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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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III domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è  coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.

E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.

Alessandro Cortesi op

XXII domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Ger 20,7-9; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

“Da quel momento Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto … “

Dopo il momento in cui Pietro dice la sua fede in Gesù, e Gesù a lui affida un compito di essere autorità e roccia ci troviamo di fronte all’incomprensione di Pietro di fronte alla via da seguire. Gesù inizia a parlare della sua via sulla quale incontrerà il rifiuto, non il successo, e che sarà scelta di servizio nonostante l’ostilità. Non è tolta la sofferenza, ma è affrontata nella libertà. Gesù non poté non comunicare ai suoi discepoli la consapevolezza che il suo cammino non era un percorso di affermazione e di potenza. La vicenda di Giovanni battista ed altri segnali indicavano che anche lui avrebbe potuto vivere una sorte simile a quella dei profeti, rifiutati ed eliminati. Eco di questi momenti in cui Gesù comunica ai suoi l’orizzonte del suo cammino si ritrovano nei vangeli in più punti. Egli parlava di se stesso in riferimento al figlio dell’uomo, una figura messianica e diceva: il figlio dell’uomo dev’essere consegnato. Richiama quindi una figura conosciuta nel mondo ebraico, il figlio dell’uomo, indicata nel libro di Daniele in rapporto al ‘resto fedele’, dei santi dell’altissimo, coloro che subirono la persecuzione e resistettero. La loro speranza era fissa nella fedeltà di Dio e nell’incontro con lui dopo la morte (Dan 7,13-14.25-27). Ma il figlio dell’uomo era anche conosciuto come figura individuale, proveniente da Dio, come giudice alla fine dei tempi, quindi una figura trascendente che attua un giudizio su tutta la storia.

Parlando così del figlio dell’uomo Gesù suggerisce una prima indicazione sull’esito tragico della sua vita. Si tratta con probabilità di una esplicitazione elaborata dalla comunità dopo l’evento della Pasqua. Gesù aveva preparato i suoi alla via che lo avrebbe condotto alla croce non tanto con predizioni, quanto con il suo atteggiamento, con alcune parole che i discepoli compresero solamente dopo, con la decisione della sua scelta nel vivere sino in fondo la sua vita come dono di liberazione. La figura del figlio dell’uomo fa intravedere l’orizzonte della risurrezione e della gloria ricevuta da Gesù da parte del Dio fedele. La sua esistenza – ci dice Matteo – va letta alla luce della vicenda del figlio dell’uomo.

Matteo pone questo momento all’inizio di una nuova fase della vita di Gesù: il suo insegnamento d’ora in avanti è riservato ai discepoli chiamati a seguirlo. Non più le folle saranno al centro della sua attenzione ma i discepoli. Matteo inoltre richiama le Scritture. La vicenda di Gesù rientra nel disegno di Dio: non si tratta di un compimento di una precisa profezia, piuttosto il suo cammino è fedele al dono di alleanza che nelle  Scritture è narrato.  E’ cammino di sofferenza ma la morte non è l’ultima parola. ‘il terzo giorno’ è richiamo all’annuncio della risurrezione (cfr. 1Cor 15,4). Matteo presenta Gesù nel suo andare incontro alla sofferenza alla morte e alla risurrezione. Pietro reagisce con forza a questo annuncio e Matteo riporta un confronto diretto tra Gesù e Pietro: Pietro infatti si rifiuta di accogliere un tale annuncio che sconvolge le sue attese sul messia. E Gesù rimane fermo. Addirittura lo accusa di non pensare secondo Dio, ma secondo gli uomini. C’è l’opposizione di due modi di pensare al messia. Pietro è accusato di essere colui che divide, perché è ostacolo (scandalo) al cammino di Gesù nel suo essere obbediente alla missione ricevuta dal Padre. L’apparente buon senso di Pietro, che rifiuta il volto di un messia che debba affrontare la via della sofferenza e della debolezza dà voce alle attese di un messianismo di gloria e di affermazione. Egli attendeva in Gesù il volto di un Dio re forte, capace di instaurare un nuovo ordine politico e sociale. Matteo, sensibile alle tentazioni presenti nella sua comunità attratta da un messianismo di tipo violento, secondo il modello degli zeloti, richiama la comunità a seguire Gesù sulla strada che egli ha percorso.

Matteo richiama la comunità a seguire Gesù sulla strada che egli ha percorso. Seguire Gesù implica un cambiamento radicale nel pensare Dio stesso e accogliere il volto di Dio come amore che si dà fino alla fine.

Matteo nel suo vangelo è attento al fatto che Gesù chiama a seguirlo come comunità: egli chiede ai suoi un atteggiamento di fede che cambia l’esistenza e il modo di pensare. E’ una sequela da attuare come chiesa. Si tratta di riproporre lo stile di Gesù insieme come comunità. La comunità che Gesù desidera è una comunità che vive innanzitutto un rapporto profondo con lui, che lo segue, che non si lascia distrarre da altri criteri di riferimento per le proprie scelte. Una seconda caratteristica è la disponibilità a lasciarsi mettere in crisi anche dal rimprovero di Gesù: la comunità deve scoprire che nella debolezza della croce si attua la rivelazione di Dio come amore e la salvezza come dono per tutti. Una terza caratteristica è quella di condividere la via di Gesù, di farne lo stile della sua vita, anche se questo va contro modelli di vita dominanti e diffusi e che presentano una via di affermazione, di successo e di violenza.

Alessandro Cortesi op

XXXII domenica del tempo ordinario – anno C – 2022

2Mac 7,1-2.9-14; 2Tess 2,16-3,5; Lc 20,27-38

“Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei, i quali negano che vi sia risurrezione…”. La questione di fondo posta a Gesù dai sadducei è una provocazione riguardo ad un tema dibattuto nelle scuole religiose del tempo. I termini in cui è posta la domanda esprime una curiosità superficiale e banale: di chi sarà moglie nella risurrezione una donna che ha avuto sette mariti in terra? I termini sono quelli del possesso, della sottomissione, di unfuturo pensato come riproposizione di dinamiche di potere. Una domanda che intende manifestare l’assurdità di una vita dopo la morte. Tuttavia la sfida implica questioni più profonde e Gesù non risponde alla domanda ma rinvia alla fede nel Dio vivente.

Nel Primo testamento si può scorgere uno sviluppo e maturazione di comprensione sulla vita oltre la morte. In una fase più antica il senso della vita era individuato nel suo compiersi nel benessere, nella pace, nell’abbondanza di beni visti come doni di Dio. I giusti possono così godere del numero degli anni, della serenità dei rapporti, dei doni della provvidenza. La morte reca i tratti di un ritorno alla terra. E’ questa la linea sostenuta dai sadducei che limitavano la loro religiosità alla Torah. Ma nella Bibbia si fa strada nel tempo anche un’altra comprensione. Vi sono infatti testi che invitano a non temere la morte per aprirsi ad una speranza per una vita che rimane indefinita ma ha suo fondamento nella fedeltà di Dio che non può abbandonare alla morte i suoi figli: “Ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria” (Sal 73,23-24). “…Dio potrà riscattarmi, mi strapperà dalle mani della morte” (Sal 49,16). La morte vista come regno delle ombre (lo sheol) non ha l’ultima parola, perché Dio è più forte. “… non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16,10-11). L’accento è posto sulla fedeltà di Dio che non viene meno e si fa appello alla fede dei giusti. Così nel libro della Sapienza il giusto è presentato come colui che sta nelle mani di Dio e sperimenta la sua fedeltà (Sap 3,2). La speranza in una vita oltre la morte giunge a maturazione nella dolorosa vicenda dei fratelli Maccabei (2Mac 7; cfr, Dan 12,1-4). In queste linee matura all’interno dell’ebraismo un pensiero sulla risurrezione che Gesù condivideva.

Di fronte alla provocazione dei sadducei Gesù richiama le promesse di Dio. Non risponde alla casistica e nel suo silenzio critica un modo di pensare la risurrezione come una continuazione della vita terrena. Il suo messaggio richiama al Dio dei viventi, alle promesse fatte ad Abramo Isacco e Giacobbe. E’ il Dio dell’alleanza che continua a comunicarsi ai discendenti di Abramo. La vita oltre la morte non deve esser considerata quale proiezione di una condizione terrena. La risurrezione è dono di comunione con Dio in una novità assoluta in relazioni nuove di amore che iniziano nel presente. L’incontro con Dio è perciò esperienza che inizia nella vita umana e non rimane chiusa, non si limita ad una questione individuale, ma è comunione con Lui e con gli altri. Gesù invita a coltivare tale incontro sin dal presente, a scoprire il volto di Dio come Dio dei viventi, a non disperdersi in curiosità che sviano e celano una pretesa di dominare anche su Dio. Credere nella risurrezione è affidarsi al Signore dei viventi, al suo progetto di vita in pienezza e buona per tutti. Gesù richiama così a rendersi disponibili a questo disegno sin d’ora, nel condividere le sue scelte di vita e non di morte.

Alessandro Cortesi op

La vita che verrà

Heavy metal: è un’espressione che può essere riferita al genere musicale derivato dall’hard rock, musica dirompente, pesante, oscura, ma in Irlanda tale espressione è usata ad indicare il senso di comunità che spinge le persone a venirsi incontro, ad aprire gli occhi sulla sofferenza degli altri, a porgere il proprio sostegno. E’ questo il senso con cui tale termine viene ripreso in un dialogo verso la fine del film La vita che verrà-Herself (2020) della regista  Phyllida Lloyd. E’ quel movimento di attenzione e di cura che si genera anche in situazioni in cui è presente il sostegno sociale, ma spesso le persone si imbattono nelle difficoltà burocratiche nell’impossibilità di incontrare comprensione umana, nei ritardi e pastoie di un sistema di aiuti in cui si diventa numeri senza volto o dati di asettiche statistiche.

Heavy metal è la scoperta di Sandra, riuscita a fuggire dal rapporto con un uomo violento con le sue due figlie piccole. Nel faticoso percorso che le si apre davanti dopo il drammatico distacco, Sandra trova assistenza nei servizi sociali, ma si scontra con ritardi, lungaggini burocratiche, freddezze e decide di iniziare a costruirsi una casa con le sue mani. Costruirsi una casa: è una metafora la casa, che tiene insieme l’orientamento alla nuova vita ed alle relazioni verso cui ella investe ogni sua energia. Sul suo cammino trova diversi sostegni e presenze: fra tutte l’appoggio di Peggy, sua datrice di lavoro, segnata da una dolorosa perdita, che le mette a disposizione il denaro necessario ed un terreno nel proprio giardino. La casa viene così innalzata in un giardino che dalla condizione di abbandono acquista nuova vitalità. Il costruttore Aido poi la aiuta con la sua competenza e sensibilità che gli deriva dal rapporto con un figlio con la sindrome di Down. La sua avvocatessa Jo le si rende vicina nel portare avanti le pratiche e lotta con impegno per il riconoscimento dei suoi diritti. Si tratta di profili di persone segnate da ferite diverse, che hanno percepito l’importanza del legame con gli altri e che si intrecciano nel porre a disposizione ciò che hanno, aprendo possibilità di infrangere muri di difficoltà e di incomprensione.

La vita che verrà – Herself è film che intende denunciare la situazione di fragilità e abbandono di donne che si trovano ad affrontare in solitudine la violenza che segna le loro vite ed in particolare il dramma della violenza domestica, nascosta, subdola e che difficilmente può trovare vie di liberazione. Così pure è denuncia di un certo tipo di assistenza fredda e burocratica che umilia e affossa le persone nel senso di desolazione. Nel film queste vite infrante trovano modo di aprirsi a costruzioni nuove, come la casa di Sandra simboleggia nel suo crescere poco alla volta, nella condivisione di un aiuto fatto di mani diverse e condotto nella quotidianità. La casa stessa diviene segno di riscatto e luogo di resistenza. E’ una storia di vittime ma il messaggio centrale del film può essere ritrovato in una linea di rialzamento – risurrezione? – sin d’ora, sin dagli incontri ordinari della vita, a partire dalla forza della speranza e dal convergere di tanti sostegni che attuano reciprocità nel condividere e, senza eroismi, agiscono seguendo il senso profondo del procurare aiuto a chi è nel bisogno. La vita che verrà è un futuro nuovo che sorge sin dal presente e trova il suo humus in gesti ordinari, in sguardi capaci di vedere, in mani che si danno da fare.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Pasqua – anno B – 2021

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Nei discorsi riportati negli Atti degli Apostoli si possono scorgere gli schemi della prima predicazione su Gesù dopo la Pasqua. Al centro sta la testimonianza della sua morte e della risurrezione. Nel discorso a Gerusalemme Pietro pone in luce il contrasto tra l’agire degli uomini, di rifiuto e rinnegamento nell’uccidere Gesù e l’azione potente del Dio di Abramo e dei padri che non lo ha lasciato nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’. A Lui l’Abbà, Gesù ha affidato tutta la sua vita rivolgendosi consegnandosi nel momento della morte (Lc 23,46). E il Padre lo ha risuscitato dai morti. Con il suo intervento di potenza e di vita il Padre ha portato a compimento – dice Pietro – ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’.  La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento di quel farsi vicino di Dio all’umanità per vie ‘che non sono le vostre vie’. E pone l’esigenza di un cambiamento, di una trasformazione della vita accogliendo il Santo e il Giusto e seguendo le tracce del suo cammino.

Di questo anche parlano i racconti delle apparizioni di Gesù. Queste pagine possono essere lette come tentativo di comunicare quell’indicibile esperienza di incontro in modo nuovo con il crocifisso dopo la sua morte. E sono anche indicazioni su come possiamo incontrarlo nella nostra vita.

Luca presenta un incontro con il Risorto a Gerusalemme, là dove tutto era iniziato e dove ora gli undici insieme ad altri, sono provocati ad aprirsi ad un modo nuovo di incontrare Gesù. La prima preoccupazione sta nell’affermare che il Risorto è il medesimo  Gesù visto sulla croce e che la sua presenza è viva e reale. Gesù è veramente risorto.

Luca intende contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche, presenti probabilmente all’interno della sua comunità di persone provenienti dalla cultura greca, di chi disprezzava la corporeità e pensava la risurrezione solamente come immortalità dell’anima. L’esperienza dell’incontro con il risorto conduce a scoprire che Gesù non è un fantasma.

Nel racconto Gesù invita a toccarlo e guardarlo, ad incontrarlo in una vita che comprende tutte le dimensioni della sua persona. ‘Sono proprio io’. Il risorto è colui che riporta in una condizione nuova anche tutto ciò che attiene alla corporeità dell’esistenza umana. In contrasto con una religiosità tutta centrata nel ‘salvare l’anima’ Gesù propone ai suoi di assumere il movimento che ha segnato tutta la sua vita, di entrare nella logica dell’incarnazione, di far continuare quella forza di trasformazione della realtà che Lui ha testimoniato nei suoi gesti di cura, di tenerezza iniziando una storia diversa segnata dall’amore che rinnova e trasforma.

Chiede di mangiare con i suoi e torna a tavola: richiama i tanti gesti di condivisione e di accoglienza degli esclusi vissuti nel suo cammino terreno nelle tavole delle case attorno alle quali radunava marginali e irregolari. In questo gesto sta il significato della condivisione e del suo stare in mezzo alla sua comunità ora in modo nuovo, che richiede uno sguardo rinnovato, e rinvia ad incontrarlo nella storia e nella vita laddove si attua la condivisione.

Gesù in mezzo ai suoi offre loro anche un’importante indicazione sui luoghi in cui ritrovare la sua presenza di Risorto. Apre infatti loro la mente all’intelligenza delle Scritture: invita a ritornare alle Scritture e scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia: quello è un luogo in cui incontrare il Risorto. Il mangiare insieme e la condivisione concreta del pane della vita è ancora luogo d’incontro.

Ed ancora l’essere radunati dal suo saluto: ‘Pace a voi’. Il dono del risorto e il saluto della pasqua è il saluto della pace. E’ questo l’orizzonte entro il quale poter vivere oggi l’esperienza del Risorto che ci fa suoi testimoni.

Alessandro Cortesi op

Non sono fantasmi

Non sono un fantasma… L’incontro con Gesù risorto rinvia i discepoli a scorgere l’importanza della corporeità. L’incontro con lui passa attraverso i corpi crocifissi di quanti subiscono la violenza e l’ingiustizia come lui.

Il pensiero non può non andare a uomini e donne sottoposti nelle diverse aree del mondo a  situazioni di violazione di diritti umani fondamentali. Non sono fantasmi: chiedono e implorano di essere accolti alla tavola in cui condividere parte dei beni della terra. E’ implorazione di condividere, il pane, in questo tempo della pandemia è richiesta di condividere i vaccini che possono evitare morte e sofferenza.

Non si può tacere di fronte ad una politica  europea e italiana che continua i respingimenti di esseri umani in violazione delle norme fondamentali di rispetto dei diritti e di soccorso. Anche in questi giorni continuano a giungere notizie non solo di naufragi dei gommoni pieni di persone che tentano di raggiungere l’Europa, ma anche di respingimenti attuati contro donne, bambini trattando persone in cerca di rifugio con la violenza e il disprezzo. Tutto questo dovrebbe suscitare l’indignazione e la reazione di tutti e delle comunità cristiane in particolare proprio in questo tempo di pasqua in cui si guarda al mistero della risurrezione del crocifisso,

Anche in questi giorni è stato documentato come avvengono i respingimenti di persone inermi abbandonando alla deriva barche con persone che implorano (cfr Nello Scavo, Grecia, le immagini choc di un altro respingimento in mare, “Avvenire” 14 aprile 2021)

Mentre accade questo in Libia il poliziotto trafficnate di uomini Bija viene non solo scarcerato per mancanza di prove relativamente ed accuse connesse al traffico di esseri umani e di commercio illegale di petrolio, ma anche promosso al grado di maggiore della cosiddetta guardia costiera libica: è accusato dalla Corte dell’Aia di crimini contro i diritti umani in quanto responsabile della gestione di traffici e di violenze e torture nei campi di detenzione dove i migranti sono trattenuti e sottoposti a torture e sevizie nell’area di Zawyah. (cfr. documentazione a cura del giornalista Nello Scavo)

Il Centro Astalli non cessa di ricordare ad ogni evento il dramma di tante persone e l’urgenza di cambiare orientamento di fronte ai migranti: nel comunicato stampa del 20 gennaio 2021 si legge  “Ogni giorno ascoltiamo di torture e violenze nei racconti dei migranti che incontriamo al Centro Astalli. Dalla Libia le persone non hanno altra possibilità che tentare di fuggire: la situazione che descrivono è di un clima generalizzato di violenza e terrore. È evidente che c’è un problema molto serio di gestione delle frontiere da parte degli Stati europei e di un’inerzia intollerabile da parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali. Le isole greche, i Balcani, la frontiera della Spagna e il Mediterraneo centrale, pur essendo contesti giuridicamente diversi, sono sempre più luoghi di morte. Non è possibile continuare a ignorare l’ecatombe che si consuma alle porte di casa nostra”.

E’ sconcertante che in questa situazione si siano ascoltate in sede di incontro ufficiale tra governo italiano e il nuovo governo libico espressioni da parte italiana di “soddisfazione per quello che fa la Libia nei salvataggi” (cfr. F.Mannocchi, Grandi affari in Libia: una torta da 450 miliardi di dollari. E l’Italia prova a giocarsi la partita, “L’Espresso”, 9 aprile 2021)

E tutto ciò mentre il governo italiano appare più preoccupato a favorire il commercio delle armi che vede in questi giorni la consegna all’Egitto della fregata multimissione Fremm, fornitura peraltro mai sottoposta alla verifica della Camera, confermando legami di interesse con un paese in cui sono in atto violazioni a livello generalizzato di diritti umani.

Scelte che favoriscono e assecondano violenza e scelte di commercio degli armamenti si manifestano in totale contrasto al riconoscere che l’umanità di Cristo va riconosciuta nei volti umani delle vittime dell’ingiustizia e dei torturati e dovrebbero suscitare un moto di reazione da parte di ogni credente in Cristo.     

Una valutazione della situazione generale aiuta anche a scorgere come sia urgente cambiare la narrazione riguardante la realtà delle migrazioni e delle richieste di asilo in Italia. Nell’ultimo anno si è registrato un calo delle richieste di asilo (-39%) e un aumento dei dinieghi: “Nel 2020 sono state presentate 26.963 domande d’asilo, in calo del 39% rispetto al 2019. Sul totale delle richieste esaminate dalle Commissioni territoriali per l’asilo (41.753), ben il 76% ha ricevuto un diniego; solo l’11,8% ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e il 10,3% la protezione sussidiaria. Infine, meno del 2% ha avuto la cosiddetta ‘protezione speciale’” (Ilaria Sesana, Migrazioni quei rifugiati senza protezione, “Avvenire”, 15 aprile 2021).

Come sottolineare il prof. Maurizio Ambrosini (Chiari i dati e la realtà socio-economica. Immigrazione uguale crescita, “Avvenire” 10 aprile 2021 ) si dovrebbe radicalmente cambiare il modo di vedere la presenza dei migranti anche in questo momento di generale difficoltà nella realtà italiana. La sua analisi basata sugli studi dell’Istituto Cattaneo curato da Asher Colombo e Gianpiero Dalla Zuanna rileva innanzitutto che “dalla crisi del 2008 i flussi migratori verso l’Italia hanno perso vigore, fino a toccare nel 2020 il livello minimo degli ultimi decenni, con un saldo positivo di appena 80mila unità, nascite comprese (…) negli ultimi trent’anni gli arrivi dall’estero hanno largamente sostituito l’immigrazione interna nelle regioni centro-settentrionali, fornendo un contributo decisivo alla crescita del bacino di lavoratori manuali a disposizione di imprese e famiglie…”.

“La ‘gelata’ dell’immigrazione negli ultimi anni è una conseguenza della stagnazione dell’economia italiana. Lo sviluppo economico invece è associato all’immigrazione: la attrae, la impiega, ne trae beneficio. Già oggi l’immigrazione si concentra nelle regioni più prospere, con più occupazione e più benessere per i nativi. Basti pensare a quello che succede in ambito familiare: per ogni donna adulta di classe media che trova un lavoro stabile fuori casa, vi sono buone probabilità che a casa sua si generi almeno un mezzo posto di lavoro, e che a beneficiarne sia una donna immigrata. Se vogliamo riprendere a crescere, avremo bisogno d’immigrati. Se arriveranno, vorrà dire che avremo ripreso a crescere”.

Sono osservazioni che anche da un punto di vista di analisi della vita sociale dovrebbero far riflettere in vista di un radicale cambio di direzione nelle politiche migratorie, da orientare innanzitutto nel rispetto dei diritti umani ed in una lungimirante visione della vita sociale di un Paese e nel quadro internazionale.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Quaresima – anno B – 2021

Crijn Hendricksz Volmarijn, “Cristo e Nicodemo”

2Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

La IV domenica di Quaresima si apre con un invito alla gioia. La prima lettura offre una sintesi del percorso dell’incontro con Dio: da un lato un dono di alleanza da parte di Dio per mezzo di inviati e messaggeri. Ma spesso i profeti hanno trovato indifferenza e ostilità. Alla premura e cura di Dio corrisponde il rifiuto e il disprezzo. A fronte di tale incomprensione la Bibbia presenta la reazione di Dio come appassionata indignazione per tale chiusura e insensibilità. Ma proprio il secondo libro delle Cronache si conclude con un rinnovato gesto di fedeltà di Dio, che per mezzo dell’opera di un re pagano Ciro apre al popolo d’Israele la via del ritorno e della liberazione dall’esilio.

Il dialogo tra Gesù e Nicodemo sorge dalla curiosità di questo maestro ebreo e conoscitore delle Scritture che si reca ad incontrare Gesù di notte. Riconosce in Gesù un uomo venuto da Dio perché si è lasciato interrogare dai segni che compie e forse avverte nella sua vita la nostalgia di nuovi inizi anche se intende interrogarsi su di sé senza che gli altri lo notino. Gesù indica che vedere il regno di Dio è possibile solo per coloro che nascono dall’alto. Nascere dall’alto significa un nascere interiormente accogliendo il dono dello Spirito: è per questo un nascere nuovo. In questa accoglienza si attua così un giudizio che si svolge nel cuore di quanti si trovano di fronte a Gesù:

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”

Gesù con i suoi gesti rende vicino il Dio che ama il mondo. Davanti a lui non si può rimanere indifferenti. Vi è una chiamata a prendere posizione davanti a lui ed in questo si compie un giudizio. Accogliere Gesù porta ad accogliere la luce in contrasto con le tenebre.

Credere in lui non è solo atto intellettuale né si esaurisce unicamente in indicazioni morali. ‘Credere’ nel IV vangelo è movimento che coinvolge l’intera esistenza, cuore e vita, e pone in un cammino di incontro e di cambiamento. Affidarsi a lui è via per ricevere in lui la vita eterna: è una comunione che inizia nella storia e si apre al rapporto vivo per sempre con Dio.

Gesù a Nicodemo propone un movimento di innalzamento: Gesù gli propone una rinascita, che nonostante la sua età deve compiersi dall’alto e di nuovo, una nascita che può iniziare solamente se ci si rivolge a Gesù così come nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al serpente posto in alto sull’asta da Mosè (Num 21,4-9): era quello un segno di guarigione e di salvezza, punto di riferimento della speranza di tanti che soffrivano in preda alla malattia.

“Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15)

Il IV vangelo legge la croce come innalzamento. Gesù è posto, lui il condannato, su di una posizione più alta di tutti gli altri: se la croce è il segno del fallimento, Gesù morendo in quel modo manifesta il volto dell’amore di Dio che giunge al segno supremo. Dallo sguardo a Gesù sgorga un interrogativo per tutti coloro che lo seguono: chiede una scelta di affidarsi a lui assumendo la sua via. E proprio in questa scelta si compie un giudizio ed una nascita dall’alto e di nuovo. Sotto la croce si compie un raduno nuovo: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Alessandro Cortesi op

Nicodemo

“Nella Chiesa nuova alla man dritta c’è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune, a olio lavorato; e questa dicono che sia la migliore opera di lui” così scriveva nel 1642 Giovanni Baglione nella sua descrizione de Le vite de’ pittori, scultori et architetti  dal pontificato di Gregorio XIII dal 1572 in fino ai tempi di papa Urbano VIII nel 1642. Il riferimento è ad una tela di Jacopo Merisi detto il Caravaggio dipinta tra 1602 e 1603 e collocata sopra l’altare in una cappella della chiesa di santa Maria in Vallicella (Chiesa nuova) nel centro di Roma. La chiesa era officiata dalla comunità degli oratoriani fondati da san Filippo Neri. La nobile famiglia Vittrice aveva una cappella nella chiesa ed aveva commissionato l’opera a memoria di un parente defunto, Pietro. E Caravaggio dipinse la tela nei primi anni del 1600. Ora la tela è conservata nei Musei vaticani.

Si tratta di un quadro di ampie dimensioni. – tre metri di altezza per circa due di larghezza – in cui la scena raffigurata non è il momento della crocifissione né la sepoltura, ma il momento della deposizione di Gesù dalla croce. Un gruppo di discepole e discepoli è così raccolto attorno  al corpo di Gesù che viene poggiato su di una pietra dove si sarebbe proceduto alla cura e unzione.   

Al centro del dipinto sta il corpo di Gesù esanime avvolto in un lenzuolo con cui è stato calato dalla croce, sostenuto da due figure maschili. Una a sinistra dal volto più giovane è Giovanni, il discepolo amato, che regge con le sue braccia il corpo di Gesù ed è proteso con il suo sguardo a fissare il volto del maestro mentre la mano sinistra si avvicina. toccare la ferita del costato. L’altra figura di uomo in primo piano può essere identificata con Giuseppe di Arimatea, membro del sinedrio che attendeva il regno di Dio e che chiese a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43) o secondo altri è proprio Nicodemo, il maestro d’Israele che si recò da Gesù nella notte (cfr. Gv 3,1-2; 19,39-40). Con le braccia raccolte una sull’altra regge le gambe di Gesù accompagnando il movimento della deposizione del corpo sulla pesante pietra verso cui scende il lenzuolo bianco e su cui saldamente poggiano i suoi piedi e le gambe robuste.

In un secondo piano si scorgono i volti di alcune donne: si distingue Maria, la madre di Gesù con il capo coperto da un velo che contorna il volto raccolto in uno sguardo tutto concentrato su Gesù: è raffigurata con le braccia aperte quasi ad abbracciare nello star vicina al corpo abbandonato del figlio. Espressione di silenzio, di dolore e di attesa. Accanto a lei Maria di Magdala è in pianto ed è fissata nel momento in cui si sta asciugando le gote recando con la mano un fazzoletto a tergere le lacrime che le rigano il viso. Con gli occhi rivolti al cielo e le braccia aperte verso l’alto è poi una terza figura di donna, Maria di Cleofa. Il suo gesto suggerisce preghiera e grido rivolto al cielo ma anche dà all’intera composizione il dinamismo di una salita verso l’alto. Sono presenti quindi le donne che avevano seguito Gesù fino alla croce e con loro Giovanni il discepolo amato, vestito di una tunica verde avvolto in un mantello di colore rosso e Nicodemo. I volti delle donne e dei due uomini che sorreggono il corpo di Gesù compongono insieme quasi un movimento che discende a cascata dall’angolo a destra e giunge al corpo di Gesù proseguendo nel gesto del braccio. La pietra di marmo in primo piano è raffigurata con l’angolo rivolto a chi guarda, quasi ad uscire dal quadro stesso. Tutte le figure poggiano su quella pietra, pietra del sepolcro e dell’unzione.

L’intera composizione manifesta una discesa ma anche un ascendere, proprio a partire da quella pietra su cui tutti stanno appoggiati e che regge ogni dolore e ferita. Quella pietra è infatti la pietra d’angolo che evoca il salmo 118,22: la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo’ (cfr Mt 21,33-43). Vi sono poi alcuni particolari che possono essere notati: innanzitutto il corpo di Gesù non reca i segni della tortura e del sangue, è un corpo pulito e luminoso. La luce che attraversa il dipinto scende dall’alto a destra ad illuminare il corpo abbandonato. La sua mano rilasciata verso il basso giunge a sfiorare la pietra ed arriva sino ad indicare una pianta che cresce al di sotto della pietra, la medesima pianta che viene raggiunta anche dal lembo del lenzuolo bianco e luminoso che avvolge il corpo deposto. E’ una pianta verde e viva, che si contrappone ad un’altra pianta con le foglie appassite all’altro lato della pietra. La pianta verde è un segnale posto nel punto più basso del dipinto che indica la vita e la risurrezione.

In questo quadro Caravaggio viene ad esprimere un grande messaggio che comunica anche a chi osserva la tela proprio attraverso lo sguardo di Nicodemo che rivolge il suo volto dall’alto in basso a chi guarda dall’esterno. Mentre i discepoli sono fuggiti e hanno abbandonato Gesù solamente le donne e il discepolo amato lo hanno seguito e con loro è presente sotto la croce il maestro inquieto e curioso, Nicodemo. Al suo sguardo sembra che sia affidato un messaggio che corrisponde a quanto apprese da Gesù nella notte in cui si recò a presentargli i suoi dubbi e la sua ricerca.  In quel dialogo Gesù gli aveva parlato di un innalzamento; in quel dialogo Gesù gli aveva detto qualcosa di difficile da comprendere, l’esigenza di un rinascere di nuovo e dall’alto. Nicodemo in questo momento fissato da Caravaggio si trova ad accompagnare il corpo di Gesù nella morte vero il basso ad essere deposto sulla pietra. Ma quella pietra scartata dai costruttori è testata d’angolo di una nuova costruzione, di vita. La pianta viva e il lenzuolo bianco, la luce radiosa che illumina il corpo esanime ma con i tratti di chi si è abbandonato al Padre recano l’annuncio della luce che irrompe nel buio, della vita che vince la morte, di una pietra che diviene base di una costruzione di pietre viventi, di comunione. Nel volto di Nicodemo Caravaggio riporta un ritratto di Michelangelo (artista che aveva vissuto un secolo prima di lui e a cui Caravaggio si riferisce anche richiamando nel corpo di Cristo la medesima postura del corpo abbandonato del Cristo della Pietà di Buonarroti). Forse anche a dire che l’arte può aiutare ad accompagnare a scorgere la luce.

E’ una scena di morte, ma anche di vita, di rinascita he porta con sé a rinascere in modo nuovo, dall’alto, coloro che sono accanto a Gesù nel suo abbassamento fino alla morte di croce. Nicodemo piegato e affaticato nel suo rivolgersi a coloro che osservano sembra comunicare loro il suo comprendere proprio in quel momento quanto Gesù gli aveva confidato nella notte in cui lo aveva incontrato accogliendo la sua inquietudine e gli aveva indicato una strada: Dio ha tanto amato il mondo che ha donato il suo Figlio Unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna. La luce è venuta nel mondo aveva detto Gesù a Nicodemo. Ed ora questa luce si rende viva e presente nel corpo senza più forze di Gesù stesso. Nicodemo è chiamato ad offrire le sue energie per accogliere quella luce e ‘vedere il regno di Dio’.  Nel dialogo Gesù gli aveva indicato che questione essenziale è ‘vedere il regno’ cioè la presenza di Dio nel mondo e in Israele. E per questo è necessario rinascere dall’alto. L’identità di Gesù è tutta in rapporto al regno e incontrare lui implica cambiare idee sul modo religioso di vedere Dio. Gesù aveva indicato a Nicodemo la via di una rinascita, non dal basso, con le proprie forze, ma dall’alto, accogliendo un dono. E’ paradossale che la sua rinascita dall’alto stia avvenendo in rapporto con Gesù che egli sta accompagnando nel suo abbassarsi. Nascere di nuovo è una novità. Sulla croce Gesù è stato umiliato, ma anche posto in alto al di sopra di tutti: ora sta  già facendo irruzione la luce e la vita nuova. Attorno a Gesù è raccolta la prima chiesa, inizio del regno. Lo sguardo di Nicodemo invita ad entrare in questa convocazione, ad accogliere quella parola che in una lontana notte egli ascoltò da Gesù. C’è una luce da accogliere più forte del buio, c’è una vita che vince la morte. Gesù, la pietra scartata, è principio di comunione nuova.  

Alessandro Cortesi op

II domenica di Quaresima – anno B – 2021

Gen 22,1-18; Rom 8,31-34; Mc 9,1-9

Tre pagine segnano la seconda tappa del cammino di quaresima: una pagina di fede e di alleanza (la legatura di Isacco), una pagina di invito a vivere non per se  stessi ma nello Spirito (Paolo ai Romani), una pagina di luce che illumina il cammino di Gesù e indica la Pasqua come dono di luce.

Nel cammino di Gesù che sarà la via della croce, la trasfigurazione è segno carico di annuncio e di speranza: prepara i discepoli allo scandalo della passione e morte di Gesù ed offre loro una luce per comprendere che proprio la via della croce è la via della risurrezione e della gloria. “fu trasfigurato”, dice Marco: Dio è il soggetto di questo evento di un volto luminoso. Non la metamorfosi di un dio che prende forme umane come nei racconti pagani, ma la lucentezza del volto umano di Gesù in cui traspare la presenza di Dio stesso.

Le vesti splendenti e bianche, come nessun lavandaio potrebbe renderle, sono il segno di una condizione celeste, di vicinanza unica a Dio. Accanto a Gesù sono i tre discepoli. Sta qui un indizio che rinvia alla passione e morte di Gesù perché i medesimi tre, i suoi più vicini, saranno con lui nell’orto del Getsemani (Mc 14,33) e si lasceranno prendere dal sonno nel momento della prova.

Mosè e di Elia invece sono personaggi del passato: di essi si attendeva il ritorno (cfr. Mal 3,22-24). Mosè, la grande guida dell’esodo ed Elia, profeta della fede, racchiudono nella loro presenza il riferimento all’intero cammino d’Israele alla storia di un’alleanza che non viene meno, all’unica storia della salvezza. Gesù va compreso all’interno di una storia in cui Dio si china e si fa vicino al suo popolo.

Di fronte allo splendore ed alla luce i discepoli sono presi dallo spavento. Pietro aveva riconosciuto in lui il Cristo ed era stato invitato a seguirlo. Ora propone di fare tre tende, con allusione alla festa ebraica delle capanne, che anticipa il riposo della fine dei tempi. Ma non è questo il momento della gioia e del riposo, è invece questo il tempo dell’ascolto. Inoltre la tenda rinvia al luogo della dimora: ora la dimora è la stessa umanità di Gesù, è lui nuova casa e luogo verso cui andare.

La nube che avvolge nell’ombra richiama la presenza di Dio nel deserto (Es 16,10; 24,18) e la voce dall’alto invita all’ascolto: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo”. Come al momento del battesimo al Giordano la voce indica l’identità di Gesù il Figlio, l’amatissimo. Ora essa è rivolta ai discepoli e richiama all’ascolto (cfr. Dt 18,15). Sull’Oreb Dio si era comunicato a Mosè indicandogli le sue vie, ora su un monte alto – con allusione al monte del sacrificio d’Isacco – Gesù è manifestato come ‘il Figlio’. La voce richiama i discepoli a rivolgersi a lui e ad ascoltarlo lasciandosi coinvolgere.

Sul volto del servo sofferente che percorre la via della croce sono invitati a scorgere i tratti del Figlio amatissimo, lo svelamento del volto di Dio come amore. La trasfigurazione è dono di luce che fa scorgere il volto di Dio amore e rivela anche come la nostra esistenza può essere trasfigurata nell’ascolto di lui e della sua parola.

Alessandro Cortesi op

Raffaello Sanzio, Trasfigurazione – 1520

Un’opera d’arte nel cammino di Quaresima

Il dipinto della Trasfigurazione di Raffaello è una delle sue ultime opere ed è datata al 1520. E’ un quadro a tempera su tavola di grandi dimensioni 4 metri per quasi 3 metri di larghezza. Fu commissionata per la cattedrale di Narbona nel 1517 dal card. Giulio de Medici che aveva anche affidato a Sebastiano del Piombo il compito di dipingere una risurrezione di Lazzaro.

Nella parte superiore del quadro è raffigurata la figura di Gesù sospesa nel cielo tra le nubi con le braccia aperte ed alzate verso l’alto e le mani spalancate. La sua veste bianca appare mossa da un vento che soffia gonfiandola e ne fa svolazzare i lembi. Alla destra di Cristo c’è Mosé che reca nelle sue mani le tavole della legge e alla sinistra Elia con in mano un grande libro.  Anch’essi sono come sospesi e sollevati dal vento in un’atmosfera di tensione verso la figura di Cristo e di ascolto.

Al di sotto di Cristo su di un pianoro roccioso sono raffigurati gli apostoli, Pietro Giacomo e Giovanni. Le loro vesti hanno i colori che rinviano alla fede alla speranza e alla carità e parlano di un quadro carico di simbolismi. Sono rappresentati su di un piano alla sommità di un colle elevato, allusione al monte della trasfigurazione. Le loro posture sdraiate e alla ricerca di riparo indicano i gesti di chi è preso da un forte disorientamento: appaiono come investiti da un grande bagliore e sono quasi tramortiti da un evento che li getta a terra e li rende incapaci di sopportare la luce.

Alla sinistra quasi nascosti emergenti tra gli alberi vi è la presenza di altre due enigmatiche figure, forse riferiemnto a due santi patroni locali, in atteggiamento di meraviglia mentre a destra sullo sfondo è rappresentato un tramonto che tutto tinge di rosa sopra un panorama di fiumi, colline e con il profilo di una città in ultimo piano.

Nella parte inferiore del dipinto la scena è invece occupata da un gran numero di persone. Si può scorgere un gruppo di nove uomini sulla sinistra che possono essere identificati con gli apostoli che non hanno seguito Gesù sul monte. Un altro gruppo sulla destra è composto di donne e uomini con atteggiamenti di richiesta e supplica e al centro un giovane sorretto nella sua condizione di sofferenza: appare in preda ad una crisi epilettica. Coloro che lo accompagnano indicano il giovane, presentato nei vangeli come posseduto da uno spirito muto che stanno portando da Gesù. Questo incontro è narrato nei vangeli sinottici subito dopo che Gesù è sceso dal monte (Mc 9,14-29). Le persone che lo accompagnano sono spaventate e alla ricerca di un aiuto: hanno sguardi smarriti e imploranti e qualcuno indica il ragazzo. Altre braccia si levano anche dal gruppo degli apostoli ad indicare verso l’alto. Al centro in posa statuaria, rappresentata in ginocchio e di spalle in un movimento di torsione, una figura femminile si rivolge agli apostoli e fa segno in direzione opposta verso il ragazzo con gli indici a lui rivolti.

C’è un grande movimento in questi gruppi ma anche un senso di buio e di smarrimento che permea volti e sguardi e contribuisce ad offrire l’impressione di paura, agitazione e sconforto. Il buio è anche sottolineato dal colore scuro della costa del monte che costituisce lo sfondo della scena. E’ momento di esperienza del male che deturpa il volto bello e fresco di un giovane e lo rende sfigurato teso, con gli occhi sbarrati e rivoltati verso l’alto.

I critici d’arte hanno discusso sull’attribuzione del dipinto ad altri artisti oltre a Raffaello a partire dalla suddivisione del dipinto in due livelli e vi è stato chi ha pensato ad una collaborazione di altri nella composizione dell’opera. Benché non sia esclusa l’ipotesi della presenza di altre mani oltre a quelle di Raffello la progettazione della struttura del quadro va attribuita a lui quale sua ultima opera. come anche dice il Vasari che “di sua mano continuamente lavorando la ridusse ad ultima perfezione”.

Sta forse proprio in questa scelta di avere unito insieme due scene dei vangeli l’indicazione di un messaggio teologico che l’opera offre a chi la osserva. Un critico ha suggerito di leggere questo episodio del livello inferiore non come descrizione della guarigione dell’indemoniato ma come un precedente tentativo di guarirlo da parte degli apostoli rimasti nella pianura mentre Gesù era salito sul monte con gli altri tre ( M.Calvesi, Oltre Raffaello. aspetti della cultura figurativa del 500 romano, Roma 1984, 33-41).

Tale indicazione può essere interessante per scorgere nel quadro di Raffaello la scelta di aver posto insieme lo sguardo alla paura e allo smarrimento, alla perdita di felicità che il male arreca nella vita umana. Lo spirito muto che si è impadronito del ragazzo è una forza di dominio e oppressione. Da qui la preoccupazione e l’angoscia dipinta sui volti del ragazzo e dei suoi familiari. Dall’altro il dipinto conduce a scorgere la luce abbagliante che è dono del cammino di Gesù: nel suo percorso verso la croce (e il gesto delle mani alzate evoca la vicenda della condanna e della crocifissione) donando se stesso al Padre e ai suoi Gesù non solo si è posto nella linea dell’alleanza di Dio che si è comunicato a Mosè e nelle parole dei profeti, ma ha rivelato la chiamata profonda a cui ogni uomo e donna è chiamato, l’essere rivestito nella propria umanità del dono di vita che viene da Dio, la sua luce. Il volto umano di Gesù trasfigurato si contrappone ad ogni male che sfigura il volto di chi soffre. La luce e le vesti bianche sono promessa di una chiamata e di un destino di stare accanto a lui.

Il profilo di Gesù con le braccia aperte con il vento che scompone le sue vesti è rinvio al Risorto nel suo salire al cielo: è il Gesù con il volto pasquale di crocifisso risorto. Il buio del male e di tutte le forze che opprimono la vita umana non sono l’ultima parola, ma vengono sconfitte dalla luce che proviene dal volto trasfigurato di Gesù che reca in sé ogni volto. Nel dipinto un particolare colpisce: gli sguardi di tutti i personaggi coinvolti sono rivolti o da una parte o dall’altra ma non verso la figura di Gesù con le vesti bianche e luminosa, nuovo Adamo in cui l’umanità trova il suo compimento. Solamente il ragazzo preda dello spirito muto rivolge lo sguardo verso l’alto. Gesù nella luce della risurrezione è colui che prende con sè chi è vittima delle forze di male ed è fonte di liberazione.

Forse proprio la figura di donna al centro del dipinto di spalle che indica agli apostoli con le due braccia il fanciullo può essere letta come indicazione – per lo spettatore che guarda e a cui ella volge le spalle – di un percorso da vivere: il gesto della sua mano tesa ad indicare il fanciullo trova proseguimento in certo qual modo nella direzione indicata dal braccio teso verso l’alto del ragazzo.  Può essere letto come invito ad accogliere l’angustia e la sofferenza di chi è in preda al male ed in questo com-patire aprirsi alla fede nella forza liberante che viene da Gesù e dal Dio dell’alleanza. Il suo volto luminoso che ha attraversato la sofferenza è dono per ogni uomo e donna perché compiano la propria umanità lottando contro il male seguendo la sua strada.  

Nell’incontro con il ragazzo epilettico il vangelo di Marco presenta un dialogo in cui emergono aspetti centrali di tutto il vangelo. Il padre del ragazzo chiede a Gesù: ‘Se tu puoi qualcosa abbi pietà di noi e aiutaci’. Gesù risponde ‘se tu puoi! tutto è possibile a chi crede’ e il padre ancora: credo aiuta la mia incredulità’.

Nell’opera di Raffaello si può forse scorgere un invito a questo affidamento di ‘credere nell’incredulità’, in un cammino in cui la vicinanza a chi soffre si fa via per aprirsi al dono di luce del volto di Gesù: è lui che accoglie il grido che sale dalle vittime di ogni male ed apre ad una comunione di luce.

Alessandro Cortesi op

V domenica di Quaresima – anno A – 2020

0A711DC2-39F3-42E8-9C55-09682AF5E42EEz 37,12-14; Rom 8,8-11; Gv 11,1-45

Nel capitolo 11 del IV vangelo il ‘segno’ della vita, dell’uscita dal buio del sepolcro, segue ai segni del vino a Cana, dell’acqua con la donna di Samaria, della luce nell’incontro con il cieco.

Gesù, informato he il suo amico Lazzaro è morto attende e non si reca subito da lui. In questo intende offrire un messaggio: ‘questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio’. Il ‘segno’ della vita di Lazzaro è orientato a far comprendere che la persona di Gesù è presenza di vita. Nella sua presenza c’è il dono di un profumo che vince l’odore della morte. In lui si può incontrare la vicinanza del Padre che vuole la vita. Nel credere come affidarsi in lui, una vita nuova può essere scoperta sin da ora: ‘Chi crede è passato dalla morte alla vita’.

Gesù dice a Marta. ‘tuo fratello risusciterà’. E ciò costituisce una conferma della fede di Marta che gli risponde: ‘So che risusciterà nell’ultimo giorno’. Ma Gesù le propone un affidamento più profondo e radicale: ‘Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà’. Ogni segno nel IV vangelo è orientato a condurre all’unico grande segno in cui Dio rivela la sua gloria: la morte sulla croce di Gesù, ora di rivelazione del volto di un Dio che si è umanizzato e che s’incontra nell’amore.

Gesù propone a Marta non solo di vivere la fede nella risurrezione nell’ultimo giorno, ma di vivere sin d’ora un’esperienza di vita nuova nell’incontro con lui, nell’uscire dalle chiusure e camminare sulla sua via. Per Marta – e per ognuno di noi – è già ora presente la possibilità di una vita nuova, l’esperienza della risurrezione. Gesù guida Marta ad aprirsi non solo al superamento di una mentalità che vede la vita chiudersi con la morte ma la invita anche ad uscire fuori, come grida a Lazzaro ‘Vieni fuori’.

Gesù fa uscire Lazzaro dal sepolcro: nella mentalità semitica era questo l’ingresso nello Sheol, l’ambiente delle ombre: ‘Non gli inferi ti lodano Signore, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. Il vivente, il vivente ti rende grazie, come io faccio quest’oggi’ (Is 38,18-19).

Uscire fuori da ogni dominio e oppressione è possibile a chi scopre che in Gesù la morte è stata vinta e il dono della risurrezione, dono dell’incontro con lui è realtà già in atto nella nostra esistenza e già ha inizio nel presente.

Paradossalmente dopo il segno di Betania cresce l’opposizione contro di lui: proprio di fronte a gesti di vita si prepara la sua morte. Betania è così luogo di morte e di vita. Di fronte alla morte Gesù è turbato e reagisce opponendosi a tutto quello che essa comporta. Negli elementi presenti nel racconto si può scorgere già in filigrana l’annuncio della risurrezione di Gesù: le lacrime di chi piange alla tomba, il sepolcro e la pietra, le fasce, l’invito a ‘lasciar andare’. Il segno di Lazzaro rinvia così al segno definitivo, la morte di Gesù sulla croce. E’ questo il momento in cui si rende visibile il volto di Dio, la sua gloria come amore: nel suo morire, avendo amato fino alla fine, Gesù rende visibile una vita che va oltre la morte. La via di fedeltà all’amore e al servizio è strada che non va verso la chiusura e il buio ma va verso la vita.

Alessandro Cortesi op

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Respiro

Non attendere che Dio su te discenda/ e ti dica «Sono»./ Senso alcuno non ha quel Dio che afferma/ l’onnipotenza sua./ Sentilo tu nel soffio, onde Egli ti ha colmo/ da che respiri e sei/. Quando non sai perché t’avvampa il cuore:/ è Lui che in te si esprime. (18.05.1898 Viareggio – Rainer Maria Rilke – 1875-1926 – Poesie giovanili 1895-1898, a cura di G.Baioni A. Lavagetto, Einaudi, Biblioteca della Pléiade 1994)

E’ una riflessione amara e triste quella di questi giorni, di fronte ad uno scenario di morte. L’epidemia che divampa in tutto il mondo è impressionante perché toglie il respiro. Toglie il respiro a coloro che si trovano a lottare nei reparti di terapie intensiva per far entrare un po’ d’ossigeno nei polmoni incapaci, toglie il respiro a tutti coloro che si dedicano, con l’affanno e l’ansia di chi non ha mezzi sufficienti, nell’arginare la sofferenza dei malati. Toglie il respiro a chi rimane a casa, ingabbiato tra le mura domestiche nel desiderio e nella nostalgia dell’aria aperta. Toglie il respiro a chi si espone per motivi di lavoro, di servizio, di cura ad entrare in contatto con altri in un tempo in cui l’invisibile nemico si annida dove non sappiamo, in un piccolo particolare del quotidiano. Chi sta lottando nella malattia testimonia la durezza del cercare il respiro attimo per attimo. Chi sta vivendo l’interruzione del lavoro, di impegni avverte la sospensione dell’aria che dà vita nel venir meno delle risorse, nel pensiero di un futuro incerto e buio.

In questa ricerca di respiro che tutti avvolge indistintamente da origine e cultura, da colore della pelle e appartenenze sociali, da lingua e religione, da condizione di vita ci scopriamo uniti nella medesima umanità e nel legame che ci rende interdipendenti gli uni dagli altri. Un legame che fa avvertire il dolore dell’altro come proprio, la speranza dell’altro come propria, la sofferenza dell’altro come propria. E’ questo forse il respiro della compassione, respiro che è anelito di tanti, di tutti… respiro in cui si fa vicino non il Dio lontano delle religioni e dei sistemi teologici, ma il Dio della vita, il Dio da scrutare nel respiro della terra, nel fiato corto di chi fa più fatica, nel respiro di un’umanità ferita e in ricerca.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Pasqua – anno C – 2019

IMG_4009At 5,27-32.40-41; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19

La fede dei primi testimoni trova il suo senso e la sua chiave di lettura nella risurrezione, vero centro focale dell’esperienza cristiana.

L’apocalisse per indicare Gesù risorto usa l’immagine dell’agnello: è un agnello immolato che riceve onore e gloria da tutte le creature del cielo e della terra. Nel quarto vangelo Gesù muore mentre nel tempio venivano immolati gli agnelli per la cena pasquale ebraica. L’immagine dell’agnello ferito, ma in piedi, indica Cristo crocifisso e risorto, in cui risplende la gloria del Padre.

Nel libro degli Atti Pietro davanti al sommo sacerdote offre la sua testimonianza di fede centrata sulla pasqua: “Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: ‘Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avevate ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui”

Il Dio dei padri ha risuscitato Gesù, ed è lui ora capo e salvatore: Pietro parla della risurrezione come continuità di vita. Colui che è stato incontrato vivente dopo la morte non è un fantasma ma è il medesimo Gesù che ha annunciato la venuta del regno. Il suo annuncio si pone in fedeltà al disegno di salvezza del Dio dei padri nei confronti di Israele e di tutti i popoli.

Pietro per riferirsi alla risurrezione usa delle metafora. Parla di un ‘rialzarsi’ ma anche fa riferimento ad un innalzamento per opera del Padre: ‘Dio lo ha innalzato con la sua destra’. Sono linguaggi diversi per dire che la vita di Gesù Cristo appartiene ad una dimensione ‘altra’ da quella terrena. I cieli in alto si contrappongono alla terra in basso e Cristo ora vive in una dimensione diversa. L’evento della risurrezione va oltre l’esperienza umana: è irruzione della ita di Dio che tocca la storia. Pietro indica Cristo come vicino: è il medesimo Gesù di Nazareth. Nel contempo vive ora come l’innalzato: la sua presenza può essere incontrata in modo nuovo, nell’esperienza del credere.

Il quarto vangelo narra alcune apparizioni di Gesù dopo la Pasqua. In particolare la scena si svolge in tre momenti. All’inizio sta il presentarsi di Gesù a coloro che hanno seguito l’invito di Pietro ‘io vado a pescare’. Poi c’è il gesto di mangiare insieme con i discepoli sulla riva del lago; infine il dialogo con Pietro interrogato sull’amore: ‘mi ami tu?’.

La scena iniziale è posta in una atmosfera quotidiana con la presenza di sette discepoli individuati con precisione: Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Questi sono presentati nel momento in cui salgono sulla barca tornando alle loro attività consuete. E vivono il fallimento della pesca, ‘ma in quella notte non presero nulla’. Gesù si presenta sulla riva ma non è riconosciuto. Invita a gettare nuovamente le reti dalla parte destra. Nonostante molte interpretazioni possibili è forse augurio di bene (la destra simbolo di buona fortuna). Solamente di fronte alla meraviglia di una pesca abbondante il discepolo che Gesù amava scorge il volto di Gesù: è lui infatti che dice a Pietro: ‘E’ il Signore’ e Simon Pietro si getta incontro.

E’ questa una scena di riconoscimento in cui il quarto vangelo suggerisce che Gesù si rende vicino e presente, ma in modo nuovo e va riconosciuto in un modo nuovo di ‘vedere’: Gesù ora va incontrato con gli occhi della fede e dell’amore. La barca e la rete che non si spezza possono essere interpretati come simboli della chiesa che segue il suo Signore.

La condivisione nel mangiare insieme è poi gesto di comunione: Gesù chiede che il pesce pescato sulla sua parola sia portato insieme a quello già preparato insieme al pane sul fuoco. E ripete quei gesti che aveva lasciato loro come indicazione del senso dell’intera sua esistenza: ‘Prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce’.

Il mangiare insieme allude all’esperienza liturgica in cui si incontra Cristo risorto nei segni che lui ha compiuto. Segue una terza scena attorno al dialogo tra Gesù e Pietro. Per tre volte Gesù ripete l’unica domanda sull’amore. E quasi il ripercorrere le tre volte in cui Pietro durante la passione negò di essere di quelli di Gesù. Alla fine Pietro dice: ‘Signore tu sai tutto, tu sai che ti amo’. Sono parole che esprimono come la radice della missione stessa di Pietro non sta nelle sue forze ma nel perdono di Gesù. La sua missione avrà fecondità e significato solamente se trasmette l’esperienza della gratuità accolta e nel seguire lui, unico pastore delle pecore (Eb 13,20).

Alessandro Cortesi op

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Le stelle di Lampedusa

“Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce”.

Pietro Bartolo è un medico, è il medico di Lampedusa. Non l’ho mai incontrato personalmente ma chi l’ha incontrato può dire che Pietro è una di quelle persone che sembra di aver conosciuto da sempre, con cui poter instaurare un dialogo fatto di familiarità e di vicinanza, di quell’umanità vera che è nostalgia struggente oggi in tempo di cattiveria.

Leggere il suo libro Le stelle di Lampedusa (Mondadori 2018) è come entrare nel suo cuore, scorgere le sue preoccupazioni, il suo impegno, la sua disponibilità a vivere fino in fondo la condizione che Lampedusa ha vissuto orami da anni, essere l’isola dell’accoglienza, di quell’accoglienza faticosa tremenda e dolorosa dei profughi dal mare, dei migranti che sono stati gettati nella traversata del Mediterraneo dopo l’inferno della Libia, sui barconi e sui gommoni. Un testimone, Pietro, figlio di pescatori, pescatore pure lui, testimone di incontri con un’umanità sfruttata e disperata, un’umanità dolente e tenuta in condizione disumana e costretta a subire dopo il dramma del viaggio le difficoltà di vivere in un’Europa che esclude e rifiuta.

Testimone di un senso di impotenza e dell’urgenza di mettersi a disposizione oltre ogni limite delle forze per accogliere, spettatore di una vicenda mondiale che, nell’ignoranza e indifferenza dei più, genera ingiustizia e dolore, impoverimento di persone disperate che fuggendo dalle terre della guerra e della miseria si espongono a vivere percorsi fatti di orrore e desolazione fino alla morte.

La sua sensibilità lo conduce a percepire il dramma degli altri, dei bambini. Il suo libro parla soprattutto di bambini, delle loro storie, del loro dolore e dei grandi che ruotano attorno a loro. E dell’opera di Pietro nel farsene carico, fino a prenderli con sé, ma anche fino a sperimentare il senso profondo di impotenza:

”Migliorò, ma le sue condizioni erano comunque gravissime e a Lampedusa non avevano le attrezzature necessarie per curarlo bene. Allora lo indirizzai verso l’Ospedale dei bambini di Palermo. Ricordo il viaggio verso l’elipista e l’ultimo saluto. Stringeva in mano un coniglietto di peluche che gli avevano dato poco prima e che lui aveva ribattezzato ‘Battolo’. Prima di salutarci e decollare di novo, mi sorrise. E in quel preciso istante capii che quello, e solo quello, era il modo giusto per fare i conti con il senso di impotenza. Accogliere e curare. E nulla più” (p.39)

Le pagine del libro narrano di nomi, volti, persone con la delicatezza di chi, medico, sa che dietro ad un volto c’è una sofferenza palese o nascosta da ascoltare, da accompa-gnare, a cui dare spazio. La storia di Anila è struggente: questa bambina giunta sola e devastata aveva solamente notizia della presenza della mamma in Europa… ma l’Europa è grande. Una storia che sembrava giunta ad un possibile lieto fine, in breve tempo e in modo stupefacente, eppure dovette scontrarsi non più con gli orrori della Libia e dei viaggi in barcone, ma con le difficoltà delle leggi, del buco nero della burocrazia. “Aveva attraversato il Sahara e il Mediterraneo, era sopravvissuta a un naufragio e al carcere in Libia e ora era lì, ferma immobile, prigioniera di un’attesa insensata” (p.55).

Anila, una storia simile e diversa a quella di tanti altri bambini, ricordati da Pietro nel suo passeggiare la notte nell’isola avvolta dal silenzio.

“…preferisco pensare che le stelle stiano lì per proteggere le migliaia di bambini che ogni giorno si ritrovano ad affrontare viaggi disperati come quello di Anila. Autentici, coraggiosissimi eroi, capaci di sopportare il dolore e la paura pur di giungere a destinazione, con il sogno di rivedere i loro cari e vivere felici da qualche parte, in un Paese senza guerre o persecuzioni. Ecco perché mi piace tanto venire a passeggiare quaggiù la notte. Perché mi basta alzare lo sguardo per vederli tutti, i bambini che sono passati di qui, Favour, Mohamed, Akim… Le stelle di Lampedusa sono lì per loro” (p.87).

La storia di Anila che con il suo viaggio ha salvato anche la mamma è stata una storia anche di altre stelle, quattro donne che Pietro ricorda nel suo libro, suor Teresa, suor Letizia, Luisa e Monique. Nel libro racconta anche la storia di queste quattro donne straordinarie: le stelle di Lampedusa sono anche loro. E come loro tanti che accompagnano, in un fare silenzioso e indomito, in una terra di disperazione ed orrore, in un mondo segnato da cattiveria e disumanità, a rintracciare i semi di una speranza faticosa e fessure di luce. Come le stelle nel cielo della notte.

Alessandro Cortesi op

 

III domenica di Pasqua – anno B – 2018

IMG_2886.JPGAt 3,13-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

All’inizio della vita della comunità cristiana sta l’annuncio che Gesù Cristo è risorto: nel libro degli Atti si possono rintracciare gli schemi fondamentali della prima predicazione cristiana soprattutto quando sono riportati i discorsi degli apostoli. A Gerusalemme  Pietro (At 3,12-26) pone in risalto da un lato l’agire degli uomini, l’ignoranza, il rifiuto, il rinnegamento e l’uccisione di Gesù; per contro l’azione di Dio che non ha lasciato Gesù nella morte ma lo ha ‘rialzato’: è lui il Padre, Abbà a cui Gesù, il Figlio ha affidato la sua vita.

Con il suo intervento di vita il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Pasqua è evento di passione morte e risurrezione. Luca insiste sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento letterale di una previsione; piuttosto, e molto più profondamente, di una coerenza tra l’agire di Dio nella storia della salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La passione e la morte di Cristo sono lette come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità e rinnovamento dell’esperienza dei profeti. Cristo compie le Scritture perché sceglie le vie dell’inermità, del servizio, del prendere le sorti dei disprezzati e allontanati, la via della misericordia. Al centro la testimonianza della morte e della risurrezione di Cristo.

La prima comunità sperimenta il rischio di dimenticare che Gesù aveva scelto di vivere come povero, con i poveri di Jahwè. Nel suo vangelo Luca presenta questo nel percorso di Gesù in libertà e decisione verso Gerusalemme: sapeva che lì avrebbe incontrato il rifiuto e la condanna. La risurrezione è evento di conferma da parte del Padre che la via percorsa da lui verso Gerusalemme è la via della vita e della risurrezione. Il crocifisso è stato glorificato dal Padre.

Nel suo vangelo Luca presenta un incontro con il Risorto a Gerusalemme, centro del suo vangelo, là dove tutto era iniziato, nel tempio di (Lc 1,8). Gli undici e gli altri con loro vivono in modo nuovo l’incontro con Gesù.

Luca nel suo racconto è preoccupato di affermare che il Risorto è il medesimo e la sua presenza è viva e reale. L’incontro con lui è autentico e segna in modo inatteso un nuovo inizio. Intende così contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche, presenti forse nella sua comunità, di chi deprezzava la corporeità affermando la risurrezione come una sorta di immortalità dell’anima ma nulla più.

L’incontro con Gesù risorto coinvolge l’esistenza: Gesù non è un fantasma, ma invita i suoi ad incontrarlo in modo nuovo: ‘Sono proprio io’. La relazione con lui segna la vita nella sua concretezza. Luca narra che Gesù chiede di mangiare con loro, accoglie il pesce arrostito che gli è porto e condivide con i suoi.

Gesù rimane, ora in modo nuovo. Luca con il suo racconto intende indicare alla sua comunità in quale modo pè possibile vivere l’espereinza dell’incontro con il Risorto. Al centro sta un’esperienza di fede. Nel mangiare insieme la comunità scoprirà la sua presenza. Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: tornare alle Scritture sarà un altro luogo di incontro reale con lui. ‘Pace a voi’: è il saluto che racchiude il dono del risorto ai suoi. Il dono della pace, accolta e da trasmettere, è forza per essere testimoni.

Alessandro Cortesi op

 

aeham_ahmad_damascoPace

La parola ‘pace’ è alla radice di molti tipi di saluto nelle diverse culture. Sia nelle parole, si pensi a shalom / salam aleikum, sia nei gesti che accompagnano il saluto. Talvolta il portare la mano al cuore o il congiungerle con un inchino si fa augurio di pace, un sentimento che tocchi l’interiorità e divenga riconoscimento grazioso dell’altro. Il rinvio alla pace fa parte del modo di porsi davanti al volto e alla vita da accolgiere, a cui lasciare spazio, a cui offrire sguardo di benevolenza.

Nel tempo presente il saluto di ‘pace’ è svuotato e negato dalle diverse forme dell’ingiustizia, della violenza nella molteplicità delle sue forme e dalle minacce di guerra. La pace quale possibilità di vita buona e costruzione di rapporti di riconoscimento è minacciata sia da armi, sofisticate e terribili, sia dall’affermarsi di rapporti di oppressione e di esclusione.

L’augurio pace risuona ma pace non c’è. Anzi sembra proprio che prevalga l’ingiustizia e la scelta delle armi per risolvere i conflitti.

In questi giorni di Pasqua varie azioni di ferocia e violenza inaudita, atti che si delineano come crimini contro l’umanità sono stati compiuti in diverse regioni. Ai confini della Turchia nella regione del Rojava contro la popolazione curda della regione l’esercito turco sta conducendo bombardamenti su villaggi e azioni di guerra denominando tale azione ‘ramoscello d’ulivo’. In Siria bombardamenti con l’uso di sostanze chimiche nel quartiere di Ghouta e poi di Douma alla periferia di Damasco con uccisione di centinaia di bambini ad opera delle forze governative del dittatore Assad. Ai confini della striscia di Gaza dove l’esercito israeliano ha sparato contro manifestanti palestinesi nella ‘marcia del ritorno’ che intendeva ricordare la sofferenza del popolo palestinese per la perdita della propria patria nel 1948 e il diritto al ritorno. Azioni di violenza inaudita, azioni di eserciti tra i più armati del mondo perpetrate contro popolazioni inermi come a Gaza. Crimini contro l’umanità su cui, a parte esili voci e richieste dell’ONU per un’inchiesta internazionale poi respinta, è calato il silenzio a livello di opinione pubblica internazionale. E’ l’indifferenza si diffonde nel senso di impotenza e nella passiva accettazione, nell’abitudine a ricevere notizie, immagini di una ferocia senza limiti. La situaizone che oggi viviamo è quella di una violazione continua del saluto ‘pace’ trasformato nel suo contrario, offesa di guerra, umiliazione dell’altro.

L’invito di papa Francesco è grido ripetuto: lo scorso 1 aprile nel messaggio pasquale ha chiesto ai responsabili di fermare immediatamente lo “sterminio in corso in Siria dove la popolazione è stremata da una guerra che non vede fine”; e ha aggiunto la sua invocazione a pregare “per tutti i defunti, i feriti le famiglie che soffrono… per i responsabili politici e militari… scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non passi da morte e distruzione”.

Nel buio della violenza, dello sterminio e dell’uso di armi atroci che viene condotto in Siria un’immagine richiama al desiderio di pace più forte della guerra.

Aeham Ahmad è un giovane siriano nato nel 1988 a Damasco. Appartenente ad una famiglia palestinese di profughi viveva in Siria nel campo rifugiati di Yarmouk. Sin da bambino è stato educato a studiare la musica e ha proseguito negli anni questa passione. Ma dal 2011 dopo la feroce repressione di Assad dei movimenti della primavera araba la Siria è divenuto un paese segnato da guerra e violenze, sino ad essere devastato e distrutto.

L’immagine di Aeham seduto al pianoforte di fronte alle rovine di un palazzo crivellato da proiettili e bombe fu nel 2015 un segno della resistenza di note di pace, la forza della musica a fronte della immane potenza distruttiva delle armi e della malvagità umana. Nel 2015 Aeham è stato costretto così ad abbandonare il campo rifugiati di Yarmouk prima assediato dalle forze governative e ridotto alla fame, poi dall’arrivo dell’Isis. Ha lasciato la Siria e la sua casa trovando accoglienza in Germania dove ha potuto continuare e praticare la musica. Oggi portando nei suoi concerti quella musica che invoca pace. Il pianista di Yarmouk (ed. La nave di Teseo) è libro che raccoglie la sua storia. Una storia che richiama al saluto di ‘pace’ più forte come desiderio di ogni devastazione e deserto creato dalle armi.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

 

 

II domenica di Pasqua – anno B – 2018

immagine TommasoAt 4,32-35; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

La pagina degli Atti degli apostoli descrive lo stile di una vita comune radicata sul vangelo: la fede nel Cristo risorto genera una vita nuova. Da qui la condivisione dei beni, la fraternità e la testimonianza comune: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano”. Il centro pulsante da cui sgorga la vita di questa comunità è la risurrezione di Gesù: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”.

“Beati quelli che, pur non avendo visto crederanno”. Il IV vangelo presenta un itinerario del credere: Tommaso è testimone di questo itinerario e il suo profilo ritrae quello di ogni discepolo chiamato ad un cammino mai concluso. Tommaso è spinto infatti a passare da un rapporto con Gesù che esige evidenze, fondato sui segni ad un vedere nuovo al credere che si affida. E’ passaggio al credere in rapporto a Gesù risorto.

Gesù si dà ad incontrare vivente ai suoi discepoli dopo la sua morte: si presenta rompendo una condizione di chiusura e di paura. Nell’offrire una narrazione di tale esperienza il IV vangelo insiste su due aspetti: Gesù Risorto, che si presenta in mezzo a loro, portando pace e donando lo Spirito è il medesimo Gesù di prima, è colui che è passato attraverso la sofferenza e la morte. La condizione nuova di vita non elimina la passione e la morte: “…mostrò loro le mani e il costato”. Sulle mani e il costato stanno i segni delle ferite. Gesù accompagna ad incontrarlo nel tener conto di tutto il suo cammino.

Ora si presenta in una condizione nuova: è il medesimo ma la sua presenza non è più come quella di prima. Ora l’incontro con lui diviene possibile in un modo nuovo. Gesù accompagna ancora con pazienza al passaggio del credere: reca ai discepoli i suoi doni, la pace, lo Spirito. Fa sorgere una gioia profonda nel cuore: l’incontro con lui sarà vissuto nell’accogliere la missione che lui affida.

Gesù è quindi il medesimo che ha percorso le strade della Palestina, che ha incontrato i suoi e ha annunciato il regno di Dio, morendo sulla croce, e nello stesso tempo egli è diverso, è il Risorto, e fa entrare i suoi in una nuova comunione con lui.

E’ dato un nuovo dono, lo Spirito: sul primo uomo Adamo Dio aveva alitato un soffio di vita (Gn 2,7), ora il soffiare di Gesù sugli apostoli è dono dello Spirito che sgorga dalla Pasqua: il IV vangelo suggerisce così che una nuova creazione che ha inizio. Sulla croce l’ultimo respiro di Gesù è consegna dello Spirito Santo (Gv 19,30: Ed egli chinato il capo donò lo Spirito). Lo Spirito è donato per continuare l’opera di Gesù di riconciliazione e perdono.

“Come il Padre ha mandato me così anch’io mando voi”: l’invio degli apostoli ha le sue radici nella missione del Figlio da parte del Padre, affonda le sue origini nel mistero della vita trinitaria e vive nel soffio dello Spirito quale dono della Pasqua. ‘come il Padre, così…’ non è indicazione di un esempio da imitare ma indica che solo radicandosi nella vita d Gesù si trova forza per poter essere testimoni: la missione del Padre è al centro e genera l’invio degli apostoli/inviati ad essere continuatori dell’opera di salvezza di Cristo.

“Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. In queste parole è racchiuso il senso dell’intero IV vangelo: un invito e aiuto per ‘continuare a credere’. Il percorso del credere è orientato ad avere la vita inserita nel dono della comunione del Padre e del Figlio.

Alessandro Cortesi op

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Papaveri

Ancora la primavera quest’anno è timida, raggelata da recenti nevicate e improvvisi sbalzi di temperature, da giornate di pioggia e vento che sbatacchiano le esili gemme e i fiori sbocciati quando la luce del sole è riuscita a bucare le nubi e la terra ha comunicato il calore accolto. A breve appariranno in luoghi spesso insoliti i papaveri. E si affacceranno sui cigli delle strade, nelle fessure dei muri a secco lungo i sentieri, nelle massicciate delle ferrovie, sfidando con una esile forza le folate d’aria, le intemperie, con i petali quasi di esile carta stropicciata.

I papaveri con il loor colore rosso fuoco sono un fragile ricordo e rinvio allo Spirito che soffia nella creazione. Sono richiamo al colore acceso che interrompe il verde come fiammella di fuoco vivo e si affaccia al primo ingiallire di campi di grano che maturano. Sono annuncio di pentecoste come soffio dello Spirito che comunica forza di vita.

Il Cristo dei papaveri è una raccolta di gemme poetiche di Christian Bobin, parole di un dialogo essenziale con il Tu vivente del risorto “novantanove scaglie scintillanti di luce. Scendono come balsamo sul cuore umano. Quasi iridescenti riflessi del nome di Dio. Baluginano lievemente sulla porta dell’anima. Lasciano a ciascuno di aprire l’intimità nascosta” (dall’Introduzione di F.G.Brambilla).

Ecco qui alcuni di questi lampi poetici in cui è suggerito uno sguardo a Cristo, nel dialogo, senza pretese di comprendere e spiegare ma nell’abbandono dello stupore. E’ paorla di poesia che si lascia colpire dall’inatteso, dal fragile, sul ciglio della via, lasciandosi prendere dal canto della debolezza, dall’esilità dei papaveri che parlano di gratuità in un mondo distratto e di ipocrisia:

Dio è tanto fragile quanto questi papaveri che gli uomini, per il loro profitto, vogliono strappare dalla terra (LXVI)

Quando ero invitato da qualche parte, io non entravo in casa: entravo negli occhi delle persone. Non vedevo il resto (XII)

Tu sei contagioso come il fuoco dei papaveri che tracciano una strada per il contrabbandiere nel sonno dorato del grano (XXXIX)

Ho visto un giorno un vecchio orologio fermo, ripartire da solo, e ho compreso, ho intuito che tu non smetterai di vivere con la mia morte (L)

E che i nostri cuori si aprano ogni giorno alla freschezza e allo sfavillio dei papaveri (LXIII)

A queste fragili macchie rosse, a queste lacrime di vita che nessuno provoca e che crescono tuttavia, imprevedibili, nel bel mezzo dei campi, nel bel mezzo dei giorni, dei nostri giorni (LXIV)

Poiché tu esisti, persino nei luoghi lontani, come quel rosso vivo nelle messi sobrie, intravisto da una strada tu li inquieti (LXV)

Nell’istante terribile in cui non c’è più niente da credere o da sperare – non più aria né porte – tu sorgi (LXXX)

Hanno fatto di te un’immagine, hanno fatto di te un idolo, hanno fatto di te una Chiesa. Io invece, faccio di te un papavero, il minuscolo stendardo dell’eterno, che fiorisce inaspettatamente e stupisce (XCIII). (da Christian Bobin, Il Cristo dei papaveri, La Scuola Morcelliana 2017)

Alessandro Cortesi op

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