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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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III domenica del tempo ordinario anno B – 2024

Gn 3,1-5.10; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20

“Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore e predicava…”. Il libro di Giona è un magnifico racconto posto al cuore della Bibbia che ha il sapore di una fiaba con molti elementi mitici: la grande città, il re, il grande pesce dal quale Giona viene ingoiato. Ninive (odierna Mosul in Irak)  è descritta nel libro di Giona come un ricordo lontano: il testo risale probabilmente al tempo dopo l’esilio, forse verso il 400 a.C. Tema di fondo è la domanda su come si intende la salvezza di Dio. In contrasto con una impostazione esclusiva, Giona apre ad un nuova comprensione. Al cuore del testo sta il manifestarsi della cura e della misericordia di Dio rivolta a tutti, oltre ogni confine e che si comunica in modo diverso.

Giona è profeta che pretende di piegare Dio alle sue vedute: all’inizio non segue la voce che lo chiama ad andare verso la grande città ma si dirige decisamente in senso opposto. Così il racconto introduce il tema della conversione quale movimento che coinvolge la grande città, ma anche Giona stesso. Chiuso in una religiosità che esclude, pretende di possedere il progetto di Dio sulla storia, ma Dio lo conduce ad un cambiamento che attraversa l’intero suo viaggio.

Il re di Ninive alla predicazione di Giona risponde con il cambiamento e il digiuno insieme a tutta la città. Ma Giona è indispettito perché Dio si manifesta a lui come un ‘Dio misericordioso e clemente, longanime e di grande amore, che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato’ (Gn 4,2).  Anziché accogliere tale volto di Dio Giona vive la delusione sino a chiedere ‘toglimi la vita’. La scena finale del racconto presenta l’opera paziente di educazione di Dio: suo desiderio è recuperare anche Giona ad un nuovo rapporto con lui e con gli altri. Così attorno alla pianta di ricino che per un momento arreca sollievo al profeta contrariato e poi velocemente appassisce per il caldo si articola la riflessione finale del libro, quale parola di Dio per Giona: ‘Tu ti dai pena per quella pianta di ricino … e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città” (Gn 4,10-11)

Dio si prende cura dei vicini e dei lontani e la sua opera è condurre gli uni e gli altri, in modi diversi, ad aprirsi ad un incontro nuovo con Lui e ad uno sguardo diverso sugli altri. C’è una benedizione di Dio sulla storia, e su ogni percorso umano che può aprirsi al bene, che raccoglie rafforza ed apre futuro.

Alla rigidezza di una religione che esclude e diventa strumento di inimicizia è contrapposto  un cammino – per Giona è un viaggio pericoloso – di scoperta della presenza di Dio oltre ogni limite e confine.

L’incontro con Dio è dono di presenza racchiuso e talvolta nascosto in ogni cammino che si apre all’incontro con l’altro.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno C – 2022

Es 3,1-8a.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

“Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”. Gesù si riferisce a due episodi della cronaca del suo tempo presenti alla memoria dei suoi interlocutori: il primo fatto è l’uccisione di un gruppo di galilei – mentre stavano compiendo sacrifici – da parte delle milizie romane di Pilato. Il secondo è il ricordo di un crollo improvviso di una torre a Gerusalemme che aveva causato molte vittime. Turbati da questi eventi, alcuni li leggevano come segni di un giudizio di Dio: dicevano infatti che le vittime nel tempio erano peccatori e Dio per questo li aveva puniti, così pure le vittime del crollo. Gesù manifesta un duro contrasto a questa lettura. Polemizza con l’idea di un Dio che castiga e colpisce l’uomo con il male e la morte.

Quei fatti in sé non manifestano un giudizio di Dio ma richiedono una presa di coscienza da parte dell’uomo: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Chi ha trovato morte in quei tragici eventi, dice Gesù, non è più peccatore di chi è rimasto in vita. Gesù invita così a trarre da tali eventi la sfida ad un cambiamento per tutti: è quindi innanzitutto un forte richiamo alla conversione. La chiamata di Dio ad ascoltare i suoi profeti e il suo ‘eletto’ è chiamata a cui rispondere senza rinvii e con urgenza.

Luca a questo punto aggiunge una parola di Gesù sulla misericordia di Dio. La parabola si riferisce ad un albero di fichi nella vigna che non porta frutto. I suoi ascoltatori  avevano ben presente che nella Bibbia la vigna è immagine usata ad indicare il popolo di Israele. Il vignaiolo chiede al padrone di attendere ancora, di non abbattere quell’albero sterile: ‘lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Accanto alla parola esigente sulla conversione è qui posto un altro insegnamento di Gesù di segno diverso: c’è un richiamo alla sterilità della vigna del Signore, ma insieme una parola sul pazientare di Dio, sulla sua capacità di attesa, oltre ogni previsione, che lascia tempo perché anche il fico possa portare frutto. C’è un pazientare di Dio che lascia spazio ad una conversione possibile. Il prolungamento del tempo apre occasione per una decisione e per una fecondità nuova, non certo per l’indifferenza. E’ una parola sulla cura di Dio perché l’invito alla conversione possa essere accolto.

Conversione nella Bibbia implica un cambio di direzione, esige un tornare al Signore: è cambiare mente e operare scelte di orientamento nuovo della vita. Un movimento interiore ed esteriore contemporaneamente. Consiste innanzitutto nel lasciarsi cambiare da Dio stesso, il Dio che agisce e si comunica nel suo agire nella storia. Convertirsi è movimento che investe la questione del rapporto con Dio stesso come Dio liberatore e vicino.

Alessandro Cortesi op

Di fronte alla violenza

La situazione della guerra in Ucraina provocata dall’ingiusta aggressione dell’esercito russo sta condizionando tutti ad assumere attitudini di rinuncia alla riflessione, a prendere posizione in senso manicheo senza tener conto della complessità, a cedere alla logica del contrasto alla violenza inaudita e ingiusta con altra violenza, a rinnovate affermazioni di ‘guerra giusta’ in un tempo in cui la presenza di armi così devastanti con capacità di distruzione di città e della popolazione civile è manifestazione che la guerra è solo barbarie e follia.  Come cercare a pace in un tempo di guerra? La follia della guerra nel tempo degli armamenti atomici (alienum a ratione – Pacem in terris 67)  è esito strettamente connesso a tutto ciò che la prepara, la introduce e la alimenta come la produzione ed il commercio di armi.

In questi giorni decisioni sono state prese nei parlamenti sull’onda di emozioni forti. In Germania il cancelliere Scholz ha dichiarato che in futuro la Germania si impegnerà ad aumentare le spese per la difesa almeno al 2 per cento del Pil. E sin d’ora viene stanziato un fondo speciale da 100 miliardi di euro per l’ammodernamento dell’esercito tedesco, la Bundeswehr. Una svolta epocale nella politica della Germania. Una corsa al riarmo preoccupante e  foriera di conseguenze che conducono ad alimentare la logica della guerra.

Alla Camera dei deputati italiana in questi giorni è stata presa una decisione analoga nella linea di impegnare il governo ad un aumento delle spese militari fino al 2% del PIL, il che significa passare da 68 a 104 milioni di euro al giorno destinati alle spese militari, da 25 a 38 miliardi di euro ogni anno. Si può anche ricordare che nell’ultimo documento di economia e finanza del governo Draghi si prevedeva un taglio di 6 miliardi di euro per la spesa sanitaria negli anni 2023-24. Non si trovavano i soldi per il bonus salute mentale, non si trovavano i soldi per un progetto di accoglienza di tutti i migranti mirante all’inclusione…

La logica delle armi sembra prevalere: e la domanda che si apre è quale alternativa possibile può far uscire dalla logica della guerra e delle armi in una spirale che nel tempo dell’arma atomica significa andare verso un conflitto di distruzione globale? E’ la medesima domanda che Aldo Capitini proponeva: “L’intelligenza umana ha dato prova di saper trovare congegni e soluzioni meravigliose; ora, e per di più ispirata da una corrente di amore, non saprebbe risolvere tanti casi che sembrano ardui? [Occorre] richiamarla a questo lavoro, invitarla a trovar soluzioni nuove per il campo della nonviolenza” (A.Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937, 127). Egli indicava tratti fondametali della scelta di nonviolenza che si pone non in termini passivi ma attivi di costruzione della pace, non con l’uso delle armi, ma con metodi di pace: “La nonviolenza non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo esser lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo. La nonviolenza non può accettare la realtà come si realizza ora, attraverso potenza e violenza e distruzione dei singoli, e perciò non è per la conservazione, ma per la trasformazione; ed è attivissima, interviene in mille modi, facendo come le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti figli. Nella società la nonviolenza suscita solidarietà viva e dal basso. Anche verso gli esseri non umani la nonviolenza ha un grande valore, appunto come ampliamento di amore e di collaborazione” (A.Capitini, Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, 141). Ben lungi dall’essere un attitudine passiva e di acquiescenza la nonviolenza si declina in termini positivi ed aperti ad un cambiamento effettivo die rapporti dei popoli:  “Della nonviolenza si può dare una definizione molto semplice: essa è la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani” (A.Capitini, La nonviolenza oggi, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, 29).

Indicando le ragioni della nonviolenza Aldo Capitini così le esprimeva: “Il nostro punto di vista è tuttavia diverso da quello di chi è per la nonviolenza per la ragione che Dio glielo comanda […] Noi siamo risaliti dal precetto di “non uccidere” così dentro alla realtà stessa di Dio, come Uno aperto a Tutti, che abbiamo visto convertirsi il comando in un atto di realizzazione di una realtà; altri tra di noi sono arrivati al “non uccidere” per l’interesse e l’affetto alle singole persone, elevato ad atto universale, per tutti; ed altri, avendo visto a che cosa si arriva una volta ammesso di usare la violenza: tra i danni dell’una e i danni dell’altra, quelli della nonviolenza portano, almeno un’educazione e una trasformazione dell’uomo. (…) Là dove la nonviolenza interviene è nel primato da dare; il mondialismo dice: facciamo un’assemblea mondiale ed un governo, e un codice, e una polizia mondiale; la nonviolenza dice: persuadiamoci della interna ragione dell’unità umana attraverso l’impegno nonviolento, poi vedremo le forme sociali che ne conseguono. Il mondialismo sembra più concreto, ma corre il rischio di mantenere la violenza e di appoggiarsi ad un impero vincente, e tutto resta quasi come prima; diminuirà qualche guerra, perché il diritto di farla rimane al centro dell’impero, ma è grave l’inconveniente che se questo governo mondiale fa ingiustizia, non c’è scampo (…) La nonviolenza, per quello che vede finora, considera ogni rapporto non in senso di autorità, potere, repressione, ma in senso federativo, orizzontale, aperto.” (A.Capitini, Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, 149-151).

E ancora indicava che la nonviolenza non è orientata alla conservazione, ma ad una profonda trasformazione (potremo individuare qui un modo altro per dire la ‘conversione’?): “E’ (…) un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com’è: più si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla, più si vede che essa ha un dinamismo tale che non può accettare il mondo com’è, ma porta tutto verso una trasformazione: l’umanità, la società, la realtà. Come strumento di conservazione del mondo, la nonviolenza è discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa ha un valore inesauribile, appunto perché non fa modificazioni e spostamenti in superficie, ma va nel profondo, al punto centrale. E un altro e simile errore è credere che la nonviolenza sia contro le violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell’umanità, della società, della realtà. Se fosse così, la nonviolenza sarebbe conservatrice e accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l’umanità, la società, la realtà, come sono ora. Non accetta la realtà dove l’animale grande mangia l’animale piccolo; (…) non accetta la fortuna dei forti e dei potenti, e perciò tende a soccorrere i deboli, gli stroncati; non accetta il potere e la ricchezza privata, e perciò tende a costituire forme di federalismo nonviolento dal basso e forme di aiuto e reciprocità sociale e fruizione comune di beni sempre più larghe. Perciò essa tende a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali. (…) La guerra invece è il mostro più immane di questo uso di schemi, che divora le singole individualità: non ci sono che i nostri e i nemici; è perciò sommamente diseducatrice. (…) la nonviolenza non può mettersi nel mondo così com’è, e lasciarlo tale e quale; la nonviolenza è lotta (contro se stessi, le proprie tendenze, i propri sogni di quiete), è dramma tormentoso, è spinta a scegliere ciò a cui uno tiene di più, a fare una prospettiva; (…) Ora, in una società se io sto inerte, sono colpevole. Ma se io, pur essendo per la nonviolenza, sono attivissimo, e con quella scelta e quella fede, la vivo e la concreto e la diffondo con il mio costume, sono a posto con la società. (Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, 145-147)

Nel messaggio per la giornata della pace del 2017 dedicata al tema “la nonviolenza stile di una politica per la pace” papa Francesco ha scritto:

“3. Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».

Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio». Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”». Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».

4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo». Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».  (…) La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia (…)”.

Franco Arminio sollecita ad una riflessione sul sistema iniquo che sta alla radice della guerra (Pace vigilata, ecco chi sono i compagni della guerra, “Il Fatto Quotidiano” 18 marzo 2022)

Cominciamo dalle campagne.
Nelle campagne italiane ci sono gli schiavi.
Le imprese agricole devono vendere ai supermercati
a prezzi bassi, dunque debbono pagare pochissimo
chi lavora e questo pochissimo lo può accettare
solo chi scappa da paesi poverissimi
e senza democrazia, senza possibilità di lottare
per trasformarli.
Chi tiene in mano i grandi supermercati?
I ricchi. L’agricoltura industriale fa danni al pianeta,
produce prodotti scadenti e produce feudalesimo.
Chi costruisce le armi nel mondo?
Non le producono certamente i poveri.
Il mondo è pieno di criminali e Putin
ne è un fulgido esempio
ma il criminale con cui tutti dobbiamo fare i conti
è il capitalismo e il capitalismo è ovunque,
ma ha un centro e si chiama Stati Uniti.
La centrale del disordine mondiale si chiama Pentagono.
Cosa farebbero gli Stati Uniti se il Messico decidesse
di ospitare sul suo territorio esercitazioni militari
della Russia o della Cina?
Se scoppiano le guerre è anche per il fatto
che ci sono delle armi da vendere
e dovrebbe suscitare qualche sospetto
una nazione che da sola ha le stesse armi
di tutto il mondo messo insieme.
Allora l’Ucraina deve essere libera e sovrana,
ma questo deve valere per tutte le nazioni del mondo,
è una infamia senza fine anche solo una goccia di sangue
sulla fronte di un bambino.
Non è un cattivo compromesso che

qui ed ora l’Ucraina si accontenti di essere neutrale,
almeno fino a quando non vengono smantellati
gli arsenali atomici.
Dunque una pace vigilata si può fare già da domani.
Se non accade la colpa è di Putin e noi siamo tutti
suoi alleati, a cominciare dagli americani.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento anno C

Sof 3,14-18; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

Inviti alla gioia attraversano le letture e rinviano alle radici della fede come affidamento a Dio che non dimentica e si prende cura dei suoi figli.

Gerusalemme, città situata sul monte Sion, è presentata quasi come figura personalizzata insieme ai suoi abitanti: ‘la figlia di Sion’ termine collettivo evoca un intero popolo. Il profeta vede la presenza del Signore in mezzo al suo popolo che prende con sé i giusti e porta serenità e pace. La sua presenza risponde ad attese profonde e la gioia umana diviene riflesso della gioia stessa di Dio che viene per i poveri. La sua presenza scaccia il male e la sventura e genera nuova accoglienza. L’annuncio del profeta riguarda così ‘Dio che viene’ non con tratti minacciosi ma arrecando gioia. Il suo venire suscita rapporti nuovi. “Gioisci figlia di Sion… non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia!…”.

Paolo riprende questo invito ed indica uno stile di vita da coltivare alla comunità a cui è profondamente legato: ‘Siate sempre lieti perché appartenete al Signore’. Essere nel Signore significa poter vivere nella certezza che Lui si prende cura di noi, anche nel dolore e nella crisi. “rallegratevi nel Signore, sempre: ve lo ripeto, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Non angustiatevi per nulla” (Fil 4,4)

Giovanni Battista, il profeta del deserto, interrogato dalle folle che gli chiedono ‘Che cosa dobbiamo fare?’ indica un cambiamento da attuare. Pone l’esigenza e l’urgenza di una assunzione di  responsabilità. Nella vita è in atto un grande giudizio: tutto ciò che non ha valore verrà disperso come il grano quando è separato dalla pula. Le sue parole sono radicali nel presentare esigenze concrete per una prassi rinnovata. Indica una direzione chiara su cui impostare in modi nuovi l’esistenza: si tratta di operare scelte di condivisione e di giustizia. In tale prassi di giustizia si esprime la fede nel Dio liberatore dell’esodo. Giovanni richiama a scelte che coinvolgano l’esistenza e indica orizzonti concreti: rifuggire dall’idolatria del denaro, dell’orgoglio, del dominio, da ogni comportamento che opprime ed esclude. Denuncia così la vacuità di ciò che deve essere tralasciato per ricercare nella vita l’essenziale. La pula è immagine concreta che rinvia a tutto quello che è privo di consistenza, non ha capacità di nutrire la vita e dev’essere eliminato: indica così tutti gli idoli (cf. Os 13,3) e il comportamento ingiusto (Sal 1,4). La sua testimonianza non è finalizzata ad attirare su di sé ma è rivolta ad altro: Giovanni così indica la presenza di ‘uno più forte’ che sta per venire e allude a Gesù.

C’è una spiritualità della gioia da coltivare nel quotidiano. In tempi di angustia e crisi la speranza gioiosa è espressione di una fede che si radica nella promessa del Dio fedele e si traduce nell’orientamento ad un impegno che coinvolge la vita e la orienta secondo scelte di giustizia.

Alessandro Cortesi op

Lesbo 2021

Richiami insistenti: Francesco in Grecia

Nel recente viaggio in Grecia papa Francesco ha sollevato alcuni temi fondamentali per il presente  e il futuro dell’Europa e non solo. In alcuni intensi discorsi ha indicato ambiti su cui è urgente intraprendere un impegno comune in direzione diversa e rinnovata rispetto a quella in atto. Ha infatti indicato gli ambiti della migrazione come questione globale, strutturale e su cui si verifica la possibilità di futuro di una civiltà; in secondo luogo ha parlato della crisi della democrazia e dell’importanza oggi di indicare vie di rinnovamento per una prospettiva di convivere solidale a partire dall’ascolto dei più deboli nella società; in terzo luogo ha posto la questione della responsabilità dell’Unione europea e dell’occidente nel suo insieme nel contesto mondiale parlando di naufragio di civiltà. L’Unione europea è progetto che ha visto il suo nascere a partire dall’affermazione di diritti inalienabili e dello stato di diritto e che oggi vive incertezze, inadempienza ed un autentico naufragio di civiltà. Sono questioni che sono state presenti in diversi modi negli interventi di cui si richiamano qui di seguito alcuni passaggi fondamentali.    

A Cipro il 2 dicembre nel discorso di saluto alle autorità ha detto:

“Proprio i tempi che non paiono propizi e nei quali il dialogo langue sono quelli che possono preparare la pace. Ce lo ricorda ancora la perla, che diventa tale nella pazienza oscura di tessere sostanze nuove insieme all’agente che l’ha ferita. In questi frangenti non si lasci prevalere l’odio, non si rinunci a curare le ferite, non si dimentichi la situazione delle persone scomparse. E quando viene la tentazione di scoraggiarsi, si pensi alle generazioni future, che desiderano ereditare un mondo pacificato, collaborativo, coeso, non abitato da rivalità perenni e inquinato da contese irrisolte. A questo serve il dialogo, senza il quale crescono sospetto e risentimento. Ci sia di riferimento il Mediterraneo, ora purtroppo luogo di conflitti e di tragedie umanitarie; nella sua bellezza profonda è il mare nostrum, il mare di tutti i popoli che vi si affacciano per essere collegati, non divisi. Cipro, crocevia geografico, storico, culturale e religioso, ha questa posizione per attuare un’azione di pace. Sia un cantiere aperto di pace nel Mediterraneo”.

Rivolgendosi alle autorità al palazzo presidenziale di Atene il 4 dicembre ha detto:

“…in questa città lo sguardo, oltre che verso l’Alto, viene sospinto anche verso l’altro. Ce lo ricorda il mare, su cui Atene si affaccia e che orienta la vocazione di questa terra, posta nel cuore del Mediterraneo per essere ponte tra le genti. Qui grandi storici si sono appassionati nel raccontare le storie dei popoli vicini e lontani. Qui, secondo la nota affermazione di Socrate, si è iniziato a sentirsi cittadini non solo della propria patria, ma del mondo intero. Cittadini: qui l’uomo ha preso coscienza di essere “un animale politico” (cfr Aristotele, Politica, I, 2) e, in quanto parte di una comunità, ha visto negli altri non dei sudditi, ma dei cittadini, con i quali organizzare insieme la polis. Qui è nata la democrazia. La culla, millenni dopo, è diventata una casa, una grande casa di popoli democratici: mi riferisco all’Unione Europea e al sogno di pace e fraternità che rappresenta per tanti popoli.

Non si può, tuttavia, che constatare con preoccupazione come oggi, non solo nel Continente europeo, si registri un arretramento della democrazia. Essa richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza. È complessa, mentre l’autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populismi appaiono allettanti. In diverse società, preoccupate della sicurezza e anestetizzate dal consumismo, stanchezza e malcontento portano a una sorta di “scetticismo democratico”. Ma la partecipazione di tutti è un’esigenza fondamentale; non solo per raggiungere obiettivi comuni, ma perché risponde a quello che siamo: esseri sociali, irripetibili e al tempo stesso interdipendenti.

Ma c’è pure uno scetticismo nei confronti della democrazia provocato dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia. Il rimedio a ciò non sta nella ricerca ossessiva di popolarità, nella sete di visibilità, nella proclamazione di promesse impossibili o nell’adesione ad astratte colonizzazioni ideologiche, ma sta nella buona politica. Perché la politica è cosa buona e tale deve essere nella pratica, in quanto responsabilità somma del cittadino, in quanto arte del bene comune. Affinché il bene sia davvero partecipato, un’attenzione particolare, direi prioritaria, va rivolta alle fasce più deboli. (…)

Guardando ancora al Mediterraneo, mare che ci apre all’altro, penso alle sue rive fertili e all’albero che potrebbe assurgerne a simbolo: l’ulivo, di cui si sono appena raccolti i frutti e che accomuna terre diverse che si affacciano sull’unico mare. È triste vedere come negli ultimi anni molti ulivi secolari siano bruciati, consumati da incendi spesso causati da condizioni metereologiche avverse, a loro volta provocate dai cambiamenti climatici. Di fronte al paesaggio ferito di questo meraviglioso Paese, l’albero di ulivo può simboleggiare la volontà di contrastare la crisi climatica e le sue devastazioni.   (…)

L’ulivo, nella Scrittura, rappresenta anche un invito a essere solidali, in particolare nei riguardi di quanti non appartengono al proprio popolo. «Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero», dice la Bibbia (Dt 24,20). Questo Paese, improntato all’accoglienza, ha visto in alcune sue isole approdare un numero di fratelli e sorelle migranti superiore agli abitanti stessi, accrescendo così i disagi, che ancora risentono delle fatiche della crisi economica. Ma anche il temporeggiare europeo perdura: la Comunità europea, lacerata da egoismi nazionalistici, anziché essere traino di solidarietà, alcune volte appare bloccata e scoordinata. Se un tempo i contrasti ideologici impedivano la costruzione di ponti tra l’est e l’ovest del continente, oggi la questione migratoria ha aperto falle anche tra il sud e il nord. Vorrei esortare nuovamente a una visione d’insieme, comunitaria, di fronte alla questione migratoria, e incoraggiare a rivolgere attenzione ai più bisognosi perché, secondo le possibilità di ciascun Paese, siano accolti, protetti, promossi e integrati nel pieno rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità. Più che un ostacolo per il presente, ciò rappresenta una garanzia per il futuro, perché sia nel segno di una convivenza pacifica con quanti sempre di più sono costretti a fuggire in cerca di casa e di speranza. Loro sono i protagonisti di una terribile moderna odissea. Mi piace ricordare che quando Ulisse approdò a Itaca non fu riconosciuto dai signori del luogo, che gli avevano usurpato casa e beni, ma da chi si era preso cura di lui. La sua nutrice capì che era lui vedendo le sue cicatrici. Le sofferenze ci accomunano e riconoscere l’appartenenza alla stessa fragile umanità sarà di aiuto per costruire un futuro più integrato e pacifico. Trasformiamo in audace opportunità ciò che sembra solo una malcapitata avversità!. La pandemia è invece la grande avversità. Ci ha fatti riscoprire fragili, bisognosi degli altri”.

Particolarmente intenso e toccante il dialogo avuto il 3 dicembre a Nicosia nella preghiera ecumenica con i migranti:

Un grande “grazie” dal cuore desidero dire a voi, giovani migranti, che avete dato le vostre testimonianze. (…) Dopo aver ascoltato voi, comprendiamo meglio tutta la forza profetica della Parola di Dio che, attraverso l’apostolo Paolo, dice: «Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi, familiari di Dio» (Ef 2,19). Parole scritte ai cristiani di Efeso – non lontano da qui! –; molto distanti nel tempo, ma parole vicinissime, più attuali che mai, come scritte oggi per noi: “Voi non siete stranieri, ma concittadini”. Questa è la profezia della Chiesa: una comunità che – con tutti i limiti umani – incarna il sogno di Dio. Perché anche Dio sogna, come te, Mariamie, che vieni dalla Repubblica Democratica del Congo e ti sei definita “piena di sogni”. Come te Dio sogna un mondo di pace, in cui i suoi figli vivono come fratelli e sorelle. Dio vuole questo, Dio sogna questo. Siamo noi a non volerlo.

La vostra presenza, fratelli e sorelle migranti, è molto significativa per questa celebrazione. Le vostre testimonianze sono come uno “specchio” per noi, comunità cristiane. Quando tu, Thamara, che vieni dallo Sri Lanka, dici: “Spesso mi viene chiesto chi sono”: la brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità. (…) Quando tu, Maccolins, che vieni dal Camerun, dici che nel corso della tua vita sei stato “ferito dall’odio”, tu stai parlando di questo, di queste ferite degli interessi; e ci ricordi che l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani. (…) Quando tu, Rozh, che vieni dall’Iraq, dici che sei “una persona in viaggio”, ci ricordi che anche noi siamo comunità in viaggio, siamo in cammino dal conflitto alla comunione. Su questa strada, che è lunga ed è fatta di salite e discese, non devono farci paura le differenze tra noi, ma piuttosto sì, devono farci paura le nostre chiusure, i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e di camminare insieme. (…)

E così Dio ci parla attraverso i vostri sogni. Il pericolo è che tante volte non lasciamo entrare i sogni, in noi, e preferiamo dormire e non sognare. È tanto facile guardare da un’altra parte. E in questo mondo ci siamo abituati a quella cultura dell’indifferenza, a quella cultura del guardare da un’altra parte, e addormentarci così, tranquilli. Ma per questa strada mai si può sognare. È duro. Dio parla attraverso i vostri sogni. Dio non parla attraverso le persone che non possono sognare niente, perché hanno tutto o perché il loro cuore si è indurito. Dio chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a non rassegnarci a comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio, cioè un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più stranieri ma solo concittadini, (…)

Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione – sto guardando il muro, lì [attraverso il portale aperto della chiesa] – possa diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità. (…)

è possibile che il sogno si traduca in un viaggio quotidiano, fatto di passi concreti dal conflitto alla comunione, dall’odio all’amore, dalla fuga all’incontro. Un cammino paziente che, giorno dopo giorno, ci fa entrare nella terra che Dio ha preparato per noi, la terra dove, se ti domandano: “Chi sei?”, puoi rispondere a viso aperto: “Guarda, sono tuo fratello: non mi conosci?”. E andare così, lentamente.

Ascoltando voi, guardandovi in faccia, la memoria va oltre, va alle sofferenze. Voi siete arrivati qui: ma quanti dei vostri fratelli e delle vostre sorelle sono rimasti per strada? Quanti disperati iniziano il cammino in condizioni molto difficili, anche precarie, e non sono potuti arrivare? Possiamo parlare di questo mare che è diventato un grande cimitero. Guardando voi, guardo le sofferenze del cammino, tanti che sono stati rapiti, venduti, sfruttati…, ancora sono in cammino, non sappiamo dove. È la storia di una schiavitù, una schiavitù universale. Noi guardiamo cosa succede, e il peggio è che ci stiamo abituando a questo. “Ah, sì, oggi è affondato un barcone, lì… tanti dispersi…”. Ma guarda che questo abituarsi è una malattia grave, è una malattia molto grave e non c’è antibiotico per questa malattia! Dobbiamo andare contro questo vizio dell’abituarsi a leggere queste tragedie nei giornali o sentirli in altri media. Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro perché li hanno respinti e sono finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini torturati, schiavizzati… Noi ci lamentiamo quando leggiamo le storie dei lager del secolo scorso, quelli dei nazisti, quelli di Stalin, ci lamentiamo quando vediamo questo e diciamo: “ma come mai è successo questo?”. Fratelli e sorelle: sta succedendo oggi, nelle coste vicine! Posti di schiavitù. Ho guardato alcune testimonianze filmate di questo: posti di tortura, di vendita di gente. Questo lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi. La migrazione forzata non è un’abitudine quasi turistica: per favore! E il peccato che abbiamo dentro ci spinge a pensarla così: “Mah, povera gente, povera gente!”. E con quel “povera gente” cancelliamo tutto. È la guerra di questo momento, è la sofferenza di fratelli e sorelle che noi non possiamo tacere. Coloro che hanno dato tutto quello che avevano per salire su un barcone, di notte, e poi… senza sapere se arriveranno… E poi, tanti respinti per finire nei lager, veri posti di confinamento e di tortura e di schiavitù.

Questa è la storia di questa civiltà sviluppata, che noi chiamiamo Occidente. E poi – scusatemi, ma vorrei dire quello che ho nel cuore, almeno per pregare l’uno per l’altro e fare qualcosa – poi, i fili spinati. Uno lo vedo qui: questa è una guerra di odio che divide un Paese. Ma i fili spinati, in altre parti dove ci sono, si mettono per non lasciare entrare il rifugiato, quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio e si trova davanti a un odio che si chiama filo spinato. Che il Signore risvegli la coscienza di tutti noi davanti a queste cose”.

Durante la visita ai migranti al “Reception and Identification Centre” a Mytilene domenica, 5 dicembre 2021 ha rivolto loro queste parole: “Sono qui per dirvi che vi sono vicino, e dirlo col cuore. Sono qui per vedere i vostri volti, per guardarvi negli occhi. Occhi carichi di paura e di attesa, occhi che hanno visto violenza e povertà, occhi solcati da troppe lacrime. (…)

quando i poveri vengono respinti si respinge la pace. Chiusure e nazionalismi – la storia lo insegna – portano a conseguenze disastrose. Infatti, come ha ricordato il Concilio Vaticano II, «la ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace» (Gaudium et spes, 78). È un’illusione pensare che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta. Il futuro ci metterà ancora più a contatto gli uni con gli altri. Per volgerlo al bene non servono azioni unilaterali, ma politiche di ampio respiro. La storia, ripeto, lo insegna, ma non lo abbiamo ancora imparato. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso che qualcuno è costretto a sobbarcarsi!

Sorelle, fratelli, i vostri volti, i vostri occhi ci chiedono di non girarci dall’altra parte, di non rinnegare l’umanità che ci accomuna, di fare nostre le vostre storie e di non dimenticare i vostri drammi. Ha scritto Elie Wiesel, testimone della più grande tragedia del secolo passato: «È perché ricordo la nostra comune origine che mi avvicino agli uomini miei fratelli. È perché mi rifiuto di dimenticare che il loro futuro è importante quanto il mio» (From the Kingdom of Memory, Reminiscences, New York, 1990, 10). In questa domenica, prego Dio di ridestarci dalla dimenticanza per chi soffre, di scuoterci dall’individualismo che esclude, di svegliare i cuori sordi ai bisogni del prossimo. E prego anche l’uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l’indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini! Contrastiamo alla radice il pensiero dominante, quello che ruota attorno al proprio io, ai propri egoismi personali e nazionali, che diventano misura e criterio di ogni cosa. (…)

In diverse società si stanno opponendo in modo ideologico sicurezza e solidarietà, locale e universale, tradizione e apertura. Piuttosto che parteggiare sulle idee, può essere d’aiuto partire dalla realtà: fermarsi, dilatare lo sguardo, immergerlo nei problemi della maggioranza dell’umanità, di tante popolazioni vittime di emergenze umanitarie che non hanno creato ma soltanto subito, spesso dopo lunghe storie di sfruttamento ancora in corso. È facile trascinare l’opinione pubblica istillando la paura dell’altro; perché invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri, delle guerre dimenticate e spesso lautamente finanziate, degli accordi economici fatti sulla pelle della gente, delle manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio? Perché non si parla di questo? Vanno affrontate le cause remote, non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica! Per rimuovere le cause profonde, non si possono solo tamponare le emergenze. Occorrono azioni concertate. Occorre approcciare i cambiamenti epocali con grandezza di visione. Perché non ci sono risposte facili a problemi complessi; c’è invece la necessità di accompagnare i processi dal di dentro, per superare le ghettizzazioni e favorire una lenta e indispensabile integrazione, per accogliere in modo fraterno e responsabile le culture e le tradizioni altrui.

Soprattutto, se vogliamo ripartire, guardiamo i volti dei bambini. Troviamo il coraggio di vergognarci davanti a loro, che sono innocenti e sono il futuro. Interpellano le nostre coscienze e ci chiedono: “Quale mondo volete darci?” Non scappiamo via frettolosamente dalle crude immagini dei loro piccoli corpi stesi inerti sulle spiagge. Il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, sta diventando un freddo cimitero senza lapidi. Questo grande bacino d’acqua, culla di tante civiltà, sembra ora uno specchio di morte. Non lasciamo che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro!Non permettiamo chequesto “mare dei ricordi” si trasformi nel “mare della dimenticanza”. Fratelli e sorelle, vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà!”.

Ha richiamato quanto il Patriarca Bartolomeo, cinque anni fa aveva detto su quest’isola: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura di voi non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono paura e divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso, 16 aprile 2016).

La forte provocazione a “mettere la realtà dell’uomo prima delle idee e delle ideologie, e a muovere passi svelti incontro a chi soffre” è uno dei forti messaggi di questo viaggio.

Alessandro Cortesi op

I domenica di Quaresima – anno B – 2021

Gn 9,8-15; 1Pt 3,18-22; Mc 1,12-15

“Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra”. L’arcobaleno è segno dell’alleanza, dono di salvezza proveniente da Dio. L’arcobaleno che unisce insieme cielo e terra esprime due grandi messaggi. Il primo riguarda l’inizio di una storia di armonia e di pace. L‘arco da guerra appeso per sempre e che non verrà più usato significa che il disegno di Dio sulla creazione e sulla storia umana in quanto vicenda di tutti i popoli è un disegno di pace in cui la violenza sia eliminata per sempre. Il secondo grande messaggio è che questo progetto riguarda non solo l’umanità ma tutta la creazione nella sua interezza. Il diluvio aveva rappresentato il prevalere di forze disordinate, della violenza e del male. Ora l’arco da guerra, simbolo di ogni arma, viene appeso per sempre. Sorge un progetto di pace che chiede di porre attenzione al rapporto che lega tutti gli esseri, inconsiderazione di tutti gli animali, le piante, le creature inanimate, gli elementi della creazione. E’ una alleanza  che coinvolge tutta l’umanità prima ancora della alleanza con Abramo e con il popolo d’Israele: guarda infatti a tutti i popoli e all’umanità nella diversità dei popoli. Ed indica un rapporto da coltivare e custodire, il rapporto con la terra e con tutti gli esseri creati: l’arcobaleno è segno che annuncia un orizzonte di vita: Dio si lega all’umanità indicando vie di pace e si lega all’intera creazione in quanto luogo di una riconciliazione che coinvolge insieme umanità ed ogni realtà creata, dagli animali a tutte le cose più piccole.

Nella lettera di Pietro il diluvio è richiamato in riferimento al battesimo: l’intera quaresima è cammino battesimale per riscoprire come nelle acque del battesimo, vi è un dono da accogliere di rinascita per aprire la vita ad una novità: la chiamata al cuore del cammino cristiano è diventare nuove creature in Cristo, nostra Pasqua.

La pagina del vangelo di Marco indica il senso del cammino di quaresima racchiuso nella narrazione delle tentazioni di Gesù nel deserto e nel suo primo annuncio del regno che si è fatto vicino e della chiamata ad una conversione come cambiamento della vita. Il testo dice solamente che Gesù viene ‘spinto fuori’ dallo Spirito, nel deserto: in risalto appare l’azione dello Spirito nella vita di Gesù quasi come forza che costringe. Lo Spirito sceso su Gesù nel battesimo ora lo conduce nel deserto e Gesù lì ripercorre il tempo simbolico dei quaranta giorni di Mosè (Es 24,18). E’ il medesimo cammino di Elia (Re 19,8) e in Gesù è riflesso l’intero cammino del popolo d’Israele (Dt 8,2). Condivide la prova e la fatica dei tanti cammini nel deserto, momenti di prova e di durezza. Proprio nel deserto, nonostante la prova, Israele aveva incontrato Dio come liberatore e vicino (Os 2,16) e Gesù nel deserto manifesta la sua fedeltà al Padre che guida la sua esistenza.

Al centro di questa scena vi è infatti il confronto con Satana, il divisore, personificazione di ogni dominio di male, il grande avversario con cui Gesù si confronta non solo in un momento, ma  in tutta la sua vita: Gesù è il più forte, venuto per legare il suo nemico e per saccheggiarne la dimora. In tutta la sua vita conduce una lotta contro il male nelle diverse forme in cui si presenta. La tentazione, che inizia nel deserto e lo accompagna fino alla croce, riguarda la questione del suo orientamento di fondo, il modo di concepire la sua identità. La tentazione di Gesù è la possibilità di non affidarsi al Padre Abbà, di non percorrere la via del dono di sé e di annuncio del regno fino alla fine. Ma nella prova Marco nel suo vangelo presenta Gesù nel suo pregare: “Abbà Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36) … La tentazione di Gesù è quella dei discepoli quando rifiutano di seguire il messia che vive la via del dono di sè fino alla fine.

La scena presentata da Marco di Gesù nel deserto pone in risalto la presenza delle bestie selvatiche e degli angeli. Una nuova armonia è inaugurata. Gesù inizia una creazione nuova segnata dalla pace, dall’accogliere un dono di riconciliazione che viene da Dio; anche le fiere sono presentate come animali tranquilli: una pace inedita inizia con tutte le creature. Nel deserto Gesù è presentato come uomo nuovo, il Messia che vince Satana perché sceglie la via del figlio dell’uomo venuto per servire e dare la sua vita. In questo sta la novità dell’annuncio del regno che diviene chiamata ad un cambiamento, per un mondo nuovo che inizia sin da ora, di rapporti fraterni, di accoglienza della vicinanza di Dio misericordia, di accoglienza conviviale.

Alessandro Cortesi op

Conversione

Lo spiritualismo diffuso che comporta il ritorno nostalgico a forme di vita religiosa centrate sulla pratica individualistica e su ricerche di sacralità espone al rischio di confondere le esigenze di un cammino di fede con le tranquillizzanti pratiche di una religione che appaga e fa sentire sicuri e immuni rispetto agli altri. Si può così vivere la quaresima secondo modalità che conducono a ripiegarsi in forme individualistiche preoccupate di fuggire il peccato in modo difensivo, nell’indifferenza a concepire la propria vita legata ad altri, nella preoccupazione unicamente della ‘salvezza della propria anima’. Sono questi modi pur ancora diffusi che rivelano incapacità di scorgere come le esigenze stesse del tempo quaresimale, la preghiera, l’elemosina, il digiuno, non sono pratiche di devozione che rinchiudono la vita in una sorta di narcisismo e compiacimento delle proprie virtù ma sono forti provocazioni a quel digiuno e a quel culto autentico che i profeti richiamavano con forza: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto” (Is 58,7-8).

Proprio l’immagine dell’arcobaleno che rinvia ad una alleanza con tutti i popoli e con la terra stessa ci può aiutare a scorgere esigenze di conversione non in termini di un individualismo ripiegato su di sè, egoista e indifferente, ma negli orizzonti di una risposta alle chiamate di Dio che si rendono vicine nei segni dei tempi. La crisi ecologica, l’emergenza ambientale, la situazione di degrado e  di devastazione delle risorse operata dall’umanità è un luogo di possibile risveglio di responsabilità per accogliere oggi un appello ad una conversione ecologica. E’ questa una autentica conversione a cui guardare e in cui porre in atto scelte concrete che non distolgono dal rapporto con gli altri, uomini e donne di una medesima famiglia umana. Tale conversione richiama a far proprio il cammino di Gesù in attenzione alle sofferenze della creazione e dei poveri. Sta qui un luogo di verifica del medesimo rapporto con il Dio di Gesù Cristo.

A tal riguardo  interessanti sono le sollecitazioni di Gaël Giraud, già professionista nel mondo della finanza e della banche, oggi gesuita e voce particolarmente attenta ad indicare percorsi di transizione ecologica: è questo infatti il titolo di una sua opera “Transizione ecologica” (ed. EMI 2015): “La transizione ecologica sta ai prossimi decenni come l’invenzione della stampa sta al XV secolo o la rivoluzione industriale al secolo XIX. O si riesce a innescare questa transizione e se ne parlerà nei libri di storia; o non si riesce, e forse se ne parlerà fra due generazioni, ma in termini ben diversi!”.

Egli ricorda alcuni tratti innanzitutto dell’emergenza ecologica che oggi stiamo vivendo: “a livello globale gli sconvolgimenti ecologici già iniziati sono molto importanti: l’estinzione della biodiversità (l’80% degli insetti sono scomparsi nelle aree naturali protette d’Europa), l’erosione del suolo e la diminuzione delle rese agricole (l’Italia ne è particolarmente colpita), la crescente scarsità di accesso all’acqua dolce (alcune regioni d’Italia potrebbero perdere fino all’80% di accesso all’acqua dolce entro il 2040, secondo i dati del World Resources Institute) a causa dello sconvolgimento del ciclo dell’acqua indotto dal cambiamento climatico. E il riscaldamento stesso causerà grandi trasformazioni: alcune zone d’Italia, calde e umide, diventeranno invivibili in estate già nella seconda metà di questo secolo. Tuttavia, non si tratterà di proteggerci con l’aria condizionata, perché l’aria condizionata è un grande emettitore di CO2.” (Gaël Giraud, autore del manifesto sulla Transizione ecologica: «L’Italia rinunci alla dipendenza dal petrolio»)

La sua analisi non si ferma alla denuncia delle condizioni di degrado ed alla elencazione di danni in atto ma indica anche orizzonti concreti di impegno: “Ci sono quattro aree principali di lavoro su cui dobbiamo concentrarci. Anzitutto, la trasformazione del mix energetico italiano verso le energie rinnovabili: eolico, fotovoltaico (ora sappiamo come fare il fotovoltaico organico che dipende molto poco dai minerali), geotermia e marea. In seconda battuta, va perseguita l’efficienza energetica negli edifici: sappiamo come realizzare edifici ad energia positiva, che producono più energia di quella che consumano. Dobbiamo quindi rinnovare tutti i nostri edifici a livello termico, iniziando da quelli pubblici. In terzo luogo, dobbiamo ottenere un’autentica efficienza energetica nei trasporti. Questo significa, a breve termine, mettere fine all’utilizzo dell’automobile termica, quella che funziona con energia derivata da carbone fossile. Con cosa dovremmo sostituirla? Con l’auto elettrica ma, soprattutto, con il treno. (…) Infine, i due settori economici – agricoltura e industria – vanno rinnovati, perseguendo l’agroecologia e l’industria verde. Abbiamo bisogno di un’industria che conserva acqua, energia e minerali, costruita sul riciclaggio massiccio di tutto il materiale non rinnovabile (riescono a farlo in Cina, perché non possiamo farlo noi?), sulla vendita di funzionalità (e non più oggetti), con manufatti molto semplici, facili da riparare e riciclare. Attenzione, esiste una grande e buona notizia: tutto questo straordinariamente crea posti di lavoro”. (Gaël Giraud, autore del manifesto sulla Transizione ecologica: «L’Italia rinunci alla dipendenza dal petrolio»)

Potrebbe sembrare che questo tipo di indicazioni poco abbia a che fare con modi consueti di intendere la spiritualità confusa con pratiche devozionali che spesso celano la coltivazione di un egoismo e indifferenza alla sofferenza dell’altro. Una spiritualità ad occhi aperti che non rimanga indifferente al grido di sofferenza della terra e dei poveri è proprio la grande provocazione di un tempo che richiama ad una solidarietà nuova con i poveri e con il creato. Essa comprende sguardo agli altri, ai popoli, alla famiglia umana interrelata e legata in un’unica vicenda in cui superare i fattori di iniquità e ingiustizia e sguardo a quell’altro particolare costituito dalla realtà creata che è anch’essa vittima degli egoismi e della insaziabile avarizia umana. Come ricorda papa Francesco nella lettera enciclica Laudato sì (2015, nn. 218-220):

“Ricordiamo il modello di san Francesco d’Assisi, per proporre una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale della persona. Questo esige anche di riconoscere i propri errori, peccati, vizi o negligenze, e pentirsi di cuore, cambiare dal di dentro. I Vescovi dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di riconciliazione con il creato: «Per realizzare questa riconciliazione dobbiamo esaminare le nostre vite e riconoscere in che modo offendiamo la creazione di Dio con le nostre azioni e con la nostra incapacità di agire. Dobbiamo fare l’esperienza di una conversione, di una trasformazione del cuore». 219. Tuttavia, non basta che ognuno sia migliore per risolvere una situazione tanto complessa come quella che affronta il mondo attuale. I singoli individui possono perdere la capacità e la libertà di vincere la logica della ragione strumentale e finiscono per soccombere a un consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali: «Le esigenze di quest’opera saranno così immense che le possibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente formati, non saranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di forze e una unità di contribuzioni”. La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria. 220. Tale conversione comporta vari atteggiamenti che si coniugano per attivare una cura generosa e piena di tenerezza. In primo luogo implica gratitudine e gratuità, vale a dire un riconoscimento del mondo come dono ricevuto dall’amore del Padre, che provoca come conseguenza disposizioni gratuite di rinuncia e gesti generosi anche se nessuno li vede o li riconosce: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra […] e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,3-4). Implica pure l’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale. Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri. Inoltre, facendo crescere le capacità peculiari che Dio ha dato a ciascun credente, la conversione ecologica lo conduce a sviluppare la sua creatività e il suo entusiasmo, al fine di risolvere i drammi del mondo, offrendosi a Dio «come sacrificio vivente, santo e gradito» (Rm 12,1). Non interpreta la propria superiorità come motivo di gloria personale o di dominio irresponsabile, ma come una diversa capacità che a sua volta gli impone una grave responsabilità che deriva dalla sua fede”.

Alessandro Cortesi op

       

XXVIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

Isaia utilizza l’immagine del banchetto per parlare di un incontro dei popoli che è visto come orizzonte finale della storia. Il monte di Sion sarà luogo del convergere di tanti cammini e Dio stesso avrà preparato un cibo da condividere tra tutti. Questo ritrovarsi nella festa e nella gioia di una tavola dove mangiare insieme è immagine di un futuro in cui la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro. Il Signore che prepara un banchetto di cibi buoni e abbondanti per tutti è anche colui che elimina la morte e toglie il velo che copre la faccia dei popoli. Apre la possibilità di una vista nuova, di incontro e di vita. L’immagine del banchetto nella Bibbia è poi stata utilizzata quale segno collegato alla venuta del messia che porta a compimento la promessa di Dio.

Nei vangeli si parla spesso di pasti a cui Gesù partecipò: alle nozze a Cana (Gv 2, 1-11), con i pubblicani e peccatori a casa di Matteo (Mt 9,10-13), nella casa di Simone in cui Gesù incontra la donna peccatrice (Lc 7,36-50), a casa di Zaccheo (Lc 19,1-9), attorno alla tavola a casa di Marta e Maria (Lc 10,38-42), la condivisione sui prati verdi della Galilea quando i pani vennero distribuiti (Mc 6,30-44; 8,1-9). Gesù visse poi in una cena il momento di addio ai suoi prima della sua morte. E’ poi una costante nei racconti pasquali l’insistenza sul ‘mangiare insieme’: con i due di Emmaus (Lc 24,30) e sulla riva del lago di Tiberiade (Gv 21,4-13).

Anche nel suo insegnamento Gesù spesso richiama l’immagine del banchetto ad es. nella parabola del grande banchetto (Lc 14,16-24), in quella delle vergini stolte e sagge con sullo sfondo una cena di nozze (Mt 25,1-12) e quando si trova ad ammirare la fede del centurione ricorda ancora questo stare a mensa con Abramo Isacco e  Giacobbe, in un banchetto futuro che raduna tutti i giusti da provenienze diverse: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La parabola degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) è posta nel contesto della discussione polemica di Gesù con le autorità giudaiche presso il tempio di Gerusalemme. E’ un momento di scontro in cui Gesù pone la sua critica contro coloro che vivono la religione come motivo di potere, senza attuare un cambiamento della vita, cioè una religione senza affidamento a Dio, ma ridotta a fatto identitario o a norme che escludono e rendono indifferenti. Le parole di Gesù vengono riprese dalla comunità di Matteo in un tempo successivo di scontro e polemiche tra comunità e giudaismo: il riferimento alla città data alle fiamme può essere un rinvio ai tragici eventi del 70 d.C. E’ peraltro certamente una parola rivolta ai capi dei sacerdoti e i farisei e notabili del popolo (Mt 21,45; 21,23).

In essa sono riunite due parabole con diverse accentuazioni La prima è quella del banchetto in cui gli invitati non accolgono l’invito, la seconda riguarda l’invitato senza la veste adatta per la festa.

Un re dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di indifferenza, di disprezzo e violenza. Gli invitati hanno altro di cui occuparsi sono in una condizione di sicurezza e di indifferenza: sono coloro che vivono la religione come una condizione di privilegio e di sicurezza e hanno perso di vita l’incontro con Dio stesso. E’ questa una parola di denuncia verso coloro i capi dei sacerdoti e notabili. A fronte di una mancata accoglienza del suo invito il padrone invia ancora i servi a chiamare ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’.

L’agire di Gesù manifesta come il Padre ami chi vive una condizione di peccato e si apre alla consapevolezza di essere salvato. Coloro invece che si credono giusti vivono una profonda difficoltà a cogliere la verità della loro vita di fronte a Dio, non avvertono l’esigenza di lasciarsi accogliere e perdonare da Dio. Gesù critica questa religiosità falsa indicandola come ‘ipocrisia’: è l’atteggiamento di chi solo manifesta una religiosità fatta di gesti esteriori per essere ammirati dagli uomini ma non coltiva il coinvolgimento interiore della fede (Mt 6,6.7.16). Matteo presenta la chiamata di Dio che fa entrare ‘buoni e cattivi’: Dio ama non allontanandosi dai peccatori, ma assumendo su di sé il peccato e perdonando, offrendo misericordia.

La scena del banchetto si tramuta rapidamente in una scena di tribunale: c’è un invitato che non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. Nel linguaggio biblico la veste indica il comportamento degli uomini, l’agire, la coerenza tra fede e vita (in Ap 19,8, la veste di lino, data alla sposa dell’agnello, indica ‘le opere giuste dei santi’). Partecipare al banchetto è incontro con Dio che richiede un cambiamento della vita nei gesti, nelle scelte, nel modo concreto di condurre la vita.

Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una religiosità che si nutre solo di proclamazioni senza riferimento alla vita: ‘Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli’ (Mt 7,21).

La parabola richiama che la via per partecipare al banchetto dell’incontro con Dio è l’operare seguendo Gesù in modo concreto aprendosi alla fraternità. In ciò si fa la volontà del Padre: non nel rivendicare una appartenenza di gruppo o una sicurezza derivante dal ruolo religioso ma nel compiere scelte e gesti di cura e accoglienza verso l’altro (Mt 16,27; 25,31-46).

Alessandro Cortesi op

Invito

La tradizione palestinese del wajib prevede che le partecipazioni ad un matrimonio siano recapitate personalmente e direttamente a ciascuno degli invitati. Centinaia di inviti casa per casa: famiglie amiche, zii e zie, cugini e cugine, familiari di diverso grado.

Nel film di Annemarie Jacir, che nel titolo richiama tale tradizione, è questo il compito a cui si dedica Abu Shadi, stimato insegnante arabo che si prepara a diventare preside, alla vigilia del matrimonio della figlia Amal in un periodo che si avvicina al Natale.

Shadi, suo figlio, architetto che da anni ha lasciato la Palestina e vive a Roma, è rientrato a Nazareth per aiutarlo nell’impegno della distribuzione degli inviti. Il film descrive le numerose visite condotte in ottemperanza a tale dovere. Padre e figlio si recano su per ripide scale o in mezzo a popolosi condomini, presso conoscenti e amici entrando nelle diverse case e ambienti di vita.

Le visite accompagnano a cogliere la vita di una rete di relazioni di famiglie e amici. Nel percorrere ampie strade congestionate dal traffico o strette vie di una Nazareth contemporanea paradigma di diversità e complessità, si illuminano frammenti di piccole storie personali o familiari intrecciate e collocate nella storia più grande del conflitto tra palestinesi e israeliani che segna pesantemente le esistenze e la vita cittadina.

Le scelte del figlio Shadi di rimanere a vivere lontano, in Italia, la sua convivenza con la sua compagna che ha un padre dell’OLP, il suo stesso lavoro, ma anche il suo modo di vestire non corrisponde alle attese del padre, anzi incontra un lui un profondo e sofferto rifiuto. Nel distribuire gli inviti emergono progressivamente differenze sia per la distanza generazionale sia per un diverso modo di guardare e affrontare la realtà. Si vengono anche a conoscere aspetti nascosti della storia familiare in cui la madre da tempo ha lasciato la famiglia. Ora, attesa per il matrimonio imminente, vive all’estero con un nuovo marito che proprio in quei giorni sta per morire.

“E’ con la saggezza che si costruisce una casa ed è con la comprensione che la si fortifica”: questa è la frase posta nell’invito di nozze di Amal. Emerge una tensione di fondo tra l’assuefazione di Abu Shadi nel dover vivere in una condizione di oppressione e di sudditanza in una situazione di dolore e conflitto accettato con rassegnazione e il senso di rivolta e di libertà del figlio che non intende accettare e non riesce a comprendere quanto realtà di ingiustizia e conflitto possano condizionare la quotidianità.

Su tutto prevale tuttavia una profonda nostalgia per una sintonia e complicità vissuta in un tempo lontano, una stagione della vita felice: si fanno strada progressivamente parole di sincerità e di autentica comunicazione tra figlio e padre. E si delinea anche il profilo più autentico dell’interiorità di un padre che soffre la solitudine e il senso di impotenza di fronte alla complessità della vita: malato di cuore e nel contempo capace di una sensibilità all’altro celata da una ruvidezza.

Il film di Annemarie Jacir è motivo per riflettere sul significato dell’invito a partecipare ad una festa di nozze, paradigma di intreccio di vite e storie, momento dell’esperienza umana che rinvia all’intreccio delle relazioni nella loro complessità gioie e interruzioni. E’ anche rinvio a scorgere la nostalgia di incontro che ogni festa di nozze con i suoi inviti reca con sè. “Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze…”

Alessandro Cortesi op

Link al film: Annemarie Jacir, Wajib – Invito al matrimonio 2017

Lettura di una immagine

La parabola del banchetto e degli invitati – Codex aureus Epternacensis (f 77v)

L’immagine va letta dal basso verso l’alto. In basso a sinistra sono raffigurati i poveri e gli ammalati, invitati da un servo e con fatica raggiungono la sala del banchetto. Nella fascia in alto a sinistra si ritrovano i poveri (indicati con la scritta pauperes) seduti con chi li ha invitato (homo quidam) ad una tavola apparecchiata e con i cibi. Nella fascia centrale – con riferimento alla versione della parabola di Luca (Lc 14,18-20) a destra si può vediamo l’uomo invitato che ha comprato un campo e un altro con i suoi buoi. Il terzo invitato si vede in basso a destra insieme con la sua sposa perché si è sposato e si scusa di non poter accettare l’invito alle nozze. I tre che rifiutano l’invito si voltano in un’altra direzione, mentre i poveri tendono verso l’alto. Il servitore in piedi accanto al tavolo sulla destra arriva portando il cibo e nella mano sinistra regge un bastone bianco girato verso il basso. Questo gesto, insieme alla parte del tavolo vuoto alla destra dell’ospite, sta ad indicare che l’invito è stato ripetuto.

Nella figura dell’ospite è racchuso il riferimento a Dio stesso, che ha invitato tutte le persone a sé. Chi viene invitato per primo si scusa e si giustifica di non poter partecipare perché ha cose migliori e più importanti da fare. D’altra parte, i poveri accettano volentieri l’invito. Con fatica e con l’aiuto ma tutti sostenuti dalla grazia di Dio, sono arrivati alla mensa del Signore. La tavola preparata a festa, le scodelle d’oro e il pane segnato con una croce indicano la mensa eucaristica e la comunione in cielo. Il povero seduto accanto al padrone di casa viene preso per mano. Un gesto che esprime il desiderio di Dio di avere accanto a sé tutti coloro che invita e lo sguardo di amore che rivolge perché si giunga ad accogliere il suo invito di comunione. (ac)

XXVI domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Ez 18,25-28; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

Ezechiele è il primo profeta a porre con forza in Israele la questione della responsabilità personale: una vita non dipende da quanto i propri predecessori o parenti hanno compiuto. L’idea che la colpa si trasmette di padre in figlio era profondamente radicata e generava la visione di una responsabilità collettiva. Solo progressivamente nel Primo Testamento si giunge a superare tale modo di pensare.

Ezechiele afferma che se una persona ha commesso un’ingiustizia la colpa non ricade sui suoi parenti o vicini. Ognuno è chiamato a rispondere dei propri comportamenti. A ciò aggiunge – facendosi voce della misericordia di Dio – che è possibile sempre un cambiamento fecondo di vita nuova. “se l’ingiusto desiste dall’ingiustizia  che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso”. Chi compie il male ne è responsabile ma non dev’essere marchiato per sempre per i suoi atti sbagliati: vi è possibilità per tutti di un cambiamento. Se l’ingiusto desiste dall’ingiustizia fa vivere se stesso. Ezechiele introduce così l’idea che una persona può cambiare smettere di fare il male e operare il bene . E’ possibile, sempre, la conversione, un orientamento globale dell’esistenza che giunge ad esprimersi anche in una trasformazione di comportamenti, ma è ben di più. Invita a scorgere l’urgenza della conversione per tutti. Ognuno nel proprio cuore sa che coabitano desiderio di bene e tendenza al male; ognuno sa che nella vita ha compiuto scelte di bene e gesti di infedeltà e ingiustizia. La parola del profeta apre alla speranza: per tutti è aperta la via della conversione quale chiamata di un Dio che desidera la vita e non la morte del peccatore.

“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli…” Gesù conosce il cuore umano. Parla di due figli: il primo risponde di sì e poi non va a lavorare nella vigna, il secondo dice no e invece poi ci va.  “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?”. La parabola intende provocare a considerare l’importanza non tanto delle parole ma della pratica di vita: “Non chi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. E’ questo un insegnamento caro alla comunità di Matteo. “E’ meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo” ribadirà Ignazio di Antiochia nel II secolo scrivendo agli Efesini. Si può anche leggere la parabola scorgendo un appello ad esaminare il proprio cuore: nell’intimo di ogni cuore può essere presente il profilo dell’uno e dell’altro dei due figli. L’impegno della vita è da un lato ascoltare la voce del Padre, ma questo richiede anche una decisione che conduce alla concretezza dell’agire, un aprirsi alla passione del Padre per la vigna in cui c’è necessità di lavoro, di coltivazione, di cura. Non è allora importante dire sì o no, o manifestarlo senza poi fare nulla. Importante è muoversi in un impegno concreto nella vigna degli incontri umani, della storia.

Nel vangelo di Matteo questo brano introduce una serie di scontri tra Gesù e farisei e sadducei, i primi osservatori puntuali alla legge, i secondi legati ai sacerdoti, al culto e al tempio. Coloro che dovevano essere i più preparati e attenti ad accogliere l’annuncio di Gesù, le persone religiose, gli uomini del culto, sono proprio coloro che lo rifiutano. Di fronte ai testimoni e ai profeti, come Giovanni, farisei e sadducei si oppongono proprio perché l’annuncio destabilizza una gestione del potere ed un sistema religioso ben definito.

Gesù al riguardo ha parole taglienti: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Indica così innanzitutto come nel cuore di ciascuno, anche di chi è ritenuto lontano dalla salvezza o indegno dal punto di vista morale, è presente un bene da scorgere. In queste persone che sono le prime che Gesù accostava manifestando il volto di un Dio del perdono scorge l’apertura sincera, il disinteresse, il non avere paura di perdere la faccia nel cambiare. Tutto il contrario dell’ipocrisia propria di un mondo religioso chiuso alla inquietudine e alla ricerca.

In una lettera appassionata e segnata dal desiderio di comunicare la profonda gioia cristiana, che rimane presente anche nella prova, Paolo ai Filippesi scrive: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù”. In queste parole sta la radice di uno stile di vita che fa proprie le scelte di Gesù secondo la via da lui percorsa.

Alessandro Cortesi op

Cambiamento / conversione

Il tempo della pandemia che stiamo vivendo è un passaggio che coinvolge tutta l’umanità con un peso di dolore che attraversa il mondo, dolore delle morti – si sta raggiungendo la quota di  un milione di morti a livello mondiale – dolore di tutti i malati e delle persone coinvolte in vario modo e sofferenze dovute alle conseguenze economiche e sociali della chiusura di attività, alla mancanza del lavoro. 

E’ un tempo in cui si affaccia la domanda ‘come sarà il domani?’. Da più parti si evoca un ritorno alla normalità per poter riprendere i ritmi e modi di una vita che dal punto di vista attuale nelle restrizioni del presente, appaiono un riferimento rassicurante. Ma ad una considerazione più attenta la domanda sul domani dovrebbe rimanere connessa ad una domanda su quel passato di normalità a cui si vorrebbe tornare con nostalgia.

Lo stesso sviluppo del virus nel salto di specie causato dall’intervento umano di devastazione delle foreste e degli ecosistemi, la sua diffusione in aree segnate da un pesante inquinamento dell’aria e da squilibri ambientali dovuti a modi di produzione irrispettosi dell’ambiente, sono segnali che indicano come quella ‘normalità di prima’ non possa essere indicata a modello di un pronto ritorno.

I mesi del lockdown e della pandemia hanno anche rivelato l’importanza per il vivere sociale di una rete sanitaria pubblica che garantisca un livello di cura dignitoso per tutti, hanno manifestato quanto siano fondamentali rapporti di vicinanza e prossimità nell’accompagnare chi è più debole e fragile, hanno rivelato che le vite di tutti sono interrelate, hanno portato a considerare la rilevanza per la vita sociale della scuola e di tutte le attività educative ad essa connesse, hanno messo in evidenza le grandi disparità e ingiustizie nel mondo del lavoro, hanno portato a consapevolezza come una società fondata sulla competizione e sull’arricchimento di pochi sia luogo di incubazione di malesseri e disagi che si riversano su tutti e conducono a perdere di vista la stessa umanità e la medesima possibilità di convivere insieme.

‘Tornare alla normalità’  è quindi un’espressione ambigua che potrebbe trovare correzione in un impegno di tipo diverso, certamente teso a superare l’emergenza sanitaria, un passaggio che appare sempre più attuabile solo se vissuto nella responsabilità diffusa da parte di tutti, ma indirizzando le energie e la creatività verso un cambiamento di stili di vita, per smascherare la normalità di un modello di econmia, di stili di vita che hanno incubato il virus che ora sta mietendo vittime, e per orientarsi ad un modo nuovo di vivere insieme.

Gli orizzonti della solidarietà, della cura dei più fragili, di attenzione all’ambiente e agli equilibri degli ecosistemi, lo sguardo a coloro che sono invisibili e dimenticati, sono gli orizzonti che esigono un cambiamento che si pone nei termini di trasformazione.

Non tanto un ritorno alla normalità di prima dovrebbe essere l’obiettivo di questo tempo, quanto invece una trasformazione radicale alla luce della lezione che il Covid ci ha offerto. Nei primi giorni della pandemia la poetessa Mariangela Gualtieri richiamava a quel fermarsi come un appello: non potevamo andare avanti così in una corsa senza considerazione dell’altro, degli altri che verranno, di quell’altro che è la natura di cui siamo parte come umanità. Mohammed Yunus ha pubblicato un appello a ‘non tornare al mondo di prima’. E’ questo il tempo di un cambiamento che richiede quella ‘conversione ecologica’ a cui richiamava Alex Langer ed una trasformazione del modello economico del sistema neoliberista del mercato e del consumismo senza criteri che domina la società attuale.

Ma anche per la chiesa si pone la domanda di una conversione a partire dalla lezione che proviene dal Covid. Così Francesco Cosentino suggerisce di inaugurare una riflessione sulla trasformazione che innervi anche la vita delle comunità: “Ogni pagina che racconta la missione di Gesù ci consegna in filigrana lo scontro – talvolta drammatico – sulla novità che egli intende inaugurare e l’ostinata rigidità di chi è preoccupato solo di conservare il presente e, con esso, la propria tranquillità (…) Dobbiamo semplicemente riprendere lo stesso impianto pastorale e appiccicarlo a questo tempo? Il seme della Parola, circolato nelle case e con ogni altro mezzo durante il lockdown deve essere considerato un’eccezionalità da ricacciare nel dimenticatoio o, piuttosto, dovremmo riflettere su come l’avevamo trascurato, preferendo un cristianesimo devozionistico, superficiale, sacramentalizzato, senza percorsi formativi, senza spazi culturali, senza fede domestica e senza la centralità della Scrittura? Non ci sono risposte facili, ma almeno possiamo provare a porci le domande” (Francesco Cosentino, Il dono del tempo presente, “SettimanaNews” del 21 settembre 2020).

Alessandro Cortesi op

Un sostare nei giorni dell’epidemia – 26

img_7868Cliccando sul link qui sotto si apre un file con proposta per un momento di preghiera e riflessione (ved. i post precedenti per gli altri giorni).

Giorno 26 – conversione

Mercoledì delle ceneri – 2020

IMG_6870“Ritornate a me con tutto il cuore…” è l’invito che apre questo tempo di quaresima. Ritornare è movimento di conversione. Implica un fermarsi, una ricerca del giusto cammino, l’intraprendere una strada nuova. Tornare per riandare ad un’esperienza iniziale di incontro con Dio che per Israele è stata la liberazione dall’Egitto dove si è scoperto popolo in cammino chiamato a seguire Dio e servirlo. Nel percorso tante cose si sono sovrapposte alla meraviglia del dono di un incontro e di una chiamata , alla disponibilità a cercare Dio quale tesoro della propria vita, all’affidamento radicale del credere. Siamo invitati a riconoscere che ci siamo allontanati dallo stare con Lui, dal riconoscere la sua presenza nei nostri giorni, dall’ascolto della sua Parola. La quaresima invita ad un primo movimento di verità nella vita di ognuna o ognuno di noi. Ritornare non è movimento facile o che tocca aspetti marginali dell’esistenza, ma investe il cuore: “ritornate a me con tutto il cuore”: nel coinvolgimento del cuore sede delle scelte, degli orientamenti fondamentali dell’esistenza.

“ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso”. Ritornare è movimento che conduce a mettere Dio al centro, a scoprire il volto di un Dio di misericordia che non condanna ma accoglie, desidera aprire cammini di liberazione conosce la nostra debolezza e perdona.

“Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo”. Come Dio è un Dio che ama con cura e attenzione così a noi chiede di far nostra la sua cura per la terra. Come Dio è un Dio di compassione per il suo popolo, così a noi chiede di essere capaci di compassione. Compassione per gli altri vicini e compassione per quel popolo di Dio presente e nascosto nell’umanità. Quaresima apre ad uno sguardo decentrato da noi stessi, coinvolto nello stile di Dio.

“Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. Quaresima è momento favorevole nel nostro cammino per aprirci ad un’opera che non è nostra. E’ Dio che ci ha riconciliati con lui in Cristo “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”. La chiamata a ritorno, la conversione, ci coglie nella situazione di essere non riconciliati: non riconciliati con noi stessi, non riconciliati tra di noi, non riconciliati nei rapporti tra i popoli, non riconciliati nella relazione con la terra.

Riconciliare è l’opera di Dio: è dono che viene da Dio e la vita nuova del cristiano, essere nuova creatura, si apre nell’accogliere tale dono. Non ripiegati in se stessi, chiusi nelle pretese di difesa del proprio io ma aperti a legami comunitari, a trasmettere il servizio della riconciliazione.

Nella quaresima, quaranta giorni di un cammino tutto orientato verso la Pasqua, siamo invitati ad una riscoperta di Gesù e del suo vangelo, del significato per noi della sua croce, del suo amore vissuto fino alla fine. Ed insieme una riscoperta del nostro battesimo come dono da far fiorire in scelte nella vita, della nostra autenticità, del nome ricevuto come promessa. “Ci ha riconciliati per mezzo di Cristo e ha affidato a noi l’opera della riconciliazione”.

La quaresima è momento favorevole per vivere gesti concreti di relazioni nuove, con gli altri, con Dio, con la terra. Sono i gesti dell’apertura all’altro, della condivisione della vita dei poveri: “mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”. Sono i respiri della preghiera come esperienza di incontro con Dio che chiede ascolto e accoglienza nel cuore: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo…”.

Sono le scelte di sobrietà, di limitazione dei mezzi che usiamo per ricercare ciò che è essenziale liberandosi da quanto appesantisce la nostra vita e la rende incapace di ospitalità: “quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto”. Sono i gesti per vincere la ipocrisia togliendo le maschere e recuperare la semplicità di una vita secondo il vangelo.

“Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”.

Alessandro Cortesi op – san Domenico di Fiesole 26 febbraio 2020

III domenica tempo ordinario – anno A – 2020

IMG_6548Is 8,23b.9,1-3; 1Cor 1,10-17; Mt 4,12-23

In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…” Terra di Galilea, terra di pagani: una regione devastata dalle guerre, popolazioni di confine considerate male e con sospetto come pagani.

Isaia con lo sguardo lungo del profeta vede le tenebre di questa regione ai margini aprirsi ad una luce e ad una gioia nuova: annuncia una liberazione e la speranza che un re, ancora bambino, avrebbe portato luce e pace. E’ l’annuncio di un giorno in cui il diritto e la giustizia sono ristabiliti. Una luce grande entra nella storia proprio nella terra di confine, degli incroci, dei mescolamenti e dell’emarginazione. Isaia scorge un cammino di popolo dalle tenebre alla luce.

All’inizio del suo racconto Matteo riprende questo testo di Isaia e presenta Gesù che ritorna verso la Galilea. Vi si reca dopo il ritiro nel deserto e dopo che Giovanni Battista è arrestato. Giovanni Battista è consegnato nella sua passione e morte. In questo momento in cui Gesù, venuto a conoscenza di quanto era accaduto a Giovanni, poteva comprendere ciò a cui egli stesso andava incontro, si reca nella provincia dei pagani, nel territorio di confine, dei marginali: il suo essere messia parte da lì, segue vie che non corrispondono a progetti di potenza. Torna in Galilea, ma a Cafarnao, villaggio degli incontri, con coloro che sono dimenticati e esclusi dove i suoi incontri sono con malati e lontani. Gesù è venuto per tutti. E lì si fa vicino e i suoi gesti sono di guarigione e liberazione.

Il suo invito ‘convertitevi’ segue l’annuncio del regno dei cieli. Viene cioè dopo l’annuncio di un dono che genera gioia: il ‘regno dei cieli’ indica la vicinanza di Dio che apre ad un modo nuovo di intendere la vita come fratelli e sorelle, nella ospitalità. Il regno non è qualcosa lontano dalla nostra vita, è dono che viene dal Dio Padre: dono di vicinanza. Ed è anche scoperta che genera la gioia di lasciare tutto per cercarlo perché è una ricchezza che salva l’esistenza e le fa trovare il suo senso più profondo. Aprirsi al regno suscita un radicale cambiamento nella vita. Conversione è il movimento di cambiamento radicale, di mutare direzione, con cui si accoglie la presenza di Dio che si fa vicina nell’agire e nelle parole di Gesù. I suoi gesti di liberazione, guarigione, accoglienza e le sue parole indicano un modo nuovo di intendere la vita non come accaparramento ma come gratuità, non come egoismo ma come fratellanza. Rapporti nuovi sono possibili sin da ora nell’affidarsi a Dio che vuole la salvezza.

Gesù chiama a seguirlo: ‘Venite dietro a me’. E’ indicazione dell’essenziale della vita dei discepoli: rimanere dietro, camminare sui passi di Gesù, condividere lo stile della sua esistenza. Quando Gesù vede i due fratelli esprime lo sguardo di Dio che vede ogni persona come unica e originale e propone una chiamata. Simone e Andrea sono guardati nella loro vita ordinaria e nella loro unicità. Gesù li chiama nel loro operare di ogni giorno, mentre gettavano le reti in mare. Si fa vicino non nei luoghi religiosi, ma nei luoghi della vita. Li chiama ad essere ancora pescatori, ma ad esserlo in modo nuovo: pescatori di uomini. ‘Pescatore’ è da scorgere come chi porta vita: indica un servizio in riferimento ad altri, perché ognuno possa trovare il senso profondo della sua vita. Il regno dei cieli inizia a realizzarsi nella vita di Gesù: la vita cristiana non è apprendimento di una astratta dottrina fatta di principi e norme e neppure mera esecuzione di indicazioni morali, ma si compie nel seguire Gesù, nel porre i propri passi sulla sua via, nella creatività di vivere in relazione con lui che cammina sempre davanti, che annuncia e cura indicando la via del dono e del servizio.

Alessandro Cortesi op

SF00000000_67691687Maria Vingiani, un’esistenza ecumenica

Una donna, laica, un’esperienza profetica di questo tempo, una donna capace di cammini di fede e di incontro che hanno condotto a riscoprire il vangelo nella sua forza di novità e cambiamento. Una donna che ha seguito Gesù nella originalità di rispondere alla sua chiamata nel tempo.Di lei si può dire che ha accolto la voce: ‘Venite dietro a me’.

Maria Vingiani, all’età di 98 anni, è morta il 17 gennaio scorso. Un giorno particolare: è infatti la data dedicata al dialogo tra cattolici e ebrei. Su questa frontiera ella aveva svolto il suo cammino maturando intuizioni che guardavano avanti e aprivano nuovi orizzonti ben prima del Concilio Vaticano II.

Proveniva da una famiglia napoletana ed era nata nel 1921 a Venezia dove visse la sua infanzia e dove maturò la sua educazione e impegno in ambienti cattolici. Nel particolare contesto costituito dalla città lagunare, con la sua storia e pluralità di testimonianze artictiche e religiose, ebbe modo di scorgere l’esistenza di diverse comunità cristiane oltre quella cattolica: ognuna si diceva chiesa… Questo sguardo attento attorno a sé e il contatto con la vita fu l’humus in cui sorse in lei una profonda inquietudine e una domanda. Brunetto Salvarani nel suo libro Un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Città Nuova 2016) in cui trascrive appunti presi in colloqui personali, riporta il ricordo diretto di Maria in quella fase della sua vita:

“Tra le chiese non c’era conflitto ma piuttosto indifferenza e reciproca ignoranza! Allora giovanissima, a Venezia vivevo un itinerario di fede nella mia parrocchia cattolica, ma m’incuriosivano le altre chiese che vedevo camminando per strada: quella valdese, luterana, metodista… Un giorno, avevo undici o dodici anni, decisi di entrare in una di queste in Campo Santi Apostoli. Mentre lo facevo mi sentii subito colpevole; qualcuno avrebbe potuto vedermi… Ma entrai lo stesso, e fui subito attratta dai libri poggiati sopra di un tavolo. Mi avvicinai autogiustificandomi, dicendomi che in fin dei conti stavo semplicemente guardando dei libri (…) Volevo capire e per capire dovevo studiare. Crescendo e arrivando alla laurea, pur tra mille difficoltà anche familiari, decisi di approfondire proprio il tema delle relazioni tra le chiese, non trovando praticamente nulla: solo qualche studio apologetico di parte cattolica. La mia vocazione ecumenica nacque da lì, dal fatto che non potevo accettare di buon grado le barriere esistenti tra chiese unite dall’unico vangelo, dall’unico Cristo, dall’unica salvezza. Quelle barriere per me erano una contraddizione inaccettabile!”. (cfr. anche una intervista inedita di Brunetto Salvarani a Maria Vingiani in Settimananews)

A quel tempo il solo partecipare ad una celebrazione di altre chiese era motivo di scomunica: Maria ottenne per questo il permesso dal patriarca di Venezia card. Piazza che glielo concesse non senza una messa in guardia per ‘non perdersi’.

Erano gli anni del dopoguerra. Sin da quel tempo iniziò a promuovere attività di conoscenza e formazione ecumenica. Si impegnò nell’ambito politico e fu eletta, molto giovane, in Consiglio comunale, divenendo poi assessora alle Belle Arti. In tale veste di responsabile per il patrimonio artistico cittadino incontrò il patriarca Roncalli, quando nel 1953 arrivò a Venezia, facendo il suo ingresso in città su una gondola. Lo incontrò come uomo di dialogo, di apertura mentale, capace di ascolto e di riportare la Parola di Dio al centro della vita cristiana. Di Roncalli Maria Vingiani ricordava ammirata la lettera pastorale del 1956 in occasione del V centenario della morte di san Lorenzo Giustiniani. In quella lettera il patriarca invitava a leggere Antico e Nuovo Testamento non solo nelle occasioni comunitarie della liturgia ma nella dimensione personale e nella vita familiare: “Noi cattolici non avevamo mai sentito parlare della Bibbia in quel modo, allora la Bibbia non c’era, nelle nostre case”. Con Roncalli maturò un rapporto di stima e profonda fiducia che passò dagli ambiti propri del rapporto professionale legato alla custodia dell’arte ai temi dell’ecumenismo a lei tanto cari e che guidavano il suo cammino di fede. Trovandosi così a condividere un orizzonte di fede ma anche ad ispirare con la sua intuizione aperture e scelte che troveranno maturazione in tempi successivi.

MariaVingiani-1956_InPixioQuando Roncalli fu eletto papa e dopo pochi mesi, il 25 gennaio 1959, annunciò un futuro Concilio di carattere ecumenico, Maria Vingiani intuì la portata epocale di quanto stava per iniziare. Da qui la sua decisione di lasciare l’impegno amministrativo e politico a Venezia e di trasferirsi a Roma dove continuò l’insegnamento di lettere nella scuola.

A lei si deve l’incontro tra Giovanni XXIII e Jules Isaac, grande studioso ebreo, indagatore delle radici dell’antisemitismo cristiano – l’insegnamento del disprezzo-, la cui famiglia era stata sterminata ad Auschwitz. Maria Vingiani aveva conosciuto Isaac in occasione delle Biennali di Venezia – a cui lui partecipava regolarmente in ricordo della morte artista uccisa ad Auschwitz -. E fu Maria che favorì l’occasione di un incontro diretto avvenuto il 13 giugno 1960. Giovanni XXIII rimase toccato dalla testimonianza dell’anziano professore che cercava di far giungere il suo appello come missione. Da quel momento il tema del rapporto tra Israele e chiesa divenne una delle questioni inserite nel dibattito conciliare e che condusse ad una tra le novità più profonde del Concilio, una autentica conversione nel modo di intendere i rapporti con l’ebraismo e alla redazione della dichiarazione Nostra aetate, che aprì una nuova prospettiva di incontro e dialogo. Tale cambiamento riflette una intuizione propria di Maria che scorgeva come la divisione dei cristiani non poteva trovare orizzonte di riconciliazione se non in un nuova comprensione delle proprie radici riandando ad un rinnovato incontro con l’ebraismo scoprendosi sempre situati in rapporto con l’altro.

Ebbe a scrivere a proposito della sua lettura delle divisioni dei cristiani: «Mi era ormai chiaro che l’unica vera grave lacerazione era alle origini del cristianesimo e che, per superare le successive divisioni tra i cristiani, bisognava ripartire insieme dalla riscoperta della comune radice biblica e dalla valorizzazione dell’ebraismo». Da tali intuizioni ebbe origine il Segretariato Attività Ecumeniche che continua a tutt’oggi ad essere uno dei luoghi di incontro e formazione ecumenica e prevede nella sua costituzione di ‘partire dal dialogo ebraico-cristiano’.

Specificità di tale movimento interconfessionale fondato da Maria Vingiani, è la sua laicità: non è previsto che alcun responsabile ‘religioso’ sia membro ma può essere amico o consulente, e molti sono stati negli anni gli amici e consulenti di tale tipo, preti, pastori, rabbini. Tuttavia la caratterizzazione laica del movimento indica la scelta di un ecumenismo dal basso, con stretto legame alla vita e capace di forza profetica rispetto ai ritardi, alle incomprensioni ed alle durezze delle istituzioni e delle gerarchie. «Una scelta che comporta autonomia totale, anche economica, per favorire un percorso nuovo di incontro, dialogo, formazione e quindi poi l’intesa, la collaborazione e la comunione». I convegni nazionali del Segretariato Attività Ecumeniche ebbero inizio dalla metà degli anni ’60 e a partire dal 1978 fino al 1998 si tennero al passo della Mendola. Del SAE Maria Vingiani è stata presidente fino al 1996. E la vita del Segretariato continua tutt’oggi.

Nell’intervista raccolta da “Avvenire” (Riccardo Maccioni, Aveva 98 anni. È morta Maria Vingiani: il coraggio del dialogo, “Avvenire”, 17 gennaio 2020) in occasione dei suoi novant’anni Maria diceva: “Abbiamo vissuto anni di grande passione in cui bisognava sempre combattere, sperare, chiarire. Ogni volta c’erano battaglie da vincere, muri da far cadere, separazioni da trasformare in cammino di incontro, di riconciliazione. Oggi invece – continua – l’ecumenismo corre il rischio della tranquillità. Sembra che sia tutto normale, quasi scontato, mancano salti di qualità. Il pericolo è che la normalità sfoci nell’indifferenza (…) Occorre una grande passione, un grande amore per i nostri fratelli, nel senso di un’autentica fraternità. Bisogna puntare sul Vangelo, valorizzare al massimo la Bibbia. Io però non ho fatto nulla, a lavorare sono stati la fede, l’esperienza e la grazia di Dio” .

La sua testimonianza rimane come luce in questo tempo, nei cammino dell’umanità chiamata a riconciliazione perché come ella amava ricordare “la fede si vive nella speranza” (cfr. intervista nel sito della diocesi di Cremona)

Alessandro Cortesi op

XXXI domenica tempo ordinario – anno C – 2019

Zaccheo+e+GesùSap 11,22-12,2; 2Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10

L’incontro di Gesù con Zaccheo è sintesi di un itinerario di incontro e conversione: in Gesù si rende vicina la compassione di Dio, la sua misericordia; Zaccheo anticipato dallo sguardo e dalla voce di Gesù che chiede di entrare nella sua casa cambia il suo stile di vita e lo accoglie.

‘Entrato in Gerico attraversava la città’. Gesù passa. Nel suo cammino verso Gerusalemme attraversa la città di Gerico. Lì lo attende una folla ma anche Zaccheo che sta ai margini. Una serie di motivi lo costringono a stare distante: è capo degli esattori delle imposte, malvisto dai suoi concittadini, temuto per il suo potere e nel contempo emarginato; è poi ricco sulla base della sua attività. Oltre a tutto ciò per la sua statura non riesce a sovrastare gli altri. Così impedimenti fisici e interiori lo tengono lontano: la folla gli impedisce di vedere Gesù.

C’è un’insistenza su questo verbo, ‘vedere’: “Zaccheo cercava di vedere quale fosse Gesù… corse avanti per poterlo vedere”. Zaccheo, nonostante gli ostacoli, è mosso da curiosità, da una ricerca interiore e da una domanda. Con abilità cerca di superare ciò che gli impedisce di vedere e sale su un albero: ‘allora corse avanti e per poterlo vedere salì su un sicomoro, perché doveva passare di là’.

Corre, sale e attende: sono tre movimenti significativi. C’è una curiosità che spinge a scavalcare ostacoli; c’è un salire che conduce ad uscire e andare oltre orizzonti consueti; c’è l’attesa di un dono. Forse l’attesa di un cambiamento della sua vita in cui avvertiva un vuoto.

Ma è Gesù che, passando, fa il primo passo: alzò lo sguardo e disse a Zaccheo ‘scendi subito perché…’: Gesù passa e chiede di fermarsi nella casa. L’incontro con Gesù è sempre personale ed implica la relazione con un ‘tu’, non con le folle come una massa indistinta. Gesù chiama per nome Zaccheo, lo guarda nella sua singolarità. E lo fa dal basso. Per primo prende l’iniziativa. Zaccheo si trova spiazzato: era solo incuriosito ma scopre un ‘tu’ che lo chiama e invita, senza forzature, ad un incontro e lo coinvolge: ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’.

C’è un’urgenza e l’indicazione di un tempo che viene trasformato. L’oggi uguale a tanti altri diventa un tempo nuovo, una svolta che investe l’ambito della strada e quello della casa. La casa di Zaccheo è il luogo dell’intimità della sua vita.

La risposta di Zaccheo è pronta: scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Scopre di non essere forzato ma invitato. Non giudicato ma accolto. Gesù per primo ha superato le barriere, è salito con lo sguardo a scorgere Zaccheo: le parti si rovesciano. Zaccheo cercava di vedere Gesù: è invece Gesù che lo vede e invita. Lo precede e va oltre ogni attesa. Gesù oltrepassa anche l’ostacolo della folla che commenta: ‘è andato ad alloggiare da un peccatore’. Contro il perbenismo e il disprezzo per gli altri, lo sguardo di chi pensa che nulla e nessuno può mai cambiare Gesù entra nella casa di chi sta ai margini e tenuto lontano.

In quella casa si compie il miracolo dell’accoglienza. Gesù è accolto nella casa di Zaccheo ma è Zaccheo che si scopre accolto da Gesù. E scorge un volto di Dio che non giudica e rende liberi. Quell’‘oggi’ diviene per lui inizio di un rapporto con gli altri, scoperta di nuove relazioni di giustizia e solidarietà. Dallo scoprirsi guardato e accolto senza condizioni nasce un cambiamento: ‘io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto’. Nell’accogliere il regno prende le distanze da tutto ciò che è anti-regno, ossia la ricchezza come potere e idolatria, non solo smette di rubare e di vivere il ripiegamento sul possesso che lo allontana dagli altri, ma apprende a donare.

In quella casa, in quell’oggi si compie la salvezza che inizia sin d’ora. La salvezza per Zaccheo significa una vita che diviene ‘buona’ e giusta per lui. Si scopre accolto nella sua casa, e concepisce la sua vita non come possesso ma come servizio per gli altri scegliendo Gesù e rifiutando Mammona. ‘Anch’egli è figlio di Abramo’ sono le parole conclusive dell’episodio. Gesù rivela il volto di Dio che cerca e salva ciò che era perduto.

Alessandro Cortesi op

Pachamama

Conversione

Si è concluso il 27 ottobre il Sinodo dei vescovi per l’Amazzonia. Un documento finale ha raccolto l’esito dell’ascolto e del dialogo svoltisi in questa assemblea sotto il titolo: “Amazzonia: Nuovi cammini per la chiesa e per una ecologia integrale”. La parola conversione è al centro di questo documento, lungo e articolato in cinque capitoli, con una introduzione conclusione, che indicano nuovi cammini di conversione, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

“L’ascolto del grido della terra e del grido dei poveri e dei popoli dell’Amazzonia con cui camminiamo ci chiama ad una autentica conversione integrale, con una vita semplice e sobria” (17) … una conversione personale e comunitaria che impegna a relazioni armoniche con l’opera creatrice di Dio che è la ‘casa comune’.

Il secondo capitolo parla di una conversione pastorale e indica i tratti di una chiesa che coinvolge tutti i battezzati: una chiesa missionaria e, dunque, samaritana, misericordiosa solidale. Una Chiesa in attitudine di dialogo ecumenico e interreligioso con volto e cuore indigeno, contadino, afrodiscendente.

“L’azione pastorale trae forza da una spiritualità che si basa sull’ascolto della parola di Dio e del grido del suo popolo, per poi poter annunciare con spirito profetico la buona notizia” (38)

La seconda conversione indicata è di tipo culturale: è un’apertura sincera in una linea di fraternità, si sviluppa come alleanza e inculturazione della fede.

“tutti siamo invitati ad accostarci ai popolo dell’Amazzonia da pari a pari, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile di buen vivir. Il colonialismo è l’imposizione di determinati modi di viere di alcuni popoli sugli altri, sia dal punto di vista economico, culturale e religioso. Rifiutiamo una evangelizzazione con stile colonialista. Annunciare la buona notizia di Gesù implica riconoscere i semi del Verbo presenti nelle culture. L’evangelizzazione che oggi proponiamo per l’Amazzonia è l’annuncio inculturato che genera processi di interculturalità, processi che promuovano la vita della chiesa con una identità e un volto amazzonico” (55)

La terza conversione è di tipo ecologico: a fronte della crisi socio ambientale si scorge l’urgenza di una conversione ispirata dalla proposta della ecologia integrale.

“E’ urgente affrontare lo sfruttamento illimitato della ‘casa comune e dei suoi abitanti. Una delle cause principali della distruzione nell’Amazzonia è l’estrattivismo predatorio che corrisponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante” (67)

“Proponiamo di promuovere alternative di sviluppo ecologico integrale a partire dalle cosmovisioni che siano costruite con le comunità, salvando la saggezza ancestrale. Sosteniamo progetti che propongono un’economia solidale e sostenibile” (73). Viene indicato il peccato ecologico come “azione o omissione contro Dio, il prossimo la comunità e l’ambiente” (82) e contro le generazioni future.

Una quarta conversione è delineata e riguarda il volto di una chiesa sinodale edè svolta nel capitolo V. Per la chiesa amazzonica è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri per uomini e donne su un piano di parità. “Il tessuto della chiesa locale anche in Amazzonia è garantito da piccole comunità ecclesiali missionarie che coltivano la fede, ascoltano la Parola e celebrano insieme vicino alla vita della gente. Promuovendo la ministerialità dobbiamo consolidare la chiesa di uomini e donne battezzati e soprattutto la consapevolezza della dignità battesimale” (95).

In particolare è proposta una conversione nel dare ascolto alla presenza e azione delle donne: “La sapienza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Nel mondo indigeno e occidentale la donna è colei che lavora in molti modi, nell’istruzione dei figli, nella trasmissione della fede e del vangelo. Le donne sono presenza di testimonianza e responsabilità nella promozione umana e per questo si richiede che la voce delle donne sia ascoltata, che le donne siano consultate e prendano parte nei luoghi in cui si prendono decisioni. In tal modo possano contribuire con la loro propria sensibilità alla sinodalità ecclesiale” (101)

Molte comunità in Amazzonia sono già guidate da donne. Il sinodo chiede che, in ascolto dei nuovi contesti e di attenzione alle comunità, sia creato il ministero istituito della ‘donna dirigente della comunità’, e ricorda come nelle commissioni del sinodo sia stato sollecitato il diaconato permanente per le donne (102).

Al n. 110 si dice: “Esiste un diritto della comunità alla celebrazione dell’Eucaristia che deriva dall’essenza dell’Eucaristia e della sua importanza nell’economia della salvezza”. In rapporto a questa centralità dell’eucaristia per la vita delle comunità cristiane il sinodo propone, sulla linea di quanto indicato in Lumen Gentium 26 di stabilite criteri e disposizioni da parte dell’autorità competente per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità che abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo tenere famiglia legittimamente costituita e stabile, per sostenere la vita dela comunità cristiana con la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più lontane della regione amazzonica. A tal proposito alcuni si sono pronunciati per una considerazione universale del tema” (111).

E’ stata anche proposta la costituzione di un organismo episcopale per la regione con il compito di promuovere la sinodalità tra le chiese della regione e di aprire nuovi cammini per la missione di evangelizzazione (115) e così pure di dare una risposta alle comunità dell’Amazzonia di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione le tradizioni i simboli e i riti originari che includano le dimensioni trascendenti comunitarie e ecologiche (116) in modo tale che la fede possa essere celebrata nelle lingue proprie dei popoli amazzonici.

Il documento indica nuovi cammini ed usa anche una particolare immagine per la vita della chiesa, quella del navigare. L’Amazzonia, che si estende in una immensa area che interessa nove Paesi dell’America del Sud, è segnata e attraversata da immensi fiumi e da innumerevoli corsi d’acqua. Anche la chiesa è chiamata a navigare “promuovendo uno stile di vita in armonia con il territorio e con il buen vivir di coloro che lì vi abitano” (75).

Alessandro Cortesi op

N.B. Il documento può essere letto nella sua versione originale spagnola a questo link. La traduzione delle parti citate è mia.

 

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