la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “settembre, 2022”

XXVII domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Abacuc – icona russa XVIII sec.

Ab 1,2-3; 2,2-4; 2Tim 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10

“Fino a quando Signore implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido ‘Violenza!’ e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?”

Dimande sospese esprimono il grido del profeta, rivolto verso Dio. La legge stravolta, i giudizi tramutati in truffa, l’egemonia dei corrotti e dominatori avidi di potere è esperienza drammatica che pone in crisi la fede. Fino a quando Signore? Abacuc esprime una sofferenza ed una sete di giustizia non solo del singolo ma a livello collettivo. Il profeta ha il coraggio di formulare domande autentiche che sono sfida ad una fede acquietata e sicura.

La risposta di Dio indica un termine: l’ingiustizia e l’oppressione non sono l’ultima parola e non prevarranno. “…certo verrà e non tarderà”.  Nel tempo della prova è richiesto al giusto l’affidamento dell’attesa anche nel non comprendere: ‘soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede’.

Senza facili risposte al male al giusto è indicata la via di mantenersi nell’attesa del Dio fedele. Credere non esime dalla domanda, dalla crisi, dal dubbio. La fede rimane sospesa e aggrappata alla fedeltà di colui che non verrà meno alle sue promesse. Ed è promessa di vita.

‘Accresci in noi fede’ è preghiera rivolta dagli apostoli a Gesù. Se aveste fede quanto un granello di senape… L’immagine che Gesù usa per indicare la fede è quella del più piccolo tra i semi. Il seme racchiude qualcosa che sarà ma ancora non si vede, è promessa ed è piccolo elemento che esige cura e coltivazione. L’esempio del servo che si accosta al seme delinea l’attitudine del credente. E’ da ricordare che nel vangelo servo è Gesù stesso che ha inteso la sua vita nell’ascolto del Padre e nel dono agli altri.

Riconoscere di essere ‘semplice servo’ (non ‘inutile’, ma unicamente servo), è passaggio per intendere la vita non nella dialettica servo-padrone, ma in una relazione che pone al centro l’ascolto, l’attenzione, la cura, il dono.

“quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dire: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Vivere al seguito di Gesù la via del servizio è orizzonte che libera.

Alessandro Cortesi op

Fino a quando?

Ci sono situazioni dimenticate e che invece dovrebbero avere attenzione e suscitare l’indignazione e la domanda del profeta: fino a quando?

La regione del Tigray è situata al Nord dell’Etiopia nell’area del Corno d’Africa e confina con l’Eritrea. Nel 2018, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF), primo partito tra la popolazione si rifiutò di confluire in un partito unico nazionale secondo la proposta del Primo Ministro Abiy Ahmed. La situazione di tensione creatasi si è aggravata con il rinvio delle elezioni nazionali al sopraggiungere della pandemia. Il primo ministro ha continuato il suo governo e per contrasto il Fronte Popolare TPLF ha organizzato elezioni nella regione in modo indipendente. La reazione del governo centrale è stata quella di dichiarare illegali le elezioni di interrompere i finanziamenti al Tigray, costringendo ad uno stato di isolamento.

Da qui l’inizio di un conflitto armato agli inizi di novembre 2020 che ha provocato la morte di decine di migliaia di persone con violenze perpetrate contro la popolazione civile e crimini contro l’umanità attuati da entrambi le parti. Da allora si è aggravata la crisi umanitaria che si è protratta nel tempo del Covid-19 con conseguenze devastanti per la popolazione. Difficoltà di accesso alle risorse, mancanza di alimenti, mancanza di servizi igienici e sanitari in una realtà di sovrappopolamento di alcune aree. Anche le regioni confinanti di Amhara e Afar son state colpite perché sono stati interrotti i collegamenti e chiusi i confini con conseguenze che hanno colpito soprattutto le popolazioni più fragili. Con la situazione di guerra e di pandemia sono anche state chiuse le scuole: i bambini e le bambine sono stati così esposti alle forme diverse di sfruttamento e violenza. 2.1 milioni di bambini e bambine sono in stato di bisogno. Migliaia di persone hanno cercato riparo uscendo dalle zone del conflitto: si calcolano due milioni di sfollati e, nonostante la chiusure dei confini, più di 60.000 persone hanno cercato rifugio in Sudan.

A fine 2021 si delineava un panorma desolante: ““Il grande paese, sede dell’Unione africana e oasi, fino a poco tempo fa, di stabilità e sviluppo in mezzo a un’immensa area di conflitti e tirannie che va dal Sudan allo Yemen, dalla Somalia al Sud Sudan passando per l’Eritrea,  è riuscito in poco più di dodici mesi a dilapidare un patrimonio geopolitico, economico, sociale e morale costruito a fatica negli ultimi decenni”. (L.Attanasio, Dopo un anno di atrocità nel Tigray ora l’Etiopia sogna finalmente la pace, “Domani” 26 dicembre 2021)

La situazione sanitaria conseguente al conflitto ha dimensioni catastrofiche. Secondo una testimonianza di Joseph Belliveau, Direttore Esecutivo di MSF Canada: “Oggi, la maggior parte del sistema sanitario del Tigray giace in rovina, vandalizzato e saccheggiato dai soldati. La distruzione è così completa che, durante il mio recente incarico di cinque settimane nel Tigray, non ho trovato una sola stanza in una singola struttura sanitaria al di fuori delle principali città che non fosse stata saccheggiata”. (D.Tommasin, Tigray. Resoconto della catastrofica situazione sanitaria, 20 agosto 2022).

Una tregua umanitaria di cinque mesi da marzo a agosto 2022 è da poco conclusa e il 20 settembre da parte degli eritrei è iniziata una offensiva che si connota come la più dura dall’inizio del conflitto. L’Agenzia Fides riportando una fonte locale riferisce: «L’esercito eritreo sta richiamando i riservisti e arruolando moltissimi giovani da mandare al fronte. Stanno cercando di conquistare Axum, Adigrat, Shire e di entrare a Macallè».

Un rapporto della commissione d’inchiesta dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha accusato le parti in conflitto di aver commesso «crimini di guerra» e «contro l’umanità». Kaari Betty Murungi, presidente della commissione, ha affermato anche che gli aiuti sarebbero stati usati dal governo di Addis Abeba (Etiopia) come arma di guerra contro i tigrini, che sono cittadini etiopici: «La diffusa negazione e l’ostruzione all’accesso ai servizi di base, al cibo, all’assistenza sanitaria e a quella umanitaria, stanno avendo un impatto devastante sulla popolazione civile. La crisi umanitaria nel Tigrai è scioccante, sia in termini di portata che di durata». (cfr. P.Lambruschi, Tigrai, l’Etiopia non si ferma «Anche la Francia coinvolta», “Avvenire” 25 settembre 2022).

I bombardamenti del territorio ad opera dell’esercito governativo sono condotti con droni che provengono da ditte francesi collegate al governo della Francia. Appare in tal modo l’ipocrisia degli stati occidentali che fomentano le guerre diffuse con il commercio di armi.

Il responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Adhanom Gebreyesus, ha accusato i Paesi occidentali di trascurare la situazione nel Corno d’Africa nel considerare la crisi umanitaria del Tigray “meno importante di quella ucraina” (Eritrea, truppe di Asmara attaccano il Tigray , “Africa” 21 settembre 2022).

A fronte di queste situazioni di guerra, violenza e crisi umanitarie in cui in Tigray cinque milioni di persone sono in situazione di carestia di mancanza di cibo e di assistenza sanitaria essenziale, nell’indifferenza e nell’oblio dei Paesi occidentali interessati al commercio delle armi porta ancora a formulare la inquietante domanda: “fino a quando?”

Alessandro Cortesi op     

“Caro Abacuc… hai ragione tu di urlare verso un Dio che sembra dormire quando la violenza trafigge la terra e i suoi abitanti. Nel contempo urla un po’ anche al nostro indirizzo perché nessuno dimentichi di portare il suo mattone e di esprimere la propria fede nel giorno che verrà preparandolo con cura. Il domani è il raccolto del seme che abbiamo deposto oggi nel grembo della terra e della storia. Responsabilità, impegno, lotta, cura… in cui anche noi diveniamo umili partner di Dio nel costruire la pace. Caro Abacuc a tal punto sei sordo da non aver ascoltato la risposta di Dio? Egli dice infatti: “Fino a quando, uomo, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Non ha più forza la legge, né mai si afferma il diritto. L’empio infatti raggira il giusto e il giudizio ne esce stravolto”. (tratto da T. Dall’Olio, Abacuc sentinella del silenzio di Dio, “Mosaico di pace” giugno 2005)

XXVI domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Am 6,1.4-7; 1Tim 6,11-16; Lc 16,19-31

Un ricco, senza nome, e un povero, Lazzaro  (‘El azar’ significa ‘Dio aiuta’) sono posti uno di fronte all’altro nella parabola di Luca. La parabola richiama ad aprire gli occhi e lasciarsi toccare dalla sofferenza dei poveri. E’ anche proposta a praticare uno stile di vita in ascolto della Parola di Dio: essere discepoli di Gesù richiede di liberarsi dalla ricchezza come dominio e dal senso di autosufficienza che essa porta nella vita. Se la ricchezza non è condivisa diventa fonte di ingiustizia e indurisce il cuore.

All’inizio della parabola due quadri sono posti in parallelo: da un lato la vita del ricco spensierato e gaudente, nel lusso e nei piaceri. Alla porta di quella casa, fuori, sta un povero, Lazzaro accerchiato dai cani randagi. Il momento della morte porta ad un rovesciamento della situazione: Lazzaro è portato dagli angeli accanto ad Abramo mentre il ricco è immerso nei tormenti.

La parabola non intende essere un insegnamento su ciò che vi sarà dopo la morte e su questo riprende motivi dell’immaginario ebraico sull’aldilà: il seno di Abramo e una situazione di sofferenza e pena. Nel contrapporre la diversa situazione di Lazzaro e del ricco è forte il  richiamo rivolto a coloro he ascoltano ad interrogarsi sulla responsabilità nella loro vita, ad essere vigilanti nel presente.

Gesù non condanna la ricchezza di per sé e il suo agire è orientato ad eliminare le condizioni di povertà e miseria. Ma ha parole dure contro la spensieratezza e l’indifferenza di chi non si apre alla sofferenza degli altri e non vive la condivisione. L’autentica felicità non proviene dall’accumulo dei beni, anzi questo genera ricchezza disonesta. Gesù propone di cercare relazioni nuove di cura, di accoglienza, con gli altri, con Dio: i beni vanno usati quale strumento per rapporti nuovi di giustizia, di bene condiviso. Non si deve essere preoccupati dell’accumulo diventando così stolti (cfr. Lc.12,20) e ciechi di fronte all’indigenza e alla fatica di chi soffre. La presunzione e la superficialità del ricco sono considerati da Luca come un ostacolo insormontabile a comprendere la via che Gesù indica ai suoi. Luca indica la via della povertà quale scelta per seguire Gesù.

La parabola continua in una seconda parte in cui vi è un dialogo. Il ricco tra i tormenti chiede ad Abramo di poter avvisare i suoi fratelli, perché non abbiano a subire la medesima sorte e Abramo risponde: “Hanno Mosè e i profeti: li ascoltino… Se non ascoltano Mosè e i profeti, anche se uno risuscitasse dai morti non si lascerebbero convincere”.

Sta qui il vertice dell’intera parabola: Mosè e i profeti indicano le Scritture. Abramo richiama ad un ascolto della Scrittura nella quotidianità e uscendo dalla mentalità del miracolo. Non è questione di miracoli sorprendenti e di invii celesti: c’è un ascolto della volontà di salvezza di Dio per tutti, della sua chiamata ad essere fratelli e sorelle, da attuare nel quotidiano. Solo l’ascolto della Parola di Dio conduce a superare l’insensibilità e la chiusura generata dalle ricchezze. La vita così può cambiare. La parabola non va intesa come espressione di un volto di Dio che condanna e punisce ma è parola aperta, provocazione ad aprire gli occhi superando indifferenza e distrazione verso chi soffre ed è talvolta vicino ma tenuto lontano, fuori della porta. E’ sfida alla responsabilità, a scoprire l’urgenza di agire con scelte di condivisione e solidarietà. 

Alessandro Cortesi op

Ricchezza e povertà

Secondo il Global Wealth Report del Credit Suisse Research Institute nel 2021 la ricchezza globale è cresciuta ma essa è concentrata solamente nell’ 1% della popolazione mondiale. Sono 62,5 milioni coloro che detengono patrimoni milionari.

I Paesi a basso e medio reddito insieme rappresentano il 24% della ricchezza. Il Nord America poco più del 50% del totale e la Cina il 25%. Africa, Europa, India e America Latina rappresentano insieme l’11% della crescita della ricchezza globale. America Nord e Cina hanno registrato tassi di crescita più alti (circa il 15%) mentre l’Europa è la più bassa (1,5%).   

A fronte di tale situazione globale cresce il rischio di povertà in Italia. E’ quanto si ricava dai dati dell’ultimo Report di Eurostat. La povertà colpisce in particolare bambini e lavoratori e si prevede un aggravamento nell’anno in corso 2022. Le tabelle su povertà e disuguaglianza curate dell’Istituto europeo indicano che nel 2021 le persone a rischio di povertà (con reddito inferiore al 60% di quello medio disponibile), erano più del 20 per cento della popolazione (11,84 milioni). Se si allarga la considerazione alle famiglie che vivono condizioni di vita minime a rischio di esclusione sociale le persone in difficoltà cono circa 15 milioni (25,2% della popolazione). La situazione dei bambini presenta contorni anche peggiori. Sono il 26,7% i bambini sotto i 6 anni a rischio povertà, con tendenza all’aumento rispetto all’anno precedente (667 mila bambini) Se si considerano le famiglie a rischio di esclusione sociale, i  bambini sotto i 6 anni in difficoltà costituiscono il 31,6% (con aumento dal 27% del 2020).

I dati dell’Eurostat confermano quanto indicato anche dall’Istat sulla povertà riguardo all’anno 2021. Poco più di 1,9 milioni di famiglie (7,5% del totale) e circa 5,6 milioni di individui (9,4% come l’anno precedente) vivono in condizione di povertà assoluta. Sono dati che indicano continuità con l’aumento verificatosi nel 2020 nel tempo della pandemia. L’11,1% della popolazione vive in povertà relativa e le famiglie a rischio esclusione sociale sono circa 2,9 milioni. (Cfr. Andrea Carli, Dall’Istat all’Eurostat: è sempre più allarme povertà in Italia, Il Sole 24 ore”, 25 agosto 2022).

Il rischio di povertà o di esclusione sociale è maggiore in particolar modo per le donne. Secondo Eurostat negli Stati Membri UE 64,6 milioni di donne vivono in condizioni di povertà, mentre gli uomini sono 57,6 milioni. Dall’inizio della pandemia le donne hanno subito le più pesanti conseguenze di impoverimento nella sfera socio-economica a causa della sospensione delle attività di lavoro e culturali. La pandemia ha portato ad una riduzione dei servizi pubblici sociali costringendo le donne a farsi carico di un surplus di lavoro di assistenza e cura. La povertà femminile incide anche sui bambini perché sono coinvolte anche le condizioni di vita dei figli. Nel 2020 il 42,1% della popolazione UE costituita da famiglie monoparentali con figli a carico era a rischio di povertà (di queste famiglie l’85% ha per capofamiglia una donna). La povertà femminile costituisce anche l’esito di una discriminazione che accompagna la vita delle donne. A più alto rischio di povertà sono le madri sole, le donne sopra i 65 anni, le donne disabili, quelle con un basso livello di istruzione o migranti. La povertà femminile costituisce un fattore su cui si innesta la violenza di genere – per l’impossibilità di lasciare il partner violento – e lo sfruttamento che si attua in modalità diverse.

Recentemente il Parlamento Europeo con la Risoluzione 5 luglio 2022, n. 274 ha posto attenzione sul tema della parità di genere, notando il problema del divario retributivo e la condizione di povertà delle donne in Europa. Parità di genere è infatti uno dei valori fondamentali della UE, e l’obiettivo di eliminazione della povertà costituisce una delle priorità del Piano d’azione del pilastro europeo dei diritti sociali che punta a ridurre il numero di persone a rischio di povertà di almeno 15 milioni entro il 2030, di cui almeno 5 milioni di bambini.

Il Parlamento evidenziando il problema del divario retributivo più in generale ha portato all’attenzione la condizione di povertà che segna la vita delle donne in Europa. Per questo invita gli Stati membri a prevedere salari minimi, a condurre una lotta contro i posti di lavoro precario, a promuovere un corretto equilibrio tra vita professionale e vita privata. Inoltre indica di porre attenzione a servizi pubblici di alta qualità negli ambiti dell’educazione e cura della prima infanzia, dell’assistenza agli anziani e non autosufficienti. Invita a proteggere le donne dalla povertà energetica, a favorire l’imprenditoria femminile e l’accesso ai finanziamenti, a riformare i sistemi pensionistici considerando le differenze tra le modalità di lavoro delle donne e degli uomini e le pratiche di lavoro non retribuite.

Alessandro Cortesi op

XXV domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Am 8,4-7; 1Tim 2,1-8; Lc 16,1-13

“Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese”. Amos, pastore di Samaria, vide la sua vita rivoluzionata dalla chiamata di Dio che lo spinse ad essere profeta in una situazione di profonda ingiustizia nel suo tempo. Si pose così a servizio di quella parola accolta come forza irresistibile che lo inviava a difendere i deboli e gli sfruttati, e a denunciare l’iniquità generata dai ricchi senza scrupoli. La sua predicazione richiama a rifuggire l’idolo della ricchezza, la rincorsa a guadagni procurati con lo sfruttamento dei poveri, in modo disonesto, nel disprezzo verso i lavoratori comprati e venduti per il valore di un paio di sandali.

Lo sdegno di Amos manifesta la sua attualità oggi in una condizione globale segnata da un sistema economico in cui il dominio del denaro, l’indifferenza dei signori dell’economia alle sofferenze dei poveri, genera insopportabili disuguaglianze e ingiustizie. E’ richiamo ad una conversione, a volgersi a Dio che si china sugli sfruttati e si sdegna di fronte a chi disprezza il povero.

La parabola di Gesù sull’amministratore scaltro trae spunto da una reale situazione del suo tempo: un amministratore, a rischio di essere allontanato dal suo padrone, decide di procurare favori con la frode a clienti che poi gli sarebbero stati riconoscenti in futuro.

Gesù non intende suggerire comportamenti di corruzione e frode. Il punto centrale della parabola sta nel notare che quanti cercano i soldi e il benessere sono abili oltre ogni misura nell’escogitare modi per giungere al loro fine. E quando sono di fronte al pericolo di perdere ricchezze o carriera manifestano furbizia e abilità per mantenere i propri privilegi. Sono questi ‘i figli di questo mondo’ dove qui il termine mondo indica la ricerca di una sicurezza che si risolve nei termini del denaro, del potere, del dominio. Gesù per contrasto richiama ‘i figli della luce’, i suoi discepoli, a comprendere che il momento presente richiede urgenza, capacità di essere pronti, scegliere con decisione quanto è più importante, in direzione contraria a chi insegue solo il denaro e la ricchezza. E’ questione di ‘farsi amici’, non con la frode e la disonesta ricchezza, ma con la passione per gli altri. Richiama alla capacità di decisione pronta di quell’amministratore e presenta l’alternativa che sta davanti ai suoi discepoli: o Dio o Mammona. Non si può servire a due padroni così diversi. ‘Mammona’ indica stabilità economica, proprietà, successo finanziario, gli averi: ha una assonanza con il termine che indica fede (ebraico ‘aman’, da cui ‘amen’). Mammona in tal modo assume i contorni di un assoluto a cui tutta la vita viene orientata. Gesù indica una direzione contraria: il senso della vita umana non può risolversi nell’avere e nel denaro. Va cercato invece nell’incontro con Dio che si attua nell’incontro con gli altri, in un ‘farsi amici’ in un cammino di solidarietà e condivisione. Tale alternativa è scelta tra due amori che non possono esser composti insieme. Mantenersi fedeli al Dio che ascolta il grido del povero, è questione che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza e chiede scelte concrete e urgenti.

Alessandro Cortesi op

Lavoro

“… è paradossale che, in piena campagna elettorale, il discorso più esplicito sul lavoro e sulla tassazione come cuore del patto sociale sia stato fatto dal pontefice, non da qualche leader politico, neppure a sinistra” (Chiara Saraceno, Il lavoro negato e il patto fiscale, “La Stampa” 13 settembre 2022). Così Chiara Saraceno commenta un recente intervento di papa Francesco rivolto agli imprenditori di Confindustria nell’udienza del 12 settembre 2022.

La questione della dignità del lavoro e dei lavoratori, il richiamo all’equa remunerazione ed alla responsabilità sociale delle imprese, la messa in guardia da evitare forme di sfruttamento e di curare la sicurezza negli ambienti di lavoro. Ma anche una riflessione sul fatto che una disuguaglianza nelle remunerazioni tra dirigenti e lavoratori è elemento che immette fattori di disgregazione sociale e di ingiustizia e fa ammalare la stessa società. E ancora l’attenzione alle condizioni delle lavoratrici, il richiamo a non penalizzare e punire le donne nell’ambiente di lavoro quando rimangono incinte e quando hanno figli. Tutti questi sono stati temi toccati nel discorso del papa agli imprenditori

E’ stato un intervento centrato sulla responsabilità e sulla funzione sociale della tassazione che ha la funzione di garantire la possibilità di servizi sociali per tutti e di beni comuni, offrendo elementi di coesione della società: «Il patto fiscale è il cuore del patto sociale. Le tasse sono anche una forma di condivisione della ricchezza, così che essa diventa beni comuni, beni pubblici: scuola, sanità, diritti, cura, scienza, cultura, patrimonio».

Papa Francesco ha richiamato come vivere un rapporto con i beni nell’orizzonte della condivisione: “La ricchezza, da una parte, aiuta molto nella vita; ma è anche vero che spesso la complica: non solo perché può diventare un idolo e un padrone spietato che si prende giorno dopo giorno tutta la vita. La complica anche perché la ricchezza chiama a responsabilità”. Ha poi richiamato all’impegno a creare lavoro quale modalità in cui si può attuare condivisione della ricchezza: “lavoro per tutti, in particolare per i giovani. I giovani hanno bisogno della vostra fiducia, e voi avete bisogno dei giovani, perché le imprese senza giovani perdono innovazione, energia, entusiasmo. Da sempre il lavoro è una forma di comunione di ricchezza: assumendo persone voi state già distribuendo i vostri beni, state già creando ricchezza condivisa”. Ma in questo discorso un’immagine ha descritto meglio di ogni altro ragionamento la preoccupazione che dovrebbe guidare l’impegno di tutti nella società: il rinvio ai denari di Giuda contrapposti ai denari del samaritano. E’ l’uso del denaro che distingue la figura dell’imprenditore come mercenario e quella di chi assume l’attitudine del buon pastore: “Il buon samaritano (cfr Lc 10,30-35) poteva essere un mercante: è lui che si prende cura dell’uomo derubato e ferito, e poi lo affida a un altro imprenditore, un albergatore. I “due denari” che il samaritano anticipa all’albergatore sono molto importanti: nel Vangelo non ci sono soltanto i trenta denari di Giuda; non solo quelli. In effetti, lo stesso denaro può essere usato, ieri come oggi, per tradire e vendere un amico o per salvare una vittima. Lo vediamo tutti i giorni, quando i denari di Giuda e quelli del buon samaritano convivono negli stessi mercati, nelle stesse borse valori, nelle stesse piazze. L’economia cresce e diventa umana quando i denari dei samaritani diventano più numerosi di quelli di Giuda”.

Nel suo discorso papa Francesco non ha dimenticato di richiamare la condizione dei migranti: “Il problema dei migranti: il migrante va accolto, accompagnato, sostenuto e integrato, e il modo di integrarlo è il lavoro. Ma se il migrante è respinto o semplicemente usato come un bracciante senza diritti, ciò è un’ingiustizia grande e anche fa male al proprio Paese”. In queste settimane sono giunte notizie tremende delle sofferenze di chi è vittima delle crisi mondiali, dalla crisi del grano alle condizioni di miseria dovute al cambiamento climatico e alle guerre disseminate. Le migrazioni sono l’esito di crisi generate da un’economia di sfruttamento e di guerra. Famiglie con bambini sono rimaste senza soccorso durante il viaggio nel Mediterraneo, fino a morire di sete perché non vi è stata risposta per giorni e giorni alle richieste di soccorso: “sette rifugiati siriani, tra cui quattro bambini a bordo di due diverse imbarcazioni. Una è giunta a Pozzallo, in Sicilia. L’altra è ancora alla deriva e nessuno la soccorre” (Nello Scavo, I bimbi morti di fame e sete in mare «Il loro allarme ignorato per giorni, “Avvenire” 13 settembre 2022). C’è un’umanità sommersa che con il silenzio della morte grida e manifesta l’ingiustizia che pervade il mondo attuale. Più di 1.200 persone sono morte o disperse nei mesi di quest’anno durante i viaggi nel Mediterraneo cercando di raggiungere l’Europa. In tale situazione le politiche europee e dei singoli Stati sono orientate al respingimento, alla delega del controllo dei migranti a Paesi come la Libia – dove sono calpestati i diritti umani -, alla deliberata omissione di soccorso.

L’esigenza di nuova impostazione delle politiche migratorie che consenta accessi sicuri nel rispetto dei diritti e siano impostate nella prospettiva dell’integrazione, con politiche di programmazione del lavoro è un’urgenza ineludibile di umanità ed anche per il futuro della vita sociale.

Il richiamo alla giustizia nel mondo del lavoro, ponendo al primo posto l’attenzione per chi lavora e la cura per il pianeta è voce che interpella oggi più che mai. Così Francesco ha richiamato in un appello finale coloro che lo ascoltavano: “potete dar vita a un sistema economico diverso, dove la salvaguardia dell’ambiente sia un obiettivo diretto e immediato della vostra azione economica. Senza nuovi imprenditori la terra non reggerà l’impatto del capitalismo, e lasceremo alle prossime generazioni un pianeta troppo ferito, forse invivibile”.

Alessandro Cortesi op

XXIV domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Es 32,7-11.13-14; 1Tim 1,12-17; Lc 15,1-32

E’ questo un periodo di ripresa, dopo l’estate. Ripresa delle scuole, del lavoro, delle attività sociali. Quest’anno la ripresa si situa in un momento di particolare preoccupazione e crisi da tanti punti di vista. Crisi climatica ed ecologica evidenziata  dalla siccità e dai tanti fenomeni atmosferici devastanti in Italia e varie parti del mondo. Crisi della guerra in Ucraina con le conseguenze sul piano economico e alimentare: è una crisi che ha riportato in auge la mentalità della violenza e della guerra. Crisi sociale che segue alla diffusione della pandemia con tante conseguenze sulle vite soprattutto dei più fragili. L’incertezza a livello politico generale genera tanti motivi di inquietudine. E veramente la preghiera in questo tempo di ripresa potrebbe essere quella essenziale del salmo di oggi: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il cuore, centro di decisioni e orientamenti della vita è il luogo per ascoltare quanto il Signore indica nella storia difficile, nelle prove. E solo un cuore nuovo, fatto nuovo da Lui, può aprirsi a scoprire il dono dello Spirito che invia. Dalle letture di oggi possiamo ascoltare alcuni messaggi per la nostra vita.

La pagina dell’esodo ricorda la nostalgia sempre presente di farsi un idolo a cui sacrificare la libertà. Il vitello d’oro è simbolo della ricerca di soluzioni facili e immediate a bisogni immediati e richiusi in orizzonti ristretti. E’ il desiderio anche di una divinità a misura, strumentalizzabile e a portata di mano. E’ la storia di sempre della ricerca di una religione che non apre al rischio della fede:  “Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi…”

L’esodo è cammino di uscita, di liberazione, che richiama a ritornare al ricordo della promessa, a vivere il rischio della fede in una relazione impegnativa con il Dio che si è compromesso nell’alleanza: “Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo…”

La prima lettera a Timoteo esprime la consapevolezza che ogni forza proviene dal Signore Gesù, motivo di gratitudine da coltivare nel cuore: “rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro”. Non c’è quindi spazio per presunzione o vanto per chi ha sperimentato sulla sua vita uno sguardo di misericordia: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna”.

Nelle parabole del cap. 15 di Luca si può scorgere l’indicazione di un movimento di perdita, di ricerca e di ritrovamento. Dio, identificato con figure della vita, un pastore, una donna, un padre, si prende cura di ritrovare, accoglie il perduto, vive la gioia senza limiti della condivisione. “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.

In questo tempo di crisi ogni gesto di cura, di ricerca, di attesa, di festa ospitale è nell’orizzonte della promessa di Dio che ha cura di non perdere nessuno.

Alessandro Cortesi op

Non perdere

La guerra in atto in Ucraina ha condotto nel dibattito pubblico al venir meno del senso della complessità delle questioni: nella drammaticità della situazione, nella situazione di violazione del diritto internazionale, negli orrori perpetrati nell’uso della violenza è arduo assumere un’attitudine di approfondimento e di comprensione problematica di quanto accade. Per fermare la guerra, per ricondurre alla ragionevolezza, per non alimentare la spirale di un conflitto senza fine. E’ difficile ma è indispensabile assumere la fatica di leggere contesti culturali, religiosi e sociali senza lasciarsi sommergere dalla logica binaria di contrapposizioni frontali, di lotta del bene contro il male. L’attenzione da coltivare alla ricerca di cause, di contesti, di posizioni diverse all’interno dei popoli può essere percorso da compiere per non perdere tutte le risorse che possono nel dramma del presente far individuare aperture di pace.

Natalino Valentini, profondo conoscitore della cultura e spiritulità russa, in uno studio dal titolo Il patrimonio da salvare (Il Regno attualità 14,2022, 463-472) offre un’approfondita analisi di quanto sta accadendo in questi mesi. E propone interrogativi che conducono ad indagare la storia sociale e religiosa della Russia, in particolare la questione del rapporto tra Russia ed Europa come grande problema storico e culturale e del rapporto tra Russia e Asia: dalla tradizione culturale russa emerge infatti la tensione irrisolta ad essere appartenente all’Europa e dall’altra parte al mantenersi in rapporto all’Asia, il suo permanere Eurasia.

E’ rilevato poi un elemento fondamentale riscontrabile nel legame tra fede  ortodossa e popolo russo, che vengono quasi a formare una cosa sola. Ma anche a tal proposito si apre la domanda: cosa oggi resta di quella grande tradizione spirituale? Quali cambiamenti ha vissuto la chiesa ortodossa russa passata attraverso la persecuzione sovietica?

“la critica antioccidentale rispolverata dal patriarca Cirillo in forte sintonia con una certa ideologia teologico-politica etnico-nazionalistica che gravita attorno a Putin (…) ha radici profonde nella cultura russa e ortodossa, che non ha dovuto attraversare le grandi sfide culturali della modernità. Così si è fatta strada un’idea politico-religiosa che ritrova la sua identità nella ‘santa Russia’, ma anche nel modello totalitario etno-filetico del Russkij mir, base giustificativa della stessa invasione”. E’ questa a giudizio di Valentini una distorsione ideologica che dal punto di vista religioso figura come un’autentica eresia in quanto tradimento della fede stessa denunciato da molteplici teologi ortodossi contemporanei.   

L’aggressione del 24 febbraio, violando il diritto interazionale, ha manifestato un fallimento della politica ma ha anche fatto emergere una profonda frattura che attraversa le chiese: la guerra insanguina le terre dell’antica Rus di Kiev che è cuore pulsante della tradizione spirituale dell’intera regione. A tal riguardo è richiamato l’insegnamento del grande teologo ortodosso Pavel Florenskij che indicava nella mancanza di ascolto la causa della frammentazione del mondo religioso cristiano.

Tra le conseguenze della guerra si può riscontrare il venir meno di ogni possibilità di discernimento e l’affermarsi della propaganda. In tale quadro inquinato si giunge ad identificare i capi politici e i dittatori con i popoli stessi che dominano. Anche all’interno dello stesso popolo russo, sottoposto ad un sistema oppressivo, è presente una opposizione alla guerra e con grandi difficoltà emergono segnali di resistenza.

Valentini annota come proprio la grande tradizione culturale russa, gli autori della tradizione spirituale e letteraria, il loro insegnamento e le loro opere custodiscono una ricchezza profonda di sapienza orientata alla pace. “Esemplari restano a riguardo gli scritti contro la guerra, la pena di morte, la violenza, la persecuzione e ogni forma di violazione della libertà e dignità umana  dei principali rappresentanti di questo pensiero cristiano che in molti casi hanno pagato con il gulag e con la vita, oppure con l’esilio, la loro coerenza e testimonianza”. Tra altri sono menzionati Pavel Florenskij, Sergei Bulgakov, Nikolai Berdjaev, Osip Mandel’stam, e i testimoni del dissenso tra cui Boris Pasternak, Vasilij Grossman, Aleksander Solzenicyn.

“Anche per queste ragioni avvertiamo con preoccupazione il rapido accrescersi e diffondersi delle diverse forme di ostilità, di ostracismo e persino di odio generalizzato e insulso nei confronti della ‘cultura russa’, che secondo alcuni andrebbe addirittura boicottata e persino ‘cancellata’” (ibid. 472).

La voce di questo studioso è un appello a non perdere quanto oggi è patrimonio di sapienza che nella barbarie del presente andrebbe custodito per ritrovare proprio in questo ascolto e ritrovamento le ragioni per orientare al cessare i combattimenti ed intraprendere una decisa ricerca della pace per le vie della pace.

Alessandro Cortesi op  

‘Per costruire la pace in Europa e nel mondo’ – Un appello al Presidente della Repubblica

Invito a sottoscrivere la Lettera appello al Presidente Sergio Mattarella promossa da ‘Costruttori di pace’ che gli sarà consegnata in occasione della Giornata internazionale della pace ONU (ac)

Per aderire all’Appello cliccare a questo link.

XXIII domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Sap 9,13-18; Fm 9-10.12-17; Lc 14,25-33

Cosa vuol dire essere discepoli di Gesù? Sta qui la grande questione al cuore del cammino dei credenti. Luca è molto sensibile a tale domanda: nel suo racconto narra come nel suo cammino Gesù chiama a seguirlo in diversi modi: chiede di condividere la sua strada con scelte che coinvolgono l’intera esistenza. Essere discepoli è orientarsi a seguire lui e la strada di Gesù quale cammino sempre nuovo: seguirlo implica ricominciare sempre in fedeltà alla sua parola.

Alcune caratteristiche del seguire sono elencate in quest pagina. Una prima condizione è formulata nei termini duri di un distacco dai legami familiari in cui compare un verbo assai forte: “se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre…” Il termine ‘odiare’ contrasta con l’intero insegnamento di Gesù riguardo all’amare vicini e amici ma anche i nemici. Aveva chiaramente richiamato a prendersi cura dei familiari quale modo di attuare un autentico culto (Mt 15,3-6): criticava infatti coloro che facendo un’offerta al tempio si ritenevano a posto, senza prendersi cura del padre e della madre e così “annullavano la parola di Dio”. Gesù quindi non chiede di odiare, ma di vivere un amore aperto. Mette in guardia dal chiudersi egoisticamente entro i legami familiari e chiede di non assolutizzarli. A chi lo segue Gesù indica di porre al primo posto la presenza di Dio a cui riferire tutta la vita.

La seconda condizione è andare dietro a lui e ‘portare la croce’: la croce racchiude in qualche modo l’intero percorso di Gesù. E’ uno strumento orribile di condanna e di tortura, è tuttavia proprio sulla croce e fino a quel momento Gesù ha manifestato il senso profondo della sua vita quale dono totale nell’amore. Chi segue Gesù è chiamato a vivere secondo questa logica di dono ogni giorno – è sottolineatura propria di Luca questo accento sul quotidiano-. Egli scrive in una comunità in cui si fa presente la fatica del cammino che continua ogni giorno (Lc 9,23; cfr Mt 10,38). Seguire Gesù non è questione di alcuni momenti particolari ed eccezionali ma è scelta che tocca le vicende ordinarie, il quotidiano nascosto e talvolta monotono.

La terza condizione è indicata da due immagini, la torre da costruire e la guerra da preparare: sono esempi tratti dalle vicende umane ed entrambi utilizzati per un messaggio di fondo. Gesù richiede per seguirlo l’attitudine a pensare, a valutare le proprie forze, a preparare ciò che si costruisce. L’impresa è ardua. Esige uno sguardo lungo e forse anche la scoperta che da soli con le nostre sole forze non ce la facciamo. Luca richiama come questa impresa richieda tutte le energie e tutti i beni: rinunciare ai beni significa condividere ed è scelta di farsi borse che non invecchiano, per aprirsi all’unica vera ricchezza dell’incontro con il Signore Gesù.

In fondo tutte queste condizioni si possono raccogliere in un unico appello a vincere la superficialità, ad intendere l’importanza della vita, ad operare scelte nella direzione del regno di Dio.

Alessandro  Cortesi op

Pane, dono, gratitudine

Il 1 settembre è nella Chiesa italiana Giornata nazionale per la custodia del Creato ed apre un mese – tempo del creato – dedicato all’attenzione e alla cura dell’ambiente. La CEI ha proposto un  documento di riflessione a partire dalla riscoperta del pane. Ne riporto alcuni brevi brani quale occasione per ascoltare il messaggio che giunge dal pane frutto della terra e del lavoro di tante persone in questo momento in cui anche a causa della guerra in Ucraina proprio il grano e il pane e vengono a mancare in tante regioni:

“Quante cose sa dirci un pezzo di pane! Basta saperlo ascoltare (…)  Ogni pezzo di pane arriva da lontano: è un dono della terra. (…) Quando Gesù prende il pane nelle sue mani, accoglie la natura medesima, il suo potere rigenerativo e vitale; e, dicendo che il pane è “suo corpo”, Egli sceglie di inserirsi nei solchi di una terra già spezzata, ferita e sfruttata. (…) Gesù, dopo aver preso il pane nelle sue mani, pronuncia le parole di benedizione e rende grazie. È la gratitudine il suo atteggiamento più distintivo, nel solco della tradizione pasquale. Essere grati è, dunque, l’attitudine fondamentale di ogni cristiano, è la matrice che ne plasma la vita… (…)

Chi non è grato non è misericordioso. Chi non è grato non sa prendersi cura e diventa predone e ladro, favorendo le logiche perverse dell’odio e della guerra. Chi non è grato diventa vorace, si abbandona allo spreco, spadroneggia su quanto, in fondo, non è suo ma gli è stato semplicemente offerto. Chi non è grato, può trasformare una terra ricca di risorse, granaio per i popoli, in un teatro di guerra, come tristemente continuiamo a constatare in questi mesi.  (…)

Prendere il pane, spezzarlo e condividerlo con gratitudine ci aiuta, invece, a riconoscere la dignità di tutte le cose che si concentrano in un frammento così nobile: la creazione di Dio, il dinamismo della natura, il lavoro di tanta gente: chi semina, coltiva e raccoglie, chi predispone i sistemi di irrigazione, chi estrae il sale, chi impasta e inforna, chi distribuisce. In quel frammento c’è la terra e l’intera società. Ci fa pensare anche a chi tende inutilmente la sua mano per nutrirsi, perché non incontra la solidarietà di nessuno, perché vive in condizioni precarie. (…)

Mangiare con altri significa allenarsi alla condivisione. A tavola si condivide ciò che c’è. Quando arriva il vassoio il primo commensale non può prendere tutto. Egli prende non in base alla propria fame, ma al numero dei commensali, perché tutti possano mangiare. Per questo mangiare insieme significa allenarsi a diventare dono. Riceviamo dalla terra per condividere, per diventare attenti all’altro, per vivere nella dinamica del dono. Riceviamo vita per diventare capaci di donare vita. (…) Torniamo, dunque, al gusto del pane: spezziamolo con gratitudine e gratuità, più disponibili a restituire e condividere.(…)”

Alessandro Cortesi op

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