurrezione. Gesù ‘elevato in alto’, compie il passaggio dalla terra alla vita di Dio. Cielo anche nella mentalità biblica è il luogo di Dio e la terra, in basso, è ambito del cammino umano. Dire che Gesù è ‘innalzato’ è un altro modo per dire che ha vinto la morte: ora la sua vita è trasformata, è vicino in modo nuovo al Padre. Tornerà così come ‘è andato in cielo’, nei gesti del servizio e dell’ospitalità.

La ‘nube lo sottrasse’ allo sguardo dei discepoli. Nel cammino dell’esodo, una nube accompagnava gli spostamenti, segno della presenza vicina di Dio che cammina con il suo popolo, ma anche segno che Dio non può essere trattenuto. Gesù nel suo cammino terreno è testimone di questa presenza: nella sua umanità vive in questa comunione. E’ stato uomo che ha vissuto per gli altri. Nella risurrezione il Padre ha detto ‘sì’ alla sua vita che ha raccontato il suo volto di amore. Gesù è costituito ‘signore’: ha un nome unico. A partire da qui la comunità dei discepoli sarà condotta a descrivere il farsi vicino di Dio in Gesù come un progressivo scendere: la Parola si è fatta carne e Gesù si è fatto servo. Colui che è salito al Padre è il medesimo che è disceso. Tutta la sua vita è movimento di discendere, farsi servo. Qui si rende visibile volto di Dio che si rivela nel servizio e nel dono di sé. Per questo “… lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli” (Ef 1,20).

‘poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva si staccò da loro e fu portato verso il cielo’ (Lc 24,50).

C’è un rapporto profondo tra l’essere preso di Gesù e la benedizione lasciata ai discepoli. Gesù risorto, il signore, invia i discepoli a vivere il tempo della sua assenza: li richiama a non lasciarsi prendere da vane curiosità interrogandosi sul futuro. Chiede l’attesa radicata sulla promessa del Padre, quella di essere immersi nello Spirito Santo. Chiede loro di rimanere a Gerusalemme, luogo della passione, croce e della risurrezione. Lì si dovrà sempre tornare, alla Pasqua di Gesù. Invita i suoi a farsi testimoni di lui: ‘mi sarete testimoni’. E’ una testimonianza fino ai confini della terra.

D’ora in avanti Gesù non sarà più incontrato come prima perché viene sottratto al loro sguardo, ma si apre lo spazio per un vedere nuovo, quello dell’attesa. La comunità è chiamata ad incontrare ancora il suo Signore: è il tempo dello Spirito, dono per i discepoli: è lo Spirito la ‘promessa del Padre’ e la ‘forza che li investe dall’alto’. Da qui il movimento mai finito di conversione e perdono, due momenti che vanno tenuti insieme: non c’è l’uno senza l’altro, entrambi sono dono della Pasqua di Gesù.

La comunità è inviata ad un impegno sulla terra non a restare a guardare il cielo. Insieme. Ogni percorso del credere ha una fondamentale dimensione comunitaria. La promessa di Gesù è vicinanza nuova: ‘ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’.

Alessandro Cortesi op

Soffi dello spirito

Ci sono nella storia quotidiana soffi dello spirito da cui lasciarsi portare, spingere, aprire per nuove uscite, per lasciarsi aprire ad orizzonti nuovi da vedere, verso cui camminare. Alcuni di questi sono da raccogliere in parole e volti che non hanno risonanza mediatica e di visibilità.

In un’intervista (Andrea Tornielli, ‘Serve una chesa che si mostri bisognosa di perdono’, La Stampa Vatican-Insider 19.05.2017)  Lauro Tisi, vescovo di Trento, parla di Chiesa che oggi ha bisogno di mostrarsi per ciò che è, perdonata e sempre bisognosa di perdono. E parla di una scoperta ad annunciare un Dio capovolto: “Fin dal giorno della mia nomina è qualcosa che mi è venuto fuori quasi per caso: ho detto che noi

dobbiamo parlare di un ‘Dio capovolto’. E questo è diventato un po’ il mio leitmotiv. Credo che ci sia bisogno di raccontare Dio a partire dall’umanità di Gesù Cristo. Siamo abituati a raccontare Dio in modo troppo astratto e filosofico. Dobbiamo imparare a passare dall’umanità di Cristo per narrare Dio.”

E dice: “la realtà prima delle idee. Dobbiamo finire, io credo, con la pastorale dei temi, dei percorsi un po’ troppo astratti. Bisogna partire dai dati concreti e lasciarsi portare dalla realtà per raccontare un Dio bello e interessante. Dobbiamo investire in

positività senza spaventarci del calo dei numeri. Dobbiamo alimentare speranza e la speranza ti viene se ti fidi della realtà”

Si riferisce anche a scelte concrete che riguardano situazioni da affrontare nella gestione dei beni: “Dobbiamo superare l’idea dei recinti e dei territori sacri, anche l’idea dei terreni puliti: il terreno umano è sempre pulito e allo stesso tempo sporco. E allora ecco un altro tema importante, quello della sobrietà e di una Chiesa che si mostri con il volto della vicinanza, della prossimità e della povertà. Penso che per i prossimi anni il nostro obiettivo sia questo: rimettere in gioco le nostre strutture. Già prima che diventassi vescovo in diocesi c’erano 21 canoniche messe a disposizione di situazioni di disagio e di povertà. Devo dire che questo è servito di più di tante catechesi”.

E parla di superamenti da attuare, impostazioni che dividono e sono ostacoli a vivere il vangelo: “Credo che sia necessario superare lo schema preti-laici, che è divisivo, per mettere invece al centro la vita della comunità. Il soggetto evangelizzante è una fraternità cristiana che non si crede perfetta, che ha bisogno di perdono e che pone gesti di prossimità. È finito il regime di cristianità. Abbiamo bisogno di comunità, uomini e donne che vivendo la dinamica di Gesù accolgono il ferito e dicono: guarda che sono stato ferito anch’io (…) Non ci sono gli addetti per la carità, per la famiglia, per i problemi del lavoro. C’è una comunità che incontra i bisogni. La vita delle persone non è divisa in settori”.

In questi giorni ha concluso il suo cammino terreno Antonio Papisca, docente di Relazioni Internazionali e di Organizzazione internazionale dei diritti umani e della pace per molti anni all’Università di Padova. Nel 1982 aveva dato inizio nella medesima Università e poi diretto il Centro Interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli.

La sua vita è stato quella di un docente, un ricercatore e uno studioso. Era animato dalla profonda convinzione del valore di uno studio connesso alla pratica e alla vita delle persone e dei popoli. Era convinto che la riflessione sui diritti umani costituisse una azione essenziale per promuovere cammini concreti per costruire la pace.

Un tratto tipico del suo insegnamento è stato la sobrietà: amava definirsi un badilante, un lavoratore che sposta la terra e con il suo lavoro offre materiale per costruire, aprendo cammini. Il suo tratto discreto e schivo nascondeva una profondità di pensiero ed una ricchezza umana che l’hanno reso noto a livello internazionale.

Ma la sua attività non rimaneva entro l’ambito accademico. Era uomo di relazioni, conscio del limite di un pensare che non si confronta e non entra in vivo rapporto con l’esistenza. Amava collaborare a percorsi portati avanti in tanti modi da associazioni, movimenti e gruppi impegnati per la difesa e promozione dei diritti e per la pace. Aveva profonda fiducia nell’impegno delle Organizzazioni non governative espressione di un movimento di partecipazione dal basso della società. Guardava con profonda simpatia e come completamento della sua azione l’impegno del volontariato.

Il prof. Marco Mascia suo collaboratore e attuale direttore del Centro per i diritti umani di Padova così lo ha ricordato: “È stato un vero apostolo dell’idea di diritti umani, prodigandosi come educatore anche nelle scuole e nel mondo del volontariato… ha vissuto per l’università e per gli studenti. Era un uomo di fede che ha lottato con forza per l’amore e la nonviolenza, cercando sempre una via istituzionale alla pace” (E’ morto il prof. Papisca paladino dei diritti umani, Corriere del Veneto 16.05.2017).

Fede e ricerca di vie istituzionali. Ispirazione interiore di distacco e fiducia nel cammino umano. Spirito di servzio e passione nella forza delle idee che divengono ispiratrici di istituzioni e di cammini di popoli. Orientamento deciso alla ricerca della pace non per le vie delle armi e della violenza, ma per le vie pacifiche e secondo metodi nonviolenti. Mitezza nei modi e caparbietà nel portare avanti lotte ideali e istituzionali. Questi alcuni tratti del suo pensiero e del suo stile.

Uno dei suoi impegni è stato mobilitare la società civile perché l’affermazione del diritto alla pace potesse divenire un diritto umano riconosciuto per tutti, con conseguenze profonde per la vita dei popoli e in vista di scelte da attuare in coerenza a tale riconoscimento, nel cancellare la pretesa degli stati di basarsi su un diritto per fare la guerra. Sosteneva con passione l’importanza di partire dall’inserimento di tale diritto negli statuti dei comuni e province nello sforzo di promuovere la ‘diplomazia delle città’.

L’orientamento su cui la sua riflessione e il suo impegno sono stati diretti è stato quello di progettare l’ONU come ONU dei popoli, e di pensare la diplomazia non come questione dei potenti o dei soli governi ma dei popoli e delle città.

Soffi dello Spirito che si rendono vicini in impegno, dedizione di vita e scelte di testimonianza.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno C 2016

Predrag Vujanovic.jpg(cappella minimalista – arch. Predrag Vujanovic – Serbia)

At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

L’intero vangelo di Luca è strutturato attorno al tema del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. E’ una salita: Gerusalemme è infatti posta in alto, sul colle di Sion e nel pellegrinaggio che radunava soprattutto per la festa della Pasqua ogni anno coloro che si recavano alla città santa la scorgevano da lontano come meta posta in alto. Tanti salmi cantano l’ascensione verso il tempio di Dio al centro della città.

Gesù è presentato da Luca nel momento della sua scelta di dirigersi con decisione verso Gerusalemme nella consapevolezza che lì avrebbe incontrato ostilità e condanna: “Mentre stavano per compiersi i giorni della sua ascensione, Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Anche nell’episodio della trasfigurazione, nel dialogo tra Mosè e Elia “parlavano dell’esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (9,31).

La salita di Gesù, si compie nel suo andare verso il Calvario fin sulla croce. Dopo la morte, il suo risvegliarsi dal sonno della morte, il suo ‘alzarsi’, la risurrezione, è presentata come salita alla destra del Padre: “Gesù li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,52-53).

Ascendere è movimento di salita che rinvia all’intera esistenza di Cristo: tutto il suo percorso è una salita. Dalle strade di questa terra sale fino alla destra del Padre. Il cielo, simbolo del luogo del divino, è luogo dove Gesù vive ora nella condizione del ‘vivente’ (è questo il titolo con cui Luca indica il risorto. Il Padre conferma questo con la sua azione di potenza: ‘…Gesù fu portato verso il cielo’ dice Luca utilizzando il passivo segno della azione di Dio. Il suo ‘salire’ si attua nel portare con sé tutto al Padre. Mentre sale Gesù benedice: la sua presenza non sarà più sulla terra, d’ora in poi sulla terra si svolgerà la missione di coloro che sono investiti della forza dello Spirito Santo e vivranno nella speranza del suo ritorno.

Nella ascensione Luca offre una lettura teologica della nuova vita di Gesù oltre la morte e della vicenda della chiesa.

Gesù è nella comunione con il Padre, e dona la forza dall’alto, il dono dello Spirito per poterlo incontrare in modo nuovo e per leggere la storia come disegno di Dio che chiama alla comunione con Lui.

La lettera agli Ebrei vede nella corporeità di Gesù risorto una strada che si apre per un salita nel nuovo tempio, il tempio celeste, il tempio della comunione con Dio. Non ci sono più esclusi o condizioni particolari per entrarvi: Gesù con il suo sangue, cioè con la sua vita, ha aperto una strada nuova. E’ una via con i tratti di un vivente: è Gesù, nella sua corporeità, la via nuova e vivente che si fa percorso della nostra libertà.

“Avendo, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne…. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso”.

Alessandro Cortesi op

reidersche_tafel Tavoletta in avorio ca. 400 d.C. – Bayerisches Museum, München ca 400 ad.jpg

reidersche_tafel Tavoletta in avorio ca. 400 d.C. – Bayerisches Museum, München ca 400 ad.jpgreidersche_tafel Tavoletta in avorio ca. 400 d.C. – Bayerisches Museum, München ca 400 ad.jpgTavoletta in avorio ca. 400 d.C. – Bayerisches Museum, München ca 400 ad.jpgTavoletta in avorio ca. 400 d.C. – Bayerisches Museum, München ca 400 adReidersche_Tafel_c_400_AD

Ascensione

L’ascensione viene raffigurata in alcune antiche opere alla fine del IV secolo. Uno tra gli esempi più antichi è l’immagine di una tavoletta di avorio, forse di provenienza dell’Italia settentrionale, conservata al Bayerisches Museum di Monaco.

Nella tavoletta Cristo è raffigurato nella parte destra in alto nell’atto di salire, le gambe in tensione, il lembo della tunica che svolazza alle spalle,  in un movimento assai dinamico quasi a superare con un salto l’ultimo passaggio tra terra e cielo. Con la mano destra afferra una mano che dall’alto esce dalla nube e lo afferra saldamente. Gesù è sul declivio di un monte e quasi sta spiccando un salto verso il cielo: la mano che fuoriesce dalla nuvole è allusione alla mano di Dio Padre.

Al di sotto, due apostoli in posizioni diverse assistono all’evento. Uno dei due si china nascondendosi il volto tra le mani indicando così  quanto sta avvenendo è rivelazione di qualcosa di grande. L’altro discepolo ha il volto rivolto verso Gesù che sale ed apre le braccia mostrando le palme delle mani in segno di meraviglia e stupore. Questa descrizione dei testimoni dell’evento sembra rinviare alle figure che apparivano nelle raffigurazioni di apoteosi. Qui tuttavia vi è quasi un’allusione alla posizione dei discepoli nelle scene trasfigurazione. Gesù è rappresentato con in mano un rotolo della legge: potrebbe essere rinvio a Mosè che sul monte riceve da Dio le tavole della Legge, e il tratto proprio della sua azione di maestro di sapienza. La mano forte di Dio che afferra Gesù nel suo salire indica l’ascensione come opera del Padre.

La tavoletta d’avorio riporta nella parte inferiore la raffigurazione della visita di tre donne velate e titubanti al sepolcro. Questo è raffigurato quale costruzione formata di una parte inferiore quadrata con una porta chiusa e una parte superiore a pianta rotonda con colonnine e tondi in cui si intravedono busti scolpiti sopra i capitelli. Compare la presenza di una figura seduta che indica alle donne che Gesù non è lì: è rinvio all’episodio della visita al sepolcro il mattino di Pasqua. La figura dell’angelo indica alle donne di non cercare il vivente tra i morti. Il monumento allude al sepolcro attorno al quale sono raffigurati i profili di due soldati romani: uno di essi appare addormentato e chino, l’altro, vestito del mantello reca una lancia.

Sopra la costruzione a pianta rotonda allusione al sepolcro di Cristo, si staglia un albero rigoglioso con rami frondosi e carico di frutti. Due uccelli stanno beccando i suoi frutti. E’ forse allusione all’albero del regno di Dio, che prende vita e cresce nella fecondità della risurrezione ed offre nutrimento per la vita dell’umanità, simboleggiata dagli uccelli che possono nutrirsi dei suoi frutti.

La struttura della scena della tavoletta nei vari momenti – la custodia del sepolcro, l’annuncio dell’angelo nella visita delle donne e la salita di Gesù al Padre – suggerisce di leggere il movimento dell’ascensione quale aspetto dell’unico evento della Pasqua del Signore.

Alessandro Cortesi op

 

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