III domenica di Quaresima – anno C – 2022
Es 3,1-8a.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
“Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”. Gesù si riferisce a due episodi della cronaca del suo tempo presenti alla memoria dei suoi interlocutori: il primo fatto è l’uccisione di un gruppo di galilei – mentre stavano compiendo sacrifici – da parte delle milizie romane di Pilato. Il secondo è il ricordo di un crollo improvviso di una torre a Gerusalemme che aveva causato molte vittime. Turbati da questi eventi, alcuni li leggevano come segni di un giudizio di Dio: dicevano infatti che le vittime nel tempio erano peccatori e Dio per questo li aveva puniti, così pure le vittime del crollo. Gesù manifesta un duro contrasto a questa lettura. Polemizza con l’idea di un Dio che castiga e colpisce l’uomo con il male e la morte.
Quei fatti in sé non manifestano un giudizio di Dio ma richiedono una presa di coscienza da parte dell’uomo: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Chi ha trovato morte in quei tragici eventi, dice Gesù, non è più peccatore di chi è rimasto in vita. Gesù invita così a trarre da tali eventi la sfida ad un cambiamento per tutti: è quindi innanzitutto un forte richiamo alla conversione. La chiamata di Dio ad ascoltare i suoi profeti e il suo ‘eletto’ è chiamata a cui rispondere senza rinvii e con urgenza.
Luca a questo punto aggiunge una parola di Gesù sulla misericordia di Dio. La parabola si riferisce ad un albero di fichi nella vigna che non porta frutto. I suoi ascoltatori avevano ben presente che nella Bibbia la vigna è immagine usata ad indicare il popolo di Israele. Il vignaiolo chiede al padrone di attendere ancora, di non abbattere quell’albero sterile: ‘lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Accanto alla parola esigente sulla conversione è qui posto un altro insegnamento di Gesù di segno diverso: c’è un richiamo alla sterilità della vigna del Signore, ma insieme una parola sul pazientare di Dio, sulla sua capacità di attesa, oltre ogni previsione, che lascia tempo perché anche il fico possa portare frutto. C’è un pazientare di Dio che lascia spazio ad una conversione possibile. Il prolungamento del tempo apre occasione per una decisione e per una fecondità nuova, non certo per l’indifferenza. E’ una parola sulla cura di Dio perché l’invito alla conversione possa essere accolto.
Conversione nella Bibbia implica un cambio di direzione, esige un tornare al Signore: è cambiare mente e operare scelte di orientamento nuovo della vita. Un movimento interiore ed esteriore contemporaneamente. Consiste innanzitutto nel lasciarsi cambiare da Dio stesso, il Dio che agisce e si comunica nel suo agire nella storia. Convertirsi è movimento che investe la questione del rapporto con Dio stesso come Dio liberatore e vicino.
Alessandro Cortesi op
Di fronte alla violenza
La situazione della guerra in Ucraina provocata dall’ingiusta aggressione dell’esercito russo sta condizionando tutti ad assumere attitudini di rinuncia alla riflessione, a prendere posizione in senso manicheo senza tener conto della complessità, a cedere alla logica del contrasto alla violenza inaudita e ingiusta con altra violenza, a rinnovate affermazioni di ‘guerra giusta’ in un tempo in cui la presenza di armi così devastanti con capacità di distruzione di città e della popolazione civile è manifestazione che la guerra è solo barbarie e follia. Come cercare a pace in un tempo di guerra? La follia della guerra nel tempo degli armamenti atomici (alienum a ratione – Pacem in terris 67) è esito strettamente connesso a tutto ciò che la prepara, la introduce e la alimenta come la produzione ed il commercio di armi.
In questi giorni decisioni sono state prese nei parlamenti sull’onda di emozioni forti. In Germania il cancelliere Scholz ha dichiarato che in futuro la Germania si impegnerà ad aumentare le spese per la difesa almeno al 2 per cento del Pil. E sin d’ora viene stanziato un fondo speciale da 100 miliardi di euro per l’ammodernamento dell’esercito tedesco, la Bundeswehr. Una svolta epocale nella politica della Germania. Una corsa al riarmo preoccupante e foriera di conseguenze che conducono ad alimentare la logica della guerra.
Alla Camera dei deputati italiana in questi giorni è stata presa una decisione analoga nella linea di impegnare il governo ad un aumento delle spese militari fino al 2% del PIL, il che significa passare da 68 a 104 milioni di euro al giorno destinati alle spese militari, da 25 a 38 miliardi di euro ogni anno. Si può anche ricordare che nell’ultimo documento di economia e finanza del governo Draghi si prevedeva un taglio di 6 miliardi di euro per la spesa sanitaria negli anni 2023-24. Non si trovavano i soldi per il bonus salute mentale, non si trovavano i soldi per un progetto di accoglienza di tutti i migranti mirante all’inclusione…
La logica delle armi sembra prevalere: e la domanda che si apre è quale alternativa possibile può far uscire dalla logica della guerra e delle armi in una spirale che nel tempo dell’arma atomica significa andare verso un conflitto di distruzione globale? E’ la medesima domanda che Aldo Capitini proponeva: “L’intelligenza umana ha dato prova di saper trovare congegni e soluzioni meravigliose; ora, e per di più ispirata da una corrente di amore, non saprebbe risolvere tanti casi che sembrano ardui? [Occorre] richiamarla a questo lavoro, invitarla a trovar soluzioni nuove per il campo della nonviolenza” (A.Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937, 127). Egli indicava tratti fondametali della scelta di nonviolenza che si pone non in termini passivi ma attivi di costruzione della pace, non con l’uso delle armi, ma con metodi di pace: “La nonviolenza non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo esser lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo. La nonviolenza non può accettare la realtà come si realizza ora, attraverso potenza e violenza e distruzione dei singoli, e perciò non è per la conservazione, ma per la trasformazione; ed è attivissima, interviene in mille modi, facendo come le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti figli. Nella società la nonviolenza suscita solidarietà viva e dal basso. Anche verso gli esseri non umani la nonviolenza ha un grande valore, appunto come ampliamento di amore e di collaborazione” (A.Capitini, Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, 141). Ben lungi dall’essere un attitudine passiva e di acquiescenza la nonviolenza si declina in termini positivi ed aperti ad un cambiamento effettivo die rapporti dei popoli: “Della nonviolenza si può dare una definizione molto semplice: essa è la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani” (A.Capitini, La nonviolenza oggi, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, 29).
Indicando le ragioni della nonviolenza Aldo Capitini così le esprimeva: “Il nostro punto di vista è tuttavia diverso da quello di chi è per la nonviolenza per la ragione che Dio glielo comanda […] Noi siamo risaliti dal precetto di “non uccidere” così dentro alla realtà stessa di Dio, come Uno aperto a Tutti, che abbiamo visto convertirsi il comando in un atto di realizzazione di una realtà; altri tra di noi sono arrivati al “non uccidere” per l’interesse e l’affetto alle singole persone, elevato ad atto universale, per tutti; ed altri, avendo visto a che cosa si arriva una volta ammesso di usare la violenza: tra i danni dell’una e i danni dell’altra, quelli della nonviolenza portano, almeno un’educazione e una trasformazione dell’uomo. (…) Là dove la nonviolenza interviene è nel primato da dare; il mondialismo dice: facciamo un’assemblea mondiale ed un governo, e un codice, e una polizia mondiale; la nonviolenza dice: persuadiamoci della interna ragione dell’unità umana attraverso l’impegno nonviolento, poi vedremo le forme sociali che ne conseguono. Il mondialismo sembra più concreto, ma corre il rischio di mantenere la violenza e di appoggiarsi ad un impero vincente, e tutto resta quasi come prima; diminuirà qualche guerra, perché il diritto di farla rimane al centro dell’impero, ma è grave l’inconveniente che se questo governo mondiale fa ingiustizia, non c’è scampo (…) La nonviolenza, per quello che vede finora, considera ogni rapporto non in senso di autorità, potere, repressione, ma in senso federativo, orizzontale, aperto.” (A.Capitini, Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, 149-151).
E ancora indicava che la nonviolenza non è orientata alla conservazione, ma ad una profonda trasformazione (potremo individuare qui un modo altro per dire la ‘conversione’?): “E’ (…) un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com’è: più si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla, più si vede che essa ha un dinamismo tale che non può accettare il mondo com’è, ma porta tutto verso una trasformazione: l’umanità, la società, la realtà. Come strumento di conservazione del mondo, la nonviolenza è discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa ha un valore inesauribile, appunto perché non fa modificazioni e spostamenti in superficie, ma va nel profondo, al punto centrale. E un altro e simile errore è credere che la nonviolenza sia contro le violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell’umanità, della società, della realtà. Se fosse così, la nonviolenza sarebbe conservatrice e accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l’umanità, la società, la realtà, come sono ora. Non accetta la realtà dove l’animale grande mangia l’animale piccolo; (…) non accetta la fortuna dei forti e dei potenti, e perciò tende a soccorrere i deboli, gli stroncati; non accetta il potere e la ricchezza privata, e perciò tende a costituire forme di federalismo nonviolento dal basso e forme di aiuto e reciprocità sociale e fruizione comune di beni sempre più larghe. Perciò essa tende a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali. (…) La guerra invece è il mostro più immane di questo uso di schemi, che divora le singole individualità: non ci sono che i nostri e i nemici; è perciò sommamente diseducatrice. (…) la nonviolenza non può mettersi nel mondo così com’è, e lasciarlo tale e quale; la nonviolenza è lotta (contro se stessi, le proprie tendenze, i propri sogni di quiete), è dramma tormentoso, è spinta a scegliere ciò a cui uno tiene di più, a fare una prospettiva; (…) Ora, in una società se io sto inerte, sono colpevole. Ma se io, pur essendo per la nonviolenza, sono attivissimo, e con quella scelta e quella fede, la vivo e la concreto e la diffondo con il mio costume, sono a posto con la società. (Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, 145-147)
Nel messaggio per la giornata della pace del 2017 dedicata al tema “la nonviolenza stile di una politica per la pace” papa Francesco ha scritto:
“3. Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».
Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio». Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”». Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».
4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo». Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi». (…) La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia (…)”.
Franco Arminio sollecita ad una riflessione sul sistema iniquo che sta alla radice della guerra (Pace vigilata, ecco chi sono i compagni della guerra, “Il Fatto Quotidiano” 18 marzo 2022)
Cominciamo dalle campagne.
Nelle campagne italiane ci sono gli schiavi.
Le imprese agricole devono vendere ai supermercati
a prezzi bassi, dunque debbono pagare pochissimo
chi lavora e questo pochissimo lo può accettare
solo chi scappa da paesi poverissimi
e senza democrazia, senza possibilità di lottare
per trasformarli.
Chi tiene in mano i grandi supermercati?
I ricchi. L’agricoltura industriale fa danni al pianeta,
produce prodotti scadenti e produce feudalesimo.
Chi costruisce le armi nel mondo?
Non le producono certamente i poveri.
Il mondo è pieno di criminali e Putin
ne è un fulgido esempio
ma il criminale con cui tutti dobbiamo fare i conti
è il capitalismo e il capitalismo è ovunque,
ma ha un centro e si chiama Stati Uniti.
La centrale del disordine mondiale si chiama Pentagono.
Cosa farebbero gli Stati Uniti se il Messico decidesse
di ospitare sul suo territorio esercitazioni militari
della Russia o della Cina?
Se scoppiano le guerre è anche per il fatto
che ci sono delle armi da vendere
e dovrebbe suscitare qualche sospetto
una nazione che da sola ha le stesse armi
di tutto il mondo messo insieme.
Allora l’Ucraina deve essere libera e sovrana,
ma questo deve valere per tutte le nazioni del mondo,
è una infamia senza fine anche solo una goccia di sangue
sulla fronte di un bambino.
Non è un cattivo compromesso che
qui ed ora l’Ucraina si accontenti di essere neutrale,
almeno fino a quando non vengono smantellati
gli arsenali atomici.
Dunque una pace vigilata si può fare già da domani.
Se non accade la colpa è di Putin e noi siamo tutti
suoi alleati, a cominciare dagli americani.
Alessandro Cortesi op
III domenica del tempo ordinario anno B – 2024
Gn 3,1-5.10; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20
“Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore e predicava…”. Il libro di Giona è un magnifico racconto posto al cuore della Bibbia che ha il sapore di una fiaba con molti elementi mitici: la grande città, il re, il grande pesce dal quale Giona viene ingoiato. Ninive (odierna Mosul in Irak) è descritta nel libro di Giona come un ricordo lontano: il testo risale probabilmente al tempo dopo l’esilio, forse verso il 400 a.C. Tema di fondo è la domanda su come si intende la salvezza di Dio. In contrasto con una impostazione esclusiva, Giona apre ad un nuova comprensione. Al cuore del testo sta il manifestarsi della cura e della misericordia di Dio rivolta a tutti, oltre ogni confine e che si comunica in modo diverso.
Giona è profeta che pretende di piegare Dio alle sue vedute: all’inizio non segue la voce che lo chiama ad andare verso la grande città ma si dirige decisamente in senso opposto. Così il racconto introduce il tema della conversione quale movimento che coinvolge la grande città, ma anche Giona stesso. Chiuso in una religiosità che esclude, pretende di possedere il progetto di Dio sulla storia, ma Dio lo conduce ad un cambiamento che attraversa l’intero suo viaggio.
Il re di Ninive alla predicazione di Giona risponde con il cambiamento e il digiuno insieme a tutta la città. Ma Giona è indispettito perché Dio si manifesta a lui come un ‘Dio misericordioso e clemente, longanime e di grande amore, che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato’ (Gn 4,2). Anziché accogliere tale volto di Dio Giona vive la delusione sino a chiedere ‘toglimi la vita’. La scena finale del racconto presenta l’opera paziente di educazione di Dio: suo desiderio è recuperare anche Giona ad un nuovo rapporto con lui e con gli altri. Così attorno alla pianta di ricino che per un momento arreca sollievo al profeta contrariato e poi velocemente appassisce per il caldo si articola la riflessione finale del libro, quale parola di Dio per Giona: ‘Tu ti dai pena per quella pianta di ricino … e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città” (Gn 4,10-11)
Dio si prende cura dei vicini e dei lontani e la sua opera è condurre gli uni e gli altri, in modi diversi, ad aprirsi ad un incontro nuovo con Lui e ad uno sguardo diverso sugli altri. C’è una benedizione di Dio sulla storia, e su ogni percorso umano che può aprirsi al bene, che raccoglie rafforza ed apre futuro.
Alla rigidezza di una religione che esclude e diventa strumento di inimicizia è contrapposto un cammino – per Giona è un viaggio pericoloso – di scoperta della presenza di Dio oltre ogni limite e confine.
L’incontro con Dio è dono di presenza racchiuso e talvolta nascosto in ogni cammino che si apre all’incontro con l’altro.
Alessandro Cortesi op