V domenica di Pasqua – anno A – 2020
At 6,1-7; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12
Tommaso che chiede a Gesù l’indicazione di una via. E’ una domanda importante e rivela un po’ la fisionomia interiore di Tommaso, l’apostolo che desidera vedere e che si pone in ricerca: ‘non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?’ la risposta di Gesù è invito a guardare al suo cammino, alla sua vita come ‘via’. E aggiunge che il suo andare è per preparare un posto: ‘Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me perché siate anche voi dove sono io’. Gesù indica innanzitutto una via, non come sistema di dottrina o di morale, ma come rapporto vivo in un incontro.
Suggerisce poi che la sua via, l’orientamento fondamentale di tutta la sua vita è il preparare una accoglienza allargata: è l’orizzonte di una comunità e di una comunione. Il suo essere ‘via’ si collega all’altra immagine: Gesù è la porta, per entrare ed uscire in quell’incontro caratterizzato come ‘venire al Padre’. C’è il cuore di una comunione nella vita di Gesù, il suo essere nel Padre e in relazione con il Padre, che viene comunicato come dono che coinvolge nel profondo e genera una comunione nuova.
Il cammino di Gesù è tutto orientato al Padre, ed in lui si ‘fa vedere’ il volto invisibile del Padre. Il Padre stesso si cela e si manifesta nelle sue opere, nei segni della cura e del servizio di una esistenza vissuta come essere uomo-per-gli-altri. Il prologo del IV vangelo dirà perciò che Gesù è Parola, Verbo ‘rivolto verso il Padre’.
Gesù manifesta il volto del Padre, la sua ‘gloria’ nel suo affrontare la morte: la croce è esito della sua fedeltà all’amore. Per giungere al Padre la via è il dono di sé. Al centro della vita cristiana sta l’incontro con Dio, il Padre misericordioso. Non è volto autoritario di dominio e di imposizione, ma il volto amante di chi conosce i gesti della tenerezza, di chi si consegna fino in fondo a noi..
La prima lettera di Pietro, scritto battesimale per comunità che vivevano nella prova, richiama all’essere chiesa come uno ‘stringersi a Cristo’. Gesù risorto è pietra viva e fondamento di una costruzione composta di tante presenze, pietre vive. E l’autentico culto a Dio si attua nella vita, nel costruire una convivenza nella forza dello Spirito: “Stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio… “.
Nel cammino dell’esodo, nel deserto, il popolo d’Israele aveva scoperto che Dio liberatore lo aveva chiamato quale ‘stirpe eletta, regale sacerdozio, nazione santa (Es 19,6) per testimoniare la sua presenza nella storia. Pietro riprende questo riferimento e parla della comunità come sacerdozio santo, stirpe eletta. Tutti nel popolo di Dio sono perciò ‘sacerdoti’, resi responsabili di una terra affidata (quindi ‘re’). Unico fondamento è Cristo pietra scartata dai costruttori, ma divenuta pietra d’angolo (Sal 118,22-23; cfr. Mt 21,42-43). E’ lui la base di un edificio che vive nello Spirito.
La comunità di Gesù non dovrà mai perdere di vista che suo fondamento è il crocifisso, lo scartato e oppresso e le logiche di relazione nella comunità dovranno essere quelle del servizio e della comune dignità. Ogni tentativo di evitare questo scandalo – il paradosso della gloria che si rende presente nella croce e nello svuotamento – utilizzando i modi di affermazione del potere e del dominio, e la violenza stessa, sarà un tradimento del suo Signore. La comunità ha così il volto di un popolo che vive nello Spirito ed è chiamato a percorrere i passi del suo unico Signore: è lui la via vivente e la patria del nostro cammino.
Nella comunità – ci ricorda la prima lettura – ci sono diversi doni e servizi. E questi ministeri sono anche da individuare in base delle esigenze storiche per lasciar correre il disegno di Dio. Un gruppo di nuovi predicatori della Parola viene strutturato in vista di un servizio a ‘quelli di lingua greca’. Il disegno di Dio non mira alla formazione di un gruppo contrapposto ad altri, ma alla salvezza, vita in abbondanza sin da qui e ora, per tutta l’umanità. Ogni servizio non proviene da un privilegio, ma da un dono ricevuto e da vivere per la crescita degli altri, sempre al di là di confini e recinti che spesso poniamo nel nostro pensare alla chiesa.
Alessandro Cortesi op
(immagine dell’artista He Qi)
Ministeri: un dibattito attuale
E’ viva oggi e in molti ambienti ecclesiali percepita come urgente la questione di un ripensamento del ministero e dei ministeri nella chiesa.
Il Concilio Vaticano II ha condotto un profonda revisione della teologia del ministero. I punti fondamentali della revisione conciliare possono essere brevemente elencati.
Si lascia una visione del ministero centrato su una dimensione in riferimento a Cristo e di tipo ontologico: il prete come riferimento principale nel suo agire in persona Christi.
Il ministero ordinato è posto nel quadro della considerazione della dignità messianica di tutto il popolo di Dio (LG 20.24), quindi nella cornice di una considerazione di chiesa come comunità in cui tutte e tutti hanno una medesima dignità fondata sul battesimo e vi è un sacerdozio battesimale che si esplica nei diversi servizi ministeri e carismi. Questi sono da intendere nell’orizzonte dell’edificazione di una comunità che si apre al disegno di salvezza di Dio per tutta l’umanità.
Il Concilio poi considera i processi di un divenire storico dei vari ministeri in funzione di mantenere la trasmissione del vangelo ricevuto. Si riconosce che le figure che hanno storicamente espresso il ministero ordinato sono mutate nel corso del tempo.
Il Vaticano II compie anche un altro passaggio: riconosce la sacramentalità dell’episcopato ed offre una lettura del carattere collegiale del ministero episcopale stesso.
A questa visione rinnovata dell’episcopato è legata la considerazione dei ministeri del presbiterato e diaconato che nel Concilio sono letti in rapporto con la pienezza del saramento dell’ordine nella consacrazione episcopale, non secondo la logica di una gradazione gerarchica, ma nella linea di collaborazione al servizio della chiesa locale.
Il Vaticano II centra poi la sua riflessione ecclesiologica nel considerare i tre aspetti di Gesù Cristo, sacerdote, re e profeta quali doni e compiti affidati a tutto il popolo di Dio (nel capitolo II di Lumen gentium) e letti in modo specifico relativamente al servizio dei vescovi, dei presbiteri e di tutti i fedeli.
In tale quadro si attua un superamento della concezione tridentina del sacerdote quale riferimento principale per articolare una riflessione sul ministero nella considerazione di una ecclesiologia del popolo di Dio, quale segno e strumento di salvezza per tutta l’umanità.
In tale impostazione va posta oggi sia la questione specifica dell’ordinazione e del diaconato delle donne sia una considerazione più ampia del pensare a diverse forme di ministerialità nel popolo di Dio (pur in considerazione del blocco posto alla questione sull’ordinazione delle donne da parte di Giovanni Paolo II nel 1994 con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis). Ma la ricerca teologica che s’interroga sulla traduzione del vangelo nei diversi contesti storici non può fermarsi e non può non ascoltare le attese delle comunità e la richiesta della via da seguire.
Il Vaticano II nella decisione di re-istituire il diaconato permanente non ha inteso compiere un’operazione solo di ripristino di un’antica istituzione, che attraversa la pratica ecclesiale del primo millennio, ma ha inteso più profondamente ripensare una articolazione del ministero che giungeva dalla tradizione introducendo una figura nuova in risposta alle esigenze storiche del tempo e della vita delle comunità cristiane.
Così oggi l’esigenza di pensare a figure ministeriali in cui le donne in particolare, e con loro tanti fedeli, siano riconosciute per il servizio che già operano in tante comunità e luoghi diversi si porrebbe in un orizzonte di accoglienza della tradizione e nel contempo di ascolto delle esigenze del tempo e della maturazione umana storica e di sensibilità in cui si rendono presenti le chiamate di Dio.
Sarebbe un’opera di ascolto dei segni dei tempi. Sarebbe anche un operare attivo per contrastare forme diverse di clericalismo insistentemente indicate da papa Francesco come in una recente omelia mattutina santa Marta (5 maggio us): “il clericalismo (che) si mette al posto di Gesù … la rigidità (che)… allontana dalla saggezza di Gesù… e toglie la libertà. E tanti pastori fanno crescere questa rigidità nelle anime dei fedeli, e questa rigidità non ci fa entrare dalla porta di Gesù”.
In particolare il riconoscimento di un specifico ministero di donne diaconesse ordinate – richiesto peraltro da una significativa maggioranza durante l’ultimo sinodo dei vescovi sull’Amazzonia – si porrebbe in continuità con il diaconato permanente quale servizio specifico che si pone nell’orizzonte della fedeltà al vangelo e del servizio pastorale e nel contempo dell’attenzione alla prassi di servizio concreto per l’umanità nelle sue sofferenze.
Ma le nuove e diverse situazioni sociali, le differenti esigenze pastorali oggi nelle regioni del mondo, e di una chiesa divenuta mondiale, presentano un’urgenza avvertita a livello diffuso di introdurre e riconoscere nuove forme di ministerialità: il diaconato delle donne è una di queste ma non è l’unico orizzonte su cui continuare a svolgere una ricerca in ascolto del vangelo e della storia.
Continuamente il seguire Gesù spinge a scorgere come attuare in modi nuovi ciò che la prima comunità di Gerusalemme ebbe il coraggio di vivere proprio in rapporto ad un ascolto delle chiamate di Dio nelle vicende storiche.
Alessandro Cortesi op
IV domenica di Avvento – anno A – 2022
Is 7,10-14; Rom 1,1-7; Mt 1,18-24
‘Eccomi manda me’: è la risposta di Isaia, sacerdote di Gerusalemme che mentre svolgeva il culto nel tempio risponde all’irruzione del Santo nella sua vita. E’ esperienza sconvolgente di chiamata ad essere profeta da lui narrata con i tratti della visione: un angelo che accosta alle sue labbra un carbone ardente dell’altare, in atto di purificazione e di invio per annunciare le parole di Dio.
Da quel momento inizia la sua avventura di profeta. Così si pone di fronte ad Acaz, re d’Israele e gli annuncia la futura nascita di un ‘Emmanuele’, un re giusto erede di Davide: si comporterà in modo ben diverso dai re infedeli, come lo stesso Acaz alla ricerca di sicurezze e alleanze militari. L’Emmanuele sarà esempio di abbandono nella fiducia nel Dio dell’alleanza che solo può dare l’autentica sicurezza. E vi sarà un piccolo gruppo di credenti, il ‘resto d’Israele’, che rimarrà saldo in questa fiducia: “si appoggeranno sul Signore, sul Santo d’Israele, con lealtà” (Is 10,20).
Dal punto di vista storico la figura di questo Emmanuele, re fedele a Dio, è da identificare nel figlio di Acaz, Ezechia, descritto come sovrano pio. Ma l’annuncio di Isaia reca in sé un orizzonte di speranza e ad un’attesa più profonda (cfr. Is 11,1-16): Dio stesso stabilirà il regno del messia (il suo unto) come situazione nuova di pace: “la pace non avrà fine” (Is 9,5-6). Isaia quindi indica in questo bambino un segno, e rinvia ad una speranza oltre i confini del tempo.
Matteo ha presente i testi di Isaia mentre scrive il suo vangelo. Per Matteo Gesù compie le promesse che Isaia aveva delineato. L’annuncio della sua nascita riprende schemi ben noti: la presenza di un angelo, il nome, una difficoltà da superare, un segno e le caratteristiche del profeta (cfr. l’annuncio di Sansone in Gdc 13,1-24).
Matteo offre così una chiara interpretazione: Gesù si pone nella discendenza di Davide – Giuseppe è infatti chiamato ‘figlio di Davide’ e sarà lui a dargli un nome, ‘tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati’ -.
L’operare dello Spirito Santo è colto sin dal momento iniziale della vita stessa di Gesù. Matteo vuol dirci che la vita di Gesù viene da Dio. A Giuseppe, uomo ‘giusto’ è rivolto l’invito a ‘non temere’ per lasciarsi coinvolgere nell’opera di Dio. ‘Giusto’ significa ‘fedele’ e Giuseppe vive un duplice fedeltà, verso Maria a cui è legato e a cui non viene meno e alla chiamata di Dio. Si abbandona nella fede ad un progetto che lo supera e lo coinvolge prendendo con sè chi Dio gli affida.
A Giuseppe è anche affidato il compito di dare il nome, e il nome di Gesù significa “Dio reca salvezza”: anche così Giuseppe si rende disponibile al disegno di Dio.
Al di dentro delle nostre esperienze sta una attesa più profonda, l’attesa di un nome, di qualcuno che solo può salvare. Possiamo anche aprirci alla meraviglia che quel ‘nome’ sta oltre ogni nostra attesa e possibilità, è dono e venire gratuito di Dio che libera e salva. Natale è questo annuncio.
Alessandro Cortesi op
non temere di prendere con te…
Giuseppe è invitato a orientare la sua vita nel prendere con sé Maria. In queste parole viene sintetizzato un modo di intendere i rapporti non nella direzione del dominio e della strumentalizzazione dell’altro, ma nella linea della compagnia, della vicinanza, del farsi carico. E’ direzione contraria alle forme di patriarcalismo, di controllo e di oppressione che hanno segnato e segnano le comunità religiose e le chiese. In questo periodo la rivolta delle donne in Iran che reagiscono ad un regime patriarcale è segno a cui prestare attenzione perché esprime l’emergere di una sofferenza sinora sopportata nel silenzio e repressa, ed ora manifestata in una reazione corale, nonviolenta.
“Il colmo dell’orrore è stato raggiunto dalla tortura e l’uccisione di Mahsa Amini. Cosa ci si può aspettare di meno dal regime dei fanatici mullah che stanno usando il terrorismo istituzionale per mettere a tacere chi protesta per la libertà?” Così si interroga Dacia Maraini ponendo domande inquietanti: “Ma veramente si pensa che il mondo maschile, per vincere e dominare abbia bisogno di cancellare il corpo femminile come fosse la personificazione del male? Siamo sicuri che l’amorevole, il giusto, il meraviglioso Dio dei cieli sarebbe così punitivo con le sue figlie? O si pensa che le donne non sono corpi creati dal Padre eterno ma abitanti perniciose di qualche oscuro regno sotterraneo? La voce della conoscenza storica mi avverte: guarda che la misoginia esiste da millenni e il mondo cristiano ha condiviso le stesse idiosincrasie, lo stesso odio di genere, la stessa voglia di infierire sul corpo femminile considerato pericoloso e spregevole. Basta pensare alla caccia alle streghe…” (D.Maraini, Se gli ayatollah hanno il terrore di noi donne, “La Stampa” 13 dicembre 2022). Massimo Recalcati prosegue la serie degli interrogativi che tale situazione apre a considerare ed amplia la considerazione a quale può essere la responsabilità da assumere in questo tempo: “Si può uccidere, stuprare, torturare nel nome di Dio? E’ quello che sta accadendo sotto gli occhi semichiusi del mondo nelle strade dell’Iran (…) anche in questa terrificante violenza che sta insanguinandole strade iraniane vediamo all’opera il carattere atroce dell’intento correttivo, educativo, paradossalmente pedagogico, del sadismo delirante del patriarcato (…) Ma anche questo genere di violenza abbiamo conosciuto in Occidente qualche secolo fa attraverso le istituzioni reazionarie e repressive delle nostre Chiese finalizzate a perseguitare e uccidere gli eretici e gli infedeli sempre nel nome di Dio. Ancora oggi, in Occidente, nel nostro mondo la possiamo vedere nei suoi residuali e malefici spasmi compiersi nei femminicidi o nei soprusi di ogni genere finalizzati a ribadire un anti-storico principio di superiorità del maschio sulla donna. La logica pedagogica del patriarcato religioso resta la stessa: ricondurre sulla retta via l’anarchia del corpo femminile, smorzare la sua spinta alla vita, ingabbiare la sua libertà, sopprimere la sua voce” (M.Recalcati, Il delirio del patriarcato, La Stampa 14 dicembre 2022).
I capelli al vento delle donne iraniane sono divenute simbolo di una drammatica richiesta di libertà e di contrasto alla logica del patriarcato religioso. La rivoluzione in atto in Iran vede un protagonismo nuovo e impensabile, unito ad una dedizione che conduce ad esporre la propria vita fino alla morte, per aprire vie nuove per chi verrà dopo. E’ impressionante il coinvolgimento della popolazione giovanile e la dimensione diffusa della protesta che non potrà essere tacitata dalla sanguinaria repressione in atto perché espressione di una presa di coscienza collettiva e condivisa.
Ma proprio questo movimento epocale in atto in Iran provoca a pensare e potrebbe essere motivo di cambiamenti. Recalcati si chiede: “… l’Occidente ha la possibilità di cogliere questa occasione per aprire i suoi occhi davanti alla discriminazione, che in ogni forma, nel suo stesso mondo, colpisce le donne. L’orrore compiuto nel nome di Dio non dovrebbe finalmente, per esempio, riconoscere il pieno diritto di parola alle donne di Dio? Celebrare la messa, confessare predicare, esercitare a pieno titolo la vita pastorale? … Se l’orrore delirante del sistema teocratico islamista porta con sè la correzione morale delle donne come suo fondamento, la Chiesa cattolica non dovrebbe dare un esempio altrettanto straordinario liberandosi compiutamente da questo giogo?” (ibid.).
Sono domande che trovano eco in diversi modi nelle comunità ecclesiali. Dopo la richiesta presentata al Sinodo dell’Amazzonia di costituire, in contesti in cui già la maggior parte delle comunità cattoliche sono guidate da donne, il ministero istituito di ‘donna dirigente di comunità’, al Sinodo cattolico della Germania (Synodaler Weg) nello scorso settembre l’82% dei vescovi e il 92% dei laici tedeschi hanno votato a favore di un documento che presenta una chiara richiesta per aprire l’ordinazione sacerdotale alle donne, con revisione delle linee esposte da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994 – che presenta il ministero ordinato riservato agli uomini – e con valutazione delle proposte di riforma a livello mondiale. La votazione che è stato esito finale di un’ampia discussione può essere considerato un passaggio storico soprattutto nella direzione di un maggiore coinvolgimento delle donne a tutti i livelli della vita ecclesiale e motivo di cammino ecumenico. Il presidente dei vescovi tedeschi ha affermato che “i problemi che abbiamo messo sul tavolo non si possono più rimuovere”.
Nella visita ad limina dei vescovi tedeschi nel novembre us vi è stata occasione per un confronto chiaro e non privo di tensioni in cui essi hanno avuto modo di evidenziare come la S.Sede abbia sottovalutato le conseguenze disastrose degli abusi sulla credibilità ecclesiale insieme al ritardo riguardo al ruolo e ai compiti, anche ministeriali, delle donne. Il presidente dei vescovi Bätzing ha commentato «A mio parere personale è la questione decisiva per il futuro (cfr. L.Prezzi, Tedeschi ad limina. Convergenze parallele, “Settimananews” 23 novembre 2022).
Così alla fine del mese di novembre i vescovi belgi hanno parlato apertamente con il papa di questioni che si impongono per la loro urgenza nel vissuto ecclesiale e chiedono risposte significative e di rinnovamento, come ha ricordato Jozef de Kesel, arcivescovo di Bruxelles “Abbiamo parlato di coppie omosessuali, abbiamo parlato di viri probati (gli uomini sposati di provata fede ordinati sacerdoti, ndr), abbiamo parlato dell’eventualità del diaconato delle donne”.
Inquietudini presenti nella chiesa cattolica che vedono anche diversi percorsi ecumenici. Dagli inizi del secolo XX cominciano ad essere ordinate nelle chiese della Riforma donne pastore, che all’inizio sono solo singles o vedove, poi, a partire dagli anni ’60 sono ordinate pastore in modo incondizionato. Non tutte le chiese riformate tuttavia ammettono il pastorato femminile. In Italia le prime donne pastore furono consacrate nel 1967 al Sinodo valdese.
Alessandro Cortesi op