Domenica VI tempo di Pasqua – anno C – 2022
At 15,1-2.22-29; Apoc 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
«Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». E’ questa la sintesi della questione che investe la prima comunità. Per seguire Gesù è necessario osservare le prescrizioni della legge giudaica? In radice il problema riguarda il rapporto con Gesù: il suo annuncio deve essere posto nelle forme religiose di una legge? Esigere la circoncisione per i pagani che si accostavano alla comunità cristiana era visto da Paolo come uno svuotamento del messaggio stesso di Cristo. La salvezza è radicalmente dono, aperto per tutti e non prevede né privilegi di appartenenza né l’osservanza di una legge. E’ evento della grazia di Dio che suscita la fede.
Paolo e Barnaba sono preoccupati innanzitutto di affermare che la salvezza non dipende da movimenti umani, dall’osservanza di una legge sia pure religiosa, ma è dono gratuito. Non richiede alcuna condizione. Essi richiamano alla gratuità dell’agire di Dio in Cristo, il suo primato su ogni tipo di costruzione umana, anche religiosa. E’ polemica non contro la fede ebraica a cui Paolo rimane legato e fedele, ma contro ogni forma religiosa che esaurisce la fede ad un sistema di prescrizioni.
Nella problematica emerge un’altra questione. Gesù nella sua esperienza storica era rimasto all’interno della tradizione ebraica. Non si era posto per lui il problema del venir meno alle prescrizioni della legge ebraica. Gesù riprende la protesta dei profeti riguardo all’importanza della vita, al fatto che l’uomo è più importante del sabato, la polemica contro un’osservanza che svuota il senso profondo della legge (Mc 7,8-13.20-21). Incontrando alcuni pagani Gesù risponde alle loro richieste e riconosce una fede che salva come nell’incontro con la donna sirofenicia (Mc 7,24-30).
Nel periodo successivo alla Pasqua si pongono alle prime comunità questioni nuove proprio nell’incontro con i pagani. Dal confronto con gli ‘altri’ sorge una domanda inedita che conduce ad aperture e cambiamenti. Nell’incontro è presente lo Spirito che spinge ad una comprensione delle esigenze del vangelo nelle nuove situazioni. Gli apostoli sono rinviati ad ascoltare nuovamente l’annuncio di Gesù: il regno di Dio, in atto già nella storia, non è legato ad un tempio, ad una classe di sacerdoti, ad una terra particolare, ma è apertura all’Alterità di Dio, al suo amore per tutti, alla convivialità ospitale testimoniata da Gesù nel suo passare facendo il bene e annunciando relazioni di fraternità e sorellanza. In base a tale ascolto, nel dibattito, la comunità a Gerusalemme sceglie come orientarsi: era una rinuncia rispetto a ciò che sembrava essenziale – l’osservanza della legge giudaica – ma che essenziale non era rispetto alla gratuità della salvezza. E ciò si fa strada nell’incontro nelle case dei pagani (cfr. At 8; 10) e nell’esperienza dell’agire dello Spirito oltre i confini.
A Gerusalemme, in quello che viene indicato come primo ‘concilio’ avviene un passaggio decisivo per l’esperienza cristiana e si evidenzia uno stile di ascolto del vangelo in rapporto alla storia. Cresce la comprensione della Parola di Dio, la tradizione progredisce nell’esperienza di una ricerca che si lascia illuminare dagli incontri.
Anche oggi di fronte a questioni nuove e ad una situazione culturale che pone sfide e interrogativi dovrebbe continuare ad attuarsi questo coraggio di accogliere il messaggio liberante del vangelo e tradurlo in nuovi linguaggi con fiducia nella promessa di Gesù: “il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Ricordare e insegnare sono i doni dello Spirito che aprono a camminare in fedeltà al vangelo come bella notizia di vita e di salvezza per tutti.
Alessandro Cortesi op
Fuori dal tempio
E’ morto nei giorni scorsi Pierluigi Di Piazza, un testimone di accoglienza, di riflessione, un uomo segnato dalla tensione di ricerca del vangelo e di solidarietà.
Era nato a Tualis di Comeglians (Udine) il 20 novembre del 1947. Era entrato nel Seminario di Udine, e ha poi proseguito gli sudi a Roma all’Università San Tommaso d’Aquino nel 1973. Ordinato presbitero nel 1975, ha insegnato religione nella scuola dal 1973 al 2004. Nel 1994 ha ottenuto il dottorato con la tesi “Morire nella città secolare: riflessioni teologiche in prospettiva pastorale”, avendo fr. Dalmazio Mongillo come relatore. Il suo impegno è stato indirizzato alla cultura della pace, della nonviolenza e della solidarietà. Parroco nel paese di Zugliano, ha fondato nel 1989, un Centro di accoglienza per immigrati, profughi e rifugiati politici intitolato a padre Ernesto Balducci. La Parola del Vangelo e l’Eucarestia sono stati i suoi riferimenti insieme all’incontro con le persone e presso il Centro “E. Balducci” ha promosso negli anni ospitalità a moltissime persone insieme ad attività di ricerca e promozione culturale.
La sua testimonianza è una luce in questo nostro tempo. Raccolgo alcune briciole dei suoi scritti in cui traspare la sua profondità umana e spirituale – come lui precisava tale termine in una sua lettera a Margherita Hack “intendendo questo termine in modo laico, come profondità dell’essere, dell’animo, dell’anima, a seconda della sfumatura e sottolineatura che si attribuiscono al termine” (Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete, Nuovadimensione 2013,169).
“L’accoglienza più difficile è stata e continua ad essere quella del dolore delle persone a motivo delle difficoltà e delle tribolazioni personali e soprattutto della morte di persone care, in particolare di quelle improvvise, traumatiche, ad esempio per incidenti stradali o per suicidi, in modo particolare dei figli. La difficoltà consiste nell’accogliere e partecipare con sincerità al dolore; sarebbe infatti imperdonabile registrarlo senza il coinvolgimento del cuore e dell’animo; nell’esprimere poche parole che non devono ripetere frasi confezionate, luoghi comuni; nel contribuire nel modo più umile e imbarazzato a favorire una celebrazione religiosa di saluto il più umana possibile, nella quale Dio non sia forzatamente evocato, ma invece a Lui, al Dio umanissimo di Gesù, ci si possa riferire in mood difficile e sommesso come a Colui che partecipa al dolore e come presenza accogliente di una fede dell’affidamento espressa spesso nel silenzio, con le lacrime, con tanti interrogativi senza la risposta che si vorrebbe. Non ci può essere accoglienza del dolore senza condivisione, senza lasciarsene attraversare e abitare” (Non girarti dall’altra parte, Nuovadimensione 2019,19-20)
La sua accoglienza si lasciata interrogare dalla presenza dei migranti e il suo Centro di Zugliano è divenuto spazio di ospitalità e di domande.
Così scriveva: “I migranti sono infati una grande esplicita rivelazione. Ci rivelano prima di tutto come sta il mondo, le sue situazioni drammatiche … Accogliendo una persona, guardando con umanità il suo volto, la domanda è immediata: perché sei qui, da dove vieni, da quali condizioni di vita? E insieme ci rivelano chi sono provocando in noi incertezza, disagio, timore, curiosità, esigenza di conoscenza delle loro differenze. La lor presenza diventa per noi una provocazione ad uscire da quel modo di pensare che ha pesantemente conformato il nostro mondo: la convinzione errata che il mondo ci appartenga e che il mondi degli altri siano sempre inferiori al nostro (…) Ci raccontano di povertà, violazione dei diritti umani, guerre, di viaggi incredibili per cercare possibilità di vita dignitosa (…) Gli arrivi e le presenza dei migranti ci rivelano chi siamo noi…” (ibid. 47-48).
Ai suoi studenti nel momento in cui lasciava la scuola dopo trent’anni di insegnamento scriveva:
“Mi permetto di esortarvi, perché ogni giorno esorto me stesso, a essere e diventare giovani, donne e uomini sensibili, profondi e intelligenti; a liberarvi dalla logica dell’avere, dell’apparire, della superficialità e della futilità. A non essere fatalisti, conformisti, pigri. A impegnarvi nello studio e un domani nel lavoro; a scegliere di vivere relazioni profonde e significative; a non chiudervi in forme di egoismo, ma a essere disponibili e generosi; a non avere paura dei grandi ideali e neanche dell’apparente piccolezza di presenza, parole e gesti che sono invece importantissimi perché esprimono sensibilità, orientamento, collocazione, senso del vivere…” (ibid. 31)
Nel suo libro Fuori dal tempio. La Chiesa al servizio dell’umanità (Laterza, 2011) Così parlava di se stesso: “un prete schierato e non neutrale, perché la neutralità, anche quella della Chiesa e dei preti è una finzione (…) Sono dalla parte di chi nella vita fatica, soffre, è povero, è spogliato di diritti e di dignità”. “Mi sento laico, umile credente sempre in ricerca, prete per un servizio disponibile, disinteressato, gratuito nella comunità cristiana e nella società; anticlericale, cioè non appartenente ad una categoria; non funzionario della religione”.
Così pure rifletteva: «Spesso rifletto con inquietudine, sofferenza, interrogandomi su come sia stato possibile a partire da Gesù di Nazareth costruire nella storia un apparato religioso di potere e di sacralità che solo in modo vago, intermittente, sfuocato e distorto si riferisce a lui, di fatto oscurando e tradendo la sua persona e il suo messaggio rivoluzionario, nel senso più profondo e completo della parola».
Ogni anno a Natale scriveva con una ventina di altri preti del Friuli “La lettera di Natale” in cui affrontava le questioni e le situazioni del presente. Suoi riferimenti sono stati il Vangelo e la Costituzione con tre parole a guida del cammino: pace, giustizia, accoglienza.
Così l’ha salutato don Luigi Ciotti: “abbiamo condiviso dei cammini importanti, e sapevamo di camminare affiancati anche quando per lungo tempo non era possibile incontrarsi. Ci legavano le assonanze nel modo di leggere il Vangelo come Parola spirituale ma anche discorso civile, capace di pungolarci all’impegno per costruire giustizia già qui sulla terra. Quante volte mi è capitato, girando per l’Italia e in particolare nella sua amata terra friulana, di imbattermi nelle “orme” di Pierluigi! Tracce di umanità e saggezza, di relazioni fertili, di confronti dai quali scaturivano sempre nuovi percorsi di responsabilità”. “Non cercate Pierluigi sotto la terra, sotto la pietra, tra i morti. Vi prego, continuate a cercarlo tra i vivi, tra le persone che ha amato, che ha accolto”. Mandi, Pierluigi, graciis di dut.
Alessandro Cortesi op
XXXI domenica tempo ordinario – anno C – 2022
Sap 11,22-12,2; 2Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10
Episodio proprio del vangelo di Luca, l’incontro di Gesù con Zaccheo è scena vivida e ricca di fascino: presenta un itinerario d’incontro e di scoperta.
All’inizio c’è il movimento di Gesù che attraversava la città. Nel suo cammino verso Gerusalemme Gesù passa e attraversa Gerico. E il suo passare è popolato di presenze diverse. C’è una folla di persone che si accalcano, ma c’è anche chi si avvicina ma viene mantenuto distante. Zaccheo è indicato per nome, e, a differenza della folla indistinta, è descritto con alcune rapide pennellate che ne compongono il ritratto: capo degli esattori delle imposte, malvisto quindi dai suoi concittadini, temuto per il suo potere e nel contempo emarginato; ricco, di una ricchezza costruita sfruttando gli altri, con la frode. Inoltre, breve annotazione significativa, è piccolo di statura e per questo non riesce a sovrastare chi, più alto di lui, gli impedisce di vedere Gesù. Impedimenti fisici e interiori lo tengono lontano: la folla gli impedisce di vedere Gesù. Luca insiste sul verbo, ‘vedere’: “Zaccheo cercava di vedere quale fosse Gesù… corse avanti per poterlo vedere”. Nonostante limiti e impedimenti Zaccheo è mosso da una forza che lo spinge a vedere perché nel suo cuore è presente un’attesa. Con abilità e intuito Zaccheo cerca di superare gli ostacoli e lasciando spazio al suo desiderio: ‘…corse avanti e per poterlo vedere salì su un sicomoro, perché doveva passare di là’. Mentre Gesù passa e attraversa il, villaggio, Zaccheo corre, sale e attende: movimenti che esprimono qualcosa che si sta muovendo dentro. Una curiosità conduce a scavalcare ostacoli; un salire conduce ad andare oltre; un’attesa manifesta apertura di accoglienza.
A questo punto è Gesù a prendere l’iniziativa: alza lo sguardo e dice a Zaccheo ‘scendi subito perché devo fermarmi…’. E’ un cambio di movimento: dal passare per la città al fermarsi nella casa. Nel racconto si racchiude l’indicazione di uno stile: lo sguardo di Gesù si alza al di là della folla e va ad incontrare un volto. Il suo desiderio è fermarsi nella casa, luogo della vita e dell’incontro. Gesù chiama per nome Zaccheo, lo individua come unico. Per primo prende l’iniziativa. Zaccheo non era preparato a dover rispondere ad un indirizzo che lo vede chiamato per nome e si trova spiazzato: si era mosso per curiosità da solamente si rivela un ‘tu’ che lo chiama ad un incontro e lo coinvolge. ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’: nelle parole di Gesù si manifesta un’urgenza insieme all’indicazione di un tempo particolare, un oggi che non è istante simile agli altri, ma tempo della visita di Dio stesso, tempo di salvezza che irrompe. Quell’oggi diventa un tempo nuovo, attimo di una svolta che vede il suo compiersi nella casa, luogo dell’intimità della sua vita.
La risposta di Zaccheo è pronta: scende in fretta e lo accoglie con gioia. Anche Gesù ha superato le barriere, anche lui è salito con il suo sguardo a raggiungere Zaccheo: le parti si rovesciano. Zaccheo cercava di vedere Gesù: è invece Gesù che lo guarda e lo invita, lo precede. Gesù va anche oltre l’ostacolo della folla che si mantiene nella logica dell’esclusione. ‘è andato ad alloggiare da un peccatore’: questo mormorare sintetizza il perbenismo, l’attitudine e disprezzo, il giudizio che condanna e non concede alcuna speranza. Gesù entra nella casa di Zaccheo, colui che è lasciato fuori e si è ritirato ai margini.
In quella casa si attua la novità frutto dell’accoglienza. Gesù è accolto non solo nella casa ma nel cuore, nella vita di Zaccheo. Quell’oggi cambia la vita di Zaccheo e la apre ad una consapevolezza nuova del rapporto con Dio che scende e visita e del rapporto con gli altri. Sorge un nuovo modo di impostare la vita e le relazioni che tocca la concretezza e si declina in una prassi: ‘io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto’.
‘Anch’egli è figlio di Abramo’: con queste parole si conclude l’incontro: Gesù è ‘il Figlio dell’uomo venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto’. Zaccheo cercava di vedere, ma scopre che la sua ricerca era stata preceduta da un’altra ricerca quella di Gesù, per lui, segno della ricerca di Dio per tutte le sue figlie e figli da incontrare sulla strada e nella casa della loro esistenza.
Alessandro Cortesi op
Accoglienza e pace
Due voci in questi giorni mi hanno ricondotto all’incontro di Gesù con Zaccheo che nel suo profilo indica una umanità segnata da tanti problemi, difficoltà e che reca una curiosità ed una ricerca magari inespressa e nascosta in fondo al cuore e che Gesù chiama ad incontrare nella dimensione della casa. E in quella casa giunge una pace nuova che apre a relazioni di giustizia e di pace.
Nei giorni scorsi Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo ha concesso una lunga intervista all’Osservatore Romano. La sua parola è significativa in quanto presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea e Relatore generale al prossimo Sinodo.
Riprendo solo alcune espressioni che esprimono una analisi dell’attuale situazione della chiesa e sottolineature sull’esigenza di un cambiamento che si presenta ormai con i caratteri di una urgenza non più trascurabile.
La prima annotazione riguarda il primato della missione e il rapporto essenziale tra annunciod el vangelo e impegno per la giustizia, la pace e la custodia del creato:
“…oggi in Europa siamo affetti da una patologia, che, cioè, non riusciamo a vedere con chiarezza quale sia la missione della Chiesa. Parliamo sempre delle strutture, il che non è un male certo, perché le strutture sono importanti e sicuramente devono essere ripensate. Ma non si parla a sufficienza della missione della Chiesa. Che è annunciare il Vangelo. Annunciare, e soprattutto testimoniare, la morte e risurrezione di Gesù il Cristo. Un testimoniare che il cristiano deve interpretare principalmente attraverso il suo impegno nel mondo per la salvaguardia del creato, per la giustizia, per la pace (…) Nel mondo secolarizzato di oggi l’annuncio diretto non sempre viene compreso, ma la nostra testimonianza sì. Veniamo osservati e valutati nel mondo per come viviamo il Vangelo.”
Una seconda sottolineatura riguarda lo sguardo alla chiesa come popolo di Dio che vede una comune partecipazione di tutte e tutti alla medesima dignità in cui il sacerdozio ministeriale trova sua origine e senso dall’essenziale sacerdozio comune di tutti i fedeli:
“…nella Lumen Gentium si introduce per la prima volta il concetto di “popolo di Dio in cammino” e di Chiesa come “tempio dello Spirito Santo”, si esplicita il “sacerdozio universale” che riguarda tutti i battezzati. Ecco, io penso che queste giganti intuizioni dei padri conciliari non siano state ancora adeguatamente sviluppate. (…) dobbiamo essere consapevoli che il sacerdozio battesimale non toglie nulla al sacerdozio ministeriale. Tutti noi preti dobbiamo comprendere anzi che non c’è sacerdozio ministeriale senza un sacerdozio universale dei cristiani, perché da questo origina. Mi rendo ben conto che la difficoltà di assimilazione di un concetto, in fondo così elementare, è osteggiato da una formazione presbiteriale che ancora indugia su una «diversità ontologica» che non c’è. (…) tutti noi dobbiamo domandarci cosa significhi essere cristiani oggi. (…) accettare l’inadeguatezza di una pastorale figlia di epoche ormai passate e ripensare la missione. Una scelta che ha implicazioni teologiche pesanti e coraggiose”.
Un terzo punto tra altri evidenziato nell’intervista riguarda lo stile che la comunità cristiana dovrebbe maturare in rapporto ad una realtà in veloce e profondo cambiamento:
“con molta franchezza, la nostra pastorale parla ad un uomo che non esiste più. Dobbiamo essere capaci di annunciare il Vangelo, e far capire il Vangelo, all’uomo di oggi che per lo più lo ignora. Questo implica una grande apertura da parte nostra, e anche la disponibilità — pur fermi nel Vangelo — a lasciarci trasformare anche noi. (…) vedo costantemente è che i giovani smettono di considerare il Vangelo, se hanno l’impressione che noi stiamo discriminando. Per i giovani di oggi il valore più alto è la non discriminazione. Non solo quella di genere, ma anche etnica, di provenienza, di ceto sociale. Sulle discriminazioni si arrabbiano proprio!
(…) vivere sulle orme di Cristo significa vivere bene, significa gustare la vita. Noi siamo chiamati ad annunciare una buona notizia, non un insieme di norme o divieti. (…) Credere nella vita eterna, significa però credere che la vita eterna è già qui, ora. E che come tale va vissuta, e goduta (…) . Questa è la bella notizia! E voglio aggiungere: tutti vi sono chiamati. Nessuno escluso: anche i divorziati risposati, anche gli omosessuali, tutti. Il Regno di Dio non è un club esclusivo. Apre le sue porte a tutti, senza discriminazioni. A tutti! A volte nella Chiesa si discute dell’accessibilità di questi gruppi al Regno di Dio. E questo crea la percezione di un’esclusione in una parte del popolo di Dio. Si sentono esclusi e questo non è giusto! Qui non è questione di sottigliezze teologiche o dissertazioni etiche: qui si tratta semplicemente di affermare che il messaggio di Cristo è per tutti!”
E alla, domanda circa le prese di posizioni dei vescovi del Belgio in favore della possibilità di benedire unioni omoaffettive così ha risposto:
“Francamente la questione non mi sembra decisiva. Se rimaniamo all’etimologia di “bene—dire”, pensate che Dio possa mai “dire—male” di due persone che si vogliono bene? Mi interesserebbe di più discutere di altri aspetti del problema”.
Papa Francesco nella sua riflessione al Colosseo nell’incontro per la pace del 25 ottobre us ha richiamato un diritto alla pace dele persone e dei popoli richiamando la pace come orizzonte di fondo della visione per il presente e il futuro e centtro dell’agire:
“La pace è nel cuore delle Religioni, nelle loro Scritture e nel loro messaggio. Nel silenzio della preghiera, questa sera, abbiamo sentito il grido della pace: la pace soffocata in tante regioni del mondo, umiliata da troppe violenze, negata perfino ai bambini e agli anziani, cui non sono risparmiate le terribili asprezze della guerra. Il grido della pace viene spesso zittito, oltre che dalla retorica bellica, anche dall’indifferenza. È tacitato dall’odio che cresce mentre ci si combatte. Ma l’invocazione della pace non può essere soppressa: sale dal cuore delle madri, è scritta sui volti dei profughi, delle famiglie in fuga, dei feriti o dei morenti. E questo grido silenzioso sale al Cielo. Non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, ma ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto. Merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto. Il grido della pace esprime il dolore e l’orrore della guerra, madre di tutte le povertà. «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (Fratelli tutti, 261). Sono convinzioni che scaturiscono dalle lezioni dolorosissime del secolo Ventesimo, e purtroppo anche di questa parte del Ventunesimo. Oggi, in effetti, si sta verificando quello che si temeva e che mai avremmo voluto ascoltare: che cioè l’uso delle armi atomiche, che colpevolmente dopo Hiroshima e Nagasaki si è continuato a produrre e sperimentare, viene ora apertamente minacciato. In questo scenario oscuro, dove purtroppo i disegni dei potenti della terra non danno affidamento alle giuste aspirazioni dei popoli, non muta, per nostra salvezza, il disegno di Dio, che è “un progetto di pace e non di sventura” (cfr. Ger 29,11). Qui trova ascolto la voce di chi non ha voce; qui si fonda la speranza dei piccoli e dei poveri: in Dio, il cui nome è Pace. La pace è dono suo e l’abbiamo invocata da Lui. Ma questo dono dev’essere accolto e coltivato da noi uomini e donne, specialmente da noi, credenti. Non lasciamoci contagiare dalla logica perversa della guerra; non cadiamo nella trappola dell’odio per il nemico. Rimettiamo la pace al cuore della visione del futuro, come obiettivo centrale del nostro agire personale, sociale e politico, a tutti i livelli. Disinneschiamo i conflitti con l’arma del dialogo”.
In un suo articolo Paolo Ricca, pastore e teologo della chiesa valdese, ha espresso pensieri che sollecitano la chiesa ad essere ‘corpo di pace’, e a porsi in tale modo nel contesto di guerra e violenza che oggi viviamo. Ricca ha così formulato domande scomode ed ha richiamatoo ad uno stile di nonviolenza di parole e di prassi che contrasti il vortice della mentalità di guerra e della corsa al riarmo:
“… il ruolo della Chiesa in mezzo ai conflitti si colloca unicamente nell’ambito della diplomazia? La Chiesa non ha altro da offrire, oltre alle sue preghiere, che una attività diplomatica a più livelli, attingendo anche alla sua millenaria esperienza e proverbiale saggezza? Il corpo della Chiesa può ridursi a essere un corpo diplomatico? La Chiesa non è forse corpo di Cristo? E che cosa può essere in terra il corpo di Cristo, Principe della pace, se non un corpo di pace? Ma dov’è, oggi, questo corpo di pace? Non cercatelo, perché non c’è. E non c’è perché la Chiesa non osa e forse neppure vuole diventarlo. E non osa diventarlo perché, paradossalmente, ha paura della pace, non che sia fatta (la invoca a gran voce anche lei, come tutti gli altri), ma che sia fatta sul suo corpo, cioè che lei, come corpo di Cristo, diventi corpo di pace. Come si diventa corpo di pace? In un modo solo: adottando la nonviolenza come stile e prassi di vita, insegnando capillarmente ai suoi membri la teoria della nonviolenza, le sue radici spirituali e ragioni morali, e addestrandoli alla prassi e tecniche di questa cultura ancora praticamente sconosciuta. (…) C’è un esempio perfetto di quello che può significare essere corpo di pace, oltre a quello offerto dal comportamento del Movimento di Martin Luther King, molto ammirato e citato dalle Chiese, ma per niente imitato. È un esempio che viene da lontano e che tutti abbiamo impresso indelebilmente nella memoria: l’esempio di quell’uomo in maniche di camicia che a Pechino, in piazza Tienanmen, si pose, completamente disarmato, con il suo corpo, davanti a una fila di quattro enormi carri armati e, rischiando ovviamente la vita, obbligò quegli orrendi strumenti di morte a fermarsi e, in questo senso – miracolo! – li disarmò. È questo che dovrebbe essere oggi, nel mondo attuale armato fino ai denti, con armi sempre più perfezionate e distruttive, la Chiesa cristiana. L’uomo di Tienanmen è il suo modello, l’icona vivente di un “corpo di pace”. Se la Chiesa ha paura di diventarlo finalmente (in tutta la sua storia non lo è mai stata), vano è il suo invocare la pace e anche il suo pregare. Temo che Dio non l’ascolti neppure” (Paolo Ricca, La chiesa corpo di pace, “Riforma” 28 ottobre 2022).
Alessandro Cortesi op