la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “Maggio, 2014”

Ascensione del Signore – anno A – 2014

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Gesù ‘fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi’. La morte e risurrezione di Gesù è letta da Luca come un passaggio, una salita, dalla dimensione della terra all’alto, al cielo l’ambito della vita di Dio. Il ‘cielo’ in alto è distinto e lontana dalla terra, in basso: per la Bibbia il cielo è il luogo di Dio mentre la terra, il basso è luogo degli uomini. Nella risurrezione Gesù è ‘innalzato’: vive una condizione nuova, uno stare presso il Padre rialzato dalla morte nello Spirito, ma è innalzamento di colui che è sceso e si è fatto servo. La croce manifesta un volto di Dio che unisce terra e cielo, un Dio comunione: il Padre, la sorgente dell’amore, il Figlio l’amato che tutto riceve e si consegna totalmente a Dio e a noi, e lo Spirito, il dono vincolo dell’amore e estasi di Dio che apre ad una comunione sempre nuova. La ‘nube’ che ‘lo sottrasse’ allo sguardo dei discepoli è segno che dice il manifestarsi di Dio, la sua presenza vicina ma inafferabile che rimane altra e sempre da ricercare (cfr. Es 13,21-22; 24,15-18; Lc 21,27; 1Ts 4,17).

L’intera umanità di Gesù vive in questa comunione. Nella sua vita ha mostrato l’amore fino alla fine. Nella morte il Padre è presente come colui che consegna il Figlio, nella risurrezione conferma la vita di Gesù come rivelazione dell’amore e dona a Gesù il nome di ‘signore’, colui che ha vinto la morte con la forza dell’amore. L’ascesa al trono del re evocata nei salmi diventa il riferimento per parlare del movimento di salita, innalzamento di Gesù: ‘applaudite popoli tutti… ascende Dio tra le acclamazioni…Dio è re di tutta la terra… Dio siede sul suo trono santo’ (Sal 46). Il salire di Gesù sta in rapporto con il movimento di discesa: nel suo scendere e servire ha reso visibile il volto di Dio come amore che si dona. Per questo ‘Dio l’ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome’ (Fil 2,9); “… lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli” (Ef 1,20).

Gesù richiama i suoi a non lasciarsi prendere da vane curiosità sui tempi e sui momenti in cui si costituirà il regno. Chiede loro ‘di non allontanarsi da Gerusalemme’, ma di attendere il compimento della promessa del Padre, quella di essere battezzati, cioè immersi, investiti della forza dello Spirito Santo. Richiama Gerusalemme, luogo della sua passione della croce. Apre loro il cammino dei testimoni, chiamati a ricordare il crocifisso risorto: ‘mi sarete testimoni, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra’. Essi fissano il cielo ma sono rinviati alla terra a percorrere le sue vie oltre i confini fino agli estremi.

L’ascensione rinvia al tempo della storia della comunità, chiamata ad incontrare in modo nuovo d’ora in avanti il suo Signore: è sottratto a noi ma si apre il tempo in cui la sua vicinanza rimane. La promessa è una vicinanza nuova: ‘ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’. Rimane la presenza dello Spirito che sta accanto, investe come dono l’ordinarietà della vita dei discepoli: è lo Spirito la ‘promessa del Padre’ e la ‘forza che li investe dall’alto’.

Essi d’ora in avanti sono chiamati a vivere la predicazione nella conversione e nell’annuncio del perdono per tutte le genti. Conversione e perdono sono due momenti che vanno tenuti insieme, ed entrambi sono dono proveniente dalla risurrezione di Gesù. L’impegno storico a costruire percorsi di conversione alla via seguita da Gesù è invio che apre la comunità ad una responsabilità del quaggiù: ‘perché state a guardare in alto?’. Insieme sono inviati: c’è una dimensione comunitaria che segna ogni percorso del credere.

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Queste letture hanno una particolare risonanza per noi oggi.

“Ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme…”. A Gerusalemme nei giorni scorsi alcuni gesti hanno aperto speranze e ci hanno ricondotto alle parole di Gesù. Sono segni della presenza dello Spirito. Il segno di un abbraccio tra Francesco e Bartolomeo ha parlato di un cammino di comunione possibile tra le chiese che diviene segno di una testimonianza comune di Gesù oggi. Il dialogo e l’abbraccio tra le figure del vescovo di Roma, cristiano, di un rabbino, ebreo e di un mufti islamico ha indicato la via delle religioni chiamate a spogliarsi oggi di tutto quello che le rende sistemi di potere e di negazione dell’altro, per percorrere le vie della comunione della costruzione di una umanità capace di accoglienza reciproca. E così pure il gesto di un invito ai presidenti dei due popoli e dei due Stati in conflitto nella terra di Israele a pregare insieme, nella dimensione della casa, invito che ha trovato accoglienza, apre alla speranza che non in virtù di diplomazie o di alleanze di poteri ma nello scoprirsi uomini  e donne di diverse fedi e culture accomunati dall’unico desiderio della pace, si possa intraprendere una strada di pace non basata sull’uso delle armi, ma sul riconoscimento della propria umanità e radicata nella diversità delle fedi che possono incontrarsi. Nella conversione all’altro e nel superamento della spirale della violenza e della rivendicazione scegliendo la via dell’incontro e del perdono.

“Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo… illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati…”. La speranza è dono dello Spirito. Sorge dall’espreienza dello Spirito come respiro della vita che apre ad un vedere nuovo. In un tempo in cui sperimentiamo il peso della preoccupazione e della crisi a vari livelli queste parole sulla speranza acquistano un rilievo particolare. Sperare è questione di sguardo trasformato.  Gli occhi del cuore sono occhi dell’interiorità: non solo occhi dell’emozione e neppure solo occhi di una ragione che tutto vuole comprendere e tenere in mano, ma sguardo che risiede laddove sta la radice delle scelte e degli orientamenti della vita, il cuore, centro dei pensieri e dei sentimenti, della memoria e dell’esperienza. La preghiera di Paolo che il Padre illumini gli occhi del cuore è invito a coltivare una interiorità che troppo spesso viene soffocata e non lascia spazio ad una vita autentica. C’è una speranza racchiusa per ciascuno a cui guardare.

“Quando lo videro si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò… andate fate discepoli… insegnando loro…”. Ai discepoli carichi del dubbio e appesantiti dalla fatica del loro abbandono Gesù si avvicina e affida un invio a coinvolgere e insegnare. La risurrezione è movimento di vicinanza e di invio: non lascia tempo per ripiegarsi. Non pone rimproveri per il dubbio, ma impegna coloro che si incontrano ancora insieme nonostante tutto. Ed apre ad un invio, che sta nei termini di un coinvolgimento (immergere) e nel divenire segno (insegnare). Insegnare rinvia al porre segni e all’accogliere segni che accompagnano nel cammino che conducono a realizzare la propria umanità. Insegnare rinvia non tanto a portare una dottrina ma a custodire lo stile di Gesù (è questa una traduzione possibile dell’osservare i comandamenti), a fare della propria vita un segno credibile dell’incontro con lui che non chiude ad altri incontri, al bene e alla verità ovunque si trovino.

Alessandro Cortesi op

Un abbraccio ecumenico: storia e quotidianità

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In questi giorni un importante incontro si svolgerà in Terra Santa tra Francesco, vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica e Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli. Il loro incontro avverrà a Gerusalemme sede del patriarca ortodosso Teophilos III. Come ha notato Daniel Attinger (in “Popoli” maggio 2014)  “il Patriarca di Costantinopoli, nonostante il titolo di «ecumenico», non può venire a Gerusalemme e compiervi qualche gesto senza il consenso del Patriarca ortodosso di Gerusalemme, Theophilos III. È lui, per gli ortodossi, che accoglie i due visitatori, ma questi è totalmente dimenticato, tanto dai giornalisti, quanto, probabilmente, dalla maggior parte dei teologi e dei curiali cattolici. Di fatto non c’è traccia del suo nome nel programma della visita disponibile sul sito della Santa Sede. Eppure è lui, insieme al Patriarca armeno e al Custode francescano di Terra Santa, che accoglierà i due visitatori nella Basilica dell’Anastasis (Santo Sepolcro), dove si farà memoria, come proposto da Bartholomeos fin da quando ha invitato Francesco, del cinquantesimo anniversario del primo e unico incontro simile avvenuto nel secondo millennio: quello tra Paolo VI e Athenagoras I nel gennaio 1964”.

Proprio Theophilos in questi giorni ricordando quell’incontro ha detto:“Prima di tutto io penso che da quel momento abbiamo veramente cominciato a parlare di dialogo. Abbiamo iniziato a pregare per l’unità, ci siamo accorti di avere persino un obbligo in questo senso imposto dalla Divina Liturgia. Però, prima di porre l’Unità dei cristiani in termini amministrativi, che è sempre molto rischioso, io credo che dovremmo fissare le nostre preghiere  per trovare l’unità dello spirito, della mente e del cuore”. (da Vatican Insider).

 

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L’incontro ricorderà appunto quello di Paolo VI e Atenagora. Nella mia casa ricordo da quando ero bambino un’immagine posta al centro del salotto. Si trattava di un’immagine che ricordava come gli eventi storici erano segni che rinviavano a quell’ecumenismo domestico, a quel tessere relazioni nella vita quotidiana che è esperienza possibile a tutti, nella dimensione domestica. La vita di tutti anche dei piccoli è importante nel cammino storico dell’umanità e nutre e porta a quei passaggi che poi sono ricordati sui libri di storia.

L’immagine era un bassorilievo in bronzo, che ancora oggi trova il suo spazio contornata da una libreria, nel cuore della casa. E’ formella non di grandi dimensioni, di un artista, amico di famiglia, Benedetto Pietrogrande che ne fece dono a Carla e Sergio, miei genitori. Ricordi lontani mi riportano alla memoria la spiegazione dei profili sbozzati di quel bronzo, con uno stile così essenziale ed evocativo, che udii dallo stesso autore quando ci presentò questa sua opera.

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Al centro l’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora, quell’abbraccio che pose fine ad un tempo segnato dalle scomuniche reciproche. Un abbraccio che fu simbolo del cammino del Vaticano II e della scelta del cammino ecumenico  come via di fedeltà al vangelo. Era una via che la chiesa cattolica aveva visto con sospetto e aveva ostacolato emarginando i testimoni più lucidi dell’ecumenismo quale chiamata delle chiese a rispondere alla preghiera di Gesù: ‘che siano uno’. E il Concilio fu il momento che spalancò le porte ad un vento nuovo, il soffio dello Spirito. Quell’abbraccio di due uomini dello Spirito, Paolo VI e Atenagora, fu uno dei grandi segni di quella svolta.

Nel bassorilievo proprio l’incontro dei volti e il gesto dell’accoglienza nell’incrociarsi degli sguardi sta al centro. E attorno a quell’abbraccio alcuni elementi riprendono, quasi a sottolineare i tratti di questo incontro.

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In basso a destra il profilo di Paolo VI senza insegne particolari, solo con il bastone in mano: indicazione dai tratti essenziali di un pastore che si scopre pellegrino, pelllegrino della fede, ma anche inserito in quel cammino di fede del popolo di Dio, e al servizio di un cammino orientato all’incontro nell’attesa e nella ricerca dell’unità. Proprio in quel tempo (erano i primi giorni di gennaio del 1964 poco tempo dopo la chiusura della seconda sessione del Concilio) stava prendendo forma la redazione della costituzione conciliare Lumen gentium. Costituiva la presa di consapevolezza della chiesa come popolo di Dio in cammino, popolo costituito di soggetti diversi segnati da una medesima dignità battesimale e dalla chiamata a partecipare alla vita di Dio, alla santità, nella differenza di servizi e di doni, inseriti nella storia. E nel pellegrinaggio chiamati ad accogliere il dono della comunione e viverla nello scoprirsi chiesa di chiese, chiamate alla comunione nella diversità.

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In alto a destra della formella vi è la la ripresa dell’abbraccio quasi a sottolineare il primato di quell’ecumenismo dell’amore così caro a Atenagora. Una registrazione dello scambio di saluti nel momento dell’incontro rimasta per molto tempo dimenticata è stata riproposta da ‘Vatican Insider’ (Atenagora e Paolo VI. Le parole del fuori onda) e ci riporta le parole che hanno scandito quel momento.

Atenagora ebbe a dire: «Ci è stato fatto il dono di questo grande momento; noi perciò resteremo insieme. Cammineremo insieme. Che Dio… Vostra Santità, Vostra Santità inviato da Dio… il Papa dal grande cuore. Sa come la chiamo? “O megalòcardos”, il Papa dal grande cuore!». Paolo VI gli rispose: «Siamo solo degli umili strumenti. Più siamo piccoli e più siamo strumenti; questo significa che deve prevalere l’azione di Dio, che deve rimanere la norma di tutte le nostre azioni. Da parte mia rimango docile e desidero essere il più obbediente possibile alla volontà di Dio e di essere il più comprensivo possibile verso di Lei, Santità, verso i suoi fratelli e verso il suo ambiente» E ancora Paolo VI: «Nessuna questione di prestigio, di primato, che non sia quello… stabilito da Cristo. Ma assolutamente nulla che tratti di onori, di privilegi. Vediamo quello che Cristo ci chiede e ciascuno prende la sua posizione; ma senza alcuna umana ambizione di prevalere, d’aver gloria, vantaggi. Ma di servire» .OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Sulla parte alta del bassorilievo a sinistra una processione che porta un’icona in cui è distinguibile un’immagine di Maria con il bambino. E’ il riferimento al culto per le icone nella tradizione ordossa, all’importanza dell’icona con la sua valenza sacramentale. Subito dietro a colui che reca l’icona sta un’altra figura con in mano un libro. Scrittura e icona: i segni dell’incontro propri delle grandi tradizioni cristiane che hanno sottolineato la centralità della Parola, la tradizione delle chiese riformate, e di quelle che hanno sottolineato la valenza dell’immagine, le chiese ortodosse. Certamente sulle accentuazioni si è giocata nella storia la divisione, ma la sottolineatura delle differenze e di diversi doni, come evidenziava un grande profeta dell’ecumenismo Oscar Cullmann, è benedizione in vista di una valorizzazione delle diversità e dello scambio dei doni.

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E proprio al di sopra dei profili  di Paolo VI e Atenagora la mensa dell’eucaristia. Il pane il calice, la croce e i volti abbozzati di due figure che concelebrano. La Scrittura, l’icona, l’eucaristia. L’indicazione di una comunione che sorge dall’eucaristia e che si apre nell’orizzonte dell’eucaristia condivisa e insieme celebrata. Il grande sogno e desiderio che da quei giorni di gennaio 1964 hanno segnato l’impegno e la preghiera di tanti che hanno vissuto nell’orizzonte del cammino ecumenico.

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Ma anche è ricordo di un’occasione mancata: Emmanuel Lanne ricordava come dopo la cancellazione delle scomuniche le chiese erano pronte in quel momento a ristabilire anche la comunione ecuaristica e se questo gesto fosse stato compituo sarebbe stato accolto con gioia. Timori, paure di lacerazioni resero incapaci di compiere quel passo, come più tardi nel 1981 il passo della comunione della chiesa cattolica con la chiesa anglicana.

Guido Dotti, monaco di Bose, offrendo una lettura dell’incontro prossimo di Francesco con Bartolomeo ha così osservato: “I successori di Pietro e Andrea parleranno, sì, delle sofferenze, delle angosce e delle speranze dei cristiani in Terrasanta e in Medio Oriente, cercheranno di intraprendere vie condivise per alleviare le sofferenze loro e di tante vittime della guerra e della violenza, denunceranno l’ingiustizia e il sopruso che offende la dignità degli esseri umani, soprattutto dei più deboli, ma il loro sguardo non sarà quello del calcolo politico, degli opportunismi mondani, bensì quello della consapevolezza che «l’ecumenismo di sangue», la condivisione delle prove e del martirio è voce più forte di ogni divisione, è testimonianza evangelica che fa dell’ecumenismo dei martiri un segno credibile dell’annuncio cristiano nel mondo di oggi. Sarà anche l’occasione per condividere preoccupazioni e sollecitudini: «Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri cristiani per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi» (EG, n. 246). (Di nuovo insieme a Gerusalemme, “Popoli” febbraio 2014)

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Questa immagine mi è stata davanti agli occhi per tanti anni nella quotidianità e ricordo di uno stile di umanità e di vita ecclesiale: è un’opera che ricorda come certe scelte e certi passaggi siano fecondi dei cammini dei cuori che solo Dio conosce. In questi giorni potremo assistere all’incontro di Bartolomeo e Francesco forse in qualche modo assordati e distratti dall’ufficialità e dalla retorica, ma potremo anche cogliere il loro abbraccio come segno semplice di quel cammino di accoglienza dell’altro, di ascolto e di dialogo che costituisce oggi la profonda sfida per cammini di umanizzazione e sfida per i singoli e per le chiese in quanto responsabili del vangelo ricevuto.

Alessandro Cortesi op

VI domenica di Pasqua – anno A – 2014

Spirito SantoAt 8,5-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

La prima lettura presenta la figura di Filippo: “Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro il Cristo… Frattanto gli apostoli seppero che la Samaria aveva accolto la parola di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni… imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo”.

Tre elementi possono essere notati. Il primo è costituito dal luogo. La Samaria era una regione considerata eretica, abitata da un popolo che si era separato dalla tradizione religiosa giudaica con il suo centro a Gerusalemme. Gli ebrei della Giudea verso i samaritani nutrivano senso di lontananza e disprezzo (Sir 50,25-26; cfr. Gv 4,9.20). Lì si ricordava lo spostamento di cinque popoli pagani che avevano mantenuto forme di culto idolatriche (cfr. 2 Re 17,24-41): l’allusione ai cinque mariti della donna di Samaria, nel dialogo con Gesù del cap. 4 di Giovanni, rinvia a questo (Gv 4,18). Proprio Samaria, il territorio pagano ed eretico è l’ambito della predicazione di Filippo. In quella regione, ritenuta inospitale e sospetta dal punto di vista religioso, la Parola è accolta. Segue il coinvolgimento di altri apostoli nell’incontro con chi era stato battezzato: ‘imponevano loro le mani e ricevevano lo Spirito Santo’. Un primo messaggio di questa pagina riguarda la libertà dello Spirito, l’abbattimento di ogni barriera di tipo culturale e religioso. Dirà Pietro nella casa di Cornelio: ‘Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto’ (At 10,34).

Un secondo elemento sta nello stile proprio di Filippo: ‘cominciò a predicare loro il Cristo’. In At 18,5 si trova un’espressione analoga: “Paolo si dedicò tutto alla predicazione, affermando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo”. Filippo comunica una parola e vive un agire centrato su Gesù: presenta la sua identità e missione. La sua predicazione è attestazione che Gesù è il messia atteso, presenza che libera dalla paura, dal peccato, da ogni prigionia. Il dedicarsi alla predicazione come parola capace di mettere in relazione con Gesù è l’impegno dei primi apostoli. Ma anche nel suo agire Filippo riprende lo stile di Gesù (cfr. Lc 24,13-35): non opera grandi cose, ma segue la spinta dello Spirito, le chiamate che derivano dalle situazioni, scende sulla strada, si fa vicino e accompagna nel cammino. Il suo agire è così divesro dalle grandi opere di potenza di Simone mago a cui è subito accostato. Filippo pone al centro la Parola di Dio e la legge in riferimento a Gesù: salirà poi sul carro del funzionario etiope, ascolterà le sue domande e lo aiuterà a comprendere quello che leggeva (cfr. At 8,26-40). In Samaria Filippo ‘recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo’. La bella notizia, il vangelo è dono che fa scoprire l’azione dello Spirito già presente nei cuori nell’atto della predicazione degli apostoli. Viene così indicato uno stile di annuncio del vangelo, come cammino di compagnia, testimonianza dell’incontro con Cristo che apre alla gioia (At 8,39).

Un terzo elemento: la presenza dello Spirito e l’esperienza della gioia. ‘E vi fu grande gioia in quella città’ (At 8,8). La predicazione di Filippo e degli altri apostoli apre i cuori, accompagna ad uno sguardo nuovo sulla vita: apre ad una esperienza ‘gioiosa’. Gioia non è emozione entusiastica, momentanea. Nel libro degli Atti si rende chiaro che proprio nei momenti delle prove e delle delusioni della predicazione i discepoli erano riempiti di gioia e di Spirito santo (At 13,52). Paolo sintetizza cosìla chiamata dell’apostolo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi” (1Cor 1,23).

Nella pagina del vangelo Gesù invita a custodire i suoi comandamenti. Amare Gesù trova la sua verifica nel custodire e quindi attuare i suoi comandamenti che si sintetizzano nell’amare come lui ha amato: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva questi mi ama (Gv 14,21). Custodire i comandamenti rinvia infatti al gesto del lavare i piedi e alle parole della cena: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. da questo tutti sapranno che siete miei discepoli” (Gv 13,34-35). Amare come Gesù, custodire il comandamento è vita che si radica nel dono della sua vita, nello stare in lui: ‘come io vi ho amato’ indica’ la sorgente generativa di una novità di vita che si esprime nei gesti della gratuità e della fraternità aperta. Custodire il comandamento dell’amore sarà possibile solamente nel rimanere in lui. Gesù ai suoi promette lo Spirito indicandolo con due nomi: sarà un altro ‘paraclito’, il consolatore, e sarà lo Spirito di verità.

Lo Spirito promesso sarà un ‘altro’ che sta accanto, presenza di vicinanza (‘Paraclito’): continuerà l’opera di Gesù che è ‘stare accanto’ e prendersi cura. Lo Spirito quindi trasforma l’assenza di Gesù in una esperienza di vicinanza che continua. Ai discepoli non verrà a mancare la compagnia di Gesù: in qualche modo lo Spirito rende presente e continua la presenza di Gesù: “Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete , perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

Lo Spirito è così indicato come presenza che sta accanto e prende le difese, colui che nel tempo della storia guida la comunità all’incontro con Gesù, il grande suggeritore che ricorda quanto Gesù ci ha comunicato: Spirito di verità perché guida ad un incontro con lui nuovo e più profondo: è lui verità personale che si fa vicino aprendo alla relazione con tutti i cammini di ricerca e con tutti i volti. L’incontro con Cristo non è chiuso, ma aperto, c’è un’esperienza di incontro con la sua persona, che è verità vivente lasciata al cammino storico della comunità nella storia. E’ una prospettiva che apre a gioia nuova, a cammini indeiti, a lasciarsi sorprendere dallo Spirito che va sempre oltre ogni nostra chiusura.

Alessandro Cortesi op

Per una nuova Europa: appello

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Per una nuova Europa: oltre il deficit democratico e sociale dell’Unione Europea

Il dibattito in Italia stenta a decollare, ma la posta in gioco con le elezioni del 25 maggio è davvero alta e riguarda politiche, istituzioni, ma anche il deficit democratico e sociale dell’Unione Europea.

In altre parole, il futuro nostro e quello dell’Europa. Oggi, al settimo anno di crisi globale, ci sentiamo storditi da anni di scelte basate su un modello intergovernativo che ha visto il prevalere degli interessi di singoli Governi e delle scelte neoliberiste imposte dalla Troika europea. Un modello che ha condotto molti paesi, in particolare dell’area mediterranea, verso processi di diseguaglianza diffusa e deregolamentazione dei mercati, con ripercussioni drammatiche sull’intero mondo del lavoro.

Di fronte ad un’Unione Europea che esige dalla Grecia l’allungamento delle scadenze del latte dei neonati o di rinnovare i contratti collettivi al ribasso, se non la contrattazione individuale, è forte il senso di smarrimento, indignazione, vergogna. Conflitti come quello ucraino, sono segno di quanto il pericolo di guerre nel continente sia tutt’altro che sopito, mentre la sfida dei flussi migratori e la tensione competitiva globale mostrano che non possiamo rifugiarci in un europeismo di maniera, ma dobbiamo scommettere su un cammino di riconquista democratica e sociale.

Quest’Europa non è l’Europa del sogno di pace e libertà concepito nel confino coatto di Ventotene. L’Europa di Spinelli, Colorni, Rossi, Adenauer, Schumann, De Gasperi, Delors, Langer rischia di naufragare sotto un vento nazionalista e populista, a tratti xenofobo, sul quale forti hanno inciso gli effetti dell’austerity. L’Europa che vogliamo è l’Europa delle periferie, dei comuni, della società civile, della cooperazione decentrata di comunità, della sostenibilità e della conoscenza, della mobilità come opportunità e non come disperazione.

E’ su questa Europa che dobbiamo puntare, specialmente da un territorio come quello di Pistoia, che dal suo essere periferia deve interconnettersi materialmente e immaterialmente a quelle reti che la riportino al centro di una visione di lungo periodo e fuori da campanilismi e provincialismi. E’ il momento di aprirsi, guardare oltre, alle nuove dimensioni della globalizzazione.

Va riaperto un varco che rilanci quel “sogno europeo” che ha disegnato il progetto degli Stati Uniti d’Europa. Un progetto nel quale federalismo e sussidiarietà significano inclusione e non fortezze, democrazia partecipativa e non vertici intergovernativi, nel quale si costruisca, senza forzature, un popolo europeo che ha bisogno di una rifondazione costituzionale.

E’  perciò compito, in particolare delle nuove generazioni, costruire istituzioni democratiche sovranazionali, nelle quali trovi rappresentanza, come avviene nei singoli Stati, il popolo europeo, attivo protagonista delle scelte che già incidono sulla vita di ciascuno.

E se l’idea di nazione è ormai in crisi, se l’Europa delle nazioni ha dato vita ad una contrapposizione di interessi che poco o niente hanno a che vedere con l’europeismo, allora è venuto il momento per quelle generazioni di assumere un altro punto di vista per giungere all’Europa: quello delle città e delle comunità territoriali.

Non tutto è negativo: la presenza di candidati dei partiti europei alla presidenza della Commissione segnerà un piccolo, ma significativo passo avanti in questa stanca e disillusa campagna elettorale. Per la prima volta i cittadini europei potranno scegliere non solo il Parlamento ma anche il Presidente della Commissione, che non potrà più scaturire esclusivamente da trattative tra governi, ma dovrà essere indicato dal voto popolare. Per la prima volta perciò queste elezioni potranno dirsi davvero “europee”. Chiaramente tutto questo, non basta.

Le forze socialiste, progressiste, ecologiste, cristiano sociali, in una parola, democratiche, devono avere il coraggio di proporre un piano di investimenti realmente europeo per uscire dalla crisi, sviluppando risorse per la ricerca, l’innovazione e la riconversione produttiva.

A tutto ciò va affiancato un salto costituzionale per colmare il deficit democratico dell’Unione Europea. Il Parlamento europeo che uscirà dalle prossime elezioni europee si troverà ad un bivio: o prenderà l’iniziativa di un processo federale costituente oppure sarà di fatto esautorato.

All’interno dei partiti, i candidati alle prossime elezioni europee che condividono questo punto devono rompere gli indugi e assumere un chiaro impegno pubblico.

E’ con questa speranza che auspichiamo il superamento dell’indifferenza e del risentimento di questa campagna elettorale per un voto rivolto a una radicale rifondazione dell’Unione Europea.

Un voto che ci riconsegni più Europa e un’altra Europa, laboratorio di pace, solidarietà e democrazia. Andiamo a votare e votiamo per una nuova Europa che guardi oltre e altrove e che sia più coinvolgente e partecipativa con i propri cittadini.

Francesco Lauria

Alessandro Cortesi

Marco Frediani

Renzo Innocenti

Monica Milani

 

 

V domenica di Pasqua – anno A- 2014

DSCF4994At 6,1-7; 1 Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

Le parole che Gesù certamente disse ai suoi nei momenti prima della passione e nella cena sono rimaste scolpite nei cuori dei suoi amci. Solamente dopo la Pasqua queste parole trovarono modo di riaffiorare, di essere riportate alla memoria, di ritrovare formulazione nuova, nella luce dell’incontro con lui vivente. Di bocca in bocca, di ricordo in ricordo fino ad essere messe per iscritto: nel IV vangelo divengono discorsi, lunghi, occupano quattro interi capitoli. In questo parlare Gesù manifesta ai suoi se stesso, la sua identità e chiede loro di passare dal turbamento all’affidamento, dallo sgomento della morte al credere nella vita: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”. Credere nel IV vangelo è verbo usato con un senso dinamico, di tensione, apertura: un verbo di movimento e non di stabilità. ‘Credere in’: essere proiettati verso un incontro in cui entrare nel coinvolgimento sempre più profondo. Il movimento del credere ha i tratti di un cammino, da attuare su una via, esperienza mai chiusa. A conclusione del suo scritto Giovanni dice che quei ‘segni’ sono stati scritti ‘perché continuiate a credere…’ (Gv 20,31) e credendo poter trovare il senso profondo della vita. Credere e continuare a credere sono il cammino di chi accoglie il parlare di Gesù.

Nei discorsi di addio si rende presente ciò che Gesù affida ai suoi ed anche ciò che chiede loro nel tempo della sua assenza. E’ un discorso di partenza: Gesù annuncia che se ne va. Ma è un andare che mantiene una relazione con i suoi ed apre ad un modo di presenza nuova. E’ andare che inaugura un’assenza ma anche apre un tempo di attesa e la promessa di ritrovarsi. “Io vado a prepararvi un posto: quando sarò andato e vi avrò preparato un posto ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”

L’andarsene di Gesù, la sua morte, non è un abbandono, ma è promessa di un ‘essere con’, è richiesta di ‘rimanere in lui’, legati a lui per ritrovarsi: il IV vangelo suggerisce in questo modo come l’assenza di Gesù apre ad un nuovo orizzonte di relazione. Il suo andarsene apre un tempo nuovo, abitato dal un preparare un incontro, una comunione: la preparazione di un dimorare insieme. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti”. Le nostre forme di abitazione sono concepite spesso per garantire la chiusura e l’esclusione, per non lasciare spazi ad altri. Quello di Gesù è un abitare non ristretto né escludente, ma dove gli spazi si allargano. La casa del Padre non è una casa dagli spazi angusti: la metafora rinvia al senso profondo della casa come luogo dell’abitare, della protezione, ma anche della relazione. Vi sono molti posti.

L’andarsene stesso di Gesù non è solitudine ma è rapporto con il Padre. La partenza di Gesù offre uno squarcio sulla casa del Padre. La casa, luogo di vita, di incontro, di relazioni di molte e diverse presenze. E’ una casa con molti posti. E c’è la promessa di un ritorno. La vita che accoglie l’esperienza del credere è movimento aperto verso il futuro: “credete in Dio e credete anche in me” è la richiesta di Gesù ai suoi. E’ una richiesta che colloca in un cammino, in una tensione. La stabilità di esperienza di comunità che si sono accomodate in situazioni stabili, o rinchiuse in nostaglie di passato ed hanno così perduto ogni tensione al futuro nell’organizzare il potere del presente, sono lontane dalla richiesta di Gesù. Ai suoi Gesù chiede di mantenere quel senso di provvisorietà che apre al camminare sempre, la tensione al futuro e l’attesa del suo ritorno: c’è una centralità del rapporto con lui al cuore del credere, nella vita dei credenti. Credere allora è mantenere vivo questo incontro, attendere lui nel suo ritorno, rimanere con lo sguardo fisso in una tensione di cammino, e continuare a camminare.

Da qui sorge la difficoltà di Tommaso: ‘Signore non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?’. Gesù dice ai suoi che sta andando al Padre: il suo luogo è la vita del Padre. E a Tommaso indica la sua vita come via: ‘Io sono la via, la verità e la vita’. Il suo essere ‘via’ si connota come preoccupazione di chi va a preparare una accoglienza. Il tempo che si apre nella assenza di Gesù è tempo di apertura. La comunità che Gesù sogna è comunione in cui vi sia spazio per l’originalità e la diversità dei molti in un incontro che è risposta alle attese più profonde della vita umana.

Il suo essere ‘via’ sono i suoi gesti, le sue parole, le scelte e lo stile del suo passare. E’ una vita in cui ‘mostra il Padre’. Gesù aveva detto ‘Io sono la porta’ (Gv 10,9). Luogo di passaggio, la porta, per entrare ed uscire, in quell’incontro che è ‘venire al Padre’. Tutto il suo essere è orientato al Padre: nel prologo del IV vangelo si dice che la Parola era ‘rivolta verso il Padre’ (Gv 1,1). Così Gesù, Parola fatta carne, nella sua vicenda umana è luogo di trasparenza del volto del Padre: ‘fa vedere’ nelle sue opere, nei segni della cura e del servizio di una esistenza vissuta come essere uomo-per-gli-altri il volto invisibile del Padre e con la sua vita lo racconta e se ne fa esegeta: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

Al centro della vita cristiana sta l’incontro con Dio, che ha il volto del Padre misericordioso. E’ il volto amante di chi conosce i gesti della tenerezza e si consegna fino in fondo a noi. Gesù – è una delle linee centrali del IV vangelo – manifesta il volto del Padre, la sua ‘gloria’ nel suo lasciarsi condurre alla croce. La sua morte è esito di scelte storiche compiute nella linea di un amore che pone al primo posto le persone, preoccupato di un posto per tutti, un amore che si dona e si consegna. Per giungere al Padre la via è quella del dono di sè, del servizio, della fedeltà in un amore esigente e libero percorsa da Gesù.

‘Signore mostraci il Padre e ci basta’: la richiesta di Filippo è eco di una grande attesa del cuore di uomini e donne in ricerca: scorgere la manifestazione percepibile nelle misure umane della Realtà ultima, poter vedere il volto di Dio. E’ un desiderio che attraversa il Primo Testamento questa tensione a scorgere il volto. E’  la domanda di Mosè: ‘Mostrami la tua gloria’ (Es 33,18) ed è il desiderio del credente dei Salmi: ‘Rispondimi presto Signore… non nascondermi il tuo volto’ (Sal 143,7) ‘Fino a quando Signore, mi nasconderai il tuo volto?’ (Sal 13,2). Gesù rinvia al suo essere nel Padre: ‘Non credi che io sono nel Padre?’. E richiama Filippo al suo percorso umano: ‘Chi ha visto me ha visto il Padre… il Padre che è in me compie le sue opere’. Gesù nella sua vicenda di uomo, nel suo agire, nelle sue parole e nelle sue opere ha raccontato il volto del Padre. Lo ha raccontato come volto di chi raccoglie l’attesa e la ricerca di uomini e donne in camino, di chi rompe divisioni e barriere per far sentire a casa coloro che sono tenuti fuori e distanti. Lo ha raccontato nel distribuire il pane come condivisione, segno di un Padre che soffre per la vita dei suoi figli. Lo ha raccontato nel suo dare la vista a chi non ci vedeva e nel criticare la pretesa di un vedere che non si apre ad uno sguardo più profondo. Lo ha raccontato nel gesto della vita offerta e donata, sino a scendere e lavare i piedi ai suoi nell’ultima cena. Lo ha raccontato affrontando la condanna ingiusta in fedeltà ad una consegna al Padre e agli uomini e donne, all’umanità assetata.

DSCF4846Alcuni spunti di attualizzazione di questa pagina

Un primo elemento su cui riflettere potrebbe essere l’immagine della ‘casa del Padre’: la casa del Padre e le nostre case. Gesù va a preparare un posto e indica la casa del Padre come casa dai molti posti, dove poter dimorare, trovare accoglienza e rifugio. L’esperienza quotidiana del preparare posto è carica di bellezza e attesa: come il preparare un posto quando una nuova nascita si avvicina, ma anche la più ordinaria esperienza dell’ospitalità in cui si prepara dando spazio all’ospite atteso, così per il ritorno di persone care, e per visite non porgrammate che generano l’atmosfera di un veloce riassestamento di tempi, spazi e attenzioni. La casa è luogo in cui preparare posto, ed è forse immagine per la nostra vita chiamata ad essere preparazione di posti perché altri nell’incontro possano trovare casa e sentirsi a casa in quel calore di accoglienza che solo una casa abitata sa offrire. Possiamo trasmettere accoglienza perché noi stessi siamo attesi e accolti nella casa del Padre. Il nostro abitare è spesso segnato dalla paura, dal ripiegamento. E’ un abitare sovente con pochi posti a disposizione e in cui talvolta non si dà il tempo per preparare qualcosa per altri. Il pensiero alla casa può ampliarsi a considerare la casa del cuore, la propria persona come casa di incontro, ma anche la casa come grande metafora di una convivenza di popoli, la ‘casa comune’ che con le nostre scelte costruiamo: una casa di pace o di guerra. ‘Casa comune’ è stata nel passato immagine applicata ad un progeto di costruzione dell’Europa come convivenza di popoli diversi, divisi da secoli di violenza e prevaricazione ma uniti da un ideale di pace, in apertura al mondo non come fortezza isolata. Viviamo oggi le contraddizioni di un presente in cui proprio in Europa crescono tanti egoismi che chiudono spazi all’altro, in cui le paure generano esclusione e chiusura, in cui l’accoglienza, il fare posto all’altro viene dimenticata e prevale la preoccupazione di difendere e allargare i propri spazi.

Gesù invita i suoi ad aprirsi alla via. Il credere non è tranquilla acquisizione ma è cammino. E’ molto bella l’intuizione di Agostino che scorgeva porprio in Gesù la via e la patria, la via da seguire e il porto da raggiungere. “Colui che era lontano da te, assumendo l’umanità si è fatto vicino a te. E’ insieme Dio e uomo: Dio in cui rimanere, uomo per il quale andare. Cristo è insieme la tua strada e la tua meta” (Discorso 261) Questa suggestione del cammino ci riporta ad un’esperienza del credere da intendere con le caratteristiche di ogni cammino. E’ fatta di orientamento, di fatica, di tensione verso una meta e non di pretesa di essere già arrivati. Un cammino è fatto di tanti incontri e così anche il credere avviene solamente nell’incontro.

Gesù è il racconto, la autentica parabola del Padre: come nelle sue parabole Gesù non chiude in una definizione e non offre speculazioni ma racconta e delinea i tratti di un volto nel dinamismo di una vita che coinvolge, così la sua stessa esperienza è racconto, parabola del Padre. Con le sue parole e i suoi gesti narra un volto che solo può essere incontrato nell’entrare in relazione. Conoscere indica una relazione profonda, di intimità, di esperienza. Gesù parla di verità non come una dottrina da conoscere e possedere a livello intellettuale. Piuttosto la verità è vivente: è la sua persona. Non si può possedere, ma solamente accogliere e in lui ‘rimanere’, sperimentando una conoscenza come incontro. Alla domanda ‘quale strada percorrere per trovare il senso più profondo della vita?’ Gesù offre il suo cammino e invita a scoprire la vita continuando il suo stile, i suoi gesti, così come lui ha vissuto. La verità che è persona si fa incontro a noi nelle persone, nelle situazioni e ci chiama ad ascoltare, a dialogare, a stare di fronte ai volti in cui c’è traccia dell’immagine di Dio. C’è un cammino da compiere e da ricominciare sempre da una immagine di Dio costruita a nostra misura e come giustificazione di impianti ideologici e di potere al volto di Dio raccontato da Gesù.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Pasqua – anno A – 2014

buon-pastore_big(catacombe di Priscilla – buon pastore)

At 2,14-41; Sal 22; 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10
L’immagine del pastore sta al centro del cap. 10 del IV vangelo. Il ‘non detto’ di questa pagina è il rinvio alla voce dei profeti. Essi avevano parole durissime e chiare contro lo scandalo dei pastori preoccupati solo di se stessi e incuranti dei loro compiti. Così ad esempio Ezechiele con un linguaggio che potrebbe essere applicato a situazioni attuali denuncia la sopraffazione, la ricerca del privilegio a scapito dei poveri, l’irresponsabilità e la superficialità da parte delle guide del popolo che sfruttano gli indifesi fino a soffocare la vita dei piccoli. I pastori sono i capi del popolo: “Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell’uomo profetizza contro i pastori d’Israele, profetizza e riferisci ai pastori. Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte , vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite ma le avete guidate con crudeltà e violenza” (Ez 34,1-4) E ancora in Geremia “Guai ai pastri che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo. Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; … radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e e le farò tornare ai lor opascoli; saranno fecond ee si moltiplicheranno”.

La pagina di Giovanni va quindi letta tenendo presente un rimprovero di fronte ai pastori, immagine riferita ai capi politici e religiosi del popolo che hanno tradito venendo meno al loro compito di guida e responsabilità, e hanno sfruttato e oppresso persone che dovevano invece aiutare e sostenere.

Gesù parla così del pastore che entra dalla porta del recinto delle pecore. Il ‘guardiano del recinto’, il Padre, lo lascia entrare. Gli altri, che entrano da altre parti sono ladri e briganti. Il rapporto di chi è autentico pastore con le pecore è fatto di conoscenza e di ascolto: ascoltando la sua voce egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome e le conduce fuori. E le fa uscire e dopo averle portate fuori cammina davanti. Indicazioni che esprimono uno stile di relazioni ben diverso da quelle instaurate da capi preoccupati di sfruttare e approfittarsi delle persone. Chiamare per nome, conoscere le persone come uniche e non come massa indistinta, offrire attenzione che genera ascolto, portare fuori da tutto ciò che imprigiona e chiude, camminare davanti per aprire percorsi di libertà dopo averle condotte tutte fuori, senza esclusioni …

Questa prima parte del discroso si conclude con una incomprensione che nasconde un rifiuto: “Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro”. Coloro che ascoltavano avevano compreso troppo bene che quel discorso era una accusa radicale e diretta contro il loro modo di intendere i rapporti e la vitacontrola loro estraneità e indifferenza rispetto alle sofferenze. Non capirono forse perché si resero conto troppo bene di essere destinatari di un’accusa che poneva in discussione un mondo di privilegi e di potere. Gesù li accusa di essere ladri e briganti: ladri perché sottraggono in modo indebito ciò che appartiene ad altri e briganti perché usano violenza. I capi farisei che ascoltavano comprendevano bene che questo discorso era rivolto loro e accoglierlo comportava un cambiamento di mentalità su cui fondavano la loro vita.

‘Io sono la porta delle pecore’. Nel IV vangelo ricorrono espressioni introdotte dalla formula ‘io sono’ e in tutti questi momenti Gesù esprime un tratto della sua identità e attua una rivelazione progressiva della sua persona e del Padre stesso. Il vocabolo usato per indicare la porta fa riferimento non alle porte di ingresso delle città, ma ad una porta stretta, una porta che poteva esssere attraversata quando tutte le altre erano chiuse, dopo il tramonto, e che costituiva un’apertura di uscita o di accoglienza nei casi di emergenza. La porta stretta diviene così riferimento alla morte e risurrezione di Gesù, quella porta che ha reso Gesù unico pastore: nel suo dare la vita per gli altri è divenuto autentico pastore che compie pienamente il compito che realizza la vita e la rende bella, cioè riuscita: ‘il bel pastore dà la vita per le sue pecore’. Il pastore che intende la sua vita non per sé ma per gli altri attua i tratti di una vita bella: compie la sua vita nel segno del dono. Se non c’è questo passaggio ad una vita nuova uscendo dalla rincorsa all’accaparramento con tutti i mezzi, dalla paura di perdere sicurezze e ricchezze, dall’ansia di accumulo di privilegi e dalla ricerca inesausta di affermazioni, non c’è pascolo e non c’è nemmeno vita.

Gesù si identifica con la porta che non rinchiude e opprime, ma apre ad un respiro di vita nella libertà: ‘se uno entra attraverso di me , sarà salvato, entrerà e uscirà e troverà pascolo’. ‘Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza’. E’ una parola che rinvia non solo alla vita eterna, ma fa riferimento ad una pienezza di vita che inizia qui e respira di tutte le dimensioni della vita. La salvezza che Gesù è venuto a portare è cura per l’esistenza, per custodire il nome di ciascuno.

Il discorso si chiude con l’io sono legato al bel pastore. Il pastore che guida e si prende cura attua una vita bella. Opposto è il mercenario che ‘quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge’. Gesù ha inteso la sua vita nella linea della solidarietà fino alla fine, per radunare e per far uscire.

DSCF9551Potremmo cogliere alcune sollecitazioni per la nostra vita.

Gesù critica i pastori che soffocano la vita del gregge. Pensiamo ai popoli soffocati dall’ingordigia di un benessere di alcune aree del mondo che genera oppressione e impoverimento per molti; pensiamo a popoli soffocati da politiche che hanno imposto un’austerità senza considerazione della vita reale delle persone, dei loro nomi, delle loro storie. Ma anche a livello ecclesiale sperimentiamo ilpermanere di un modello dominante di clericalismo per cui il ruolo di guida diviene un ruolo di potere, e molto spesso la preoccupazione di chi ha compiti di guida non è il servizio e l’ascolto dei piccoli, ma l’accordo con chi è più potente. La vita stessa delle comunità è talvolta più simile ad una società strutturata in gerarchie con membri di serie A e di serie B, ed esclusi piuttosto che un gregge chiamato a camminare, ad uscire seguendo l’unico pastore Gesù.
Pastore delle pecore è Gesù: unico pastore bello che ha compiuto la sua vita e la offre ‘perché abbiano la vita’. Ciascuna pecora è chiamata per nome, conosciuta in modo originale. Ogni persona ai suoi occhi è unica. Per ciascuna e ciascuno c’è una parola da ascoltare, diversa, unica, irripetibile per altri. Pastore e pecore allora non sono immagini del comando, ma immagini dell’incontro, della relazione dei volti, dei nomi. Scoprire Gesù pastore può significare l’uscita da ogni prospettiva di tipo clericale e del potere, in cui una casta di chierici si pone alla guida con atteggiamenti paternalistici e di superiorità.

In queste parole è da ritrovare un appello ad essere tutti pastori degli altri: non qualcuno posto in un gradino diverso e superiore ma situati in un comune cammino nel passare attraverso l’unica porta, la via seguita da Gesù, in lui, e in questo modo scoprire che siamo chiamati a prenderci cura degli altri.

“Egli chiama le sue pecore”. Egli le chiama ciascuna per nome: apre anche noi a scoprire l’importanza dei nomi, il cammino di fede non come appartenenza culturale o irregimentazione, ma come un incontro personale. Nessuno può sostituirsi al passaggio della conoscenza esistenziale interiroe personale entrando nel rapporto con Gesù. Comunicare vita agli altri è lasciare spazio a questo incontro che è cammino personale e interiore. Gesù è pastore che non rinchiude ma apre: “e le conduce fuori…” anche noi nel prenderci cura degli altri dovremmo tener presente questo movimento a condurre fuori, ad aprire spazi di ricerca , di libertà, non di oppressione e di dipendenza.
“Cammina davanti ad esse”. Gesù cammina sempre davanti. La sua presenza non può essere bloccata: sta oltre e ci chiede di stare nel cammino, di andare avanti, di andare oltre. Di scoprirlo in modi nuovi lasciando di essere ‘condotti fuori’ proprio da lui. Fuori, dove c’è aria aperta. Fuori da tutte le gabbie religiose o ideologiche, fuori da una vita comunitaria intesa come burocrazia o come organizzazione tesa ad una affermazione visibile e di potere. Perché c’è un unico pastore, verso lui siamo chiamati, e attraverso di lui siamo chiamati a passare. Passare continuamente. “Entrerà e uscirà e troverà pascolo…” E sarà un passare aprendosi alla scoperta che la sua presenza di pastore non è per rinchiudere, ma per aprire alla vita in tutte le sue dimensioni, oltre ogni misura: “sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza…”

Alessandro Cortesi op

III DOMENICA DI PASQUA – ANNO A – 2014

DSCF8758(foto scattata durante una liturgia alla settimana ecumenica del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) a Chianciano 2010; sullo sfondo un cartellone con le tappe del cammino ecumenico come un grande fiume…e se Emmaus fosse un racconto in cui cogliere una grande metafora del cammino di chiese e percorsi umani e religiosi nella storia?)

At 2,14-33; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

Nella pagina di Emmaus Luca presenta una riflessione sulla domanda dei cristiani della sua comunità, ma anche di ogni tempo. Come e dove incontrare il Risorto? L’incontro si compie nel cammino: c’è prima un cammino di allontanamento da Gerusalemme, di delusione. E’un cammino nel quale si ricorda solo il nome di uno dei due discepoli, Cleopa. Dell’altro si tace anche il nome. Quasi a dire l’anonimato come condizione di chi è senza più speranza e senza un riferimento per la sua identità.

In questo cammino di delusione dopo i fatti della passione di Gesù, i discepoli però sono presentati nell’atto di discorrere e di scambiarsi tra di loro parole. Parole cariche di amarezza ed interrogativi, e pur sempre parole che correvano dall’uno all’altro e tenevano aperta una comunicazione seppure di chi ritornava sui suoi passi e avvertiva il fallimento dentro. In questo loro discorrere un altro cammino si incrocia con il loro e si fa compagnia discreta e interrogativa. Non presenza invadente e ricolma di risposte, ma uno sconosciuto – senza nome anche lui – che offre solo disponibilità di ascolto e del tempo nell’accompagnare. E’ un pellegrino, uno straniero in cammino anch’egli ed è uno che pone domande e con il suo interrogare fa venire a galla tutti i tasselli della loro angustia. E’ presenza estranea al punto da non conoscere quanto è avvenuto in quei giorni. E si comporta come chi è pronto a ricevere, non come chi è pieno di qualcosa da offrire. E’ povero che accetta di essere ospitato nella tristezza e nelle parole dei due in cammino e che accetterà il loro invito a cena. Provoca così a mettere insieme uno ad uno gli elementi del loro cammino, a partire dagli ultimi giorni, e su su fino a quel primo incontro con Gesù e ciò che bruciava loro nel cuore: la delusione a fronte di averlo seguito, incontrato come profeta scoprendo in lui una grande apertura e speranza per la loro vita. Ma ora tutto è finito. I frammenti di questa storia sono elencati uno ad uno e c’è tutto ma manca una diposnibilità di fondo ad accogliere la testimonianza che pure essi hanno ricevuto. “Alcune donne delle nosre sono andate al sepolcro dopo la sua morte e hanno anche avuto una visione di angeli che hanno detto loro che egli è vivo”. Il cuore della fede sta nell’accogliere una testimonianza, annuncio affidato alle donne, coloro che avevano seguito e servito Gesù fino all’ultimo momento. Ma i due non riescono ad aprire gli occhi e il cuore a questo annuncio. Lo straniero li accompagna a ripercorrere le Scritture, una storia di alleanza, a comprendere come la vicenda del profeta di Galiela si pone all’interno di una necessità: è quel cammino percorso da giusti e profeti, che, sempre, proprio a causa della loro testimonianza hanno incontrato sospetto, opposizione e ostilità, fino ad essere eliminati e a vivere la sottomissione alla violenza. “Non doveva il messia subire queste cose?” Lo straniero li accompagna a scoprire il messia dal volto non di un trionfatore, o di un violento, capace di affermare con il suo imporsi una religione della potenza. Piuttosto un messia con il profilo del mite, dal volto del servo sofferente, che dà la sua vita e si mantiene fedele alla nonviolenza e affronta la sofferenza: intende la sua vita come consegna a Dio e agli altri per dare vita e salvezza ai poveri.

E i due avvertino crescere in loro una nostalgia che si rinnova, il desiderio di stare insieme: “Resta con noi perché si fa sera”. Così nel luogo dell’ospitalità, attorno alla tavola, nel gesto così quotidiano e amico dello spezzare il pane i loro occhi si aprono di fronte alla presenza di quello sconosciuto come il Risorto. Lo spezzare il pane: gesto che rimandava ai tanti momenti in cui Gesù aveva spezzato il pane e condiviso la tavola con i suoi. Gesto nel quale aveva racchiuso in una ultima cena il senso profondo della sua vita data in una condivisione fino alla fine.

Il cammino dei due si fa a questo punto ritorno, esperienza di comunicazione: gli occhi si sono aperti. Credere è vedere in modo nuovo, è scoprire gli elemtni di quel racconto tenuti insieme da un incontro che apre futuro. Diventa ora, il loro, un cammino di gioia e di speranza che conduce a tornare alla comunità. Luca suggerisce così, ad una comunità delusa e appesantita dal presente i luoghi in cui incontrare il Risorto: la ricerca condivisa, il rileggere le Scritture, il gesto dello spezzare il pane come ospitalità data, la vita della comunità stessa in cui si lasci spazio ai racconti di chi deluso se n’era andato, ai sentieri interrotti di tante fatiche. Luca dice che i loro occhi si aprirono di fronte al gesto dello spezzare il pane. E’ questo il luogo in cui Gesù si fa riconoscere, o meglio apre gli occhi per leggere ogni cosa in modo nuovo.

Emmaus è un cammino, il cammino di ogni credente, se si lascia provocare a esprimere il suo dubbio, la sua angoscia, nel camminare insieme ad un altro. Per scoprire, nel dialogare e camminare che qualcuno si accosta e apre ad un racconto, e fa ritornare al ricordo, e suscita la nostalgia e la memoria. E fa mettere insieme tanti tasselli che conducono tutti ad una parola, ad una voce, ad un vedere: “una visione di angeli i quali affermano che egli è vivo”. “Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”. Come avevano detto le donne… presenza ancora incompresa e inascoltata. Presenza che sta all’origine di una storia nuova. Donne che l’hanno seguito ed hanno mantenuto il legame anche nel buio e nel silenzio dell’assenza. E poi quell’incontro, quel gesto che rinvia ai gesti quotidiani: prendere il pane, spezzare, dare… nel pane spezzato e dato l’aprirsi di uno sguardo nuovo. “Come avevano detto le donne…” e la scoperta che egli è vivo, e si incontra vivo laddove c’è un pane che si spezza, laddove c’è un gesto e una parola che invita “Resta con noi”… laddove c’è uno spazio per rimanere con loro…

Suggerisco rapidamente tre riflessioni per noi oggi.

Il cammino di Emmaus è un cammino di chi si trova ad essere senza nome. Chi è oggi senza nome? Tanti che improvvisamente si trovano senza lavoro scoprono di non avere più un nome per gli altri. Tanti che non hanno mai avuto una famiglia o un ambiente dove essere ccolti sono senza nome. Tanti giovani che si affacciano alla vita scoprendo che la dura legge dell’efficienza è affermare il proprio nome a scapito degli altri, si ritrovano senza nome. Tanti che hanno vissuto fatiche, anche errori e fallimenti nella loro vita si ritrovano senza nome. Gesù si fa accanto a tutti questi senza nome entrando in punta di piedi, non con rimproveri e giudizi, ma ponendo ascolto al filo del loro cammino, scaldando il cuore in un incontro che può ricominiciare dalla amicizia, da una tavola condivisa, da un camminare insieme. Gesù è sconosciuto, senza nome, che apre a scorpire un proprio nome, di poveri, accolti in lui.

Emmaus è un cammino pedagogico, è capolavoro di stile di incontro. C’è tutta una indicazione di pedagogia, di stile per accogliere l’annuncio del vangelo: e se evangelizzare oggi, anziché portare qualcosa fosse innanzitutto riconoscersi come quei due delusi e rattristati? E come loro guardare ai volti di stranieri, presenze inattese e sconosciute nelle nostre strade, di altre culture, convinzioni, religioni, persone senza nome, come volti da cui lasciarsi interrogare, da cui imparare di nuovo a leggere le Scritture e spezzare il pane?

Emmaus è un bellissimo racconto che racchiude la forza propria del racconto: comunica il passaggio dall’abbandono alla speranza, dalla solitudine all’ospitalità. E’ un racconto che rinvia allìimportanza di ogni cammino che si fa racconto, che si apre ad essere letto come cammino di liberazione di incontro e di alleanza alla luce delle Scritture e si apre anche a divenire racconto in cui scoprire già presenti in esso i tasselli di un senso nascosto, da accogliere. In che misura camminiamo insieme ad altri raccontando tristezze e angosce, gioie e speranze, lasciando l’esistenza farsi parola e condivisione? In qual modo sappiamo farci compagnia di racconti come sconosciuti che non intendono dominare sulla vita degli altri, ma essere servitori di una gioia scoperta nell’ospitalità e nell’ascolto e nell’amicizia?

Emmaus è un cammino che culmina nello spezzare il pane e nel far ritorno ad una comunità. Abbiamo fatto dello spezzare il pane un gesto rituale, ma è gesto di vita: Gesù accetta l’invito ad essere ospite alle tavole di vite deluse e segnate dalla tristezza. gesù ci invita, non escludendo nessuno, nemmeno quei due che erano forse tra coloro che lo avevano seguito ma poi l’avevano lasciato e si erano allontanati nei giorni dela passione. Lo spezzare il pane è gesto di perdono e di amicizia, gesto che adice la vittoria della debolezza disarmata del dono a fronte della violenza del potere. Spezzare il pane è cammino aperto a tutti in cui gli occhi possono aprirsi. Aprirsi sulla propria vita, aprirsi sulla relazione con altri, aprirsi alla fede…

Alessandro Cortesi op

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