la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “marzo, 2016”

Al di là dei muri e oltre – Islam in fermento

12376638_1018181734923196_6843895927558752452_n.jpgSecondo incontro seminariale del ciclo “Al di là dei muri ed oltre”

Programma della giornata: Islam in fermento

9.30 apertura

9.40 Giovanni Capecchi (docente letteratura italiana – Università per stranieri di Perugia)
Introduzione alla lettura di alcune pagine

10.15 Adel Jabbar (sociologo dei processi migratori – RES Trento)
Area arabo-islamica: cambiamenti, conflitti e percorsi di riforma

11.00 Tania Groppi (docente Istituzioni di diritto pubblico – Università di Siena)
La Costituzione tunisina del 2014: un segno di speranza dalla sponda sud del Mediterraneo

12.00 discussione

13.00 pausa

16.00 Tavola rotonda Tra Occidente e Oriente: un mondo interrelato, modera Giovanni Paci

Interventi di:
Pietro Giovannoni (docente storia – ISSR beato Ippolito Galantini Firenze)
Guerre occidentali e situazione del Medio oriente: uno sguardo storico
Sebastiano Nerozzi (docente storia dell’economia – Università di Palermo)
Aspetti economici
Maurizio Certini (pedagogista – direttore Centro internazionale studenti ‘Giorgio La Pira’ Firenze)
Aspetti interculturali

Convento san Domenico – Cappella dei magi – ingresso da via delle Logge 6

800 anniversario fondazione dell’Ordine domenicano (1216-2016)

2-1.jpgCONVENTO SAN DOMENICO – PISTOIA

PROGRAMMA CONFERENZE

Venerdì 8 aprile ore 18  Fr. Gian Matteo Serra – domenicano, promotore per le comunicazioni

Un profilo di san Domenico, predicatore della grazia

Venerdì 15 aprile ore 18.00  Elettra Giaconi – docente di storia, ricercatrice

Predicazione e congregazioni laicali nella storia di san Domenico a Pistoia

Venerdì 22 aprile ore 18.00  Alberto Coco – bibliotecario san Domenico

Libri e predicazione: la storia della biblioteca di san Domenico

 

Venerdì 13 maggio ore 18.00 Fr. Aldo Tarquini – domenicano, padre provinciale

Predicare per la giustizia: Bartolomé de Las Casas

——

Le conferenze si terranno in Cappella dei magi con ingresso da via delle Logge 6 – Ingresso libero

1893Tommaso da Modena, Chiesa di san Niccolò, Treviso – Sala del Capitolo

II domenica di Pasqua – anno C – 2016

1O21644a.jpgMaestro della vita di Cristo – Bergamo – sec. XIII-XIV

At 5,12-16; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31

“Io sono il primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”

Apocalisse è libro non di catastrofi ma di rivelazione: in un’epoca di violenza e di persecuzione è riflessione di speranza e di coraggio. Le comunità cristiane dell’Asia minore si sentono schiacciate dal sovrastare dell’impero di Roma. Lo scritto le invita a scorgere un disegno di Dio nella storia che vince il male che si presenta in forme diverse e sembra avere il predominio.

E’ quindi lettura della storia nella fede e in questo assume la vicenda di Gesù Cristo come chiave di lettura. Gesù è il vivente, il risorto: il primo e l’ultimo. Non è stato tenuto prigioniero dalla condizione della morte. Vi è stato immerso, e vi è passato. Ha ora potere su ogni potenza di morte e di male.

‘Io sono il vivente’ è una presentazione di Cristo stesso e racchiude una professione di fede. Tale presenza offre un orizzonte di speranza per tutta la storia. Se lui è il vivente il futuro dell’umanità non sta nella morte ma in una vita che sconfigge tutte le forze che si oppongono, di morte e di male.

Gli Atti degli apostoli presentano quadri della vita delle comunità dopo la Pasqua. Sono riassunti che indicano un ideale più che descrivere una realtà. Le comunità/chiese sono convocate dalla parola del Signore. Al centro vi è lo stare insieme: la loro vita genera gioia e ammirazione.

Si continua lo stile di Gesù di attenzione e cura: ‘portavano gli ammalati nelle piazze… tutti venivano guariti’. I malati, che solitamente erano nascosti allo sguardo, sono posti al centro. La sofferenza non è l’ultima parola della vita umana, la salvezza si rende già presente in gesti di cura e di attenzione. Salvezza si sperimenta come salute quando si ristabiliscono relazioni, nei gesti della benevolenza. Il farsi carico delle sofferenze è un tratto della comunità di Gesù. Luca vede nella guarigione un segno della salvezza che Cristo ha donato con la sua morte e la sua risurrezione per tutti.

Gesù aveva detto ‘ se non vedete segni e prodigi, voi proprio non credete’ (Gv 4,48) e Tommaso vive l’attitudine di chi dice ‘ Se non vedo e non metto la mia mano… non crederò’.

Il IV vangelo offre così il racconto di un cammino del credere. Tommaso è figura di ogni discepolo che vive la fatica di aprirsi ad un nuovo modo di incontrare Gesù dopo la pasqua. Non è facile il percorso della fede e la crisi stessa è passaggio per aprirsi a nuove e più autentiche dimensioni del credere stesso.

Nella comunità c’è posto per tutti coloro che sono alla ricerca di segni, ad un credere ‘senza avere visto’. In questa pagina c’è una insistenza sul vedere: ‘ i discepoli gioirono al vedere il Signore’ (v.20). Gli dissero allora gli altri discepoli ‘abbiamo visto il Signore’ (v.25) ma egli disse loro ‘ se non vedo…’.

Tommaso vive in un crescendo di difficoltà riguardo al ‘vedere’ Gesù e questo è in rapporto al credere: ‘se non vedo… non crederò’. Le parole del risorto sono tutte concentrate su questo nesso: ‘guarda le mie mani…e non essere più incredulo ma credente… perché hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno’.

Tommaso si arrende infine ma ciò avviene di fronte ai segni delle ferite della passione, le mani, il costato. Credere è faticosa ricerca, ha bisogno di essere condotto da Gesù stesso e da lui solo. Conduce a superare l’attesa di segni. Gesù non rifiuta di offrire a vedere dei segni: ma questi sono i segni dei chiodi, i segni della sofferenza e della croce. I segni da rintracciare che a lui rinviano sono i segni della sofferenza di tutti i crocifissi della storia. E’ il crocifisso colui che è risorto, il medesimo.

Tommaso si apre ad una novità in quell’incontro – ‘Mio Signore e mio Dio’ -. C’è una beatitudine del credere senza vedere che è felicità possibile. Si può incontrare Cristo risorto ‘vedendo’ in modo nuovo: è un ‘vedere’ che va oltre i segni, nell’accogliere la testimonianza. Così termina il IV vangelo e si dice perché il vangelo stesso è stato scritto: ‘molti altri segni fece Gesù… ma non sono stati scritti: Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo, abbiate la vita nel suo nome’. Il vangelo è tutto orientato ad un percorso in cui incontrare Gesù. In questo incontro si può vivere un affidarsi a Dio per avere la vita. Credere non è qualcosa al di fuori dell’esistenza ma è cammino al cuore della vita, ha a che fare con la ricerca del senso profondo della stessa vita.

Alessandro Cortesi op

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I segni della tortura

La mamma di Giulio Regeni, ucciso dopo essere stato barbaramente torturato a fine gennaio in Egitto al Cairo, ha ricordato in questi giorni la sete di verità per la vicenda di questo giovane che ha subito una violenza ingiustificata e inaudita. Un cittadino italiano ma anche un cittadino del mondo e come tale vicino alla sorte di tanti altri: “Su mio figlio si è scaricato tanto male, tutto il male del mondo… Non possiamo dire, come ha detto il governo egiziano, che è un caso isolato… Non questo. Giulio, cittadino italiano, è un cittadino del mondo. Quello che è successo a Giulio non è un caso isolato rispetto ad altri egiziani, e non solo. Per questo continuerò a dire per sempre verità per Giulio”.

Parole che sfidano l’ipocrisia delle relazioni diplomatiche e chiedono risposte di onestà ad un governo: sono eco delle richieste di verità delle madri di plaza de Mayo in Argentina, di quelle dei 43 studenti  fatti sparire a Iguala in Messico nel settembre 2014 perché protestavano contro la corruzione, delle madri e sorelle di Ilaria Alpi, giornalista italiana uccisa in Somalia nel 1994, di Stefano Cucchi, ucciso dopo aver subito violenze e privazioni subito dopo l’arresto a Roma nel 2009, di Berta Caceres assassinata in Honduras per il suo impegno per i diritti dei popoli indigeni (a cui era stato assegnato il Nobel alternativo per l’ambiente nel 2015 Goldman Prize).

Ancora tanti altri, come il giovane ricercatore Giulio Regeni, in Egitto sotto la dittatura di Al-Sisi e altrove nel mondo, vengono arrestati senza motivo, fatti sparire, violentati, uccisi. Nel corpo torturato delle vittime di sistemi oppressivi, di governi che schiacciano le persone, di squadracce che usano metodi di annullamento del fisico e della psiche di innocenti, o di persone arrestate solamente per le loro idee e il loro impegno, continua oggi il mistero della croce e della risurrezione. In quei corpi martoriati c’è il volto di Cristo passato attraverso la tortura e la morte.

Credere nel risorto è  continuare nell’impegno quotidiano, fattivo, contro ogni ingiustizia, nella vicinanza a chi ha subito violenza, nella denuncia e nella richiesta di riconoscimento di diritti. In tutto questo c’è una questione di fede nel risorto.E’ credere nel sogno di Dio. Helder Camara, vescovo di Recife, così la esprimeva in un suo ‘credo’:

Io credo in Dio Padre di tutti gli uomini e che ad essi ha affidato la terra.

Io credo in Gesù Cristo venuto a darci coraggio,

a guarirci, a liberarci e annunciarci la pace di Dio con l’umanità

Io credo nello Spirito di Dio che lavora in ogni uomo di buona volontà

e credo che l’uomo vivrà della vita di Dio per sempre.

Io non credo al diritto del più forte, al linguaggio delle armi, alla potenza dei potenti.

Io voglio credere ai diritti dell’uomo, alle mani aperte,

alla potenza dei non-violenti.

Io non credo alla razza o alla ricchezza , ai privilegi, all’ordine stabilito.

Io voglio credere che il mondo intero sia la mia casa.

Io voglio credere che il diritto è uno, qui e là,

e che io non sono libero finché un solo uomo è schiavo

Io non credo che guerra e fame siano inevitabili e la pace impossibile.

Io voglio credere all’azione modesta,

all’amore a mani nude e alla pace sulla terra.

Io non credo che ogni sofferenza sia vana e che la morte sarà la fine.

Ma io oso credere sempre e malgrado tutto all’uomo nuovo.

Io non credo che il sogno dell’uomo resterà un sogno.

Io oso credere al sogno di Dio: un cielo nuovo una terra nuova dove la giustizia abiterà.

Amen.

Alessandro Cortesi op

Domenica di Pasqua – anno C – 2016

resurr.jpgHe Qi – Resurrection

At 10,34-43; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

Secondo il IV vangelo già la morte di Gesù, il suo essere innalzato sulla croce è luogo in cui si manifesta la gloria di Dio. Nella croce si scorge già la risurrezione, il dono di salvezza nel soffio di vita che Gesù consegna nel morire. E questa vita continua nell’affidamento di una comunità che nel soffio dello Spirito ha inizio sotto la croce.Il IV vangelo presentando così a risurrezione non dovrebbe far attendere un racconto ulteriore sulla risurrezione. Ma Giovanni riprende un elemento forte della tradizione e riporta un racconto della visita alla tomba al mattino di Pasqua in cui la tomba è trovata vuota. E poi il racconto di un incontro in cui il Risorto si dà a vedere a Maria Maddalena, e due volte ai discepoli, la seconda con Tommaso che desidera vedere. La scoperta del sepolcro vuoto e l’inizio del credere della prima comunità riveste un’importanza particolare nel quarto vangelo: la fede nel Risorto non sorge perché ci sono evidenze oggettive o apparizioni, e neppure perché la tomba è vuota. Ma perché ci si apre ad un vedere nuovo; un vedere che legge le Scritture a partire da un incontro nuovo con Gesù vivente. E’ il medesimo crocifisso ma con una presenza nuova.

Nelle Scritture si parla dell’inviato di Dio che non viene abbandonato da Dio e la sua sofferenza è testimonianza della gloria di Dio. Si delinea una ricerca, una lettura di segni e da questi la scoperta che la gloria di Dio è radicalmente diversa da ciò che chiamiamo gloria in modo umano. La gloria umana proviene dal dominio, dalla sopraffazione, dal dividere le persone. La gloria di Dio sta nel percorso di Gesù che ha fatto sua l’identità del servo, che si è chinato, ha lavato i piedi. Si è identificato con gli ultimi per introdurre in una vita che la morte non può ostacolare.

Maria di Magdala è la prima testimone: il IV vangelo la indica come la prima che “il primo giorno della settimana si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”

Il suo muoversi inizia quando era ancora buio: è una notazione non solo cronologica, con riferimento al suo partire prima dell’alba, ma il IV vangelo suggerisce di scorgere in questo buio la tenebra che ha attraversato la vicenda di Gesù. Gesù è passato dentro il buio di una vicenda che l’ha visto ingiustamente condannato, messo nelle mani dei violenti, condotto ad una morte infamante. Maria si muove in questo contesto di buio non solo della notte, ma della ingiustizia e della violenza che segnano la vicenda umana e la passione di Gesù. Ma è anche il buio dell’incomprensione, del senso di fallimento e di fine. A questo buio lei, donna tra quelle che avevano seguito Gesù, reagisce con il suo andare.

“e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. La pietra scostata è un segno di vita nel luogo della morte. E’ apertura in una realtà chiusa e sigillata. La pietra, il sepolcro e poi i teli, richiamano la narrazione della risurrezione di Lazzaro. Gesù in quell’evento aveva presentato un annuncio sulla vita più forte della morte. Di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro Gesù aveva detto la sua fede nel Padre che sempre dà ascolto (Gv 11,42) e invita Marta ad aprirsi ad un affidamento nuovo: “Non ti ho detto che , se crederai, vedrai la gloria di Dio?’ (Gv 11,40).

“Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava…”

Nel correre di Maria che apre una serie di corse e rincorse nel narrare del IV vangelo si può scorgere un altro messaggio. La comunità che inizia la sua vita a partire dall’annuncio della pasqua è comunità che deve porsi in ricerca, che si getta in una corsa che non fa stare fermi, chiusi, immobili.

“e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!»”

La fede che inizia a pasqua è un credere che sorge da un vuoto: Maria si mette a correre e pone una domanda. La fede di pasqua sorge da una domanda di profezia che proviene da parole di donna: la fede sorge da un non sapere.

“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.”

Quello di Pietro e dell’altro discepolo è un correre per cercare. Nel loro correre si pone il problema di riconoscere segni. Il vuoto da cui sorge la prima comunità non è una assenza e nemmeno la fine di un incontro. E’ piuttosto una chiamata a lasciarsi cambiare. La comunità, identificata nei volti di Maria, di Pietro e del discepolo che Gesù amava, scopre una chiamata a lasciarsi convertire il modo di vedere, ad aprirsi a sguardo nuovo, nel leggere i segni. In qualche modo già si attua la promessa di Gesù: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21).

“Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.

Il sepolcro vuoto è punto di arrivo di una corsa che vede due figure a rappresentare due componenti della comunità stessa. Pietro è il responsabile, la guida, che nella passione ha negato di essere con Gesù, uno dei suoi discepoli, che ha vissuto il tradimento di Gesù; il discepolo che Gesù amava è legato a Gesù dall’affetto, dalla sintonia propria di chi ama. E’ il discepolo altro: ci sono possibilità e modi diversi di essere discepoli, di seguire Gesù. C’è un correre che può essere vissuto insieme nell’attendersi reciprocamente. Il discepolo che ama corre più veloce: l’amore precede e giunge prima. Ma si ferma e attende l’arrivo di Pietro. E ci sono segni, i teli posati. Segni non di disordine e di violazione, ma segni di cura di chi se n’è andato lasciando tutto in ordine.

“Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. C’è un vedere proprio di chi ama che sa leggere dietro e dentro ai segni.

Il credere – suggerisce il IV evangelista – è questione di un vedere nuovo. E’ vivere nell’assenza in un andare in un uscire in cui ricercare i segni, e saper scorgere nei segni la traccia di una presenza.

La comunità sorge in un movimento di rincorse in cui imparare a riconoscere i segni di Gesù. Il segno della sua vita è stato il segno innalzato, il suo morire sulla croce. Al centro del credere sta il riferimento a Gesù, a come lui ha amato.

Non avevano ancora compreso le Scritture: le Scritture non sono solamente un libro da conoscere. Sono il racconto di un incontro. Dio si rende vicino, nella storia di un popolo, per una liberazione che coinvolge tutti popoli della terra. Le Scritture non sono allora un libro chiuso, ma la vita, libro aperto: la storia, la parola nascosta nel cosmo e nella natura, le situazioni quotidiane, i voli delle persone. Leggere le Scritture è imparare a riconoscere i segni del farsi vicino di Dio nelle persone, negli avvenimenti, nel ritornare a Gesù.

Questo vedere nuovo sarà anche il vedere di Maria che nell’incontro con quello che pensava fosse il giardiniere avverte la domanda : chi cerchi?. E’ condotta a cercare in modo nuovo, non più rivolto al passato con un amore di nostalgia e rimpianti, ma in un orizzonte nuovo in rapporto a qualcuno, un ‘chi’ da scorgere e vedere. E anche lei si apre ad un vedere e dirà ai discepoli: «Ho visto il Signore», il Risorto (Gv 20,18).

Alessandro Cortesi op

150941909-92b853a2-0dfd-4b31-9d09-ebe0ab7e688f.jpgBruxelles, Place de la Bourse – 22 marzo 2016 – dopo gli attentati

Di fronte alla violenza

Amal è il protagonista di un romanzo di Giuseppe Catozzella (Il grande futuro, Feltrinelli 2016). Un testo letterario che sorge tuttavia dall’ascolto di terre lontane dove matura la piaga del terrorismo, della violenza. Amal nasce su un’isola africana dove c’è la guerra tra esercito regolare e neri.

I neri sono soldati che praticano la lotta armata contro truppe regolari, arruolando adulti impregnati di desiderio religioso e bambini, iniziandoli ad una dedizione ad una causa in cui elemento religioso e desiderio di riscatto si intrecciano. Amal proviene da una famiglia povera. Suo padre è un servo di un ricco padrone, signore del villaggio. Ma Amal è amico di Ahmed figlio del signore. Amal ha sul suo corpo i segni della violenza: da piccolo è saltato su una mina e ha subito un intervento al cuore. Nella loro sincerità di adolescenti Amal e Ahmed vivono un’amicizia intensa fatta di complicità, di scorribande sulla barca a pescare, di avventure.

Ma quando i neri giungono vicini al villaggio la loro amicizia si rompe. Improvvisamente il padre di Amal, il pescatore Hassim, lascia il villaggio, recando con sé un segreto. Ahmed stesso lo abbandona e lascia il villaggio per arruolarsi con i regolari. Amal profondamente legato al mare trova dal mare l’indicazione a partire e recarsi alla grande moschea del deserto per ricevere istruzione religiosa. Lì in lunghi anni di studio, di ascesi e preghiera si trasforma. La sua vita è permeata di preghiera e Islam. Ma in questo ambiente incontra chi lo invita a farsi reclutare tra i neri. Resiste a diverse lusinghe e proposte sinché un incontro enigmatico con una figura che risulta essere il padre improvvisamente uscito dalla sua vita lo spinge ad arruolarsi.

Di qui l’inserimento in un mondo di educazione alla violenza, l’ingresso progressivo nella pratica delle armi e dell’indifferenza rispetto al nemico. Diventa un guerriero temuto. Secondo i dettami del campo gli è concessa una giovane donna da usare come schiava e per procreare guerrieri per il futuro: ma l’incontro con Marya lo apre ad un’esperienza che lo disorienta rispetto alla violenza che assorbe tutta al sua vita. La forza di questo amore lo conduce, in modi drammatici, alla scoperta che vivere per annullare il nemico, per rinunciare alla propria umanità di fronte all’altro non può esaurire la sua vita. Si apre un nuovo cammino di ritorno al suo villaggio, di scoperta della storia di quanto sua madre ha fatto per lui, dell’amore quale esile luce nel buio della sopraffazione e del dominio. Gli si apre un futuro nuovo. Da qui il titolo del romanzo: un grande futuro.

Giuseppe Cattozzella nel suo libro tocca molti aspetti che rinviano alle questioni della violenza, delle ingiustizia che segnano mondi lontani e vicini. La sua ricerca sul campo gliha offerto elementi per comprendere ciò che avviene nel mondo dove popoli interi vivono in condizioni di oppressione e ingiustizia, gli ha fatto maturare uno sguardo disincantato ma profondo. Soprattutto richiama ad un’esigenza per i paesi occidentali di “cominciare a farci carico delle responsabilità storiche che l’Occidente stesso ha maturato in Africa e in Medio Oriente”. Di fronte ai recenti fatti di Bruxelles così ha risposto in una intervista («Fondamentalismi come le cosche va sconfitta la logica dell’alveare» intervista a Giuseppe Catozzella, a cura di Alessandro Zaccuri “Avvenire” 23 marzo 2016)

“… Catozzella ha spostato lo sguardo verso il lato d’ombra del Mediterraneo. «Ma gli alveari – commenta – esistono anche lì».

In che senso?

La logica delle organizzazioni armate criminali è la stessa in tutto il mondo, dal Sudamerica alla Russia. E il terrorismo fondamentalista non fa eccezione. Basta concentrarsi sulla dinamica dei reclutamenti, che fanno sempre leva sul malcontento, sulla frustrazione diffusa negli strati più umili e disagiati della società. La potenza dei terroristi, come quella dei mafiosi, deriva da qui, da questo esercito pressoché illimitato sul quale si esercita un ascendente ammantato da motivazioni di volta in volta ideologiche, religiose o semplicemente di ribellione.

L’omertà è un altro tratto comune?

Certamente, solo che in questo caso specifico il ruolo che altrove è assegnato alla famiglia (nascondere, proteggere, camuffare) viene esteso a quella che possiamo considerare come una versione perversa della umma, ovvero la comunità dei musulmani. Ancora una volta, però, la condivisione della stessa fede è un elemento del tutto superficiale. Ad accomunare davvero sono le frustrazioni, è il sentimento di rivalsa e di vendetta.

Perché insiste così tanto sull’aspetto religioso?

Perché è irrinunciabile, in un frangente tanto delicato, preservare la differenza tra l’islam autentico e le deviazioni fondamentaliste. Prendiamo la questione, molto discussa in questo momento, della “sottomissione”, che per l’islam ha come meta ultima non la sopraffazione dell’altro, ma l’affermazione della pace interiore ed esteriore. Il fondamentalismo, oggi come oggi, è fomentato da qualche migliaio di persone in tutto il mondo, mentre l’umma musulmana comprende un miliardo e 600 milioni di credenti. Le proporzioni sono queste. Quello che dobbiamo impedire è che le migliaia si trasformino in milioni.

Come?

È la domanda più difficile, per la quale non ci sono risposte immediate. Personalmente credo che sia importante non dichiararsi sconfitti sul piano culturale. Anche nelle società più colpite, a partire dal Belgio, esistono esperienze reali di integrazione: scuole, corsi di lingue, percorsi di professionalizzazione. Proclamare la resa significherebbe lasciare campo aperto alla ferocia della banlieue, dove l’integralismo nasce appunto dal rifiuto dell’integrazione, come ho avuto modo di comprendere parlando con diversi ex fondamentalisti. Per loro quella che si sta combattendo è una guerra, e una guerra di liberazione.

Ma questo non comporta una reazione anche sul piano militare?

Siamo un crinale sottilissimo, ma bisogna avere il coraggio di ammettere che l’Occidente non può continuare a perseguire la politica adottata a partire dall’11 settembre 2001. In generale, prima ancora di mettere in sicurezza i nostri Paesi, dovremmo cominciare a farci carico delle responsabilità storiche che l’Occidente stesso ha maturato in Africa e in Medio Oriente.

Quindi dobbiamo esportare democrazia?

No, dobbiamo permettere che la democrazia si sviluppi con regole proprie nei Paesi oggi esposti al fondamentalismo. Un piano Marshall per il mondo arabo, ecco di cosa ci sarebbe bisogno.

Alessandro Cortesi op

Giovedì santo – cena del Signore

Maestro Guglielmo, Ultima Cena : Cattura di Cristo (1199 circa) – Cripta della Cattedrale di San Zeno (Pistoia).jpg

Maestro Guglielmo, Ultima cena / Arresto di Gesù, Cripta Cattedrale Pistoia – 1199

Omelia

“Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano: lo mangerete in fretta. E’ la Pasqua del Signore”

Giovedì santo: memoria della pasqua. E’ la pasqua lontana del popolo di Israele che ci parla di una partenza improvvisa, di una notte di liberazione. E’ una storia rimasta impressa nella memoria e che è divenuta rito per rivivere nel presente l’esperienza di quella notte, l’incontro con il Dio che fa uscire.

Celebrare è vivere il tempo in modo nuovo, scorgere che il nostro tempo è legato insieme ad altri tempi. Il rito, quest’esperienza umana che interrompe il tempo ci provoca a ricordare, a scorgere quanto sta dentro e quanto sta oltre il nostro tempo C’è uno spessore del tempo da scoprire. Questo tempo è un tempo visitato, è spazio di un incontro di alleanza, di storia con Dio.

“mangerete l’agnello con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano…”

Uomini, donne bambini, anziani in questi giorni si stanno mettendo in cammino, sono bloccati nel loro cammino da muri e barriere. Sono stati spinti dal non poter sostenere più la schiavitù, da una ricerca di libertà, attratti da una promessa che fa loro intravedere luce nel buio e nella desolazione del loro presente. E’ la vicenda dell’esodo di popoli che continua e si ripete.

Oggi viviamo questo rito, legati al popolo d’Israele, e legati a tutti i popoli che nel tempo si sono messi in cammino, a quelli che sono ora in cammino, a tutti coloro che sperano di uscire da schiavitù, da violenza, dalla paura. Celebriamo la pasqua per ricordarci che Dio che ha chiamato Israele è Dio di ogni cammino di liberazione, Dio che fa partire, i fianchi cinti, il bastone in mano… In questa storia è nascosta una memoria di compagnia, di promessa, di speranza.

Pasqua è memoria che provoca la vita. E’ ricordo di un cammino da intraprendere, di un passaggio sempre da compiere. Non c’è da sostare, bisogna partire e ripartire. I fianchi cinti, i sandali ai piedi: sono i segni di chi si mette in viaggio e si apre ad una novità, ad un rischio, ad una speranza. Il partire di tanti oggi, il cammino di chi fugge dalla guerra, dalla fame, dalla distruzione, è domanda aperta per noi, è vita che ci rinvia a quel partire nella notte, ad un esodo da condividere, oltre i confini di sistemi religiosi in cui abbiamo rinchiuso il volto del Dio vivente, che vuole libertà e vita, salvezza, per ogni uomo e donna. La chiamata di Dio sta fuori, si fa presente nella vita di chi è oppresso, nei percorsi di chi sogna liberazione.

Ascoltare gli esodi di questo tempo, vivere la pasqua come memoria che ci raggiunge nella vita è provocazione ad vivere la fede come cammino, senza garanzie, senza sicurezze. Si può rimanere chiusi, ripiegati sul proprio passato, invecchiati a ripetere le stesse cose, prigionieri della propria storia e della propria virtù. Chi parte guarda lontano, sa guardare oltre.

I sandali, le scarpe, sono indispensabili per chi cammina. C’è un partire fisico e c’è un partire del cuore. Ci sono sandali da indossare sandali da togliersi davanti al cammino di chi giunge con i sandali consumati.

I fianchi cinti sono il vestito di chi non ha una casa propria, sicurezze di attività ma vive la sincerità di scoprirsi inerme e vulnerabile, capace di rivolgere la parola, di dialogare, di chi vive una leggerezza buona rispetto alle cose. Solo chi non ha tutto e sa accontentarsi di poco può apprezzare le cose le cose più semplici, può provare gioia: l’acqua, un riparo, il cibo, il lavoro, gli incontri. E’ questa la grazia del deserto, del cammino.

3402241555_df61d26799.jpgAffresco Lavanda dei piedi – s.Angelo in Formis 1080 ca.

“Si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio se lo cinse attorno alla vita…

Anche Gesù ha vissuto la pasqua con i fianchi cinti: lui che è presentato dai vangeli sempre in cammino, che sulla via ha istruito i suoi discepoli, che sulla strada ha compiuto i suoi gesti più belli, che ha aperto la possibilità di vedere a quel cieco che poi si mise a seguirlo proprio sulla strada. Lui che sulla strada trovava i luoghi della sosta e del riposo e dell’incontro. Ed erano luoghi di parola, di amicizia, di fraternità.

Quand’era a tavola si alzò: non dovrebbero essere così anche le nostre comunità? luogo di fraternità, dove ci si può ristorare durante il cammino, dove attorno alla tavola ci si accoglie, luogo dove si può passare (fare pasqua, appunto) scoprendo apertura di condivisione? Sono domande aperte per la chiesa, per le chiese, ma anche per le nostre case, per le nostre comunità. E avvertiamo la distanza, il tradimento di cui noi siamo responsabili.

Gesù ha vissuto la pasqua con i fianchi cinti. Se li è cinti con un asciugatoio nel gesto del servo, di chinarsi e lavare i piedi. Ci ha raccontato così, nel silenzio di gesto, il senso della sua esistenza.

I discepoli dei saggi indiani si chinano per toccarne i piedi, e con questo gesto dicono la loro inferiorità. In molte culture vi è usanza che i figli si inchinino ai piedi dei genitori e toccandoli esprimano il loro rispetto.

Gesù pone un gesto che esce da questi significati. Non lava nemmeno i piedi ai poveri come si fa oggi nelle celebrazioni. Lava i piedi a poveri come lui, a uomini come lui, ai discepoli. Lava i piedi agli amici. Facendo questo non pone un gesto di ossequio e nemmeno di umiliazione. Impedisce d’ora in avanti di essere omaggiato come i maestri. I suoi discepoli sono maestri come lui. Per questo tale gesto rinvia ad una reciprocità e apertura. Si pone un’interruzione dell’inchino dei sudditi, della sottomissione a gerarchie di ruoli e di meriti.

Un bel testo di Erri De Luca dal titolo Elogio dei piedi, ci ricorda l’importanza dei piedi:

Perché reggono l’intero peso.
Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi.
Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare.
Perché portano via.
Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali.
Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica.
Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare.
Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura.
Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Pushkin.
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante.
Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio.
Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo.
Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.
Perché non sanno accusare e non impugnano armi.
Perché sono stati crocefissi.
Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio.
Perché, come le capre, amano il sale.
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.

Gesù ci ha raccontato che si vive pasqua quando la vita è cammino, nella scoperta di sé, della propria identità più vera in relazione con gli altri. Si è chinato, l’opposto dell’innalzarsi. E in questo chinarsi sta racchiusa la sua storia, la via del suo abbassamento, contro ogni pretesa di grandezza.

Viviamo una religiosità fatta da un lato fatta di devozioni, osservanze, dall’altro relegata in costruzioni intellettuali oppure in un fare preoccupato del proprio io, del proprio apparire. E nel contempo stesso ci scopriamo capaci di ripiegamenti di egoismo, di indifferenza e cattiveria fino alla violenza contro l’altro, la violenza del disprezzo, del disinteresse, dell’esclusione.

Forse proprio per questo, davanti ad una comunità che aveva perso il senso dello spezzare il pane l’autore del IV vangelo pone una provocazione: nel momento della cena ricorda che la sera di pasqua Gesù aveva compiuto un gesto sconvolgente, inatteso. Il maestro ha compiuto il gesto dello schiavo si è messo a lavare i piedi ai discepoli.

Con l’asciugatoio attorno ai fianchi ci ha detto anche che questo cammino non è di solitudini, ma di incontri, e di servizio. Con i più vicini, con i più lontani. Gesù iniziò a lavare i piedi ai suoi e chiese proprio a loro di continuare a fare questo: sta qui il senso profondo del gesto che le prime comunità chiamavano lo spezzare il pane. Spezzare il pane, memoria di una vita condivisa. Scorgere che spezzare il pane rinvia ad intendere la vita come cammino in cui scoprire il servizio, l’accogliere l’altro: perché lavare i piedi è gesto del servo ma è anche segno bello dell’ospitalità. La prima mossa di lavare i piedi all’ospite è quella di Abramo che alle querce di Mambre accoglie tre ospiti sconosciuti e per prima cosa offe loro ombra per ristorarsi e acqua per lavarsi i piedi (Gen 18,4).

Celebrare la pasqua è occasione per fermarci e fare nostra la domanda di Pietro. ‘Signore, tu lavi i piedi a me?’ Non è già la scoperta che questo dovrò farlo anch’io, che dovremo seguire l’esempio di Gesù, che dovremo lavare i piedi agli altri… questo è forse troppo.

Forse celebrare è scoprire questa profondità della nostra vita: non un agitarci per tante cose, ma un lasciarci incontrare. Possiamo solo fermarci a vivere lo sconcerto perché… ‘tu, proprio tu, lavi i piedi a me’. e la meraviglia perché quei fianchi cinti per partire sono i tuoi fianchi… e la gratitudine perché quei fianchi sono cinti con il grembiule della cura, dell’attenzione. Le sue pieghe racchiudono quella tenerezza e quella misericordia che è cosa rara oggi: tanto predicata quanto lontana dal nostro presente.

E tutti noi siamo coinvolti in questo tuo lavare i piedi. E questo forse è già tutto nel tramonto di questo giorno in cui ci troviamo a ripetere ‘Rimani con noi, in mezzo a noi, perché si fa sera…’

Alessandro Cortesi op

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Sieger Köder, Ultima cena

Domenica delle palme – anno C – 2016

Unknown_painter_-_Crucifix_(Cross_No__15)_-_WGA23864.jpg(Crocifisso n.15 Museo di san Matteo – Pisa)

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56

Il racconto della passione secondo Luca è pagina che introduce nella settimana santa: è una narrazione di memoria e di sguardo di fede per comprendere il senso del cammino di Gesù, ciò che stava al cuore della sua missione e della sua vita, per scorgere la direzione del seguirlo, per apprendere la chiamata ad essere comunità di discepoli.

Luca riprende la narrazione della passione di Marco con uno sguardo peculiare e specifico: Luca è scrittore attento a scorgere nei gesti e nelle parole di Gesù la mitezza, riflesso del volto di Dio di misericordia, ne sottolinea i tratti del testimone, il martire che sottoposto ad una ingiusta condanna si consegna e si affida al Padre, fino all’ultimo respiro e si consegna liberamente nelle mani degli oppositori. Ne scorge infine il tratto del perdono che è atteggiamento al fondo della vita di Gesù: il suo donarsi come agnello che in silenzio si lascia prendere, è scelta di vita nell’orizzonte del servizio che rimane forte nella prova e giunge alla fine: perdono è compimento del dono di sè.

La parola di Gesù posta da Luca nel contesto dell’ultima cena: ‘Io sto in mezzo a voi come colui che serve’ è così chiave di lettura per comprendere i vari momenti della sua passione e così pure la sua nuova presenza che inizia con la risurrezione e dà inizio ad una storia nuova.

Il primo quadro che Luca presenta è una sorta di introduzione all’intero racconto e comprende il complotto, il tradimento di Giuda, che fanno da prologo all’unità letteraria che comprende la cena pasquale e alcuni discorsi di Gesù nella cena (22,1-34)

Innanzitutto il complotto e il tradimento: “Si avvicinava la festa degli azzimi, chiamata Pasqua, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano in che modo toglierlo di mezzo, ma temevano il popolo. Allora Satana entrò in Giuda detto Iscariota, che era uno dei dodici. Ed egli andò a trattare con i capi dei sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo a loro”.

Luca presenta quanto condivide con gli altri evangelisti come inizio del racconto della passione. Il contesto temporale è quello della pasqua ebraica, festa annuale primaverile che richiamava le attese messianiche e risvegliava la speranza di liberazione. La festa aveva luogo nel giorno della Pasqua ma continuava poi in una settimana di festeggiamenti segnati dal segno dei pani non lievitati (azzimi). Il pellegrinaggio a Gerusalemme radunava nella città santa un gran numero di pellegrini che provenivano anche da lontano e sappiamo che in quei giorni una coorte romana comandata dal prefetto si spostava da Cesarea marittima nella città dove sorgeva il tempio per garantire l’ordine.

In tale ambientazione di tempo, e nello spazio di Gerusalemme dopo l’ingresso di Gesù nella città santa, Luca coglie un convergere di azioni e di preparativi. Vi sono alcuni protagonisti che emergono: sono i capi del giudaismo del tempo, gli alti funzionari del tempio appartenenti all’alta aristocrazia sacerdotale preoccupata di mantenere il potere religioso e il controllo. Si tratta di capi religiosi timorosi di non turbare il potere politico, anzi ad esso strettamente legati in una collaborazione con il potere di occupazione romano. Capi dei sacerdoti e scribi sono preoccupati di attuare un piano per togliere di mezzo Gesù senza che questo susciti la reazione del popolo: è un’azione – sottolinea Luca – che non deve coinvolgere la folla.

Tuttavia in questa azione che vede come protagonisti i capi religiosi e in cui si attua una iniziativa di Giuda, Luca scorge un protagonista nascosto: ne aveva accennato nell’episodio delle tentazioni di Gesù: “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato” (Lc 4,13). Questa presenza nascosta entra in Giuda che si rende strumento di un complotto attuato da chi ha in mano il potere. Luca in tal modo richiama il riferimento alle tentazioni che ruotavano attorno all’identità di Gesù come messia. Che tipo di messia è Gesù? L’ultima riguardava il confronto con il potere strutturato in domini e imperi.

Ora il complotto dei capi del sinedrio rivela come proprio il richiamarsi ad una dimensione religiosa o sacra del potere è il modo in cui si nasconde ogni forza e realtà che si oppone radicalmente a Gesù. Il volto di satana, il divisore, che tiene lontana l’umanità da Dio, sta racchiusa proprio nel dominio che assume forme sacrali e che si serve del denaro: il denaro viene eretto a criterio fondamentale della vita.

Giuda, uno dei dodici, si rende strumento di questa corruzione. Forse perché preso dal suo fanatismo nel suo seguire la legge e scandalizzato dall’agire e dalle scelte di Gesù. Forse perché si era sentito tradito da Gesù stesso che aveva deluso le sue attese di un messia capace di sovvertire l’ordine politico esistente. Giuda in ogni caso era uno dei dodici, uno del gruppo simbolico scelto da Gesù per stare con lui e seguirlo. Lo scontro si gioca con il potere che si legittima in forme religiose.

Segue la scena dei preparativi della pasqua: Luca introduce questa scena in questo modo: “Venne il giorno degli azzimi nel quale si doveva immolare la Pasqua” (22,7) Tale espressione equivale ad ‘immolare l’agnello’, ma non c’è alcun riferimento nella cena a questo elemento. Nella visione di Luca la presenza stessa di Gesù e il suo dono prendono il posto dell’agnello nella cena pasquale ebraica. Si tratta di un annuncio della passione che sta per compiersi. Da un lato Luca coglie una dinamica di complotto che cerca di togliere di mezzo Gesù ad opera del potere e cerca il modo di consegnarlo (22,5), dall’altro, e più in profondità, Gesù stesso si consegna liberamente: c’è un predisporre ogni cosa che sorge da una scelta libera di andare incontro alla passione.

E’ questa la sottolineatura di Luca nella scena dei preparativi: Gesù prende l’iniziativa mandando i due discepoli: “Andate a preparare per noi perché possiamo mangiare la Pasqua” (22,8). Al centro sta la stanza al piano superiore, grande e arredata e al centro della pasqua sta Gesù e il dono della sua vita.

A questa scena segue una sezione posta in un dittico: il racconto della cena è presentato infatti in due momenti, la cena pasquale e la cena dell’eucaristia. Subito dopo Luca raccoglie una serie di parole di Gesù che costituiscono una sorta di suo testamento, un discorso di addio e di raccomandazione, nel quale si può intravedere la preoccupazione per questioni e problemi che toccavano la comunità stessa di Luca.

Il racconto della cena si può accostare per somiglianza e forse perché derivante da una medesima tradizione alla pagina riportata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi e si discosta per certi aspetti dalla tradizione che sta alla base dei racconti di Marco e di Matteo.

La prima parte (22,14-17) ha una originalità propria di Luca. E’ sua intenzione porre proprio all’inizio della cena due detti di Gesù, due parole con il tratto di profezia, la prima in riferimento alla passione “Ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione” (22,15). La seconda in rapporto alla sua morte e alla sua speranza: “perché vi dico, che non la mangerò più finché si compia nel regno di Dio” (22,16). Alle due parole profetiche seguono due parole di Gesù, una sul pane e una sul calice (22,19-20). Infine un accenno al traditore (22,21-23). Luca muta in tal modo l’ordine presente in Marco e sposta il riferimento al tradimento di Giuda dopo le parole sul pane e sul calice.

Per Gesù è giunta l’ora decisiva. Luca legge questo momento come il compiersi del tempo. L’ora di Gesù è inizio di un tempo nuovo. L’ora della sua passione non è un eroico affrontare la morte senza problemi con l’attitudine di uno stoico. E’ invece momento che Gesù affronta con determinazione e consapevolezza nonostante il peso e la fatica (cfr. Lc 9,51). Si dirige decisamente, con il volto indurito verso Gerusalemme per portare a compimento la fedeltà alla missione di salvezza a cui liberamente si è consegnato, nel suo ascolto del Padre: “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto” (Lc 12,50).

E’ l’ora del compiersi del regno che Gesù ha iniziato ad annunciare in Galilea e Gesù mantiene anche in questo momento tragico la sua speranza: “non la mangerò più finché si compia nel regno di Dio”.

A questo punto della cena Gesù prende una coppa e la consegna ai vicini: è questo il momento del rito della pasqua ebraica. Il far passare il calice della benedizione tra i presenti apre ad un coinvolgimento di tutti loro nel percorso di Gesù, nel suo dono. Il banchetto di festa ebraico ed in particolare quello della Pasqua era caratterizzato dalla presenza del calice: ognuno aveva davanti un coppa e si beveva insieme. Gesù ora fa passare un unico calice tra i presenti.

Seguono alcune parole pronunciate sul pane e sul calice. Si tratta ora di un altro calice, forse il terzo calice che nella cena pasquale era alzato durante il rito. Ma a questo punto le parole di Gesù pongono una novità ed introducono un nuovo rito. Si passa dalla cena pasquale ebraica ad un segno nuovo che diventa memoriale della nuova pasqua. “poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me’. E dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi'” (22,19-20)

Le parole sul pane indicano che quel pane è la vita di Gesù, data per, la sua vita è pro-esistenza e il significato profondo della sua morte sta nella sua vita donata per gli atri e in fedeltà al Padre. Il corpo è la totalità della sua vicenda. La sua esistenza è una vita data. Così il calice è la nuova alleanza nel sangue versato per… Il richiamo va alla nuova alleanza promessa dai profeti (Ger 31,31; Ez 36,31). Con quel gesto Gesù indica per la sua morte un significato racchiuso nel suo ‘essere per’, e dà a quel momento un significato di salvezza e di associazione alla sua stessa vita. Prendere il pane diviene così gesto che indica prendere parte alla morte di Gesù come dono di salvezza.

Il sangue, segno di vita e di comunione tra Dio e il popolo nel rito dell’alleanza (Es 24,8), indica anche la morte violenta e richiama ad una comunione piena, secondo la promessa dei profeti (Ger 31,31-34) di una alleanza nuova in cui lo Spirito è dato nel cuore di ogni uomo e donna.

L’invito ‘fate questo in memoria di me’ non è tanto un invito a ripetere i gesti del rito, ma a vivere la fedeltà e solidarietà di Gesù fino a donare la propria vita. Per la prima comunità di Luca questo invito diviene motivo di verifica e di interrogativo proprio nella possibilità di venir meno al richiamo di queste parole. La presenza del traditore al momento della cena e le seguenti parole di Gesù su Giuda sono un elemento forte di verifica per la comunità.

Segue alle parole dell’eucaristia una raccolta di insegnamenti di Gesù: un primo insegnamento riguarda un problema presente nella comunità di Luca. Eè la domanda sul ruolo e sui compiti dei capi nella comunità. E’ questo un problema che si riaffaccia nel libro degli Atti (At 6,1-6). Qui Luca riprende la discussione che Marco presenta al cap. 10: i due fratelli Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter avere i primi posti nel regno. La parola di Gesù richiama lo stile del servire, che è l’attitudine propria di chi serve a tavola. Il compito di presiedere non è altro se non assumere lo stile di chi sta in mezzo come colui che serve: questa è stata la via percorsa da Gesù, lo stile del suo agire. Appare rilevante che Luca ponga questo accenno al momento della cena in cui probabilmente erano presenti anche donne che svolgevano gli atti del servire. Una parola che capovolgeva i criteri dell’importanza nella comunità, e dava spazio a quello sguardo alle donne che Luca testimonia in tutto il suo vangelo. E indicava percorsi ancora incompiuti nell’esperienza delle chiese.

In questo contesto Luca pone una parola su coloro che sono rimasti fedeli: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove, e io preparo per voi un regno come il Padre mio l’ha preparato per me perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno” (22,28-29). C’è una condivisione di mensa, anche dell’eucaristia, sembra dire Luca, che diviene promessa e anticipo di una condivisine di mensa in continuità al gesto proprio di Gesù della convivialità ospitale nell’accoglienza di esclusi e marginali a tavola.

Fanno seguito una parola sul tradimento di Simone (Pietro): solo Luca riporta questa parola quasi un richiamo rivolto alla sua comunità. Il ruolo di Pietro non è dovuto a sue capacità ma solo alla preghiera di Gesù: “ma io ho pregato per te perché la tua fede non venga meno,. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. Di fronte alla pretesa di Pietro rimangono come sospese le parole: “Pietro io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che per tre volte , abbia negato di conoscermi”.

Segue un insegnamento sul tempo di prova in cui i discepoli sono chiamati a condividere la lotta stessa di Gesù. Anche i discepoli sono posti in una situazione in cui affrontare ostilità e rifiuto. E’ un tempo eccezionale che richiede una attitudine di attenzione e di preparazione. A questo punto Gesù cita la Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Si tratta di una citazione di Is 53,12 che rinvia alla figura del servo di JHWH. E’ una delle chiavi di comprensione dell’intero racconto della passione che Luca situa proprio a conclusione delle parole della cena. Gesù è visto nei tratti del servo: sta in mezzo a i suoi come colui che serve, e tutta la sua vita è come quella dell’agnello condotto all’uccisione. Ma i discepoli non comprendono: Gesù fa riferimento alla spada quale metafora di una ostilità che sarà presente, e per alludere ad un tempo di lotta. I discepoli gli porgono due spade. Gesù che ha sempre testimoniato una chiara scelta di nonviolenza vede l’incomprensione delle sue parole. Di fronte a tale chiusura il suo ‘basta’ segna la conclusione di questi insegnamenti. D’ora in poi sarà il suo agire e il suo silenzio che mostreranno, come un evento da vedere, il senso del suo cammino e accompagneranno a scorgere la sua identità.

“Uscì e andò come al solito, al monte degli Ulivi”. La scena al monte degli Ulivi è un momento che Luca riprende dalla narrazione di Marco con sottolineature proprie. E’ qui presentato un insegnamento sulla preghiera nel momento della lotta e della prova. A differenza della drammaticità del racconto di Marco l’atmosfera è pervasa dalla preghiera. “Pregate per non entrare in tentazione (22,40). In quest’espressione risuona la domanda finale della preghiera consegnata ai discepoli: “non ci esporre al potere della tentazione” (Lc 11,4). Tentazione non è tanto una questione morale ma fa riferimento alla prova che attraversa l’intera vita di Gesù, il senso del suo cammino.

Gesù viene quindi delineato con il profilo del martire: la sua preghiera è coraggiosa, è affidamento e lotta per rimanere fedele in quel rapporto con il Padre espresso nei termini di compiere la sua volontà e per portarla sino ad accettarne le conseguenze nella prova e nella sofferenza. Luca sottolinea la libertà di Gesù che vive la fatica della lotta e l’intensità del suo pregare che coinvolge tutto il suo corpo: sudato come un atleta, ma il suo sudore divenne come gocce di sangue. E’ una lotta fino al sangue, propria del modello del martire.

La seconda sezione del racconto presenta l’arresto di Gesù (22,47-53), la scena del rinnegamento di Pietro (22,54-62), gli oltraggi (22,63-65), il processo davanti al sinedrio (22,66-71).

Nel momento dell’arresto Luca segue il racconto di Marco, ma ha alcuni particolari propri che sottolineano l’agire di Gesù nella sua bontà e misericordia anche nel momento tragico dell’arresto.

L’arresto avviene nel monte degli Ulivi mentre Gesù parlava. Un gruppo di gente si accosta e con loro uno dei dodici. Luca non narra il momento del bacio di Giuda ma dice solo che “egli si accostò a Gesù per baciarlo” (22,47). Nell’incontro solo una domanda da parte di Gesù che rimane sospesa senza risposta e la reazione dei suoi: “uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli portò via l’orecchio destro” (22,50). Ma Gesù “toccandogli l’orecchio lo guarì” (22,51). Ad un gesto di violenza portato dai suoi discepoli Gesù reagisce con un ulteriore atto di cura, un gesto di guarigione. Ancora una volta, e nel momento drammatico dell’arresto, Gesù si manifesta come colui che guarisce: il suo sguardo ancora si ferma sulle sofferenze per portare salute e consolazione. Luca sottolinea il manifestarsi del volto di Gesù come salvatore sino alla fine.

Il momento dell’arresto assume i tratti dell’ora del dominio delle tenebre (22,53). E’ momento in cui si manifesta il potere segnato dalla violenza e dalla menzogna contro cui si svolge l’ultima lotta di Gesù.

Luca a differenza di Marco non riferisce di una riunione di notte del sinedrio giudaico. Probabilmente con maggiore attendibilità storica riporta invece che vi fu una riunione solamente al mattino presto. Questo forse poteva essere l’unico momento possibile per una riunione legittima del consiglio religioso o di un ristretto numero di membri di quel consesso. Nel frattempo inserisce la scena del rinnegamento di Pietro. “Pietro lo seguiva da lontano”. Attorno al fuoco acceso nel cortile del sommo sacerdote Pietro è riconosciuto come un discepolo di Gesù da una giovane serva che disse “anche questi era con lui”. Dopo la sua reazione di non conoscere Gesù un altro disse “anche tu sei uno loro”; successivamente, dopo che fu trascorsa un’ora, un altro insisteva “anche questo era con lui: infatti è galileo”. Per tre volte Pietro rinnega il suo essere con Gesù e la sua appartenenza al gruppo di coloro che seguivano Gesù. Risponde che non lo conosce e rigetta di essere uno di loro. Proprio nel momento in cui Pietro è riconosciuto nella sua identità più profonda, ‘uno con Gesù’ e ‘uno di loro’, proprio allora si distanzia e nega il suo legame. Luca sottolinea lo sguardo di Gesù e la contemporaneità e subitaneità di due momenti: il gallo che canta e il voltarsi di Gesù che fissò lo sguardo su di Pietro. In Pietro si genera un cambiamento: ricorda la parola e “uscito fuori pianse amaramente” (22,62).

Luca riporta con sobrietà gli oltraggi a cui Gesù viene sottoposto di notte: il motivo della derisione è legato al riconoscimento di Gesù come profeta: “Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?” (22,64). In modo discreto senza soffermarsi con insistenza sugli oltraggi, Luca evidenzia la tecnica di umiliazione, di degradazione della persona attuata dagli ‘uomini che avevano in custodia’ Gesù. Il compito di custodia diviene momento in cui si dà sfogo alla frustrazione di soldati: questi, quali ingranaggi di un sistema violento, si comportano da aguzzini e lo coprono di scherni. Luca presenta uno dei volti del potere nelle sue forme di oppressione che trasforma gli oppressi in oppressori e i sudditi in torturatori che si fanno forti del loro ruolo per schiacciare gli inermi.

Gesù viene fatto comparire al mattino presto davanti al sinedrio: era questo il tribunale religioso e consesso del potere giudaico anche per le cause civili legate alla legge giudaica. Le competenze di questa assemblea, composta di 70 anziani attorno al sommo sacerdote dominata dalla aristocrazia dei sadducei e degli ex sommi sacerdoti, erano ridotte e forse al tempo di Gesù anche la composizione era limitata nel suo numero. Luca indica i gruppi degli anziani, i capi dei sacerdoti e gli scribi competenti nella giurisdizione.

Il processo di Gesù è riportato da Luca non con l’intento di formulare una sorta di resoconto verbale. Piuttosto nel dialogo fra Gesù e il sommo sacerdote l’evangelista fa cogliere nella narrazione il movente della condanna di Gesù e della decisione di ucciderlo. Un potere che si pone con la pretesa di sacralità non può sopportare la presenza di Gesù, uomo che annuncia il regno di Dio, ossia la sua signoria piena sulla vita e sulla storia, quale annuncio che fonda la liberazione umana e la dignità.

La questione centrale verte sull’identità di Gesù e la domanda concerne la questione della sua pretesa di essere messia. Si tratta di una pretesa mai esplicitata eppur presente nei gesti e nelle parole di Gesù. Non è accusato di bestemmia (come nella versione di Marco) ma per la sua pretesa di essere messia. La risposta di Gesù fa riferimento alla figura del Figlio dell’uomo e al salmo 110, un salmo regale messianico: “Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra della potenza di Dio” (22,69). Compaiono in questo dibattito i due titoli messianici di Gesù: Cristo (22,67) e Figlio di Dio (22,70). Il titolo di messia ha una componente politica ma Gesù contesta proprio tale modo di essere messia. In quanto figlio dell’uomo ha un rapporto particolare con Dio: è un tipo di messia diverso, figlio di Dio. Luca sottolinea la presenza del figlio dell’uomo nel presente (non nel suo venire sulle nubi) ed emerge qui anche la sua visione cristologica in rapporto alla sua comunità: Gesù messia è il figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio, innalzato che continua ad essere presente nella sua comunità e la accompagna e guida.

La terza sezione del racconto della passione è costituita dal processo politico in cui Gesù è condotto davanti a Pilato prima (23,1-6) poi da Erode (23,6-12). Da Erode viene rinviato ancora da Pilato e qui si pone la richiesta della liberazione di Barabba da parte del popolo sobillato dai capi e la richiesta di crocifiggerlo (23,13-25).

Davanti a Pilato emerge la seconda accusa, di stampo politico: “abbiamo trovato colui che sovverte il nostro popolo”. Gesù è identificato come sovvertitore che attenta al potere di controllo romano. La sua attività di sobillatore è legata alla sua pretesa di essere messia, e dal suo atteggiamento nei confronti del tributo all’imperatore. Si tratta di una accusa individuata dai capi religiosi per poter accusare Gesù senza provocare una reazione del popolo. E’ ricerca di un giudizio politico che può giungere alla esecuzione a morte per il crimine di lesa maestà.

In questa scena è ripetuta l’attitudine di Pilato, uomo che dalle fonti storiche è presentato come senza scrupoli, sanguinario e irrispettoso della religione giudaica. Sembra che Luca in certo modo attutisca la responsabilità di Pilato nel giudizio di Gesù condotto davanti a lui. Pilato non trova reazione alla sua domanda ‘sei tu il re dei giudei?’ e riconosce la non colpevolezza di Gesù.

Ma i capi insistono e s’inserisce a questo punto un elemento proprio di Luca nel racconto della passione: l’invio di Gesù presso Erode Antipa. Era questo un re vassallo dei romani, colui che nel vangelo di Luca è presentato nei termini di ‘una volpe’, non solo furbo ma anche espressione di quella insensibilità propria di chi è immerso nel lusso e in una vita occupata dal denaro e dalla spensieratezza: era interessato a vedere Gesù ma si tratta di una ricerca inquinata perché gli interessava forse il taumaturgo, l’operatore di prodigi (Lc 9,9). Forse lo voleva vedere per soddisfare un desiderio di controllo e di arricchire la sua corte con un personaggio originale e motivo di distrazione. Gesù reagisce con ira a questo tipo di ricerca (Lc 13,31: “dite a quella volpe…”). E’ difficile pensare da dove Luca abbia ricavato le notizie di questo rapporto con Erode ma ci sono due personaggi, nominati nei suoi scritti che possono essere state tramite di tali notizie: si dice infatti che al seguito di Gesù c’era una donna, Giovanna moglie di Cusa, amministratore di Erode, e in At 13,1 si parla di Manaen, un discepolo della comunità di Antiochia che nella sua infanzia era stato compagno Erode. Forse Luca trae da loro la memoria del ruolo di Erode nella vita di Gesù e nella sua passione.

Nella di Gesù davanti a Erode è sottolineato il silenzio di Gesù: proprio in questo la vicinanza con la figura del servo di JHWH di Is 53, condotto come agnello in silenzio da coloro che lo conducono alla morte. Erode attendeva di farsi divertire da qualche prodigio ma è deluso nella sua aspettativa. “Gli fece molte domande ma Gesù non rispose nulla”. Anche Erode riconosce l’innocenza di Gesù. Erode rinvia Gesù da Pilato, vestito con una veste sfarzosa. Luca annota “Quel giorno Erode e Pilato che fino a quel momento erano stati nemici, divennero amici”. Luca evoca in questo modo la testimonianza di Gesù come martire che si trova a fronteggiare una situazione in cui i re e i grandi della terra si alleano insieme (lc 12,11 e Sal 2,2).

Nel quadro dell’opera lucana anche Paolo – nella narrazione degli Atti – viene descritto in termini che lo assimilano alla figura di Gesù, accompagnando il lettore a scorgere paragoni e somiglianze. Proprio Paolo negli Atti si pone contro l’autorità imperiale perché afferma che c’è un solo re Gesù (At 17,7; 25,8): ma anche Paolo nonostante l’accusa dei giudei e delle autorità è riconosciuto nella sua innocenza, sia dal procuratore romano sia da Erode Agrippa. Forse Luca con questa scelta narrativa intende anche respingere le accuse ai cristiani della sua comunità di essere ribelli di fronte all’imperatore. La via di Gesù e dei discepoli non è in primo luogo via di nazionalismo messianico o di progetto politico, anche se le conseguenze dell’annuncio del regno conducono a sovvertire i criteri su cui si basano i sistemi dell’imperialismo di ogni genere.

Quando Gesù è ricondotto da Pilato (23,13-25) quest’ultimo conferma il suo giudizio “ecco io ho proceduto all’interrogatorio in vostra presenza ma non ho trovato in lui nessuno dei reati di cui lo accusate. E neppure Erode infatti lo ha rimandato a noi. Perciò lo farò fustigare e lo libererò” (23,14-15).

Si assiste a questo momento alla richiesta da parte della folla di uno scambio tra Gesù e Barabba. Luca inserisce una nota circa la consuetudine di rilasciare un prigioniero nella festa di Pasqua. “Non costui ma Barabba” è il grido della folla.

La folla sobillata dai capi religiosi, dai dirigenti della classe sacerdotale del tempio chiede che sia liberato Barabba e invoca la crocifissione per Gesù. Luca dopo aver notato che la riunione del sinedrio si era conclusa senza una condanna, dopo aver riferito per tre volte la proclamazione di innocenza da parte di Pilato – coprendo le sue responsabilità con un velo apologetico – e dopo aver riportato che anche Erode non aveva trovato colpe in Gesù, fa emergere che responsabilità per la morte di Gesù ricade sui capi religiosi e negli abitanti di Gerusalemme. Come espliciterà Stefano nel discorso che precede la sua lapidazione in At 7 sono essi che scelgono un ribelle e assassino come Barabba e lo sostituiscono a Gesù. Luca cerca di scaricare Pilato dalla sua colpa e tuttavia anche Pilato emerge nella sua vigliaccheria e nel goffo tentativo di non assumersi il carico di una scelta mercanteggiando fino all’ultimo.

La scena si conclude in un crescendo di reazioni irrazionali proprie di una folla fatta di volti senza nome che si lasciano guidare dalle indicazioni dei capi, e senza assumere responsabilità, preda di istinti di una giustizia cieca si fanno voce di richieste di morte. Luca fa così emergere la manipolazione del popolo, la depravazione di una giustizia a furor di popolo, la dinamica psicologica della folla senza nome che diviene strumento tremendo di ingiustizia: “Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. 24Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. 25Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere” (23,23-24).

Nella scena seguente è narrata la salita al Calvario. Luca amplia lo scarno resoconto di Marco facendo accenno alla figura di Simone di Cirene ma soprattutto nella presentazione del lamento delle donne e del dialogo con Gesù. Simone di Cirene viene ad assumere il profilo dell’autentico discepolo di Gesù: è un estraneo e tuttavia è chiamato e costretto a portare la croce. In lui si può cogliere l’espressione dell’invito di Gesù: “a tutti, diceva: ‘Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua’” (9,23).

La via della croce percorsa da Gesù fino a Gerusalemme è la medesima via che anche il discepolo è chiamato a percorrere nel seguire l’esempio di Gesù: lo stesso Gesù è infatti presentato come il ‘grande testimone’. Sulla via verso il luogo della crocifissione a Simone di Cirene viene dato di prendere la croce di Gesù ed egli si trova a portarla dietro a lui (23,26). E’ una sottolineatura tipicamente lucana circa il ‘seguire Gesù’, che indica la via del discepolo nella quotidianità della vita. La croce è simbolo in riferimento alle scelte di Gesù per una vita spesa in dono come bella notizia per i poveri.

Nel lamento delle donne, che era forma di dolore che accompagnava i condannati al loro supplizio, Luca individua il richiamo ad un testo di Zaccaria in cui si parla di un lamento, chiave di interpretazione teologica della salita di Gesù verso il luogo dell’esecuzione: “Ne fanno lutto come si fa lutto per un figlio unigenito, lo piangono come si piange un primogenito” (Zc 12,10-11).

Il lamento costituisce così l’indicazione per interpretare quanto sta accadendo. Alle donne che piangono Gesù dice: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. 29Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: «Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato». 30Allora cominceranno a dire ai monti: ‘Cadete su di noi!’, e alle colline: ‘Copriteci!’. 31Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?”

Il giudizio di Dio viene paragonato ad un fuoco che divampa: se esso ha preso in tal modo il legno verde che è il giusto innocente, cosa farà quando troverà il legno secco, ormai morto e incapace di produrre frutti? E’ sotteso un riferimento all’infedeltà di chi in Israele non ha seguito la parola di Dio. Questa infedeltà, il non ascolto dei profeti, è fonte di male, di devastazione e su di essa va indirizzato il lamento.

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(crocifisso del santuario di santa Caterina – Siena – metà XII sec.)

La sezione della crocifissione è posta da Luca tra due invocazioni di Gesù: la prima ‘Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno’ (23,34), poi, al momento della morte: “Gesù, gridando a gran voce, disse: ‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’. Detto questo, spirò” (23,46).

In mezzo la scena degli scherni e il dialogo con i due malfattori crocifissi insieme con lui. Si tratta di un momento in cui Luca inserisce alcune parole che illuminano il significato di quanto accade. Si sta svolgendo un grande spettacolo in cui la dimensione della vista è sottolineata da Luca: “Il popolo stava a vedere” (23,35).

La reazione di fronte al crocifisso sono diverse: C’è il popolo che sta a guardare in silenzio, non ha un ruolo attivo: sarà proprio il popolo che in questo vedere potrà cogliere il senso della morte e ne farà motivo di cambiamento: Luca dice che si allontanarono percuotendosi il petto quale espressione di dolore. C’è poi la presenza dei capi che rivolgono a Gesù lo scherno, e i soldati che riprendono questa provocazione difronte a colui che sta inerme nelle loro mani.

Coloro che scherniscono Gesù sono dapprima i capi che gli rivolgono la sfida: “Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. Poi anche i i soldati lo deridevano e lo scherno si appunta sul nome ‘re dei giudei’, che era il capo di accusa per la crocifissione. Infine “Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: ‘Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!'”. A più riprese è portata la richiesta: ‘salva te stesso’. Gesù che nel vangelo di Luca è presentato come il salvatore, sulla croce si manifesta come messia che non salva se stesso. Rivela Dio che salva non perché tira giù dalla croce, ma perché rimane fedele al suo amore di misericordia anche nel momento della morte.

Solo il malfattore crocifisso accanto riconosce che ‘egli invece non ha fatto nulla di male’. Gesù è presentato da Luca non solo come l’innocente che non ha fatto il male ma come colui che è passato facendo del bene (At 10,38). E’ re che non salva se stesso ma è venuto per dare la sua vita.

Luca rilegge i momenti della crocifissione richiamando sullo sfondo una serie di testi biblici. La divisione delle vesti di Gesù è compiuta secondo il salmo 22 (Sal 22,19: si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”), come pure la divisione delle vesti. L’invocazione finale di Gesù riprende il Salmo 31 (Sal 31,6: alle tue mani affido il mio spirito, tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele”; Sal 31,15: “Ma io confido in te Signore: Tu sei il mio Dio, i miei giorni sono nelle tue mani”); i parenti e gli amici che si pongono in disparte sono richiamo del Sal 38,12; 88,9. Luca scorge nella morte di Gesù non solo l’esito di una alleanza di poteri che vogliono togliere di mezzo la presenza del profeta di Galilea, più in profondità vi legge un disegno di salvezza di Dio che si attua.

Mentre il primo malfattore sfida Gesù secondo i canoni di una salvezza di tipo spettacolare, il secondo si affida totalmente a lui. Nel dialogo in cui che chiede “ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, Gesù rispondendo usa un termine caro a Luca: ‘oggi sarai con me in paradiso’. Oggi è indicazione non di un tempo cronologico, ma di un tempo particolare della visita di Dio, tempo di salvezza. Ritorna più volte nel corso del vangelo ad indicare l’attenzione propria di Luca al tempo che Gesù inaugura. E’ un tempo che chiude il tempo dell’attesa ed inaugura i tempo della salvezza che è tempo nuovo segnato dalla presenza di Gesù, dalla vicinanza di Dio che si manifesta nei suoi gesti di guarigione e di apertura al futuro. ‘Oggi’ ritorna al momento della nascita di Gesù (oggi è nato per voi un salvatore che è Cristo Signore) all’inizio del suo ministero nel discorso nella sinagoga di Nazareth dopo la lettura del testo del Terzo Isaia “Lo Spirito del Signore è su di me…” (4,21).

Ritorna ancora nell’incontro di Gesù in casa di Zaccheo (19,9): il tempo di quell’incontro diviene tempo che apre un futuro nuovo, di cambiamento radicale. E’ un oggi di liberazione e di novità di vita. Al momento della morte di Gesù Luca vede compiersi questo ‘oggi’ in riferimento alla disponibilità del malfattore ad accogliere lo sguardo di misericordia di Gesù sin dal momento presente. Luca suggerisce che quel malfattore assume il profilo del discepolo, che consapevole del suo peccato, delle sue ferite, si sa toccato dalla compassione di Dio e la riconosce nell’agire di Gesù. E si apre alla preghiera chiedendo a Gesù di ricordarlo. Da qui può vivere il quotidiano come luogo in cui seguire Gesù sulla sua strada.

L’amore di Dio si manifesta nel volto di Gesù come colui che non scende dalla croce, non salva se stesso e così facendo si distanzia radicalmente dalla logica dell’oppressione. In questo senso Gesù è giudice di salvezza: è lui che trasforma il giudizio stesso e fa rivolgere lo sguardo alla vittima. Gesù non lascia fuori nessuno. Anche nella situazione più disumana come la morte c’è la presenza di un dono di compagnia e di salvezza e si apre speranza per un futuro nuovo.

Il quadro che narra la morte di Gesù è presentato da Luca con alcuni segni che la preparano: il sole si oscura, il velo del tempio si rompe. Sono simboli a significare che un tempo nuovo si inaugura, e l’istituzione del tempio viene superata. Sulla bocca di Gesù vi sono le parole del salmo 31,6, preghiera di conclusione della giornata: è parola di affidamento e abbandono al Padre.

‘Stare nelle cose del Padre‘ (2,49) è la prima parola posta in bocca a Gesù nel vangelo ed è anche l’ultima prima della morte: essa racchiude l’abbandono fiducioso al padre di misericordia che Gesù aveva tratteggiato nella parabola del padre e dei due figli (cap. 15), il padre che vive le viscere di compassione e va in cerca dei suoi figli. Sulla croce Luca vede Gesù come il giusto che dà salvezza, non cerca di salvare se stesso, ma offre vita per tutti. Sarà lui il medesimo che sarà testimoniato come ‘il Vivente’ alle donne al sepolcro nel mattino del primo giorno dopo il sabato (24,5; cfr 24,23).

Di fronte alla morte di Gesù tutti i personaggi presentati da Luca stanno pensosi, osservando (23,35) e per tutti c’è possibilità di una storia nuova di fronte a lui: il centurione riconosce la gloria di Dio e proclama che quest’uomo era giusto, la folla ritorna dall’altura del calvario con atteggiamento di ripensare a quanto avvenuto e di cambiamento, infine “tutti i suoi conoscenti e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo” (23,49): Luca richiama all’attitudine del discepolo. Sono le donne indicate come ‘coloro che lo avevano seguito fin dalla Galilea” ad essere testimoni silenziose della attesa e della speranza che custodiva le sue parole e promesse. E’ questa l’attitudine richiesta anche a noi in questi giorni verso la Pasqua.

La sepoltura di Gesù chiude il racconto degli eventi della passione. Luca sottolinea il gesto di uno dei nobili anziani membri del sinedrio, Giuseppe di Arimatea. Può disporre di una tomba nuova scavata nella roccia. Luca lo descrive come uomo “buono e giusto: egli non aveva acconsentito alla decisione né all’opera degli altri” (23,51). Egli “aspettava il regno di Dio”. Anche tra i capi che hanno condannato Gesù c’è un uomo buono che non condivideva quella violenza. La tomba dove Gesù è deposto è nuova e Luca insiste su questa sepoltura dignitosa. Già presenta il profilarsi dell’annuncio della pasqua: “Era il giorno della preparazione e già splendevano le luci del sabato” (23,4) In queste prime luci del sabato, forse le lampade accese per la vigilia della festa, Luca scorge già un segno della grande luce della pasqua. “Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservavano il sepolcro e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto” (23,55-56).

Luca situa la passione nel quadro di Gerusalemme e dopo l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Gli eventi storici che lì si compiono hanno responsabilità storiche precise e Gesù è vittima di una condanna. Ma il suo essere vittima di questa violenza è letto da Luca in una dimensione più profonda. Gesù si fa solidale con tutte le vittime della storia, si rivela come salvatore. Colui che a Gerusalemme subisce il giudizio, proprio lui diviene giudice del mondo: ma il suo essere giudice, in quanto vittima, porta il medesimo giudizio ad un capovolgimento. Il suo giudicare non è per la condanna ma è giudizio di salvezza, pronunciato da chi ha vissuto fino in fondo l’essere vittima. La sua ultima parola è una parola di legame e di condivisione: “oggi sarai con me nel paradiso”.

A Gerusalemme Gesù porta a compimento un cammino in cui ha contrastato ogni tipo di chiusura e di esclusione. Luca nel suo vangelo evidenzia come Gesù accolga le donne, chi è di una tradizione religiosa diversa, il samaritano, chi collabora con i romani, chi non rispetta le leggi relative alla sessualità, il soldato romano: la passione stessa è presentata come un grande evento di grazia al centro del quale sta l’annuncio della salvezza e del perdono da parte di Gesù che si pone dalla parte della vittima, che assume l’atteggiamento del servo di JHWH.

Nel suo ingresso a Gerusalemme Gesù è salutato come re, colui che porta la salvezza: oggi celebrare la domenica delle palme è occasione per guardare alle scelte storiche di vita di Gesù e per scoprire ancora un giudizio di grazia, che è sguardo di misericordia, che ci raggiunge da Gesù come vittima. Significa anche guardare e prendere le parti delle vittime con cui Lui stesso si identifica.

Alessandro Cortesi op

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(Croce n.432 – Firenze Uffizi)

Crocifisso con le storie della passione

Tra i crocifissi conservati alla galleria degli Uffizi c’è un crocifisso indicato come croce n.432. Secondo i critici che hanno studiato l’opera dopo il recente restauro, l’opera va letta nel confronto con crocifissi simili presenti in area pisana come il crocifisso del santuario di Santa Caterina a Siena di accertata provenienza pisana, in cui è presente la medesima mano del Crocifisso n. 15 del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa. L’opera può quindi essere situata nel contesto culturale di Pisa alla metà del secolo XII, con influssi dell’arte bizantina presente nell’area mediterranea nella prima metà del XII secolo. (A.Tartuferi, Il restauro della croce n.432 degli Uffizi. Alcune note critiche, “Paragone” 45,2014,3-20).

Si tratta dell’opera più antica conservata agli Uffizi. Gesù è raffigurato come vivente, con gli occhi aperti sulla croce, secondo la tipologia del Christus triumphans. E’ questo una tipologia di rappresentazione di Cristo che si distanzia dal Christus patiens, Cristo presentato nella sua sofferenza chetroverà sviluppi nel XIII secolo.

Gesù volge il suo sguardo a lato, gli occhi grandi e rinvia nel suo profilo allo stile bizantino. Le sue mani recano il segno dei chiodi ma i chiodi stessi sono assenti. Si tratta di una raffigurazione del crocifisso che reca i segni della passione ma è vivente come colui che ha vinto la morte. Questa raffigurazione si pone nella scia di una tradizione antica che aveva prediletto la raffigurazione del risorto rispetto al crocifisso.

L’artista con il suo tratto conduce a scorgere una tensione profonda tra la fisicità del corpo stesso di Gesù sulla croce, presentato nella sua dimensione umana e non come icona idealizzata, e la forza di vita che comunica in particolare nella profondità dello sguardo degli occhi neri e spalancati e nella serenità del volto. E’ una tensione che si avverte anche nella vicinanza tra la figura di Cristo al centro e le storie della passione nel tabellone. A lato, in una delle tabelle laterali sta Maria con san Giovanni e dall’altro le pie donne di cui è rimasto il profilo solamente di una tra esse.

A lato della figura del crocifisso nei tabelloni sono infattii raffigurate le storie della Passione. Appaiono così alcuni momenti del racconto della passione tratto dai vangeli. Si tratta della lavanda dei piedi, del momento dell’arresto di Gesù con il bacio di Giuda, poi la flagellazione, la deposizione dalla Croce, e la deposizione nel Sepolcro. Infine una scena descrive la discesa agli inferi. Nel suppedaneo è dipinta la salita al calvario.

Aspetto importante di tale iconografia che raffigura il crocifisso al centro in rapporto alle storie della passione sta proprio in questo accostamento. La morte di Gesù non è un momento a sé stante e separato. La salvezza è dono che sgorga da tutta la sua vita. Il suo essere vivo sulla croce rinvia a tutti i momenti della sua vita. E’ la vita di Gesù luogo di comunicazione della salvezza. La sua morte si pone in rapporto all’intero suo cammino, alla sua via.

La narrazione della passione è accento sulla storia di Gesù, la sua vicenda umana e la portata salvifica dei vari momenti della sua esistenza. Gesù è salvatore in tutti i gesti della sua vita e manifesta in essi l’oggi di una salvezza che coinvolge la storia umana e la trasforma aprendola ad una novità che dà uno spessore nuovo a tutti i suoi momenti. Il tempo ha importanza nel disegno di salvezza di Dio.

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In particolare in una delle scene dei tabelloni è visibile la compresenza del gesto del tradimento consegna di Giuda che si avvicina a baciare Gesù e nel medesimo tempo il gesto di Gesù che guarisce l’orecchio di colui che nel trambusto era stato colpito con la spada. Si manifesta il volto di Gesù mite, profeta nonviolento che reagisce all’ingiustizia con un gesto di guarigione e tenerezza.

I grandi occhi aperti che segnano i volti dei diversi personaggi indicano l’importanza del vedere, proprio al momento della croce. La morte di Gesù è evento in cui vedere e lasciarsi cambiare dall’annuncio vivente del dono della sua vita e del suo stare in mezzo come colui che serve. Quegli occhi di tutti che racchiudono una sorpresa e un’interrogazione, sollecitano ad avere occhi aperti per accogliere lo sguardo vivente di Gesù e per continuare i suoi gesti nel tempo del presente.

Alessandro Cortesi op

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Riflessioni nel dibattito su unioni civili

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Come leggere la recente approvazione della legge Cirinnà? Vorrei evidenziare alcuni aspetti rilevanti anche per una considerazione da parte di chi si pone come credente di fronte ad un tema posto dalla vita e da trasformazioni in atto nella società, di fronte alla questione posta dal riconoscimento di diritti a livello legislazione civile e per orientarsi nel dibattito attuale.

Una prima osservazione riguarda la questione di considerare una determinazione legislativa per ciò che intende regolare e non per quello che si ritiene potrebbe implicare ma che non risulta presente nel testo. C’è infatti chi in modo semplicistico ha presentato l’intento della legge nei termini di una furbesca introduzione del matrimonio gay. E’ la posizione manifestata da uno tra i principali promotori del Family Day, presidente del comitato ‘Difendiamo i nostri figli’, Massimo Gandolfini, quando afferma che il testo della legge “tradisce le richieste del Family Day perché di fatto introduce il matrimonio gay” (riportata in La Repubblica del 25 febbraio). In modo più articolato tale obiezione è presentata da chi attribuisce alla legge di ingenerare una confusione tra l’unione civile (che per la Corte costituzionale deve fondarsi sull’articolo 2 della Costituzione) e la famiglia fondata sul matrimonio (basata sull’articolo 29).

Proprio su queste questioni non si dovrebbe ignorare il lavoro di elaborazione che ha condotto alla redazione di questa legge che costituisce un esito di mediazione tra diversi orientamenti di tipo etico e giuridico presenti nell’opinione pubblica e nel panorama culturale del Paese e rappresentati in Parlamento.

L’accettazione della laicità dello Stato è passaggio rilevante da compiere da parte di credenti e non credenti in una società democratica. Inoltre la funzione della legge non è quella di istruire una morale espressione di uno Stato etico, ma quella di regolare fenomeni in atto nella società segnata dal pluralismo di convinzioni, che esigono orientamento sulla base dei principi riconosciuti nel dettato costituzionale.

La legge va considerata quindi non leggendo eventuali intenzioni non espresse nel testo e non desumibili da esso, e nemmeno sulla base di considerazioni per cui se tale riconoscimento di diritti viene utilizzato in vista di altri scopi allora verrebbe meno l’esigenza di riconoscere questi diritti.

Entrando nel merito delle questioni una parte delle critiche alla legge si muoveva nella linea di non ritenere urgente un intervento del legislatore. C’era chi sottolineava la possibilità di un riconoscimento di diritti sul piano individuale, in riferimento ad una legislazione già esistente, e non all’unione civile in qualità di istituto.

Talvolta tale affermazione è stata posta insieme al richiamo all’urgenza maggiore di tutela dei diritti sociali e del diritto alla vita. A tal proposito si può osservare che l’espressione e attuazione di diritti fondamentali è un percorso che non può essere considerato in modo diviso e settoriale. Il riconoscimento dei diritti come percorso che esprime anche dei doveri relativi non può essere limitato ad alcuni ambiti e l’acquisizione di nuovi orizzonti non contraddice altri ambiti di diritti: per questo il riconoscimento di diritti politici non osta l’ambito dei diritti economici e questi ultimi vanno di pari passo con diritti sociali e civili.

E’ da tener presente che questa legge sorge da una condanna all’Italia dalla Corte europea di Strasburgo – che giudica sulla base della Convenzione europea, a cui l’Italia è vincolata dall’art. 117.1 della Costituzione – con sentenza del 21 luglio 2015, per non attuare i diritti fondamentali alla vita privata e familiare delle coppie omosessuali, così come già è avvenuto in tutti gli altri Stati europei.

La Corte costituzionale peraltro con due sentenze (138 del 2010 e 170 del 2014) ha ritenuto che l’articolo 2 della Costituzione fosse violato finché il Parlamento non avesse provveduto con una legge sulle unioni di persone omosessuali.

Una ulteriore considerazione rendeva importante l’elaborazione di un quadro legislativo: compito del diritto, di fronte al vivere sociale, non è l’affermazione di principi generali, ma quello di regolare le situazioni di vita esistenti secondo l’orizzonte dei principi riconosciuti nella Costituzione. Proprio il principio personalistico che ne sta alla base esige una attenzione allo sviluppo della persona come un dinamismo sempre da attuare. Oggi di fatto nel nostro vivere sociale sono già presenti forme diverse di vita familiare.

Monica Cocconi, giurista, credente e impegnata nella vita ecclesiale di Parma in questi giorni ha scritto una interessante riflessione delineando la complessità delle situazioni attualmente esistenti nella vita sociale: “Vi sono convivenze di fatto, nuclei monogenitoriali con minori, coppie sterili o adottive, coniugi rimasti soli per la morte del coniuge, nuclei riformati dopo lo scioglimento di un precedente matrimonio, genitori separati e divorziati con figli e coppie omosessuali, talora con figli. A queste realtà negheremmo oggi con difficoltà, nella sostanza e nel linguaggio quotidiano, la definizione di ‘famiglia’. Appare quindi altrettanto inconcepibile negare a qualcuna di queste il riconoscimento dei diritti e l’imposizione delle responsabilità necessarie a garantire il rispetto e la dignità di ciascuna persona impegnata in una convivenza affettiva stabile, solo sulla base del suo orientamento sessuale. La fedeltà al dato costituzionale vigente va dunque necessariamente coniugata con il rispetto dei vincoli costituzionali europei e l’adeguamento al mutamento sociale in atto”.

Non dimentichiamo che l’ultimo intervento legislativo in Italia sulla vita familiare risaliva al diritto di famiglia del 1975.

La presa in carico da parte della legislazione di situazioni che oggi sono vissute da una parte della popolazione e provveda a garantire diritto alle persone che le vivono e ne sono – si pensi il diritto-dovere di assistere il partner bisognoso di cure, la reversibilità della pensione, i diritti in materia di successione, ecc. – non sembra essere alcun danno all’istituto del matrimonio riconosciuto dalla Costituzione e non genera di per sé alcuna confusione. La Corte costituzionale stessa nella sentenza 494 del 2002, aveva dichiarato che “la Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti”.

Tali diritti non sono da concepire solamente come diritti individuali perché esistono proprio in quanto quelle persone vivono in una condizione di coppia. Da qui l’esigenza di un istituto ad hoc. Parlare di diritti (e doveri sempre connessi) è in rapporto ad una stabilità di relazione affettiva e questo fatto non è solamente rilevante nella vita di due persone ma diviene importante nella dimensione sociale.

Proprio tale questione investe una visione comunitaria della società di cui cogliere le positività e le consonanze con una tradizione come quella cristiana segnata da una visione di relazione profonda ed essenziale tra persone e comunità e che fa uscire dalla dialettica di contrapposizione tra individuo e Stato.

In tale quadro di necessità di una legislazione che coprisse una condizione di discriminazione, la scrittura della legge si è mossa su di un piano di mediazione tra orientamenti diversi. Uno è quella di chi sosteneva e sostiene il matrimonio ‘paritario’ o ‘egualitario’. Secondo tale linea le unioni civili sono accettabili solamente se considerate un matrimonio ma solamente con nome diverso. In caso contrario si presenterebbe una discriminazione (che si scontrerebbe con l’art. 3 della Costituzione con la Carta europea dei diritti fondamentali in cui è sta cancellato il requisito della diversità di sesso per il matrimonio (S.Rodotà, La strada dei diritti, La Repubblica, 23 febbraio 2016; qui una sua intervista a La7 del 17 febbraio 2016).

Stefano Rodotà si è lamentato del non superamento di tale discriminazione nella legge Cirinnà approvata: “Ho sentito evocare la sentenza 138/2010 della Consulta, che porrebbe un vincolo insuperabile: non si può andare verso il matrimonio egualitario. Nella discussione sulla legge se ne è data una lettura ancora più restrittiva sottolineando in ogni occasione la distanza tra matrimonio e unioni civili. Ma c’è un fondamento comune nell’affetto, nella gestione della vita familiare, nella costruzione della genitorialità: i due istituti s’incontrano. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015 lo dice esplicitamente. Questa legge, che avrebbe dovuto sanare una discriminazione, non fa altro che ribadirla”.

Riguardo all’art. 29 della Costituzione proprio Aldo Moro all’Assemblea costituente aveva sottolineato l’intenzione sottesa all’espressione della ‘famiglia come società naturale fondata sul matrimonio’ non nel senso di restringere il modello di famiglia al dato biologico della diversità dei sessi ma nell’orizzonte di evitare l’ingerenza del potere dello Stato nella vita delle famiglie: nel tempo del regime fascista infatti ad es. attraverso le leggi razziali lo Stato era intervenuto pesantemente nelle dinamiche della vita familiare.

Un’altra tesi presente nel dibattito ma che non ha trovato piena accoglienza nel testo della legge è quella di chi sosteneva che fosse ammissibile la affermazione delle unioni civili a patto che mantenessero una differenza definita rispetto al matrimonio come presentato nell’art. 29 della Costituzione. E’ la tesi di chi sosteneva una rilevanza di tutelare le unioni civili ma in modi diversi dal matrimonio. Le unioni civili in tale prospettiva sono viste come formazioni sociali di tipo solidaristico e affettivo. Questa tesi traspare dalle dichiarazioni di Cesare Mirabelli presidente emerito della Corte costituzionale (L.Moia, Mirabelli: restano sovrapposizioni con il matrimonio, Avvenire 25 febbraio 2016) nella preoccupazione di limitare un riconoscimento solamente alcuni diritti a conviventi di fatto sia etero, sia omosessuali.

La linea seguita nell’impianto della legge appare un tentativo di mediazione e superamento della contrapposizione tra queste tesi. La scelta di mediazione è quella di una via che non è assimilabile all’affermazione del ‘matrimonio per gli omosessuali’ e tanto meno come introduzione surrettizia della possibilità di pratica dell’utero in affitto come proprio una certa visione semplicistica ha presentato nel dibattito mediatico.

Nella legge infatti si afferma il diritto per le coppie omosessuali di un istituto giuridico che assicuri la stabile convivenza e riconosca diritti e doveri derivanti da esso. In tal modo sono riconosciuti alle unioni civili tutti i diritti propri al matrimonio, ma riconoscendo una differenza per il fatto che l’unione omosessuale non esercita la funzione della procreazione. Come osserva Giorgio Tonini, senatore PD (Una legge buona e attesa da anni, L’Adige, 28 febbraio 2016) qui si situa la “differenza naturale tra la coppia di persone di sesso diverso e quella di persone dello stesso sesso” che, secondo l’ex-presidente della Corte ed ex-guardasigilli del governo Prodi, Giovanni Maria Flick, “non può consentire di evocare il principio di uguaglianza”.

Alle unioni civili tutti i diritti del matrimonio sono riconosciuti, come ha evidenziato Marco Gattuso, giudice del tribunale dei minori di Bologna dopo averli elencati puntualmente: “Insomma tutti, tutti i diritti conseguenti al matrimonio sono previsti anche per le coppie unite civilmente… Fatta salva la assai dolente materia della filiazione, la legge elimina in un sol colpo qualsiasi discriminazione fra coppie eterosessuali e coppie omosessuali” (Cosa c’è nella legge delle unioni civili: una prima guida, in www.articolo29.it).

La questione riguardante la filiazione appartiene all’ambito della differenza tra matrimonio e unione di persone del medesimo sesso, non della discriminazione.

La questione della stepchild adoption nel testo di legge si presentava come questione che faceva riferimento a due ambiti di considerazione: uno relativo alla solidarietà nella coppia e alla tutela del minore già figlio di uno dei partner. L’altro relativa alla filiazione. In questo caso rimane la possibilità per i tribunali di concedere l’adozione caso per caso, sulla base del criterio dell’interesse del minore. E su questo tema si aprirà la questione di una legge sulle adozioni sinora strettamente legate al matrimonio.

Sappiamo come attorno alla questione della maternità surrogata vi siano profonde obiezioni di tipo etico, condivise da persone di diverse convinzioni, e non solo religiose. Proprio la considerazione innanzitutto della tutela dei diritti dei bambini e l’attenzione a non favorire lo sfruttamento di donne che in situazioni di povertà sono costrette a prestare il proprio corpo per una gravidanza sta al centro. La preoccupazione per evitare ogni violazione della dignità delle donne e ogni tipo di commercializzazione del corpo sono motivi su cui promuovere una profonda riflessione etica.

Dal quadro che ho cercato di sintetizzare mi sembra che lo sforzo di elaborazione di questa legge sulle unioni civili costituisca una risposta ad una esigenza presente, che offre vie per ordinare forme di vita di fatto esistenti – e sinora oggetto di discriminazione – e le inquadra in un ordinamento dove non solo diritti sono riconosciuti, ma vi è connessa una esigenza di responsabilità. In questo si dà possibilità di cittadinanza riconoscimento e dignità a chi vive la condizione omosessuale e apre la possibilità di una società più giusta.

Il compito della legge è limitato: è quello di offrire strumenti per la vita del buon cittadino, non per educare ad una vita secondo i principi morali, ruolo proprio ad altri ambiti della vita sociale. In una società pluralistica tale elaborazione deve trovare forme mediazione tra le diverse componenti.

La presenza della chiesa dovrebbe essere quella di favorire lo sguardo alla crescita umana e ai fini dell’esistenza umana e di un vivere sociale nel senso della dignità e della solidarietà, dando valore a tutto ciò che riconosce dignità alle persone ed evita ogni esclusione.

In tal senso proprio l’orientamento della legge a muoversi sul piano della ‘formazioni sociali specifiche’ previste dall’art. 2 della Costituzione (non legando il riconoscimento delle unioni civili all’art 29 della Costituzione) dovrebbe generare un positivo riscontro in chi è attento ad una convivenza nella società che si attui secondo prospettive di responsabilità e di inclusione. Proprio tale orientamento permette di “stabilire un netto confine concettuale tra le due specie di ‘formazione sociale’: da un lato il rapporto matrimoniale che dà luogo alla famiglia, dall’altro il rapporto non matrimoniale che dà luogo all’unione civile. Fissata tale demarcazione, si può constatare senza angoscia il fatto che tra le due entità vi possano essere alcune zone di sovrapposizione, per i diversi istituti su cui si regge un rapporto di coppia, compresa la garanzia dei diritti dei minori coinvolti nel rapporto, che va comunque disciplinata” (D. Rosati, Le «formazioni sociali specifiche»: un cantiere da aprire, “SettimanaNews” 28 febbraio 2016).

Da parte della comunità cristiana legata ad una visione personalista e solidale della società potrebbe essere apprezzato e valorizzata l’esigenza ad un quadro normativo che indica una apertura ad un amore vissuto in termini di consapevolezza e di fedeltà. L’impegno per stabilizzare forme di convivenza e individuare forme normative per darne un istituto giuridico è un segno a mio avviso da apprezzare nella ricerca non solo di riconoscimento di diverse forme in cui la vita affettiva può esprimersi, ma di scorgere la dimensione di consapevolezza e responsabilità nell’amore.

Infine un’ultima osservazione. Il papa Francesco ha richiamato lo scorso novembre nel suo discorso nella Duomo di Firenze al Convegno ecclesiale della Chiesa italiana ad uno stile di chiesa segnato da tre caratteristiche: l’umiltà, il disinteresse, la beatitudine.

Sorge la domanda: quale tipo di chiesa può essere presenza che aiuta una società a vivere, e si fa compagnia dell’umanità a scorgere ciò che rende più umani? E’ una chiesa segnata da atteggiamento di separatezza, di rigidità, di condanna oppure una chiesa che fa suo impegno primario il tentativo di scorgere il bene ovunque esso sia, che può crescere, fiorire, mettendosi in ascolto delle relazioni di amore in cui è presente in modo sempre limitato un segno di un amore più grande? E’ una chiesa che alza la voce per giudicare persone o situazioni oppure è una chiesa che cerca di scorgere come nel cuore delle persone è nascosta una perla preziosa da scoprire, da far crescere? E’ una chiesa delle separazioni, del rigore nel riconoscere regolari e irregolari per procedere ad esclusioni e chiarezze oppure una chiesa appassionata dello stile di Gesù, capace di dare speranza a chi si sentiva non riconosciuto da nessuno, capace di dare tempo e offrire la sua ospitalità a chi viveva attesa e ricerca? L’ascolto nel cercare di comprendere le trasformazioni che oggi la società sta vivendo è luogo in cui ascoltare una chiamata a scoprire uno stile di essere chiesa, appassionata di una umanità in cui è presente una ricerca di senso, di vita, di umanizzazione.

Alessandro Cortesi op

Jean+Paul+Vesco

Riporto qui di seguito il testo dell’intervista di Luciano Moia a mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano (Algeria) pubblicata da “Avvenire” (9 marzo 2016).
“Chiesa, omosessualità, amore, castità, diritti, indissolubilità. Temi impegnativi che, nell’anno della misericordia, il vescovo di Orano, in Algeria, Jean-Paul Vesco, affronta in modo franco, con la consapevolezza di quanto prescrive la dottrina, ma anche del nuovo atteggiamento di accoglienza e di apertura sollecitato da papa Francesco. Domenicano per vocazione, avvocato per formazione, monsignor Vesco ha pubblicato nei mesi scorso un libro, Ogni amore vero è indissolubile (Queriniana, pagine 109, euro 119) che ha suscitato non poche sorprese, per il suo approccio originale al problema dell’amore indissolubile in rapporto ai divorziati risposati. Ora allarga la riflessione alle unioni tra persone dello stesso sesso.

Chiesa e omosessualità. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento corretto?
Per la Chiesa non si pone il problema di “concedere diritti”. La Chiesa deve aprire le sue braccia e accogliere le persone senza condizioni. Quando un ragazzo, in una famiglia, rivela la sua omosessualità, la domanda per i genitori, per i nonni, non è di sapere se questa scelta è buona o sbagliata, se bisogna essere a favore o sono contro. La questione rimane quella di amare comunque, così com’è, il proprio figlio o nipote, di non giudicare. E offrire così tesori di intelligenza e di comprensione. Sogno che possa essere così nella Chiesa, che è una famiglia da cui nessuno deve sentirsi escluso.

Per la morale cattolica l’esercizio della sessualità tra omosessuali rimane, come recita il Catechismo, un «disordine oggettivo». Pensa che questa posizione dovrebbe essere riformulata?
Oggettivamente i rapporti sessuali sono guidati dalla complementarietà dei corpi e dei cuori, quello maschile e quello femminile. È in questa complementarietà che nasce e si sviluppa un bambino. La formulazione del Catechismo, certamente difficile da accettare, non dice nient’altro. Ma questo, dal punto di vista soggettivo, può rappresentare un ostacolo per una vita affettiva esigente e fedele in cui si può cogliere quell’amore bello e autentico che tutti sognano? Il confronto con la realtà mostra che questo esiste, e che è possibile.

Pensa che sia giusto aprire all’adozione per le coppie omosessuali?
Questo è il punto critico. Naturalmente, una relazione omosessuale non può prevedere la procreazione. È un dato di fatto. È anche chiaro che una coppia omosessuale possa offrire abbastanza amore per dare sollievo a un bambino adottato, gli esempi sono lì a mostrarlo, tutti certamente conosciamo dei casi. Ma, di fronte a un bambino voluto e progettato in vista dell’adozione da parte di coppie omosessuali, bisogna dire no. In questo passo si concentrano tutte la confusioni e tutte le manipolazioni che riguardano la procreazione. E questo mette in discussione il futuro dell’umanità.

Come comprendere l’amore omosessuale? Qualcuno ha prospettato anche per questi legami un significato di indissolubilità. È possibile ipotizzarlo?
Vediamo di capire bene il rapporto tra indissolubilità e matrimonio. L’indissolubilità è stata così caricata di peso teologico che ci si dimentica del significato originario. Il suo primo significato è che un amore umano, in cui davvero una persona impegna tutta se stessa, tutto il proprio essere, crea un legame definitivo che non si dissolve nella separazione. Un amore così segna tutta la nostra vita. Questo è il motivo per cui l’amore è una cosa “pericolosa”, e che una persona deve prestare attenzione a ciò che fa con il suo corpo e il suo cuore. Nella teologia cattolica non è il sacramento che rende matrimonio indissolubile, ma l’amore che si promettono gli sposi. Il sacramento dà particolare forza all’indissolubilità, che è già è presente, e la consacra. Sacramento del matrimonio e indissolubilità hanno dunque un legame di causalità reciproca, ma sono realtà di ordine differente.

Quindi non si può parlare di amore omosessuale indissolubile?
È possibile prendere sul serio una relazione omosessuale stabile e fedele, affermando però allo stesso tempo che è di natura diversa rispetto al matrimonio sacramentale tra un uomo e una donna, naturalmente orientato verso la procreazione. Ma questo non significa escludere che una relazione omosessuale possa avere caratteristiche di indissolubilità.

Non si tratta di una conclusione teologicamente rischiosa?
Rifiutando di ammettere che due persone omosessuali possono unire la loro vita in modo indissolubile, significa offrire a queste persone solo la possibilità di scegliere tra relazioni senza futuro o una castità intesa come l’astinenza dalle relazioni sessuali. Questa astinenza, per alcuni, può certamente essere intesa come vocazione. Ma se la Chiesa non ha che l’astinenza sessuale da proporre come modello virtuoso agli omosessuali, c’è il forte rischio che la dottrina sia salva ma che le 99 pecorelle del gregge siano abbandonate a se stesse, senza che nessun pastore abbia preso su di sé il loro odore.

E quindi cosa propone?
Quindi mi chiedo: gli omosessuali non hanno il diritto alla sfida della castità coniugale intesa come dono di sé all’altro nella fedeltà? Questa è una domanda seria.

Crede che la pastorale sia pronta a raccogliere questa sfida?
L’accoglienza delle persone omosessuali è una sfida che bussa alla porta di tutte le chiese del mondo, in ogni continente. Ed è un peccato che non sia stato possibile affrontare il problema con calma all’interno del Sinodo sulla famiglia. Non era forse ancora il momento giusto, ma lo è indubbiamente, e in modo davvero urgente, per le società civili”.

 

Al di là dei muri e oltre

CdGYLo5WAAAhOOl.jpg(migranti a Idomeni -Macedonia confine – 9 marzo 2016)

c/o Convento dei domenicani – ingresso via delle Logge 6

12 Marzo – 11 Giugno 2016

Pochi mesi e il paesaggio dell’Europa è profondamente, drammaticamente, cambiato. Ovunque – dopo decenni nei quali, anche se con fatica, si sono gradualmente abbattuti muri e barriere – si torna oggi a costruire argini, divisioni, difese di armi e di filo spinato. Il nostro Continente, le democrazie occidentali in genere, si trovano confrontate con una diversità che sembra aver rotto improvvisamente gli argini e che, spinta dalla povertà e dalle guerre che affliggono le sue “terre remote”, si accalca ora ai nostri confini, in cerca di un futuro e di un’esistenza dignitosa da vivere.

È un’alterità che ha tante facce: quella di uomini, donne, bambini in fuga dalla distruzione in Medioriente e dal Nord Africa, quella di giovani silenti che seminano inaspettatamente il terrore nelle nostre città o che combattono con furore distruttivo alle porte del nostro mondo, ma anche quella altrettanto misteriosa – e tutta interna alle nostre esperienze, collettive, private e personali – rappresentata, al di sotto della crosta razionale del nostro agire e del nostro relazionarsi – dalla forze profonde della nostra corporeità, del nostro substrato emotivo, del nostro spessore di sensazioni, sentimenti ed immaginazioni.

Di fronte a questo sommovimento epocale, le risposte paiono in prima battuta di paura, di ripiegamento, di diffidenza e di chiusura. Dai confini dell’Ungheria a quelli serbi sino, oltreoceano, a quelli statunitensi, dalle coste britanniche a quelle dei pur aperti e accoglienti Paesi del Nord Europa, si levano grida, minacce, ostacoli, respingimenti. Si edificano divisori che non di meno sono destinati ad essere sopraffatti, come sacchi di sabbia fortuiti di fronte a fiumi in piena che hanno rotto irrimediabilmente gli argini. E si scavano vuoti di incomunicabilità fra identità individuali e di gruppo che tornano a percepirsi distanti ed ideologicamente incompatibili (si pensi ad esempio all’attuale dibattito sul riconoscimento di diritti e doveri alle coppie di fatto, omossessuali e non).

Quest’anno – continuando il loro tradizionale lavoro su queste tematiche – PoieinLab e il Centro Studi Espaces “Giorgio La Pira” propongono alla cittadinanza un percorso di riflessione articolato, da Marzo a Giugno prossimi, in una serie di giornate seminariali, che vedranno il coinvolgimento di accademici, ricercatori, esperti, operatori, responsabili di organizzazioni e di associazioni della società civile impegnati su tali questioni.

Il primo, che si svolgerà Sabato 12 Marzo 2016, a partire dalle ore 9.30, sarà dedicato – secondo un’impostazione che tenterà come sempre di coniugare analisi sociale e espressività artistica – alle grandi sfide che i recenti enormi flussi migratori pongono alla democrazia ed alle politiche di accoglienza e di integrazione europee ed italiane.    

Sabato 12 marzo 2016

Il mondo in cammino: speranze, paure, nuove regole di accoglienza

9.30     Alessandro Cortesi: Saluti di benvenuto e presentazione del Ciclo di seminari

10.00   Giovanni Capecchi (Università di Perugia): Pagine di viaggio: brecce di pace nel filo spinato

11.00   Cosa sta accadendo? Migrazioni, mutamenti sociali, paure e identità

Dimitri D’Andrea (Università di Firenze)

La grammatica dell’incontro: diritti, doveri, politiche di inclusione

Filippo Buccarelli (Università di Firenze)

Tra investimento e solidarietà: migrazioni, territori, metamorfosi sociali

12.00    Discussione

16.00   Tavola rotondaFra vincoli e opportunità: migranti, rifugiati, reti di accoglienza in Toscana

Coordina Giovanni Paci (Vicepresidente PoieinLab)

Federico Silvestri (Responsabile progetti di accoglienza)

Kaaj Tshikalandand (Studentessa Università di Firenze)

Hamdan Al-Zeqri (Rappresentante Comunità Islamica di Firenze e mediatore culturale)

 

A questo link un articolo di Franceso Lauria pubblicato su Reportpistoia 11 marzo 2016.

 

 

V domenica di Quaresima – anno C – 2016

Tiziano Cristo e  l'adultera 1512:1515Tiziano, Cristo e l’adultera 1512-1515

Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

Il secondo Isaia, mentre l’esilio stava per finire, indica qualcosa che sta per nascere, una realtà piccola visibile solo da occhi attenti … come un germoglio, silenzioso e fragile che annuncia la bella stagione, come una pianta nel deserto segno di vita nascente che contrasta il caldo e la mancanza d’acqua che fanno appassire.

“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia e non ve ne accorgete?”: il profeta richiama ad accorgersi di quanto sta fiorendo, proprio nel momento buio, segnato dalla disillusione. E’ annuncio di realtà nuova e invito a smettere di rimanere rivolti al passato. La tragica esperienza dell’esilio, la schiavitù, l’oppressione va lasciata alle spalle. Non si può rimanere imprigionati da cose passate, dalla sofferenza, dalla tristezza mentre qualcosa sta per nascere nuovo. Lo sguardo va diretto al futuro.

Viene rinnovata in queste parole la memoria dell’esodo: era stato quello un cammino di uscita e di liberazione. Era stata esperienza di apertura alla fede in un Dio vicino e liberatore. Ora quel cammino si rinnova. Le promesse di Dio di libertà e di un percorso nuovo sono parola sul presente: ‘Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa… il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi’.

Anche Paolo nella lettera alla comunità d Filippi parla di futuro: richiama al distacco da ogni costrizione e paura. Evoca la corsa nello stadio, esperienza sportiva così diffusa nelle città greche. Confessa il suo percorso così simile ad una corsa: spera di correre per raggiungere Gesù, che ha preso la sua vita, per ‘conoscere la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti’.

Paolo non si sente come un ‘arrivato’, non ha già raggiunto il premio. Parla così dell’esistenza cristiana: non è uno star fermi, né una stanca ripetizione di modelli già dati. E’ piuttosto movimento, un andare avanti con passione e impegno, fissare lo sguardo verso una meta di incontro. Ancora ritorna il rinvio ad un futuro da cercare: sarà comunione con Cristo e nella vita in Dio. La terra che sta davanti è la terra di un esodo nuovo. E’ uscita per rispondere ad una chiamata: “Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”

La pagina del IV vangelo forse riprende un frammento scritto proprio della teologia di Luca che insiste sulla misericordia fondandosi sull’esperienza di Gesù. Una donna è condotta a Gesù da un gruppo di uomini religiosi. Hanno intenzione di lapidarla secondo le norme della legge perché sorpresa in adulterio. E’ decisione secondo la legge di Mosè, applicazione della norma. Ma conducono la donna a Gesù per accusare lui, per sottoporlo a un giudizio.

La domanda riguarda la giustizia di Dio. Lo mettono alla prova perché hanno compreso che Gesù propone una giustizia diversa dalle loro convinzioni. Per loro che avevano la pretesa di interpretare il pensiero di Dio, giustizia doveva essere un rigido calcolo di pena in rapporto alla colpa, rigorosa contabilità dell’ ‘a ciascuno il suo’. Nei suoi gesti Gesù annunciava la giustizia di Dio in termini che facevano scandalo, ed aprivano domande nuove. Per lui giustizia è fedeltà di Dio ad ogni uomo e donna, è la promessa, che non viene mai meno, di non abbandonare nessuno, ma di raccoglierlo nella sua fatica e nel suo cammino, per scorgervi la nostalgia di bene e di vita piena ed aprirlo al senso più profondo e autentico della sua esistenza.

La reazione di Gesù a questi uomini religiosi è enigmatica e fatta di silenzio. Scrive per terra. Forse rinvia ad un testo di Geremia: ‘Sulla terra verrà scritto chi ti abbandona, perché hai abbandonato il Signore sorgente di acqua viva’ (Ger 17,13). Il luogo dove si svolge la scena è il cortile del tempio dove grandi pietre costituivano il pavimento. Lì si riuniva il sinedrio, sede del giudizio religioso.

Gesù si mette a scrivere: in quel gesto forse è richiamato il dito che secondo la tradizione aveva scolpito la legge su tavole di pietra. Gesù evoca allora il dono della legge ma ricorda anche, con il suo silenzio, le promessa dei profeti. Avevano infatti indicato un tempo in cui la legge sarebbe stata scritta non su tavole di pietra ma sulle tavole dei cuori viventi (Ez 36,26). Gesù allora non risponde ma con il suo silenzio apre uno spazio, a ciascuno, per ritrovarsi solo davanti alla propria coscienza, al proprio cuore, per scorgere la parola di Dio racchiusa nel cuore.

Non è preoccupato della legge ma lascia emergere una domanda nascosta nell’intimo di chi gli sta di fronte: il suo silenzio apre una fessura in cuori divenuti duri come pietra. Rompe anche il condizionamento generato dalla psicologia della massa: in gruppo, tutti insieme, gli avevano portato la donna: frantuma così l’anonimato della massa dietro alla quale ciascuno poteva nascondersi e rendersi giudice di un giudizio collettivo senza responsabilità personale. Ognuno è chiamato a prendere posizione davanti alla sua coscienza. Gesù conduce ad una presa di posizione in prima persona. “Chi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei…”

La critica di Gesù è radicale di fronte a chi si pone come paladino della moralità, giudice implacabile e negatore di ogni possibilità di cambiamento e di perdono. Risponde anche al tranello nel quale i suoi accusatori volevano coglierlo in fallo: era lecito o no lapidarla? Una questione di scuola che lo poneva o contro la legge o contro le norme della potenza occupante (solo ai romani spettava la condanna a morte). Talvolta solo il silenzio è via per aprire possibilità per pensare, per una consapevolezza dell’ipocrisia.

Il lento andarsene di tutti viene descritto mettendo in risalto il distaccarsi ‘uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi’. I più anziani se ne vanno per primi. ‘Presbiteri’ era il nome nelle prime comunità che indicava i responsabili – richiamo agli anziani che presiedevano le comunità di Israele – e dietro a questo andarsene sta un messaggio anche per le comunità cristiane. E’ indicazione a scorgere che l’esigenza di cambiamento radicale interessa chi ha compiti di guida e su questi fonda pretese, autorità e dominio sugli altri.

‘Rimase solo Gesù con la donna là nel mezzo’: nel mezzo della sua vita, nel profondo del suo cuore quella donna, si trova di fronte a Gesù, sola, non disprezzata. Può riconoscerlo come ‘Signore’ e accogliere la parola della misericordia. Questa sola fa rinascere e rende nuovi: ‘Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: Nessuno Signore. E Gesù le disse ‘Neanch’io ti condanno….’. Gesù legge nel volto di questa donna una identità calpestata dal giudizio ipocrita di maschi che esercitano su di lei il dominio. Apre un futuro nuovo a questa donna, segnata da una storia di sofferenza e di sfruttamento. La sua parola la fa uscire e guardare al futuro: ‘Và e d’ora in poi non farti più del male’.

L’ultima parola di questa pagina scandalosa è un parola di non condanna: è rivelazione del volto di Dio come colui che non condanna, ma rende responsabili degli altri. “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18): nell’agire di Gesù si rivela il volto di Dio stesso. La domanda è solo: dove sono? Quasi un’eco di quel ‘dov’è tuo fratello?’ che continua a risuonare nella storia.

L’invito finale è apertura di un storia nuova: non peccare più non è una esortazione moralistica. E’ indicazione a non orientare a propria esistenza verso ciò che conduce a farsi del male, a non vivere in pienezza l’amore, a non trovare la giusta direzione e per questo fallire il bersaglio (è questo il senso del termine peccato: come una freccia che non va verso il centro o come un tiro che non entra in rete).

Lo sguardo di fiducia e di bene coinvolge in una storia nuova. Gesù ha a cuore la vita delle persone non l’affermazione di una legge che non tiene conto della vita delle persone. Quella donna nel IV vangelo diviene simbolo di tutta l’umanità. E’ una umanità fragile, che può prendere direzioni che conducono a farsi del male. Davanti a Gesù questa donna assume il profilo dell’umanità amata, luogo di una speranza. Gesù non fa ricadere condanne ma chiede di andare verso una storia nuova.

Alessandro Cortesi op

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Donne

La data dell’8 marzo festa delle donne è giorno che conduce a riflettere sulla condizione di sofferenza di tantissime donne. Secondo le statistiche del rapporto Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione risulta che su un miliardo di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà tre quinti sono donne. Così pure due terzi del quasi un milione di analfabeti nel mondo sono donne.

Nel 2014 sono state 152 le donne uccise in Italia, di cui 117 nell’ambito familiare. Le statistiche del 2015 parlano di 35 % di donne nel mondo che hanno subito violenza e la dichiarazione dell’ Assemblea Generale Onu parla di violenza contro le donne come di “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.

Questi pochi dati fanno emergere come la disparità più presente nel mondo che persiste è quella di genere. Nonostante progressi e acquisizione di diritti e consapevolezza i diritti delle donne sono fragili e a rischio. Benché nella vita sociale di molti paesi sviluppati la presenza delle donne nei vari ambiti della vita sociale sia aumentata tuttavia permangono discriminazioni nella retribuzione nel lavoro, come anche il cosiddetto glass ceiling, il soffitto di cristallo che costituisce impedimento all’accesso a ruoli di lavoro e di responsabilità nella vita sociale impossibile da superare perché alle donne è richiesto un impegno e uno sforzo superiore a quello degli uomini.

Ma soprattutto oggi viviamo la discriminazione nelle forme della violenza, delle nuove forme di schiavitù e della tratta degli esseri umani, in particolare delle donne.

Vorrei richiamare voci di donne che parlano dello sfruttamento, aprono domande per maturare consapevolezza delle situazioni, e richiamano ad una responsabilità in questo tempo in cui il nemico da combattere è l’indifferenza.

Berta Caceres attivista non solo per ambiente ma per la sopravvivenza delle popolazioni indigene in Honduras. Insieme ad altri suoi compagni era stata la fondatrice del Consiglio delle organizzazioni popolari dell’Honduras con l’obiettivo di organizzare e aiutare le comunità indigene nella resistenza di fronte allo sfruttamento dei latifondisti e nel valorizzare la propria cultura. La reazione a tale opera è stata violenta. Le modalità dell’oppressione sono condotte attraverso l’estrazione dei minerali e la costruzione di impianti idroelettrici con grandi dighe che vengono propagandate come destinate ad un’ utilità pubblica. Di fatto sono modi per espropriare terre, per sfruttare e annullare la vita delle comunità. Tra queste la diga di Agua Zarca che aveva portato la protesta all’attenzione internazionale. Berta Caceres è stata uccisa il 3 marzo u.s. in Honduras.

La seconda è la testimonianza drammatica di una donna migrante etiope, Selam, rifugiata accolta dal Centro Astalli di Roma:

“Sono stata un anno in Libia, quel paese schifoso, non mi vengono in mente altre parole per definirlo. È un vergogna per tutta l’Africa. Ho conosciuto le carceri di Kufra e Misratah dove sono stata reclusa per mesi. Sono posti allucinanti, luoghi di tortura e violenza, dove non hai scampo. Non voglio parlarne, non so raccontare, non conosco le parole italiane per descrivere e anche in amarico faccio fatica. (…) grazie a una cugina che vive in America ho potuto avere i soldi per corrompere quelle maledette guardie e lasciare Kufra. Sono salita su un gommone con altre trenta persone che non conoscevo, non so nuotare e non avevo mai visto il mare prima di allora. Dopo l’esperienza del carcere in Libia la morte non mi faceva paura, almeno a qualcosa era servito l’orrore, mi ripetevo cercando di darmi coraggio durante la traversata. Arrivai a Lampedusa e riaprii gli occhi. Li avevo chiusi all’inizio della traversata due giorni prima. Vidi una donna che mi porgeva una coperta. Avevo una profonda ferita alla gamba che mi ero procurata in carcere, mi medicavano, mi disinfettavano, mi davano da bere, mi parlavano dolcemente e anche se non capivo nulla di ciò che mi dicevano, pensai: questo è il paradiso”.

Una toccante testimonianza è stata quella di Nawal Soufi, attivista originaria del Marocco. Su di lei Daniele Biella ha scritto il libro Nawal l’angelo dei profughi, (ed. Paoline ). Lo scorso 3 marzo è un intervenuta davanti alla Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere del Parlamento europeo: la sua provocazione è stata forte. Ha dichiarato la sua preoccupazione e la sua domanda rivolta all’Europa, a partire dalla sofferenza delle donne:

“È da dieci anni che vedo il mare Mediterraneo rosso, ho smesso di vederlo di colore blu, lo vedo rosso e vedo la mia generazione che vive il secondo olocausto. Quando lo chiamo olocausto non parlo dei numeri, parlo di tutto quello che significa guardare e tacere. Il mar Mediterraneo è quel campo di concentramento dove le persone muoiono ogni giorno, dove le persone soffrono… e la caratteristiche che ci unisce all’epoca del nazifascismo è che vediamo tutte queste cose e facciamo finta di nulla, continuiamo in qualche modo a lasciar morire le persone nel mar Mediterraneo. (…) Io non temo per i migranti, io temo per l’Europa. Io non temo per loro, temo per l’Europa. Siamo tutti qui perché penso che crediamo nei valori per cui è nata l’Europa unita. Ecco io non temo per i rifugiati perché un giorno torneranno nella loro terra, perché amano la loro terra come noi amiamo la terra dove siamo nati… io amo l’Italia perché sono cresciuta in Italia, amo anche il Marocco perché sono nata in Marocco. Queste persone amano la Siria, amano l’Afghanistan, amano l’Iraq, un giorno torneranno. La domanda fondamentale: noi dove andremo? Le nostre coscienze quando ci guarderemo davanti allo specchio un giorno, quando dovremo raccontare ai nostri figli che non abbiamo fatto quando tutti potevamo fare”.

Infine quattro donne sconosciute, di cui sappiamo a mala pena i nomi Anselm, Marguerite, Judit, Reginette. Le conoscevano le persone a cui si dedicavano – disabili e anziani di famiglie troppo povere che non si potevano prendere carico di loro – nello Yemen dove avevano deciso di rimanere nonostante la situazione di guerra e disordini. Erano suore missionarie della carità di madre Teresa e sono state uccise ad Aden insieme a dodici volontari musulmani che collaboravano con loro: di costoro, uomini e donne, non sono noti nemmeno i nomi.

Di fronte al dramma della violenza, ascoltando queste testimonianze di donne che hanno vinto la violenza secondo una via altra e diversa, il silenzio di Gesù che scrive per terra è appello a cambiare, a scoprire quello che solo un cuore nuovo, di carne e non di pietra, può suggerire.

Una poesia di una bambina di 13 anni , Maria Goretti, rifugiata del Kenia è parola di profezia:

Gioisco nel celebrare il presente,

Ricordo il passato ed imparo da esso.

Immagino il futuro.

Uso i miei ricordi, ma non permetto ai ricordi di usare me.

Voglio diventare quello per cui Dio mi ha creato.

In Dio mi muovo, respiro, ed è in Lui che è la mia essenza.

Sono figlia del mondo.

Chiedo a voi di aiutarmi a non essere più vittima ma vincitrice.

(da https://servironline.wordpress.com/)

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Quaresima – anno C – 2016

DSCN2133.JPGGs 5,9-12; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

Luca nel suo vangelo sottolinea come Gesù nel suo agire testimonia il volto del Padre suo come volto di misericordia. Gesù si è fatto vicino alle persone sofferenti, ha operato per liberare dall’oppressione, ha accolto gli esclusi mangiando insieme con loro.

All’inizio del capitolo 15 Luca presenta la reazione di scribi e farisei di fronte allo stile di Gesù: ‘costui riceve i peccatori e mangia con loro’. A questo punto Luca pone tre parabole che rinviano all’agire di Dio stesso e che sono presentate come ragione di un agire di convivialità ospitale. Sono le parabole della ricerca del perduto e della cura: espressione del volto di Dio come misericordia. Misericordia è un cuore capace di prendere su di sé la sofferenza di chi è misero.

La vicenda dei due figli è narrazione di una storia di affetto e di cura. Al centro sta lo sguardo di un padre appassionato di creare relazione con i suoi figli. Egli mostra in modi diversi il suo desiderio che lo stare nella sua casa sia esperienza di gioia e di incontro. I figli sono amati e accolti e non sono né servi né estranei. Il suo abbraccio sorge dalla compassione, è segno di un’accoglienza senza riserve. E suscita scoperta nuova di una possibilità di stare in relazione, da figli e da fratelli.

Il sentire di quel padre è assimilato a quello di una donna capace di tenerezza e accoglienza. È affetto che lo prende nelle viscere. ). E’ amore dai tratti femminili e materni: “Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,14-15). I tratti di quel padre evocano un volto di Dio amante e vicino che lascia liberi, attende, va incontro. Così lascia che il primo figlio si allontani in ricerca di una emancipazione senza legami.

Per quel figlio si commuove nel profondo mentre lo attende e Luca richiama il modo con cui Geremia parlava dell’amore di Dio verso il suo popolo: “Fammi ritornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore Dio mio… Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato me ne ricordo più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza” (Ger 31,18-20; cfr. Os 11,8)

Il Padre sta al centro di questa vicenda di abbandono della casa da parte del figlio minore nella ricerca di una propria autonomia: lo attende, lo scorge da lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Anticipa ogni richiesta; pone gesti di gratuità che rivelano la qualità del suo amore: la misericordia. Per il figlio che torna si fa festa. E’ una festa non per un pentito, carica di esigenza e di rimprovero, ma una festa di gioia autentica per chi è accolto come persona libera, come uno sposo: il padre stesso pronto si mette al suo servizio e lo fa sedere al centro della festa (cfr. Lc 12,37). Non è un padre giudice, ma un padre preoccupato della libertà dei suoi figli, rispettoso dei loro percorsi, volto di misericordia.

Poi esce fuori a cercare l’altro figlio. Era quest’ultimo l’uomo integerrimo, colui che aveva vissuto nella casa con dedizione e impegno ma in modo freddo, come un estraneo. Con lo sguardo di giudice impietoso, con la convinzione di esser giusto al punto da poter disprezzare gli altri, simile a quel fariseo che pregava: ‘Ti ringrazio Dio perché non sono come tutti gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri…’ (Lc 18,11-12). Ma il padre anche per lui ha comprensione. Il suo sguardo mite assume anche la sua sofferenza. Anche quel figlio ha bisogno di scoprirsi amato, perdonato nella sua chiusura e nella sua incapacità ad amare. Ha bisogno di compiere un percorso per poter guardare l’altro in modo nuovo. L’altro è da lui visto con disprezzo come il ‘tuo figlio’. Ma il padre si rivolge anche a lui con i modi di un affetto senza limiti: ‘figlioletto’. ‘Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’..

La misericordia spiazza e disorienta: è volto di Dio che rivela le dimensioni più profonde e le nostalgie dell’essere umano, di essere compreso, di essere accolto nel proprio limite e nell’errore, di essere cambiato nella benevolenza di un abbraccio.

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Riconciliazione

In my country è il titolo di un film uscito nel 2004 (regista John Boorman) che riprende le testimonianze di Antjie Krog, poetessa e giornalista membro della Commissione per la verità e riconciliazione in Sudafrica, nel libro Terra del mio sangue (trad. ital. ed. Nutrimenti 2006). E’ un film che riporta ad una vicenda che ha segnato la storia del Sudafrica negli anni successivi al superamento delle leggi dell’apartheid. A conclusione della prima scena del film è riportata la sintesi degli eventi: “Nel 1994 in Sudafrica il brutale sistema dell’apartheid è finalmente terminato. Nello spirito di una piena riconciliazione il Presidente Nelson Mandela e i leader del suo partito, l’African National Congress, hanno offerto la possibilità di avere l’amnistia a coloro i quali si erano macchiati di abusi dei diritti umani a condizione che raccontassero la verità e potessero provare di aver obbedito a degli ordini di superiori. Le vittime avrebbero avuto così la possibilità di raccontare le loro storie e di avere un confronto con le persone di cui erano state vittime. 21.800 persone hanno testimoniato di fronte alle Commissioni di Verità e Riconciliazione e alcune di queste sono state fedelmente riportate nel film”.

Il film narra così l’attività di un giornalista americano nero del Washington Post, Langston Whitfield (interpretato da Samuel L. Jackson) mandato in Sud Africa per eseguire un reportage sulla Commissione per la verità e la riconciliazione, istituita dal governo presieduto da Nelson Mandela nel 1996. Durante il suo lavoro conosce la giornalista Anna Malan (interpretata da Juliette Binoche), una afrikaan appartenente alla popolazione dei bianchi del Sudafrica, sensibile ai diritti della popolazione nera e interessata alla ricerca di giustizia anch’ella impegnata in reportage per la radio di Stato.

Il film conduce a ripercorrere lo svolgimento delle attività della Commissione per la verità e la riconciliazione in cui si dava possibilità alle vittime di rendere pubbliche le violazioni dei diritti umani che avevano subito, le varie forme di oppressione di tortura e vessazione. La funzione di tali tribunali non era intesa secondo una finalità punitiva, ma potevano concedere l’amnistia ai colpevoli di crimini a patto che vi fosse un riconoscimento dei crimini commessi nell’orizzonte di verità, con una dichiarazione di pentimento da parte dei colpevoli e fosse data una possibilità pubblica delle vittime di raccontare le violazioni subite.

Tutto questo nell’ottica di suscitare la percezione dell’ingiustizia attuata nei crimini commessi e di evitare lo svilupparsi di risposte di violenza e di vendetta in un spirale che non avrebbe avuto fine. Soprattutto la giornalista Anna che proveniva dalla parte della popolazione bianca che aveva oppresso i neri partecipa con coinvolgimento schierandosi decisamente dalla parte delle vittime. Ma nel corso della ricerca che le apre consapevolezza sul dolore procurato dall’ingiustizia e su lati sconosciuti della vita condotta senza attenzione alle vittime, è condotta a ricostruire anche una storia del suo ambiente e di rileggere in modo nuovo la vicenda sua personale e della sua famiglia. Giunge così a scoprire che il suo fratello ha perpetrato crimini di tortura allo scopo di far sì che la famiglia potesse vivere sicura. Scopre in modo drammatico il coinvolgimento pur indiretto nella realtà dell’ingiustizia e della violenza, ed è condotta ad una nuova lettura della sua stessa vita scorgendo una responsabilità nell’ingiustizia.

Nelson Mandela ebbe a dire di questo film “Interessante non solo per gli abitanti del Sudafrica, ma anche per le persone di tutto il mondo, che saranno coinvolte dai grandi interrogativi dell’umanità quali la riconciliazione, il perdono e la tolleranza”.

Quella del Sudafrica è stata un’esperienza storica nell’accogliere la sfida a costruire giustizia non secondo la logica della punizione e della vendetta, ma secondo l’affermazione della verità e la possibilità del perdono.

Alla base di tale processo è stato l’atteggiamento di legame e relazione reciproca verso l’altro che in lingua bantu è espresso dal termine ubuntu. Esso esprime la un attitudine di legame e benevolenza verso il prossimo perché ciò che riguarda uno riguarda anche l’altro. Ubuntu esprime la convinzione di un legame che tiene insieme perché una persona è tale solamente nel rapporto con gli altri e perché gli altri esistono. Il teologo Robert J. Schreiter nella sua opera The ministry of reconciliation: spirituality and strategies ha indicato ‘le tre dimensioni centrali del processo sociale della riconciliazione’: far emergere la verità, non fare concessioni sulla giustizia, dare valore al concetto di perdono. Sono questi i tre elementi specifici che hanno reso possibile il lavoro della Commissione.

Così ha scritto Desmond Tutu, vescovo anglicano premio Nobel per la pace nel 1984, nel suo libro Non c’è futuro senza perdono (Feltrinelli 2001): “noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva, a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la giustizia o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu, fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. (…) Perdonare e riconciliarsi non significa far finta che le cose sono diverse da quelle che sono. Non significa battersi reciprocamente la mano sulla spalla e chiudere gli occhi di fronte a quello che non va. Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti: la meschinità, la violenza, il dolore, la degradazione…la verità. ”

Sono parole che ci rinviano ad un passato che apre ad uno sguardo crtico sul presente sugli apartheid in atto, sull’indifferenza e incapacità di vivere secondo lo spirito dell’ubuntu nell’Europa frantumata dagli egoismi oggi e nel mondo.

Riconciliazione è il nome del disegno di Dio nella creazione e nella storia, un disegno di pace e di dialogo, che significa fare pace nella giustizia. “se uno è in Cristo è una creatura nuova: le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,17-21).

Alessandro Cortesi op

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