la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivio per il tag “salvezza”

XXXI domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Sap 11,22-12,2; 2Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10

Episodio proprio del vangelo di Luca, l’incontro di Gesù con Zaccheo è scena vivida e ricca di fascino: presenta un itinerario d’incontro e di scoperta.

All’inizio c’è il movimento di Gesù che attraversava la città. Nel suo cammino verso Gerusalemme Gesù passa e attraversa Gerico. E il suo passare è popolato di presenze diverse. C’è una folla di persone che si accalcano, ma c’è anche chi si avvicina ma viene mantenuto distante. Zaccheo è indicato per nome, e, a differenza della folla indistinta, è descritto con alcune rapide pennellate che ne compongono il ritratto: capo degli esattori delle imposte, malvisto quindi dai suoi concittadini, temuto per il suo potere e nel contempo emarginato; ricco, di una ricchezza costruita sfruttando gli altri, con la frode. Inoltre, breve annotazione significativa, è piccolo di statura e per questo non riesce a sovrastare chi, più alto di lui, gli impedisce di vedere Gesù.  Impedimenti fisici e interiori lo tengono lontano: la folla gli impedisce di vedere Gesù. Luca insiste sul verbo, ‘vedere’: “Zaccheo cercava di vedere quale fosse Gesù… corse avanti per poterlo vedere”. Nonostante limiti e impedimenti Zaccheo è mosso da una forza che lo spinge a vedere perché nel suo cuore è presente un’attesa. Con abilità e intuito Zaccheo cerca di superare gli ostacoli e lasciando spazio al suo desiderio: ‘…corse avanti e per poterlo vedere salì su un sicomoro, perché doveva passare di là’. Mentre Gesù passa e attraversa il, villaggio, Zaccheo corre, sale e attende: movimenti che esprimono qualcosa che si sta muovendo dentro. Una curiosità conduce a scavalcare ostacoli; un salire conduce ad andare oltre; un’attesa manifesta apertura di accoglienza.

A questo punto è Gesù a prendere l’iniziativa: alza lo sguardo e dice a Zaccheo ‘scendi subito perché devo fermarmi…’. E’ un cambio di movimento: dal passare per la città al fermarsi nella casa. Nel racconto si racchiude l’indicazione di uno stile: lo sguardo di Gesù si alza al di là della folla e va ad incontrare un volto. Il suo desiderio è fermarsi nella casa, luogo della vita e dell’incontro. Gesù chiama per nome Zaccheo, lo individua come unico. Per primo prende l’iniziativa. Zaccheo non era preparato a dover rispondere ad un indirizzo che lo vede chiamato per nome e si trova spiazzato: si era mosso per curiosità da solamente si rivela un ‘tu’ che lo chiama ad un incontro e lo coinvolge. ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’: nelle parole di Gesù si manifesta un’urgenza insieme all’indicazione di un tempo particolare, un oggi che non è istante simile agli altri, ma tempo della visita di Dio stesso, tempo di salvezza che irrompe. Quell’oggi diventa un tempo nuovo, attimo di una svolta che vede il suo compiersi nella casa, luogo dell’intimità della sua vita.

La risposta di Zaccheo è pronta: scende in fretta e lo accoglie con gioia. Anche Gesù ha superato le barriere, anche lui è salito con il suo sguardo a raggiungere Zaccheo: le parti si rovesciano. Zaccheo cercava di vedere Gesù: è invece Gesù che lo guarda e lo invita, lo precede. Gesù va anche oltre l’ostacolo della folla che si mantiene nella logica dell’esclusione. ‘è andato ad alloggiare da un peccatore’: questo mormorare sintetizza il perbenismo, l’attitudine e disprezzo, il giudizio che condanna e non concede alcuna speranza. Gesù entra nella casa di Zaccheo, colui che è lasciato fuori e si è ritirato ai margini.

In quella casa si attua la novità frutto dell’accoglienza. Gesù è accolto non solo nella casa ma nel cuore, nella vita di Zaccheo. Quell’oggi cambia la vita di Zaccheo e la apre ad una consapevolezza nuova del rapporto con Dio che scende e visita e del rapporto con gli altri. Sorge un nuovo modo di impostare la vita e le relazioni che tocca la concretezza e si declina in una prassi: ‘io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto’.

‘Anch’egli è figlio di Abramo’: con queste parole si conclude l’incontro: Gesù è ‘il Figlio dell’uomo venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto’. Zaccheo cercava di vedere, ma scopre che la sua ricerca era stata preceduta da un’altra ricerca quella di Gesù, per lui, segno della ricerca di Dio per tutte le sue figlie e figli da incontrare sulla strada e nella casa della loro esistenza.

Alessandro Cortesi op

Accoglienza e pace

Due voci in questi giorni mi hanno ricondotto all’incontro di Gesù con Zaccheo che nel suo profilo indica una umanità segnata da tanti problemi, difficoltà e che reca una curiosità ed una ricerca magari inespressa e nascosta in fondo al cuore e che Gesù chiama ad incontrare nella dimensione della casa. E in quella casa giunge una pace nuova che apre a relazioni di giustizia e di pace.

Nei giorni scorsi Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo ha concesso una lunga intervista all’Osservatore Romano. La sua parola è significativa in quanto presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea e Relatore generale al prossimo Sinodo.

Riprendo solo alcune espressioni che esprimono una analisi dell’attuale situazione della chiesa e sottolineature sull’esigenza di un cambiamento che si presenta ormai con i caratteri di una urgenza non più trascurabile.

La prima annotazione riguarda il primato della missione e il rapporto essenziale tra annunciod el vangelo e impegno per la giustizia, la pace e la custodia del creato:

“…oggi in Europa siamo affetti da una patologia, che, cioè, non riusciamo a vedere con chiarezza quale sia la missione della Chiesa. Parliamo sempre delle strutture, il che non è un male certo, perché le strutture sono importanti e sicuramente devono essere ripensate. Ma non si parla a sufficienza della missione della Chiesa. Che è annunciare il Vangelo. Annunciare, e soprattutto testimoniare, la morte e risurrezione di Gesù il Cristo. Un testimoniare che il cristiano deve interpretare principalmente attraverso il suo impegno nel mondo per la salvaguardia del creato, per la giustizia, per la pace (…) Nel mondo secolarizzato di oggi l’annuncio diretto non sempre viene compreso, ma la nostra testimonianza sì. Veniamo osservati e valutati nel mondo per come viviamo il Vangelo.”

Una seconda sottolineatura riguarda lo sguardo alla chiesa come popolo di Dio che vede una comune partecipazione di tutte e tutti alla medesima dignità in cui il sacerdozio ministeriale trova sua origine e senso dall’essenziale sacerdozio comune di tutti i fedeli:

“…nella Lumen Gentium si introduce per la prima volta il concetto di “popolo di Dio in cammino” e di Chiesa come “tempio dello Spirito Santo”, si esplicita il “sacerdozio universale” che riguarda tutti i battezzati. Ecco, io penso che queste giganti intuizioni dei padri conciliari non siano state ancora adeguatamente sviluppate. (…) dobbiamo essere consapevoli che il sacerdozio battesimale non toglie nulla al sacerdozio ministeriale. Tutti noi preti dobbiamo comprendere anzi che non c’è sacerdozio ministeriale senza un sacerdozio universale dei cristiani, perché da questo origina. Mi rendo ben conto che la difficoltà di assimilazione di un concetto, in fondo così elementare, è osteggiato da una formazione presbiteriale che ancora indugia su una «diversità ontologica» che non c’è. (…) tutti noi dobbiamo domandarci cosa significhi essere cristiani oggi. (…) accettare l’inadeguatezza di una pastorale figlia di epoche ormai passate e ripensare la missione. Una scelta che ha implicazioni teologiche pesanti e coraggiose”.

Un terzo punto tra altri evidenziato nell’intervista riguarda lo stile che la comunità cristiana dovrebbe maturare in rapporto ad una realtà in veloce e profondo cambiamento:

“con molta franchezza, la nostra pastorale parla ad un uomo che non esiste più. Dobbiamo essere capaci di annunciare il Vangelo, e far capire il Vangelo, all’uomo di oggi che per lo più lo ignora. Questo implica una grande apertura da parte nostra, e anche la disponibilità — pur fermi nel Vangelo — a lasciarci trasformare anche noi.   (…) vedo costantemente è che i giovani smettono di considerare il Vangelo, se hanno l’impressione che noi stiamo discriminando. Per i giovani di oggi il valore più alto è la non discriminazione. Non solo quella di genere, ma anche etnica, di provenienza, di ceto sociale. Sulle discriminazioni si arrabbiano proprio!

(…) vivere sulle orme di Cristo significa vivere bene, significa gustare la vita. Noi siamo chiamati ad annunciare una buona notizia, non un insieme di norme o divieti. (…) Credere nella vita eterna, significa però credere che la vita eterna è già qui, ora. E che come tale va vissuta, e goduta (…) . Questa è la bella notizia! E voglio aggiungere: tutti vi sono chiamati. Nessuno escluso: anche i divorziati risposati, anche gli omosessuali, tutti. Il Regno di Dio non è un club esclusivo. Apre le sue porte a tutti, senza discriminazioni. A tutti! A volte nella Chiesa si discute dell’accessibilità di questi gruppi al Regno di Dio. E questo crea la percezione di un’esclusione in una parte del popolo di Dio. Si sentono esclusi e questo non è giusto! Qui non è questione di sottigliezze teologiche o dissertazioni etiche: qui si tratta semplicemente di affermare che il messaggio di Cristo è per tutti!”

E alla, domanda circa le prese di posizioni dei vescovi del Belgio in favore della possibilità di benedire unioni omoaffettive così ha risposto:

“Francamente la questione non mi sembra decisiva. Se rimaniamo all’etimologia di “bene—dire”, pensate che Dio possa mai “dire—male” di due persone che si vogliono bene? Mi interesserebbe di più discutere di altri aspetti del problema”.

Papa Francesco nella sua riflessione al Colosseo nell’incontro per la pace del 25 ottobre us ha richiamato un diritto alla pace dele persone e dei popoli richiamando la pace come orizzonte di fondo della visione per il presente e il futuro e centtro dell’agire:

“La pace è nel cuore delle Religioni, nelle loro Scritture e nel loro messaggio. Nel silenzio della preghiera, questa sera, abbiamo sentito il grido della pace: la pace soffocata in tante regioni del mondo, umiliata da troppe violenze, negata perfino ai bambini e agli anziani, cui non sono risparmiate le terribili asprezze della guerra. Il grido della pace viene spesso zittito, oltre che dalla retorica bellica, anche dall’indifferenza. È tacitato dall’odio che cresce mentre ci si combatte. Ma l’invocazione della pace non può essere soppressa: sale dal cuore delle madri, è scritta sui volti dei profughi, delle famiglie in fuga, dei feriti o dei morenti. E questo grido silenzioso sale al Cielo. Non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, ma ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto. Merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto. Il grido della pace esprime il dolore e l’orrore della guerra, madre di tutte le povertà. «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (Fratelli tutti, 261). Sono convinzioni che scaturiscono dalle lezioni dolorosissime del secolo Ventesimo, e purtroppo anche di questa parte del Ventunesimo. Oggi, in effetti, si sta verificando quello che si temeva e che mai avremmo voluto ascoltare: che cioè l’uso delle armi atomiche, che colpevolmente dopo Hiroshima e Nagasaki si è continuato a produrre e sperimentare, viene ora apertamente minacciato. In questo scenario oscuro, dove purtroppo i disegni dei potenti della terra non danno affidamento alle giuste aspirazioni dei popoli, non muta, per nostra salvezza, il disegno di Dio, che è “un progetto di pace e non di sventura” (cfr. Ger 29,11). Qui trova ascolto la voce di chi non ha voce; qui si fonda la speranza dei piccoli e dei poveri: in Dio, il cui nome è Pace. La pace è dono suo e l’abbiamo invocata da Lui. Ma questo dono dev’essere accolto e coltivato da noi uomini e donne, specialmente da noi, credenti. Non lasciamoci contagiare dalla logica perversa della guerra; non cadiamo nella trappola dell’odio per il nemico. Rimettiamo la pace al cuore della visione del futuro, come obiettivo centrale del nostro agire personale, sociale e politico, a tutti i livelli. Disinneschiamo i conflitti con l’arma del dialogo”.

In un suo articolo Paolo Ricca, pastore e teologo della chiesa valdese, ha espresso pensieri che sollecitano la chiesa ad essere ‘corpo di pace’, e a porsi in tale modo nel contesto di guerra e violenza che oggi viviamo. Ricca ha così formulato domande scomode ed ha richiamatoo ad uno stile di nonviolenza di parole e di prassi che contrasti il vortice della mentalità di guerra e della corsa al riarmo:

“… il ruolo della Chiesa in mezzo ai conflitti si colloca unicamente nell’ambito della diplomazia? La Chiesa non ha altro da offrire, oltre alle sue preghiere, che una attività diplomatica a più livelli, attingendo anche alla sua millenaria esperienza e proverbiale saggezza? Il corpo della Chiesa può ridursi a essere un corpo diplomatico? La Chiesa non è forse corpo di Cristo? E che cosa può essere in terra il corpo di Cristo, Principe della pace, se non un corpo di pace? Ma dov’è, oggi, questo corpo di pace? Non cercatelo, perché non c’è. E non c’è perché la Chiesa non osa e forse neppure vuole diventarlo. E non osa diventarlo perché, paradossalmente, ha paura della pace, non che sia fatta (la invoca a gran voce anche lei, come tutti gli altri), ma che sia fatta sul suo corpo, cioè che lei, come corpo di Cristo, diventi corpo di pace. Come si diventa corpo di pace? In un modo solo: adottando la nonviolenza come stile e prassi di vita, insegnando capillarmente ai suoi membri la teoria della nonviolenza, le sue radici spirituali e ragioni morali, e addestrandoli alla prassi e tecniche di questa cultura ancora praticamente sconosciuta. (…) C’è un esempio perfetto di quello che può significare essere corpo di pace, oltre a quello offerto dal comportamento del Movimento di Martin Luther King, molto ammirato e citato dalle Chiese, ma per niente imitato. È un esempio che viene da lontano e che tutti abbiamo impresso indelebilmente nella memoria: l’esempio di quell’uomo in maniche di camicia che a Pechino, in piazza Tienanmen, si pose, completamente disarmato, con il suo corpo, davanti a una fila di quattro enormi carri armati e, rischiando ovviamente la vita, obbligò quegli orrendi strumenti di morte a fermarsi e, in questo senso – miracolo! – li disarmò. È questo che dovrebbe essere oggi, nel mondo attuale armato fino ai denti, con armi sempre più perfezionate e distruttive, la Chiesa cristiana. L’uomo di Tienanmen è il suo modello, l’icona vivente di un “corpo di pace”. Se la Chiesa ha paura di diventarlo finalmente (in tutta la sua storia non lo è mai stata), vano è il suo invocare la pace e anche il suo pregare. Temo che Dio non l’ascolti neppure” (Paolo Ricca, La chiesa corpo di pace, “Riforma” 28 ottobre 2022).

Alessandro Cortesi op

Domenica VI tempo di Pasqua – anno C – 2022

At 15,1-2.22-29; Apoc 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

«Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». E’ questa la sintesi della questione che investe la prima comunità. Per seguire Gesù è necessario osservare le prescrizioni della legge giudaica? In radice il problema riguarda il rapporto con Gesù: il suo annuncio deve essere posto nelle forme religiose di una legge? Esigere la circoncisione per i pagani che si accostavano alla comunità cristiana era visto da Paolo come uno svuotamento del messaggio stesso di Cristo. La salvezza è radicalmente dono, aperto per tutti e non prevede né privilegi di appartenenza né l’osservanza di una legge. E’ evento della grazia di Dio che suscita la fede.

Paolo e Barnaba sono preoccupati innanzitutto di affermare che la salvezza non dipende da movimenti umani, dall’osservanza di una legge sia pure religiosa, ma è dono gratuito. Non richiede alcuna condizione. Essi richiamano alla gratuità dell’agire di Dio in Cristo, il suo primato su ogni tipo di costruzione umana, anche religiosa. E’ polemica non contro la fede ebraica a cui Paolo rimane legato e fedele, ma contro ogni forma religiosa che esaurisce la fede ad un sistema di prescrizioni.

Nella problematica emerge un’altra questione. Gesù nella sua esperienza storica era rimasto all’interno della tradizione ebraica. Non si era posto per lui il problema del venir meno alle prescrizioni della legge ebraica. Gesù riprende la protesta dei profeti riguardo all’importanza della vita, al fatto che l’uomo è più importante del sabato, la polemica contro un’osservanza che svuota il senso profondo della legge (Mc 7,8-13.20-21). Incontrando alcuni pagani Gesù risponde alle loro richieste e riconosce una fede che salva come nell’incontro con la donna sirofenicia (Mc 7,24-30).

Nel periodo successivo alla Pasqua si pongono alle prime comunità questioni nuove proprio nell’incontro con i pagani. Dal confronto con gli ‘altri’ sorge una domanda inedita che conduce ad aperture e cambiamenti. Nell’incontro è presente lo Spirito che spinge ad una comprensione delle esigenze del vangelo nelle nuove situazioni. Gli apostoli sono rinviati ad ascoltare nuovamente l’annuncio di Gesù: il regno di Dio, in atto già nella storia, non è legato ad un tempio, ad una classe di sacerdoti, ad una terra particolare, ma è apertura all’Alterità di Dio, al suo amore per tutti, alla convivialità ospitale testimoniata da Gesù nel suo passare facendo il bene e annunciando relazioni di fraternità e sorellanza. In base a tale ascolto, nel dibattito, la comunità a Gerusalemme sceglie come orientarsi: era una rinuncia rispetto a ciò che sembrava essenziale – l’osservanza della legge giudaica – ma che essenziale non era rispetto alla gratuità della salvezza. E ciò si fa strada nell’incontro nelle case dei pagani (cfr. At 8; 10) e nell’esperienza dell’agire dello Spirito oltre i confini.

A Gerusalemme, in quello che viene indicato come primo ‘concilio’ avviene un passaggio decisivo per l’esperienza cristiana e si evidenzia uno stile di ascolto del vangelo in rapporto alla storia. Cresce la comprensione della Parola di Dio, la tradizione progredisce nell’esperienza di una ricerca che si lascia illuminare dagli incontri.

Anche oggi di fronte a questioni nuove e ad una situazione culturale che pone sfide e interrogativi dovrebbe continuare ad attuarsi questo coraggio di accogliere il messaggio liberante del vangelo e tradurlo in nuovi linguaggi con fiducia nella promessa di Gesù: “il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Ricordare e insegnare sono i doni dello Spirito che aprono a camminare in fedeltà al vangelo come bella notizia di vita e di salvezza per tutti.

Alessandro Cortesi op

Fuori dal tempio

E’ morto nei giorni scorsi Pierluigi Di Piazza, un testimone di accoglienza, di riflessione, un uomo segnato dalla tensione di ricerca del vangelo e di solidarietà.

Era nato a Tualis di Comeglians (Udine) il 20 novembre del 1947. Era entrato nel Seminario di Udine, e ha poi proseguito gli sudi a Roma all’Università San Tommaso d’Aquino nel 1973. Ordinato presbitero nel 1975, ha insegnato religione nella scuola dal 1973 al 2004. Nel 1994 ha ottenuto il dottorato con la tesi “Morire nella città secolare: riflessioni teologiche in prospettiva pastorale”, avendo fr. Dalmazio Mongillo come relatore. Il suo impegno è stato indirizzato alla cultura della pace, della nonviolenza e della solidarietà. Parroco nel paese di Zugliano, ha fondato nel 1989, un Centro di accoglienza per immigrati, profughi e rifugiati politici intitolato a padre Ernesto Balducci. La Parola del Vangelo e l’Eucarestia sono stati i suoi riferimenti insieme all’incontro con le persone e presso il Centro “E. Balducci” ha promosso negli anni ospitalità a moltissime persone insieme ad attività di ricerca e promozione culturale.

La sua testimonianza è una luce in questo nostro tempo. Raccolgo alcune briciole dei suoi scritti in cui traspare la sua profondità umana e spirituale – come lui precisava tale termine in una sua lettera a Margherita Hack “intendendo questo termine in modo laico, come profondità dell’essere, dell’animo, dell’anima, a seconda della sfumatura e sottolineatura che si attribuiscono al termine” (Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete, Nuovadimensione 2013,169).

“L’accoglienza più difficile è stata e continua ad essere quella del dolore delle persone a motivo delle difficoltà e delle tribolazioni personali e soprattutto della morte di persone care, in particolare di quelle improvvise, traumatiche, ad esempio per incidenti stradali o per suicidi, in modo particolare dei figli. La difficoltà consiste nell’accogliere e partecipare con sincerità al dolore; sarebbe infatti imperdonabile registrarlo senza il coinvolgimento del cuore e dell’animo; nell’esprimere poche parole che non devono ripetere frasi confezionate, luoghi comuni; nel contribuire nel modo più umile e imbarazzato a favorire una celebrazione religiosa di saluto il più umana possibile, nella quale Dio non sia forzatamente evocato, ma invece a Lui, al Dio umanissimo di Gesù, ci si possa riferire in mood difficile e sommesso come a Colui che partecipa al dolore e come presenza accogliente di una fede dell’affidamento espressa spesso nel silenzio, con le lacrime, con tanti interrogativi senza la risposta che si vorrebbe. Non ci può essere accoglienza del dolore senza condivisione, senza lasciarsene attraversare e abitare” (Non girarti dall’altra parte, Nuovadimensione 2019,19-20)

La sua accoglienza si  lasciata interrogare dalla presenza dei migranti  e il suo Centro di Zugliano è divenuto spazio di ospitalità e di domande.

Così scriveva: “I migranti sono infati una grande esplicita rivelazione. Ci rivelano prima di tutto come sta il mondo, le sue situazioni drammatiche … Accogliendo una persona, guardando con umanità il suo volto, la domanda è immediata: perché sei qui, da dove vieni, da quali condizioni di vita? E insieme ci rivelano chi sono provocando in noi incertezza, disagio, timore, curiosità, esigenza di conoscenza  delle loro differenze. La lor presenza diventa per noi una provocazione ad uscire da quel modo di pensare che ha pesantemente conformato il nostro mondo: la convinzione errata che il mondo ci appartenga  e che il mondi degli altri siano sempre inferiori al nostro (…) Ci raccontano di povertà, violazione dei diritti umani, guerre, di viaggi incredibili per cercare  possibilità di vita dignitosa (…) Gli arrivi e le presenza dei migranti ci rivelano chi siamo noi…”  (ibid. 47-48).

Ai suoi studenti nel momento in cui lasciava la scuola dopo trent’anni di insegnamento scriveva:

“Mi permetto di esortarvi, perché ogni giorno esorto me stesso, a essere e diventare giovani, donne e uomini sensibili, profondi e intelligenti; a liberarvi dalla logica dell’avere, dell’apparire, della superficialità e della futilità. A non essere fatalisti, conformisti, pigri. A impegnarvi nello studio e un domani nel lavoro; a scegliere di vivere relazioni profonde e significative; a non chiudervi in forme di egoismo, ma a essere disponibili e generosi; a non avere paura dei grandi ideali e neanche dell’apparente piccolezza di presenza, parole e gesti che sono invece importantissimi perché esprimono sensibilità, orientamento, collocazione, senso del vivere…” (ibid. 31)

Nel suo libro Fuori dal tempio. La Chiesa al servizio dell’umanità (Laterza, 2011) Così parlava di se stesso: “un prete schierato e non neutrale, perché la neutralità, anche quella della Chiesa e dei preti è una finzione (…) Sono dalla parte di chi nella vita fatica, soffre, è povero, è spogliato di diritti e di dignità”. “Mi sento laico, umile credente sempre in ricerca, prete per un servizio disponibile, disinteressato, gratuito nella comunità cristiana e nella società; anticlericale, cioè non appartenente ad una categoria; non funzionario della religione”.

Così pure rifletteva: «Spesso rifletto con inquietudine, sofferenza, interrogandomi su come sia stato possibile a partire da Gesù di Nazareth costruire nella storia un apparato religioso di potere e di sacralità che solo in modo vago, intermittente, sfuocato e distorto si riferisce a lui, di fatto oscurando e tradendo la sua persona e il suo messaggio rivoluzionario, nel senso più profondo e completo della parola».

Ogni anno a Natale scriveva con una ventina di altri preti del Friuli “La lettera di Natale” in cui affrontava le questioni e le situazioni del presente. Suoi riferimenti sono stati il Vangelo e la Costituzione con tre parole a guida del cammino: pace, giustizia, accoglienza.

Così l’ha salutato don Luigi Ciotti: “abbiamo condiviso dei cammini importanti, e sapevamo di camminare affiancati anche quando per lungo tempo non era possibile incontrarsi. Ci legavano le assonanze nel modo di leggere il Vangelo come Parola spirituale ma anche discorso civile, capace di pungolarci all’impegno per costruire giustizia già qui sulla terra. Quante volte mi è capitato, girando per l’Italia e in particolare nella sua amata terra friulana, di imbattermi nelle “orme” di Pierluigi! Tracce di umanità e saggezza, di relazioni fertili, di confronti dai quali scaturivano sempre nuovi percorsi di responsabilità”. “Non cercate Pierluigi sotto la terra, sotto la pietra, tra i morti. Vi prego, continuate a cercarlo tra i vivi, tra le persone che ha amato, che ha accolto”.  Mandi, Pierluigi, graciis di dut.

Alessandro Cortesi op

XIII domenica tempo ordinario – anno B -2021

Sap 1,13-15; 2,23-24; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Nel vangelo di oggi Marco pone in risalto il potere di Gesù sulla morte e sulla malattia. I due episodi vedono protagoniste Giairo il capo della sinagoga – la sua figlia di dodici anni era morta – e la donna che soffriva da dodici anni di emorragie. Al centro sta la loro fede che apre ad una salvezza come dono di vita e guarigione dal male. I due incontri sono intersecati l’uno nell’altro facendo così scorgere i parallelismi e il messaggio centrale.

Giairo si getta ai piedi di Gesù e ‘lo pregava con insistenza’. L’invito, rivoltogli quando tutto sembra ormai finito, è ‘Non temere continua solo ad aver fede’.

Gesù comunica alla bambina esanime la sua forza di vita: ‘Talità kum, Io ti dico alzati’: è questo già annuncio della risurrezione. La risurrezione è infatti ‘alzarsi dalla morte’ ed in questi termini Marco nel suo vangelo la descrive. Tutti i parenti sono presi da stupore e proprio lo stupore è l’atteggiamento dei testimoni della risurrezione. Marco intende dirci che la forza della risurrezione è vittoria sul potere della morte ed è comunicata da Gesù a coloro che a lui si affidano con tutto il cuore.

In modo analogo Gesù accoglie il gesto della donna malata e impaurita che aveva cercato di toccare il suo mantello, e le dice ‘Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male’. Anche qui Marco pone in luce la fede di chi si accosta a Gesù, portando a lui ogni incapacità e dolore. E’ un affidamento senza riserve perché da lui ci si sa accolti: Gesù non  esclude nessuno. Mentre la folla attorno lo premeva da ogni lato Gesù si accorge che qualcuno lo aveva toccato e risponde a questo desiderio e attesa d’incontro. La fede – suggerisce Marco in questa narrazione – non è l’esaltazione della folla, ma è affidamento profondo, che attraversaincontro personale di chi cerca di toccare il lembo del mantello per venire a contatto con Gesù. Fede è ricerca sofferta, movimento del cuore di chi si consegna nella propria povertà. E Gesù riconosce la grandezza di questa fede che salva: “Figlia, la tua fede ti ha salvata”.

Alessandro Cortesi

Uguaglianza e doni

“Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza”. L’appello di Paolo alle comunità in vista di una colletta è paradigmatico di una attitudine concreta in vista di scelte che traducano nella vita l’orientamento della fede in Cristo. La scoperta insita nel venir incontro all’indigenza di chi ha bisogno è sorprendente perché apre a scorgere che mai la direzione dell’aiuto e del dono è unica e univoca. Un dono raccolto e dato genera una circolarità inattesa, conduce a scoprire che nella relazione aperta si attua uno scambio e il dono portato si incontra a questo punto con un dono ricevuto. Tale orizzonte può essere considerato in rapporto alla situazione mondiale di fronte alla crisi sanitaria in atto.

Per giungere a stroncare la diffusione della pandemia si dovrebbe poter vaccinare almeno il 70% della popolazione mondiale (7,9 miliardi di persone). Al momento attuale tuttavia solamente il 10,5 % circa di essa è stato vaccinato e si tratta per la stragrande maggioranza della popolazione dei paesi più ricchi del pianeta. L’enorme sforzo della ricerca compiuto dallo scoppio della  pandemia nel predisporre vaccini in grado di limitare il contagio e le morti è stato in gran parte vanificato dal ritardo con cui la Banca Mondiale ha destinato fondi per poter provvedere dei vaccini i paesi meno sviluppati e più poveri del pianeta. Da qui lo sviluppo di varianti e di un contagio che si è diffuso soprattutto tra i non vaccinati. I paesi privi di scorte di vaccini costituiscono infatti anche i luoghi di sviluppo delle varianti che certamente non rimangono chiuse entro ambiti regionali e risultano essere nuovi fonti di pericolo a livello mondiale.

“Mentre i paesi ricchi, con ampio accesso ai vaccini, seguono con inquietudine i segni del suo inevitabile impatto, sperando che l’immunizzazione possa rallentarne l’ascesa, la grande minaccia arriva dal divario globale di accesso ai vaccini, rivelatore della crescita di iniquità nel livello di salute” (E.Tognotti, L’egoismo suicida sul piano vaccini, La Stampa 25 giugno 2021).

L’esperienza della pandemia dovrebbe spingere ad uscire da visioni egoistiche e miopi, nella considerazione di una immunizzazione valida solo per alcuni quando si nutre disinteresse per gran parte della popolazione povera mondiale. La salute costituisce non solo un bene di vita in termini anche economici ma potrebbe essere scoperta come l’autentico bene comune in cui attuare quella uguaglianza che genera possibilità di vita buona per tutti. Non a caso i gesti di Gesù erano così attenti alla salute delle persone, e l’invito di Paolo apre anche nuovi orizzonti. Laddove facendo uguaglianza si pensa di arrecare un dono, si apre la scoperta di un passaggio di doni che aprono la vita stessa al suo senso profondo nella relazione e nel farsi carico dell’altro.  

Alessandro Cortesi op

VI domenica di Pasqua – anno B – 2021

XXI domenica tempo ordinario – anno C – 2019

IMG_5398Is 66,18-21; Eb 12,5-13; Lc 13,22-30

Nella seconda parte del vangelo di Luca Gesù è presentato nel suo cammino verso Gerusalemme. ‘Passava per città e villaggi insegnando e dirigendosi verso Gerusalemme’. Luca raccoglie in questo cammino vari insegnamenti di Gesù.

Tra altri è affrontata la domanda, dibattuta nei circoli rabbinici: “sono pochi quelli che si salvano?’. Diverse erano le risposte: da posizioni più rigoriste a posizioni più aperte. Gesù non entra nella questione. Ne fa occasione di un richiamo alle esigenze di una salvezza non come privilegio scontato ma cammino di esistenza nell’impegno per la giustizia. L’immagine della porta e il paragone di una festa sono introdotti: ‘Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti cercheranno di entravi ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: Signore, Signore aprici!’.

La porta per entrare nella festa è stretta, entrarvi implica fatica e impegno: il termine utilizzato è ‘lotta’ (agone). L’insegnamento di Gesù suscita una scelta e richiama alla responsabilità.

A chi solleva una sorta di diritto acquisito ad entrare, senza impegno per la giustizia, si oppongono le parole del padrone: ‘Non so di dove siate: andate via da me, voi tutti che operate l’iniquità’. L’accesso è chiuso a chi compie l’iniquità. Chi accampa in qualche modo diritti per aver mangiato e bevuto insieme, perché ‘hai insegnato nelle nostre piazze’ si deve invece confrontare con altri criteri per poter entrare: Chi può attraversare la porta stretta non è chi rivendica una appartenenza anche di tipo religioso o privilegi particolari, ma il passaggio è reso possibile solo per chi compie la giustizia.

Gesù critica la pretesa di ‘salvarsi’ in virtù di una appartenenza religiosa che non coinvolge l’esistenza. E’ il modo di vivere la religione in modo esteriore, con manifestazione di simboli ed ossequi agli aspetti di manifestazione ma senza attuare la giustizia e senza cambiamento del cuore. Di fronte a tale pretesa di ‘diritti acquisiti’ di uso della religione come bandiera culturale, le parole di Gesù contrappongono parole dure: ‘Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori’. L’immagine della porta stretta richiama all’esigenza di una salvezza a caro prezzo, seguendo la testimonianza di Gesù. Per chi compie l’iniquità la porta è chiusa.

Tuttavia la prospettiva indicata è quella di una apertura senza confini. La porta è aperta infatti per chi opera la giustizia anche senza appartenenze religiose riconosciute, anche da lontano: ‘E verranno da oriente e da occidente da settentrione e da mezzogiorno per prendere posto al banchetto nel regno di Dio. E così vi saranno ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi’.

La porta stretta si apre ad accogliere chi non ha titoli di appartenenza o privilegi, chi si comporta nella vita in continuità con i gesti di Gesù: nel prendersi cura per l’altro, nello stare dalla parte di chi è oppresso, nell’impegno per la giustizia e per la pace, nella preghiera di fronte al Padre, nell’intendere la vita come servizio nel quotidiano. Tutti costoro che praticano la giustizia, provenienti da lontano, considerati stranieri ‘siederanno a mensa nel regno di Dio’. Saranno gli invitati nella casa, troveranno la porta aperta e accogliente. Gesù richiama un primato della prassi nell’attenzione all’altro su ogni declamazione di appartenenza e su ogni tipo di devozione. Sono parole per ripensare i cammini personali e lo stile di vita delle nostre comunità.

Alessandro Cortesi op

IMG_5445

Religione e iniquità

E’ elemento assodato dagli osservatori che una delle strategie poste in atto dalla destra sovranista internazionale, di cui alcuni interpreti sono Bannon neegli USA e Orban in Europa, è quella di cercare connivenze e agganci con il sentimento religioso popolare. Solamente in questo modo i progetti sovranisti e populisti possono pensare di avere una durata nel tempo aggregando a sé aspetti che toccano attitudini esistenziali e profondità di appartenenze. Da qui le strategie per impadronirsi e utilizzare simboli religiosi per rassicurare le fasce di popolazione più sentimentalmente legate a quei simboli unendole alla predicazione populista. E si sta via via facendo chiaro che uno dei principali nemici dei progetti sovranisti a livello internazionale nell’attuale contesto è la visione di papa Francesco, visione che non si pone sul piano della strategia politica, ma proprio per questo, per il richiamo a dimensioni di libertà dall’idolatria, per la sua profondità umanistica e dialogica, per la comprensione di una fede ben distante dall’ipocrisia di una religione ripiegata su di sé e quale strumento di interessi mondani, è vista come il nemico numero uno perché destruttura alla radice orientamenti autoritari e si oppone alla strumentalizzazione del popolo.

L’ipocrisia dell’uso di simboli religiosi e del loro contemporaneo svuotamento di significato staccandoli dal vangelo, o utilizzando in modo strumentale riferimenti a testi religiosi in sedi istituzionali è stata ripetuta in questi giorni in Parlamento. Si può scorgere in questo l’espressione di un analfabetismo della grammatica della laicità, di quella laicità testimoniata nel testo della Costituzione in cui valori profondamente legati anche alla fede cristiana hanno avuto una traduzione in termini condivisibili in un quadro di pluralismo.

C’è un problema di fondo che riguarda il modo di intendere la fede e forse è da riprendere la distinzione tra fede e religione. Papa Francesco ne ha recentemente fatto cenno usando l’evocativa immagine del ‘turista nella chiesa’ collegandola all’ipocrisia religiosa che viene meno alla sincerità ( e alla prassi) dell’amore come cura dell’altro:

“L’ipocrisia è il peggior nemico di questa comunità cristiana, di questo amore cristiano: quel far finta di volersi bene ma cercare soltanto il proprio interesse. Venire meno alla sincerità della condivisione, infatti, o venire meno alla sincerità dell’amore, significa coltivare l’ipocrisia, allontanarsi dalla verità, diventare egoisti, spegnere il fuoco della comunione e destinarsi al gelo della morte interiore. Chi si comporta così transita nella Chiesa come un turista. Ci sono tanti turisti nella Chiesa che sono sempre di passaggio, ma mai entrano nella Chiesa: è il turismo spirituale che fa credere loro di essere cristiani, mentre sono soltanto turisti delle catacombe. No, non dobbiamo essere turisti nella Chiesa, ma fratelli gli uni degli altri. Una vita impostata solo sul trarre profitto e vantaggio dalle situazioni a scapito degli altri, provoca inevitabilmente la morte interiore. E quante persone si dicono vicine alla Chiesa, amici dei preti, dei vescovi mentre cercano soltanto il proprio interesse. Queste sono le ipocrisie che distruggono la Chiesa! (papa Francesco, Udienza generale, 21 agosto 2019)

Sono domande poste tempo fa da Antonio Spadaro in riferimento alla situazione italiana nella Civiltà cattolica, recentemente fatto oggetto di scomposti attacchi per aver affermato che “Questo è tempo di resistenza umana civile e religiosa”. All’inizio di quest’anno scriveva:

“Dopo anni in cui forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra chiesa e popolo, e abbiamo immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente d’Italia, constatiamo invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno, ancora uno scandalo. Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto alieni dalla coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente” (Antonio Spadaro, in “Civiltà cattolica” 2-16 febbraio 2019).

Così ha osservato recentemente Alex Zanotelli:

“Quando Salvini, il giorno della conversione in legge del decreto Sicurezza bis, ringrazia la Madonna di Medjugorje sa di richiamare un luogo di culto popolarissimo, dove moltissime persone vanno in pellegrinaggio. Soprattutto fedeli delle regioni del Nord est, dove l’elettorato della Lega è più radicato. Perciò quel tipo di appello ha un significato identitario preciso per il popolo del Carroccio. Evidentemente a Salvini non interessa che il richiamo alla Madonna porti con sé un messaggio esattamente opposto a quello dei decreti Sicurezza uno e due, come insegna il culto della Madonna di Porto Salvo, molto cara ai marittimi e ai pescatori in particolare del Mezzogiorno. Salvini capovolge il messaggio per la sua base elettorale. E infatti parlare di Porto salvo a lui non interessa. Quello che è grave è l’appoggio che ha ricevuto da alcuni settori della Chiesa che dovrebbero chiedersi che razza di Vangelo abbiano annunciato. Ma l’Italia è mai stata evangelizzata?” (Alex Zanotelli, L’ipocrisia religiosa del palazzo, “Il manifesto” 22 agosto 2019).

Alessandro Cortesi op

Pasqua 2019 – Omelia nella notte

IMG_3906In questa notte in questa liturgia ricca di segni, parole canto e silenzi tanti sono i pensieri le emozioni che si presentano.

E’ momento di sosta per guardare la vita come una cammino, con tutte le sue fatiche, le sue gioie, le sue luci, le sue ombre. Anche le nostre piccole vite sono inserite nei percorsi che abbiamo ricordato nelle letture di questa sera: la vicenda di Israele, il popolo delle promesse di Dio,  e di tutta l’umanità, è una storia visitata, che si è sviluppata nel tempo. E’ una storia di volti, di situazioni, in cui ritorna una costante, e su questo la lettura di fede si sofferma: la presenza vicina, forte amante di Dio fedele, che non viene mai meno e conduce sempre a ricominciare.

Anche la nostra vita, ed anche quella di chi è qui ma è presente nel cuore di Dio, è una vita visitata. Anche nella storia di questo tempo c’è una promessa, c’è una luce. Noi siamo dentro, immersi in una storia di salvezza che è la storia di questa umanità concreta delle nostre strade, delle persone che incontriamo dei popoli di ogni nazione, cultura, religione… e che chiama a lasciar spazio al disgno di Dio. Questa notte è come andare in soffitta e aprire un antica cassa dove sono riposti i ricordi di famiglia: quante storie, quanta speranza e sofferenza, quanti sentimenti sono racchiusi in quei segni, in quei ricordi…

Su due immagini vorrei soffermarmi dalla lettura del vangelo di Luca: la prima è quella della pietra, la seconda è quella della corsa:

“Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro ma, entrate non trovarono il corpo di Gesù”. La pietra che chiudeva il sepolcro è simile a tante altre pietre che chiudono luoghi di morte. Ed anche nella nostra storia vi sono pietre e massi che chiudono e rendono la nostra vita luogo di morte.

Sono i massi pesanti della violenza, dell’ipocrisia di chi parla di pace ma commercia le armi. I mezzi di comunicazione vogliono farci credere che la guerra porta pace, che la sicurezza viene creata dal dispiegamento degli eserciti, dall’esclusione dei più deboli, dalla costruzione di barriere. Ci sono massi e pietre pesanti che sono i muri, quelli fisici e quelli invisibili costruiti per difendersi ma che impediscono l’accoglienza e che divengono prigioni per chi si lascia rinserrare dalla paura. Ci sono massi anche nei nostri cuori: le nostre piccole o grandi storie di chiusure e di divisione, di rivalità e di ostinazione nel non lasciare spazio agli altri.

Ma questa è la notte in cui ‘la pietra è rotolata via’ e questa memoria diviene forza di cambiamento e responsabilità per noi. Far rotolare ogni pietra che chiude luoghi di morte. E’ questo un impegno che la Pasqua inaugura: e far diventare quelle pietre smontate dai muri di odio pezzi per una costruzione nuova, per lanciare ponti di pace, di incontro, per costruire case in cui sia possibile l’ospitalità, allargare gli spazi della tenda. E’ questa la notte in cui ogni chiusura, ogni oppressione può aprirsi ad una luce: non siamo fatti per rimanere schiacciati da quelle pietre ma per essere liberati e divenire protagonisti di liberazione per altri.

Questa è la notte anche delle corse e delle rincorse, di un andare e venire da quel sepolcro, luogo della morte. Luca nel suo vangelo annuncia che non si deve andare a cercare nei luoghi della morte colui che è vivente e rinvia  ai luoghi della vita: ‘Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui è risuscitato… Ricordatevi…’ Queste parole ci dicono che c’è ricerca e ricerca. Non si deve cercare lo stesso Gesù nei luoghi sbagliati. Bisogna correre, correre verso gli altri, raccontare, scoprire che è presente là dove non ce l’aspettiamo. E sono corse, quelle che ricordiamo questa notte di chi non riesce a credere all’annuncio così sperato e così inatteso: ‘Non è qui, si è rialzato’, si è svegliato… è vivo non è prigioniero della morte del buio, non è nel sepolcro, ma vive…

Sono corse di chi, come Pietro si mette a correre per superare lo scetticismo e l’incredulità, e che torna pieno di stupore. E’ questa la notte in cui sentire un po’ anche noi il fiatone di quelle corse e il battere del cuore pieno di gioia nuova, di una gioia unica. Viviamo spesso corse nella nostra vita per arrivare in tempo a svolgere tante faccende, per andare incontro a tante persone. In questa notte scopriamo che le nostre corse possono essere riempite della gioia e dello sconcerto che fa cambiare il modo di guardare alla vita alla storia, alle persone. Se lui è il vivente, allora non c’è storia di fallimento che non possa avere una speranza. Se lui è vivente allora la morte non è l’ultima parola, non è come i titoli di coda al termine di un film con la parola ‘fine’ che cala inesorabile, ma è sempre nuovo inizio.

E’ questa la notte in cui tutti noi che portiamo nel cuore paure, fallimenti, sofferenze, dolori, tutti, proprio tutti, chi si sente inutile e debole, chi avverte di essere escluso e fuori posto, chi sente la vita come un peso insostenibile, chi si sente abbandonato o solo, siamo chiamati a scoprire che non siamo soli, non rimarremo soli. Gesù è il vivente e ha vinto la morte, l’ha presa su di sé attraversandola, per stare con noi, per sempre: ‘Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo…’

E ci manda, di corsa, a raccontare. Sarebbe bello continuare a raccontare la storia della nostra vita sempre da rileggere nella luce della Pasqua… Non lo facciamo solo questa notte… sarà il percorso di ogni domenica, di ogni giorno… nella fede di questo grido che squarcia le pietre, nella luce che vince la notte e ci fa correre a raccontare: ‘Non è qui è risorto, è veramente risorto’.

Alessandro Cortesi op

III domenica tempo ordinario – anno C – 2019

third-sunday-in-ordinary-time-year-c-24th-january-2016-640x452

Ne 8,2-10; 1Cor 12,12-31; Lc 1,1-4; 4,14-21

Due libri stanno aperti davanti a noi in questa terza domenica del tempo ordinario: il rotolo della Bibbia che il sacerdote Esdra apre nello spazio del Tempio ricostruito mentre sullo sfondo compare Gerusalemme ricostruita dopo il ritorno dall’esilio (forse attorno al 444 a.C.) e legge davanti a tutto il popolo e il rotolo aperto da Gesù nella sinagoga di Nazaret.

Il rotolo di Esdra viene letto a brani distinti, spiegato ed accolto come parola che tocca i cuori dei presenti. Coinvolge profondamente al punto da suscitare un pianto di pentimento e il desiderio di conversione.

Ma mentre il popolo piangeva ascoltando le parole della legge, Neemia, capo politico del popolo d’Israele tornato dall’esilio, invita a cogliere il senso profondo della parola di Dio, l’invito alla gioia: “Questo giorno è consacrato al Signore, andate, mangiate carni grasse, bevete vini dolci perché la gioia del Signore è la vostra forza”.

Il pentimento dev’essere solo una tappa dello stare davanti alla Parola di Dio. Questa trasforma i cuori e li rende capaci di gioia, aperti ad accogliere la speranza messianica di un banchetto dove non ci sarà più morte, né pianto, né afflizione.

Il secondo libro al centro di questa liturgia è il rotolo di Isaia. Gesù lo apre nella sinagoga, quando di sabato, come ogni pio ebreo adulto è invitato a leggere e commentare la Scrittura. Nel suo paese Nazaret, di fronte ai suoi parenti e a coloro che lo conoscevano, il figlio di Giuseppe e Maria, legge parole che indicano una missione di liberazione e di pace: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Si tratta di un testo del terzo Isaia (61,1-2).

Ma la pagina del profeta è riportata con piccole ma importanti modifiche: nella lettura è tralasciato ogni riferimento al ‘giorno di vendetta del Signore’, e sono riprese invece tutte le espressioni che parlano di vita nuova, di libertà, di salvezza, di gioia, di sconfitta di ogni male e oppressione. Al termine Gesù non commenta il testo ma dice solamente ‘Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi’. La promessa di Dio di liberazione e di giustizia diviene ora presente nell’oggi di Gesù. Si tratta non solo di un ‘oggi’ che indica un tempo cronologico, ma è un ‘oggi’ che indica il tempo di salvezza ormai giunto e vicino.

Nel vangelo di Luca questo ‘oggi’ tornerà in momenti decisivi per chi incontrando Gesù si apre alla vita nuova e alla liberazione che da lui vengono, come Zaccheo a cui Gesù dice: ‘oggi la salvezza è entrata in questa casa’ (Lc 19,9), o come il malfattore appeso alla croce accanto a Gesù che ascolta le parole: ‘oggi sarai con me in paradiso’ (Lc 23,43).

La parola di Dio, le sue promesse di vita di liberazione, di senso nuovo per la vita, di gioia diviene presente nell’agire di Gesù. Tutto ciò genera meraviglia e scandalo: non è lui il figlio di Giuseppe?… Fa difficoltà aprirsi ad un incontro con Dio che si fa vicino nella debolezza di un uomo, che ci raggiunge come ‘figlio di Giuseppe’, così simile a noi e senza caratteristiche eccezionali, senza potenza. Gesù reagisce a questa meraviglia sospettosa e distante, e fa riferimento a due episodi del Primo testamento in cui Dio si è rivelato per mezzo dei suoi profeti non ai vicini, e ai membri del popolo d’Israele, ma ad una donna pagana, una vedova di Sarepta. E’ una donna capace di un gesti di accoglienza e di cura verso il profeta Elia (1Re 17,1) che si presenta come ospite alla sua casa. Così un lebbroso, Naaman, proveniente dalla Siria, cioè un pagano, fu risanato da Eliseo (2Re 5,14) per l’intervento e suggerimento a lui offerto in piena gratuità e contro ogni buonsenso umano da una ragazza di un popolo straniero, prigioniera.

Gesù scardina le pretese di possedere in qualche modo Dio e la sua stessa persona, da parte di coloro che sono i ‘suoi’. Ed afferma la necessità di una conversione della vita. La salvezza, l’incontro con Dio si rende presente nei gesti di gratuità e accoglienza che testimoniano la liberazione di Dio. E’ un appello alla fede che implica non diritti di appartenenza ma apertura del cuore.

La vedova di Sarepta o il lebbroso Naaman, al di fuori delle appartenenze costituite, lontani o pagani, sono testimoni di liberazione, di apertura degli occhi e del cuore. E’ la bella notizia ed è animato dalla forza dello Spirito che soffia dove vuole. E conduce a riscoprire l’unzione dello Spirito che invia al seguito di Gesù ad essere annunciatori di liberazione nel servizio accanto a chi è oppresso.

Alessandro Cortesi op

126765-sd

Gesti di cura

Cristina Cattaneo è docente di medicina legale all’Università di Milano e dirige il LabAnOf, il laboratorio di antropologia e odontologia forense. La sua attività di medico forense si è indirizzata inizialmente allo studio di resti umani di epoche antiche, ma con il tempo ha visto il suo impegno orientarsi nel contribuire a fare giustizia, nello studio in particolare delle vittime di violenza, nel centro medico specialistico di assistenza per i problemi della violenza alle donne.

Una delle attività più coinvolgenti e drammatiche della sua vicenda professionale è stata la partecipazione all’opera di studio e identificazione dei morti in naufragi di navi migranti nel Mediterraneo, in particolare dei morti nel naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015.

Nel suo libro Naufraghi senza volto. Dare nome alle vittime del Mediterraneo (ed. Raffaello Cortina 2018) ha descritto l’impegno della sua comunità scientifica, composta di professionisti la cui opera è quella di ricostruire e identificare le vittime soprattutto quando avvengono disastri come un incidente aereo, uno tsunami, un deragliamento di treno, cogliendo tuttavia una sorta di distacco e indifferenza di fronte alle tragedie del Mare Mediterraneo che colpivano i migranti:

“… è proprio per questo che rimasi scioccata quando mi accorsi che, per le tragedie dei barconi pieni zeppi di migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, morti e sepolti senza un nome, nessuno della comunità internazionale batteva ciglio. Nessuno della ‘mia’ comunità, quella che sapeva benissimo che cosa significasse lasciare un corpo senza identità e che aveva sgomitato per dare il proprio contributo in occasione di tanti altri disastri, aveva mosso un dito” (27)

Ricorda i segnali di umanità sorti in Italia in un passato che oggi appare lontano e dimenticato: il soccorso dalle spiagge per aiutare naufraghi, le iniziative della Marina militare e della Guardia Costiera, i sistemi di prima accoglienza messi in atto da governo e ONG, le sepolture quasi sempre dignitose. “Ma quando si trattava di dare un nome a questi corpi.. niente”.

Nelle pagine del suo racconto offre una descrizione del suo personale coinvolgimento dal putno di vista professionale e umano, a partire dalla tragedia di Lampedusa che scosse le coscienze. In questo disastro di un ‘imbarcazione che portava migliaia di persone furono recuperati 366 cadaveri. Da lì nacque l’operazione Mare nostrum “e da lì iniziò, seppur molto lentamente, a pensare ai loro morti come ai nostri” (44)

E poi il 18 aprile 2015, un altro naufragio a cento chilometri dalle coste libiche con quasi mille morti. Era il Barcone che conteneva circa mille passeggeri quasi tutti adolescenti e giovani la maggioranza proveniente dall’Africa sub-sahariana. Il più grande disastro di cui si ha conoscenza per numero di morti in questi decenni in cui il mare Mediterraneo è divenuto la tomba di decine di migliaia di uomini e donne che viaggiavano in cerca di un futuro.

Così Cristina Catteno descrive lo squarcio di umanità che in quell’occasione si aprì: “Di solito queste vittime, soprattutto dall’Europa ‘che conta’, non vengono considerate degne di pietas né di essere identificate, né i loro parenti degno di sapere se il proprio figlio è vivo o morto, di entrare in ossesso di certificati di morte, fondamentali per esempio come nel caso di Lampedusa, per il ricongiungimento degli orfani. Per il Barcone, invece, si è momentaneamente aperto uno squarcio di umanità in un periodo nuvoloso per la rabbia e l’ostilità, grazie alla volontà di un paese che, ironicamente, era proprio l’ultimo che poteva permettersi tale gesto…. Nei trent’anni di attività, questo è trai gesti collettivi più nobili che abbia visto e sentito” (99-100).

Un gesto di cura, di pietas umana, un gesto antico che ripete lo squarcio del cuore di chi accompagna alla sepoltura un proprio caro, facendo di questo gesto un momento fondamentale che dà senso all’esistenza nel riconoscimento dell’altro.

La ricerca di identificazione e ricostruzione dei corpi delle vittime di quel naufragio è narrata nelle pagine di questo libro che toccano e accompagnano a percepire come si possa morire di speranza. E’ quella speranza racchiusa nei sacchetti di terra recati con sé e trattenuta in fagottini di cellophane tra gli indumenti di giovani eritrei, è la speranza portata nel leggero bagaglio di una tessera di biblioteca e di una attestazione di donatore di sangue gelosamente custodite nel viaggio, ed è la speranza scolpita nei voti di una pagella scritta in arabo e francese, recuperata dopo aver scucito una tasca da un giubbotto di un adolescente del Mali:

“mentre tastavo la giacca, sentii qualcosa di duro e quadrato. Tagliammo dall’interno per recuperare, senza danneggiarla qualsiasi cosa fosse. Mi ritrovai in mano un piccolo plico di carta composto da diversi strati. Cercai di dispiegarli senza romperli e poi lessi: Bulletin scolaire e, in colonna le parole un po’ sbiadite mathematiques, sciences physiques.. Era una pagella. ‘Una pagella’, qualcuno di noi ripeté a voce alta. Tutti si avvicinarono e ci furono diversi secondi di silenzio durante i quali si sentiva soltanto il lontano chiacchiericcio dei medici legali che operavano nella tenda accanto dettandosi appunti. Pensammo tutti la stessa cosa, ne sono sicura: con quali aspettative questo giovane adolescente del Mali aveva con tanta cura nascosto un documento così prezioso per il suo futuro, che mostrava i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, e che pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea, orami ridotto a poche pagine colorite intrise di acqua marcia?” (134-135).

Ai suoi occhi e nel quotidiano operare delle sue mani nel prendersi cura di corpi irriconoscibili e di cui rimaneva talvolta solamente un brandello è apparso come quell’imbarcazione, diventata la tomba di tanti giovani diveniva una reliquia, un memoriale che avrebbe potuto ricordare cosa non doveva più accadere.

Sappiamo tuttavia che le tragedie sono continuate, sappiamo che innumerevoli barche, gommoni contenenti settanta ottanta cento persone hanno continuato naufragare, sappiamo come contro i migranti provenienti dall’inferno della Libia si sia accanita una politica che ha fatto di loro merce di mercanteggiamento elettorale in questa Italia in cui pure squarci di umanità si sono aperti e si aprono magari nascosti e soffocati da una cattiveria dilagante, sappiamo la disumanità della chiusura dei porti, sappiamo i patti iniqui di governanti italiani con la polizia libica, sappiamo la criminalizzazione avvenuta delle ONG che salvavano vite umane e le cui navi ora sono costrette a rimanere ferme, sappiamo l’orrore dei respingimenti riportando nelle mani di torturatori spietati persone che fuggono dalla persecuzione.

“Il Barcone rappresentava cosa succedeva dietro l’angolo di quell’Europa e dei rispettivi parlamenti, che si dichiarano i più civili, democratici e liberali: adolescenti e giovani morti, stipati su imbarcazioni che nulla hanno di diverso dalle antiche navi guerriere, per scapare dalla guerra, dalla persecuzione o dalla fame. Un monito di ciò che non deve più succedere o, meglio, di quanto sia facile dimenticare o non voler guardare, dal momento che, ancora una volta, è successo proprio a noi di non guardare e di dimenticare” (176).

Cristina Cattaneo racconta e immortala questa storia nelle righe del suo libro, con gli occhi di un medico legale che insieme a tante collaboratrici e collaboratori ha vissuto i giorni di Melilli per dare un nome alle vittime dimenticate, per dare venerazione, nei pazienti gesti della ricomposizione dei corpi, a volti distrutti vittime della malvagità e dell’indifferenza che parlano come nessun altro può, di violenze, sofferenze, speranze e sogni traditi. “Non ti abitui mai a parlare con i parenti delle vittime” (69)…

La sua voce, come quella di Antigone, è richiamo oggi, nel tempo dei porti chiusi, nel tempo in cui si impedisce il soccorso in mare, a insorgere in una resistenza civile, a recuperare quel senso di umanità che porta a dare un nome e accompagnare nella sepoltura i morti, per rispondere all’angustia di chi non sa la sorte dei propri cari, per ricordare ai vivi la sofferenza delle vittime e per indicare vie di giustizia e di cura.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

 

 

«Non è solo una questione di memoria o del diritto sacrosanto ad avere un nome anche nella morte. Identificare significa anche tutelare i vivi, basti pensare al ricongiungimento familiare dei minori rimasti orfani»

 

Interrogarsi sulla salvezza

E’ uscito il libro Salvezza e compassione di Dio nella storia umana, ed. Nerbini, Firenze 2018, pp.160

Temi trattati:

Vulnerabilità dell’umanità e salvezza da Dio della compassione / Attese umane e dono di salvezza  in Cristo / Salvezza in Cristo e pluralismo delle religioni / Dialogo sul fine vita: tra teologia e istanze etiche / Ricerche di spiritualità dei giovani oggi

Chi desidera può richiederne copia inviando il proprio recapito all’indirizzo: info@domenicanipistoia.it

XXXI domenica tempo ordinario – anno C – 2016

3402175227_01a97af5c4_o.jpg

(S.Angelo in Formis, affresco XI sec.)

Sap 11,22-12,2; 2Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10

L’incontro di Gesù con Zaccheo è un racconto proprio di Luca. Tutto ha inizio con un movimento di Gesù: ‘entrato in Gerico attraversava la città’. Gesù passa mentre il suo cammino è diretto verso Gerusalemme: c’è un orizzonte del suo camminare,  la città di Gerusalemme, sede del tempio, luogo in cui si riconosceva la presenza di Dio in mezzo al suo popolo e dove Gesù vivrà la passione e la croce, manifestazione del volto dell’amore, dell’esserci di Dio in modo paradossale.

Ora passa per la città di Gerico. La città è luogo di incontro e di relazione, ma anche luogo della folla che diviene massa: la folla si fa ostacolo e barriera che tiene escluso qualcuno. Zaccheo è tenuto distante per varie ragioni. E’ infatti capo degli esattori delle imposte, quindi malvisto dai suoi concittadini, temuto per il suo potere ed emarginato; ed è anche ricco. La sua ricchezza sorge dai guadagni ricavati dalle tasse estorte. Inoltre è piccolo di statura e non riesce ad imporsi.  Impedimenti fisici e interiori oltre alla folla sono di ostacolo al suo desiderio, che pur lo spinge ad uscire, di vedere Gesù. C’è un’insistenza in questa pagina sul verbo ‘vedere’: “Zaccheo cercava di vedere quale fosse Gesù… corse avanti per poterlo vedere”. Nonostante limiti ed gli impedimenti Zaccheo porta in sé una ricerca e desidera vedere. Con creatività e con un po’ di abilità supera gli ostacoli e soddisfa il desiderio di vedere: ‘allora corse avanti e per poterlo vedere salì su un  sicomoro, perché doveva passare di là’.

Zaccheo corre, sale e attende: è descritto in tre movimenti. Per Luca sono questi i movimenti del cuore umano. Ognuno si muove verso qualcosa, e avverte l’urgenza del correre; di fronte agli ostacoli ognuno mette in atto in mdi diversi tecniche per andare oltre. Infine nel cuore umano c’è un’attesa che può essere spinta ad uscire, curisoità, passione, ricerca… E’ un’attesa che al fondo attende un incontro non frutto di operare umano, di propri sforzi o conquiste ma accoglienza di un dono. Zaccheo diviene così simbolo per Luca di uomini e donne che sono considerati e tenuti fuori, lontani, mentre Gesù sta passando di là.

Solo a questo punto Gesù è presentato nel prendere l’iniziativa: è lui che alza lo sguardo – è lui che lo ‘vede’ – e dice a Zaccheo ‘scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua’: dal passare per la città al fermarsi nella casa. Viene indicato lo stile di Gesù. Gesù è uomo capce di alzare lo sguardo oltre confini stabiliti, sa vedere i volti oltre barriere costruite dalle folle. Gesù vive il gusto di entrare a casa, di stare nei luoghi che racchiudono i segreti della vita e della quotidianità. L’incontro di Gesù è personale relazione con un ‘tu’, evita le folle quando sono massa indistinta, nella folla riconosce i volti. Gesù così chiama per nome Zaccheo, lo individua come unico.

Zaccheo che viveva una chiara ma anche inconsapevole attesa non era preparato a tanto. Si trova spiazzato e superato in ogni suo desiderio: aveva curisità di vedere e si sente chiamato ad incontrare. Si lascia prendere dalla gioia di essere coinvolto in un incontro che invade la sua vita, la sfera della casa: ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’. C’è in queste parole un’urgenza ma c’è anche l’indicazione di un tempo che viene trasformato. L’oggi uguale a tanti altri diventa un tempo nuovo, una svolta che si compie non più nella strada ma nella casa. La casa di Zaccheo è il luogo dell’intimità della sua vita.

La risposta di Zaccheo è pronta: scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Anche Gesù ha superato le barriere, anche lui è salito con lo sguardo a vedere Zaccheo: le parti si rovesciano. Zaccheo cercava di vedere Gesù: è invece Gesù che lo cerca, lo riconosce tra la folla, fissa su di lui lo sgardo e lo invita. Lo precede oltre ogni previsione. E’ ancora lui che supera l’ostacolo della folla tra cui si diffonde la voce maligna che commenta: ‘è andato ad alloggiare da un peccatore’. Contro il perbenismo, il giudizio e disprezzo per gli altri, il disilluso sguardo per cui nulla e nessuno può mai cambiare – giudizio celato dietro questa espressione – Gesù entra nella casa di chi è lasciato lontano o pensa di essere ai margini.

In quella casa si compie così il miracolo dell’accoglienza. Gesù è accolto non solo nella casa ma nel cuore, nella vita di Zaccheo: quell‘oggi’ non rimane un fatto interiore o individuale. Quell’incontro diventa momento di scoperta di un nuovo modo di intendere la vita. I suoi averi, le sue ricchezze non tengono più il primo posto. La vita di Zaccheo viene proiettata sugli altri. Gesù che entra nella sua casa lo spinge ad un cammino di libertà: un nuovo rapporto con gli altri, che proviene non da prediche moralistiche, ma da un movimento libero, interiore, della coscienza: ‘io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto’. In quella casa si compie l’ ‘oggi’ della salvezza. Salvezza per Zaccheo ha il sapore di una vita che acquista dimensioni nuove, diviene ‘buona’ per lui, guardato e accolto proprio nella sua casa, e per gli altri che popolano la sua esistenza.

‘Anch’egli è figlio di Abramo’ sono le parole conclusive dell’episodio, ‘il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto’. Alla ricerca di Zaccheo che cercava di vedere, corrisponde e precede la ricerca del Figlio dell’uomo per salvare. Gesù che va incontro a Zaccheo è indicazione ad incontrare Gesù che nel nostro oggi  va in cerca di tutti i figli di Abramo per introdurli nella gioia, possibilità di vita buona, di un rapporto nuovo tra di noi e con Dio.

Al centro sta la casa. E’ la presentazione di una scoperta: in Gesù si rende vicina la compassione di Dio che ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato.

Alessandro Cortesi op

zaccheosiegerkoder.jpg

(Sieger Köder, Zaccheo)

Spazi altri

“Il perfetto nonluogo è quello dove le relazioni sociali sono tutte completamente decifrabili attraverso l’osservazione. Ma in questi luoghi non c’è libertà, la residenza è assegnata. […] Si tratta di spazi dove la condizione normale è quella di essere soli”. Marc Augé parlando dei non luoghi definiva in questo modo spazi ben presenti nella vita oridnaria delle persone oggi: indicava così infatti i luoghi anonimi del consumo in cui chi passa vi scorre senza lasciare alcuna traccia. Gli aeroporti, le stazioni, i grandi magazzini sono ‘nonluoghi’ in quanto luoghi di un passare dove non c’è un abitare di volti che si riconoscono, ma solitudini che s’incrociano nell’indifferenza della folla. Forse si può indicare come nonluogo sia lo spazio della folla radunata al passare di Gesù, ma anche la casa di Zaccheo, nonluogo di solitudine senza rapporto.

E’ stato il filosofo Michel Foucault ad avere riflettuto in modo particolare sugli spazi e la sua ricerca lo ha portato a riflettere su quelli che egli denomina ‘eterotopie’: sono questi ‘spazi altri’ che sono in relazione ad altri luoghi, tuttavia gli ‘spazi altri’ rovesciano i rapporti che altri spazi indicano o rispecchiano. Con le parole di Foucault essi sono «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano». (Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, ed.Mimesis)

La casa di Zaccheo nel momento in cui si apre alla visita di un ospite inatteso e improvvisamente accolto appare divenire uno ‘spazio altro’: quella casa infatti era il luogo della ricerca dell’accumulo ed insieme della separazione dalla vita di altri. La parola di Gesù che chiede di entrare, genera in quel medesimo spazio un luogo altro: in quella casa infatti si genera un contrasto e una inversione di rotta. Da luogo di solitudine diventa spazio di gioia. Viene sospesa la regola dell’approfittarsi, e si inverte il cammino: “Io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e se ho rubato a qualcuno restituisco quattro volte tanto….”

Zaccheo era uscito dalla sua casa mosso da un desiderio, avvertendo una curiosità, o forse una mancanza nella sua vita, vivendo quel momento come uscita da un utero protetto di sicurezze e di tranquillità. Dopo l’incontro con Gesù il suo abitare la casa si apre ad uno scoprirsi abitato. E’ lo sguardo di Gesù che lo abita nell’incontro e l’essere riconosciuto e invitato a scendere dall’albero rovescia le gerarchie della sua vita. Ora per lui la cosa più importante diviene non più qualcosa, connesso alla ricchezza e al suo dominio, ma qualcuno.

Gesù si fa ospite che chiede accoglienza, ma egli stesso offre ospitalità pur non avendo casa perché fa spazio nel suo ‘guardare’ a quell’uomo, basso di statura, tenuto lontano dagli altri e che si riteneva escluso. Zaccheo viene spiazzato da tale ospitalità inattesa. Da qui sorge un movimento di apertura nuova di spazi. La sua casa diviene luogo di incontro, di condivisione, di stare insieme. Non luogo dell’appartarsi, ma luogo del condividere: ‘spazio altro’, appunto.

La sua casa diviene abitazione in cui si rende possibile l’accoglienza: un altro capovolgimento si attua. L’abitare di Zaccheo diviene abitare una casa che si fa spazio in cui i confini da barriere di divisione divengono luoghi di attraversamento. La sua vita è proiettata su rapporti nuovi e il suo abitare si allarga a scorgere coloro, anche sconosciuti, gli altri, che abitano la sua vita.

Il suo abitare diviene caratterizzato da responsabilità e cambiamento. In quella casa in cui l’abitare era segnato dalla regola del sopraffare e del dominare, e i cui spazi erano occupati dalla preoccupazione per il denaro da accumulare, l’abitare stesso si apre ad una nuova libertà di condividere. Lo spazio dell’isolamento dell’esattore che mira a frodare si capovolge in spazio di una ospitalità che si allarga ad altre presenze. La casa di Zaccheo diviene luogo altro, eterotopia: nel luogo dell’accumulo e della frode Gesù porta il suo venire, il suo entrare che spalanca alla condivisione. Ancora uno spiazzamento: il peccatore, l’additato come fuori dalla salvezza è lui ad essere abbracciato da un senso nuovo della vita che lo libera. Salvezza come scoperta di essere abitato.

Tutti viviamo in luoghi spesso abitati solamente da solitudini confinanti, abitiamo case che nei loro spazi custodiscono ed esprimono un’identità vissuta o desiderata. I luoghi dell’abitare possano diventare espressione di identità scoperte in relazione – essere figli di Abramo, quell’uomo che partì senza sapere dove andava ma spinto da una fiducia – e aperte ad essere ‘luoghi altri’.

Alessandro Cortesi op

XXII domenica tempo ordinario – anno C – 2016

IMG_0681Is 66,18-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30

‘Passava per città e villaggi insegnando e dirigendosi verso Gerusalemme’. ‘Passare’ è verbo di movimento, apertura, uscita, nell’attraversare i luoghi della vita, nella compagnia degli umani. I luoghi del suo passare sono lontani dai grandi centri della ricchezza e del potere. Gesù attraversava i villaggi della Galilea i luoghi del vivere di chi conosce la fatica del lavoro e il peso dell’oppressione dei potenti. Gesù è profeta che cammina, in un viaggio tutto orientato verso Gerusalemme.

“sono pochi quelli che sono salvati?” E’ domanda di scuola, dibattuta nei circoli dei maestri religiosi del tempo preoccupati di motivare privilegi, esclusioni, verità inaccessibili. Come oggi nei sistemi religiosi e tra le loro gerarchie, così allora diverse risposte trovavano dovizia di spiegazioni: c’era chi sosteneva che pochi si sarebbero salvati e chi invece affermava che tutti gli israeliti avrebbero partecipato al mondo futuro. Visioni più o meno aperte ma incapaci di respiro e rinchiuse in un orizzonte di privilegio ed esclusione.

Gesù non entra nella questione. Conduce piuttosto ad andare alla radice della domanda. Salvezza si pone nei termini di una relazione, e si può paragonare non ad un obiettivo esigente, ma ad una festa, ad un incontro aperto e accogliente. Il suo linguaggio non è per iniziati di una dottrina, ma suscita coinvolgimento. Parla così di una porta: ‘Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti cercheranno di entravi ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: Signore, Signore aprici!’.

Le porte strette erano quelle di accesso alla città, anche di notte quando le grandi porte erano chiuse. Chi avanza pretese e diritti si scontra con le dure parole del padrone di casa: ‘Non so di dove siate: andate via da me, voi tutti che operate l’iniquità’. Chi accampa in qualche modo diritti per ‘aver mangiato e bevuto insieme’, perché ‘hai insegnato nelle nostre piazze’ si deve invece confrontare con altri criteri per poter entrare. Chi può attraversare la porta stretta non rivendica una appartenenza anche di tipo religioso o privilegi particolari, ma è rinviato ad una scelta personale, a compiere la giustizia nella concretezza della vita. Le parole di Gesù rinviano non ad una salvezza in una sfera lontana ma ad un impegno presente, da iniziare ora contro ogni iniquità. Il senso della vita, l’incontro con Dio, il compimento dell’esistenza non si attua altrove se non nella relazione con gli altri.

La porta per entrare è stretta: Gesù non prospetta il disimpegno e l’irrilevanza, ma ai discepoli richiama l’esigenza di una fatica, di prendere posizione, vivere l’urgenza e la responsabilità. E’ una parola che pone in crisi chi avanza pretese senza coinvolgersi in scelte che segnano la prassi. Di fronte a ricerche di rassicuranti certezze o a pretese di ‘diritti acquisiti’ le parole di Gesù suscitano la domanda che investe l’esistenza.

La porta è aperta, ma richiede un atteggiamento lontano da pretese o arroganza. La porta è spalancata per chi proviene da lontano ma troverà accoglienza. La salvezza allora è già una vita vissuta nella giustizia: ‘E verranno da oriente e da occidente da settentrione e da mezzogiorno per prendere posto al banchetto nel regno di Dio. E così vi saranno ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi’. Gesù richiama le parole dei profeti: scagliandosi contro un culto separato dalla vita, indicavano che solo scelte di attenzione ai più poveri sono la via per incontrare Dio.

La porta stretta si apre ad accogliere chi non ha titoli di appartenenza o privilegi da accampare, chi attua scelte nel prendersi cura per l’altro, nello stare dalla parte degli oppressi, nell’impegno per la giustizia e per la pace. Sono persone che provengono da lontano, estranei a Israele, stranieri, ma con la loro vita dicono il vangelo. Gesù nel suo annuncio spalanca porte nuove, conduce a pensare la fede stessa al di fuori degli steccati. Coloro che sono considerati fuori sono accolti nel regno di Dio: ‘siederanno a mensa nel regno di Dio’. Saranno gli invitati nella casa, troveranno la porta aperta e accogliente. E’ un invito a ripensare il nostro cammino personale e i modi di vita delle nostre comunità.

Alessandro Cortesi op

IMG_0863_2

La soglia

C’è una ricchezza di pensieri che si affollano alla mente se si riflette sulla soglia, quel luogo domestico, quotidiano, che è limite, spazio di apertura, di attraversamento. La soglia di una casa è pietra che segna il limite tra il dentro e il fuori, delimita l’area di un vuoto e di una apertura dove rendere possibile il passaggio. La soglia è fatta per transitarvi, o per sostarvi sul limite. E’ infatti luogo del passaggio, dove si sta nel momento del saluto e dell’accoglienza, da dove si invita ad entrare e dove si rimane quando si getta lo sguardo al di fuori delle mura domestiche per affacciarsi fuori sul mondo circostante. Attraversare una soglia è movimento che dice incontro e apertura all’altro, è passaggio quotidiano inavvertito come il respiro.

La soglia è anche un confine, un limite che separa e che nello stesso tempo unisce e fa toccare due mondi diversi. Non ci sono solamente soglie fisiche, ci sono soglie interiori da riconoscere e varcare. Chi si ferma al di qua o al di là della soglia costruendo barriere e segnando confini come steccati si rende incapace di gustare la vita nel suo essere passaggio, cammino di soglie oltrepassate, coinvolgimento in quel viaggio in cui dal momento della nascita siamo stati gettati. In un momento storico in cui ritornano le barriere innalzate dentro e fuori, in una stagione in cui la paura sembra prevalere, coloro da cui imparare a vivere sono gli attraversatori di soglie, coloro che vivono il faticoso apprendimento nel far convivere confini dentro se stessi e sanno renderli luogo non di chiusura ma di attraversamento nell’incontro. Come la battigia sulla riva che tiene insieme e fa unire e mescolare mare e terra e nello stesso tempo li distingue, sulla spiaggia impregnata di salsedine. Per riflettere due brani che evocano i significati della soglia:

“Il «limine» può essere identificato con una soglia o come un lungo corridoio o un tunnel che rappresenta il necessario passaggio della nostra soggettività verso un nuovo orizzonte. La soglia implica un dinamismo, un attraversamento: quando ci dirigiamo da un luogo ad un altro, per un tratto ci si allontana, poi ci si avvicina, ma è decisivo il punto e il momento dell’attraversamento. E’ questo stare nel mezzo, questo luogo «terzo» (diverso dall’origine e dalla meta, diverso dalla partenza e dall’arrivo) quello che ci fa mancare il fiato, quello che ci fa tremare nella nostra interiorità, nel nostro tempo interiore. La riva abbandonata è alle spalle e quella verso cui siamo diretti ancora non si vede: la riva da raggiungere è nell’ombra. Questo crinale decisivo, e talvolta terribile, è quello che chiamiamo «essere sulla soglia»: è il luogo della paura e del naufragio, ma anche della sorpresa, della vita autentica, è il luogo dove la nostra soggettività arriva al suo «punto-limite» ed è chiamata a fare delle scelte per dare un senso alla nostra vita e alla nostra esistenza. Nella sua natura originaria e irripetibile, nel suo «punto-limite», la soglia è la «terra di nessuno»: è la terra selvaggia, autentica e originaria dove poter ritornare ad «essere se stessi». La soglia è l’orizzonte della speranza”(Andrea Gentile, Sulla soglia. Tra la linea limite e la linea d’ombra, IfPress 2012).

” I confini sono un catalogo di ipotesi, un’enciclopedia del possibile e del praticabile. Ad esempio, più che demarcazioni lineari, sono passi creste frastagli onde. Sono percorsi, tracce e sentieri: idee e impressioni che diventano disegni sul territorio. Addirittura colori, che sfumano. Tratti, ritratti di paesaggi, cose, persone. Prima che geografie, sono storie, racconti e immagini insieme. Quasi sempre inducono un andare più che un fermarsi. Segnalano, al di là di un limite, una messa in comunicazione, una ineludibile cerimonia di condivisione e comunione. Sono costruzioni che spesso dicono un dentro e un fuori, facendoli coesistere, essendo evidente che senza fuori non può esserci alcun dentro. E ancora, sono pensieri, mappe mentali che si semplificano e fissano, pur rimanendo fluidi, in una traduzione fisica. E viceversa — con i confini c’entra sempre il viceversa. Sono un dato fisico e di percezione che produce mappe mentali e pensieri (…)“Siamo fatti di confini, bisogna solo farli stare bene dentro di noi. I confini non sono che il bacio di due terre, di due cose” (Gianluca Favetto, Se il confine è un sentiero della mente, La Repubblica 5 agosto 2016).

Alessandro Cortesi op

 

 

Navigazione articolo