la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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XXIII domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Sap 9,13-18; Fm 9-10.12-17; Lc 14,25-33

Cosa vuol dire essere discepoli di Gesù? Sta qui la grande questione al cuore del cammino dei credenti. Luca è molto sensibile a tale domanda: nel suo racconto narra come nel suo cammino Gesù chiama a seguirlo in diversi modi: chiede di condividere la sua strada con scelte che coinvolgono l’intera esistenza. Essere discepoli è orientarsi a seguire lui e la strada di Gesù quale cammino sempre nuovo: seguirlo implica ricominciare sempre in fedeltà alla sua parola.

Alcune caratteristiche del seguire sono elencate in quest pagina. Una prima condizione è formulata nei termini duri di un distacco dai legami familiari in cui compare un verbo assai forte: “se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre…” Il termine ‘odiare’ contrasta con l’intero insegnamento di Gesù riguardo all’amare vicini e amici ma anche i nemici. Aveva chiaramente richiamato a prendersi cura dei familiari quale modo di attuare un autentico culto (Mt 15,3-6): criticava infatti coloro che facendo un’offerta al tempio si ritenevano a posto, senza prendersi cura del padre e della madre e così “annullavano la parola di Dio”. Gesù quindi non chiede di odiare, ma di vivere un amore aperto. Mette in guardia dal chiudersi egoisticamente entro i legami familiari e chiede di non assolutizzarli. A chi lo segue Gesù indica di porre al primo posto la presenza di Dio a cui riferire tutta la vita.

La seconda condizione è andare dietro a lui e ‘portare la croce’: la croce racchiude in qualche modo l’intero percorso di Gesù. E’ uno strumento orribile di condanna e di tortura, è tuttavia proprio sulla croce e fino a quel momento Gesù ha manifestato il senso profondo della sua vita quale dono totale nell’amore. Chi segue Gesù è chiamato a vivere secondo questa logica di dono ogni giorno – è sottolineatura propria di Luca questo accento sul quotidiano-. Egli scrive in una comunità in cui si fa presente la fatica del cammino che continua ogni giorno (Lc 9,23; cfr Mt 10,38). Seguire Gesù non è questione di alcuni momenti particolari ed eccezionali ma è scelta che tocca le vicende ordinarie, il quotidiano nascosto e talvolta monotono.

La terza condizione è indicata da due immagini, la torre da costruire e la guerra da preparare: sono esempi tratti dalle vicende umane ed entrambi utilizzati per un messaggio di fondo. Gesù richiede per seguirlo l’attitudine a pensare, a valutare le proprie forze, a preparare ciò che si costruisce. L’impresa è ardua. Esige uno sguardo lungo e forse anche la scoperta che da soli con le nostre sole forze non ce la facciamo. Luca richiama come questa impresa richieda tutte le energie e tutti i beni: rinunciare ai beni significa condividere ed è scelta di farsi borse che non invecchiano, per aprirsi all’unica vera ricchezza dell’incontro con il Signore Gesù.

In fondo tutte queste condizioni si possono raccogliere in un unico appello a vincere la superficialità, ad intendere l’importanza della vita, ad operare scelte nella direzione del regno di Dio.

Alessandro  Cortesi op

Pane, dono, gratitudine

Il 1 settembre è nella Chiesa italiana Giornata nazionale per la custodia del Creato ed apre un mese – tempo del creato – dedicato all’attenzione e alla cura dell’ambiente. La CEI ha proposto un  documento di riflessione a partire dalla riscoperta del pane. Ne riporto alcuni brevi brani quale occasione per ascoltare il messaggio che giunge dal pane frutto della terra e del lavoro di tante persone in questo momento in cui anche a causa della guerra in Ucraina proprio il grano e il pane e vengono a mancare in tante regioni:

“Quante cose sa dirci un pezzo di pane! Basta saperlo ascoltare (…)  Ogni pezzo di pane arriva da lontano: è un dono della terra. (…) Quando Gesù prende il pane nelle sue mani, accoglie la natura medesima, il suo potere rigenerativo e vitale; e, dicendo che il pane è “suo corpo”, Egli sceglie di inserirsi nei solchi di una terra già spezzata, ferita e sfruttata. (…) Gesù, dopo aver preso il pane nelle sue mani, pronuncia le parole di benedizione e rende grazie. È la gratitudine il suo atteggiamento più distintivo, nel solco della tradizione pasquale. Essere grati è, dunque, l’attitudine fondamentale di ogni cristiano, è la matrice che ne plasma la vita… (…)

Chi non è grato non è misericordioso. Chi non è grato non sa prendersi cura e diventa predone e ladro, favorendo le logiche perverse dell’odio e della guerra. Chi non è grato diventa vorace, si abbandona allo spreco, spadroneggia su quanto, in fondo, non è suo ma gli è stato semplicemente offerto. Chi non è grato, può trasformare una terra ricca di risorse, granaio per i popoli, in un teatro di guerra, come tristemente continuiamo a constatare in questi mesi.  (…)

Prendere il pane, spezzarlo e condividerlo con gratitudine ci aiuta, invece, a riconoscere la dignità di tutte le cose che si concentrano in un frammento così nobile: la creazione di Dio, il dinamismo della natura, il lavoro di tanta gente: chi semina, coltiva e raccoglie, chi predispone i sistemi di irrigazione, chi estrae il sale, chi impasta e inforna, chi distribuisce. In quel frammento c’è la terra e l’intera società. Ci fa pensare anche a chi tende inutilmente la sua mano per nutrirsi, perché non incontra la solidarietà di nessuno, perché vive in condizioni precarie. (…)

Mangiare con altri significa allenarsi alla condivisione. A tavola si condivide ciò che c’è. Quando arriva il vassoio il primo commensale non può prendere tutto. Egli prende non in base alla propria fame, ma al numero dei commensali, perché tutti possano mangiare. Per questo mangiare insieme significa allenarsi a diventare dono. Riceviamo dalla terra per condividere, per diventare attenti all’altro, per vivere nella dinamica del dono. Riceviamo vita per diventare capaci di donare vita. (…) Torniamo, dunque, al gusto del pane: spezziamolo con gratitudine e gratuità, più disponibili a restituire e condividere.(…)”

Alessandro Cortesi op

XXIII domenica tempo ordinario – anno C – 2019

IMG_5183.JPGSap 9,13-18; Fm 9-10.12-17; Lc 14,25-33

”Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”.

Essere discepoli, coloro che seguono: in queste parole si gioca l’identità di chi desidera stare con Gesù. Quali le caratteristiche di chi segue Gesù? Quali le esigenze per essere coloro a lui rimangono legati? Gesù ha chiamato tutti in diversi modi a seguirlo e li ha invitati ad intraprendere la sua strada. Ha chiesto questo non solo per un certo tempo ma in modo continuo imparando dall’unico vero maestro.

Sorprende innanzitutto la pretesa di Gesù: pretende che altri lo seguano e seguano lui. Chiede una disponibilità senza riserve e aperta nelle diverse fasi della vita. Per questo seguire non è mai un dato scontato, un punto concluso della carriera, ma implica ogni giorno un ricominciare di nuovo.

Luca indica alcune caratteristiche del cammino di chi intende seguire Gesù.

La prima condizione è presentata in termini duri e ostici: se uno viene a me e non ‘odia’ suo padre, sua madre… Il termine ‘odiare’ contrasta con l’intero insegnamento di Gesù riguardo all’amare non solo i vicini e gli amici ma anche i nemici. Inoltre aveva chiaramente richiamato il dovere di curare i rapporti familiari prima e al di sopra di un culto separato dalla vita (Mt 15,3-6): inoltre aveva manifestato la denuncia contro coloro che nel fare un’offerta al tempio si ritenevano esonerati dall’onorare il padre e la madre e facendo così “annullavano la parola di Dio”. Gesù non chiede di ‘odiare’: l’uso di questo termine così forte proviene dall’assenza nelle lingue semitiche del modo di dire ‘amare di meno’: per esprimere un amore non totalizzante è quindi usato il verbo ‘odiare’.

Gesù chiede a chi lo segue di saper mettere al primo posto ciò che deve stare primo: così richiama alla presenza di Dio a cui riferire tutta la nostra vita a lui, invita a liberarsi anche da quell’idolatria e dal soffocamento che può provenire da legami che si pongono come esaustivi della vita. La sua pretesa è anche di seguire lui stesso oltre ogni altro affetto. Ogni legame e affetto può essere ricompreso nel divenire discepoli di Gesù, nel seguire il suo cammino di amore fino alla fine, di misericordia e di servizio.

C’è una seconda condizione ed è la scelta di andare dietro a lui ‘portando la croce’: la croce è sintesi e cuore dell’intero cammino di Gesù. Non perché strumento di tortura e di sofferenza, ma perché lì sulla croce Gesù ha detto che è possibile rimanere fedeli all’amore fino alla fine trasformando anche il momento della morte in un momento di essere per Dio e per gli altri. La croce è prima di tutto scelta di dono, non via di sofferenza. E’ scelta di condivisione e racchiude anche il riferimento al fallimento umano, della sofferenza e del dolore. Luca aggiunge una precisazione importante: “se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23; cfr Mt 10,38). Si riferisce al quotidiano, all’ordinario in cui si gioca gran parte della nostra esistenza: Seguire Gesù non è questione dei grandi momenti o delle scelte eroiche nella vita: questi possono forse esserci ma il cammino di sequela si attua nelle piccole cose, nelle vicende ordinarie, nelle scelte del quotidiano nella normalità che non fa notizia.

La terza condizione è indicata da due immagini, la torre da costruire e la guerra da preparare: sono immagini tratte dall’esperienza e funzionali al messaggio di fondo. Il comportamento di Gesù è in contrasto con logiche di grandi costruzioni (era piuttosto la politica di Erode quella di costruire grandi palazzi e città) e con la scelta di fare la guerra (ma egli conosceva bene la violenza che dilagava). L’esigenza di Gesù a seguirlo richiede capacità di scelte pensate, cioè discernimento, e coraggio e generosità nel partire. La sua via espone a fatica e opposizioni: richiede di soppesare bene ciò a cui si va incontro. E chiede anche una valutazione non superficiale delle proprie forze. Luca sottolinea come si tratti di un coinvolgimento di tutte le energie e dei beni: la rinuncia ai beni non è fine a se stessa ma è per farsi borse che non invecchiano, per scoprire come l’unica vera ricchezza è il regno di Dio.

Gesù propone di liberarsi da cose che appesantiscono e ingombrano non rendendo liberi, ma soprattutto propone di disfarsi di una mentalità di possesso e di superiorità. Seguirlo è esperienza di scoperta di un cammino che libera la vita per cammini di servizio.

Alessandro Cortesi op

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Tempo del creato, tempo della scuola

“Alla radice, abbiamo dimenticato chi siamo: creature a immagine di Dio (cfr Gen 1,27), chiamate ad abitare come fratelli e sorelle la stessa casa comune. Non siamo stati creati per essere individui che spadroneggiano, siamo stati pensati e voluti al centro di una rete della vita costituita da milioni di specie per noi amorevolmente congiunte dal nostro Creatore. È l’ora di riscoprire la nostra vocazione di figli di Dio, di fratelli tra noi, di custodi del creato. È tempo di pentirsi e convertirsi, di tornare alle radici: siamo le creature predilette di Dio, che nella sua bontà ci chiama ad amare la vita e a viverla in comunione, connessi con il creato”.

E’ un passaggio del messaggio di papa Francesco per la giornata del creato che si situa nel mese di settembre dedicato a livello ecumenico al pensiero e approfondimento e preghiera per la casa comune, per maturare consapevolezza della custodia del creato. Il grido della terra è anche nel medesimo tempo il grido dei poveri oggi. L’invito ad una conversione ecologica è il modo di accogliere questo duplice e unico grido: si fa sempre più urgente impostare l’esperienza quotidiana vita secondo nuovi criteri, di attenzione, di pazienza, di rispetto, superando una mentalità del consumo e dello sfruttamento che si realizza sia nei confronti delle cose, sia nei confronti delle persone. La cultura della produzione senza limiti di rifiuti, l’indifferenza per le cose si accompagna al disprezzo verso gli altri, alla mancanza di consapevolezza delle ingiustizie che generano diseguaglianze e sofferenze. La questione non è solo per la vita individuale ma esige un orientamento collettivo, politico, l’orientamento a individuare un sistema economico diverso da quello che genera iniquità e distruzione dell’ambiente.

Settembre è anche tempo di inizio della scuola. La scuola è il primo luogo in cui maturare questa sensibilità, in cui investire per far maturare spirito critico, per essere capaci di andare controvento, come ricorda Franco Lorenzoni nel suo utlimo libro dal titolo I bambini ci guardano. Una esperienza educativa controvento (Sellerio 2019) e che in una recente intervista ha indicato la scuola quale luogo di resistenza contro l’alienazione del nostro tempo, con la capacità di sorpresa, perchè la vita è trasmettere ad altri ciò che si è ricevuto da custodire e coltivare perché possa durare:

“Credo siano i primi a capirlo: quella del maestro non è una missione, ma un mestiere come tanti altri, che ha bisogno della sua cassetta degli attrezzi, da ricalibrare di generazione in generazione (…) Lo sa qual è la cosa che non dovrebbe mai sparire in una classe? La capacità di sorprendersi, quel sapersi mettere in gioco, col proprio corpo, senza vergognarci delle nostre emozioni: può essere l’antidoto giusto all’alienazione (…) Ritengo che qualsiasi tipo di educazione debba andare controvento, che è poi guardare le cose di tutti i giorni, con spirito critico», con riferimento all’opera degli architetti, “i quali utilizzano questo termine per indicare i tiranti che reggono un edificio, così come un educatore si augura che ciò che lascia ai propri ragazzi possa durare nel tempo” (Il Corriere della sera 1 marzo 2019).

Alessandro Cortesi op

 

 

XIII domenica tempo ordinario – anno C – 2019

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1 Re 19.16.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62

Eliseo è chiamato a seguire Elia che su di lui getta il suo mantello. La sua vita cambia: questo gesto apre il suo cammino ad essere profeta: sarà uomo di Dio senza paura nei confronti dei potenti: la sua missione sarà stare sotto la parola di Dio, ed esserne annunciatore. Il mantello è segno di una chiamata e di un invio ed anche di passaggio di responsabilità e di dono. D’ora in poi Eliseo lascia il suo lavoro, il seguire i buoi che guidava nell’aratura e si pone al servizio di Elia, divenendo suo discepolo.

Alla morte di Elia, Eliseo raccoglierà il suo mantello (2Re 2,13-14), e con esso aprirà ancora le acque, segno che la parola di Dio è parola di liberazione per tutti, per chi si sente estraneo e lontano, oltre i confini (2Re cap. 5; cfr. Lc 4,27). Quel mantello che egli ricevette apre la strada a rivivere il percorso di liberazione dell’esodo, un percorso personale, e che si fa servizio per gli altri.

“mentre stavano compiendosi i giorni in cui Gesù sarebbe stato tolto dal mondo si diresse decisamente verso Gerusalemme.. mentre andavano per strada un tale gli disse…”

La strada verso Gerusalemme è momento centrale della vita di Gesù per l’evangelista Luca: non solo egli cammina, ma tutto nella sua vita si fa proposta alla comunità da lui raccolta attorno a sé per mettersi in cammino, per uscire dalle tranquille sicurezze.

La fede biblica respira dell’esperienza del camminare, nel deserto. Ed è scoperta della presenza di un Dio vicino pellegrino con il suo popolo. Nel cammino si incontra Dio che spinge ad andare sempre oltre, ad aprirsi al futuro come suo dono.

I primi cristiani parlano di Gesù come ‘colui che è passato facendo del bene…’ (cfr. At 10,38). Il camminare di Gesù con noi è cammino di compagnia e di vicinanza: nel dialogo si fa strada la possibilità di riconoscerlo presente e che si fa vicino nell’incontro con gli altri.

Luca dice che Gesù ‘fece il viso duro’ e si diresse verso Gerusalemme: va verso Gerusalemme dove subirà ostilità e il rifiuto da parte del potere politico e religioso. Ma lì avverrà anche la risurrezione il suo salire al Padre e lì saranno gli inizi della comunità.

Sulla strada varie persone chiedono a Gesù di seguirlo; Gesù stesso rivolge l’invito ‘seguimi’. Seguire Gesù non è un tipo particolare di conoscenza né osservanza di un codice di comportamenti o regole. Indica piuttosto un rapporto, un mettersi in cammino nella condivisione di vita con lui.

Gesù chiama a seguirlo con urgenza e con una sorprendente radicalità. L’apertura al futuro non lascia spazio alle chiusure e alle nostalgie del passato. Non è garanzia di sicurezze ma invito a condividere la precarietà, la povertà della sua vita. E’ chiamata ad un’esistenza che non si lascia imprigionare dalla morte (‘Lascia che i morti seppelliscano i loro morti’). E’ infine richiesta una dedizione che coinvolge tutta l’esistenza: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. L’aratro preso e da cui non ci si può volgere indietro è richiamo a scelte di fiducia profonda anche nelle difficoltà.

Alessandro Cortesi op

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Seguire

Raccolgo dai quotidiani di questi giorni alcune voci che aiutano ad interrogarsi oggi su cosa significa seguire Gesù, con la sua promessa di speranza e di accoglienza. Cosa significa questo oggi per noi?

«La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità». Così ha parlato Carola Rackete 31 anni, tedesca, la capitana della Sea Watch. «Basta, ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So a cosa vado incontro ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo». Ma questo gesto è rischioso: rischia infatti una incriminazione per favoreggiamento di immigrazione clandestina, il sequestro della nave e una multa da 50 mila di euro.

Così commenta Gad Lerner: “La disobbedienza civile con cui la Capitana ha deciso di sfidare il Capitano piccolo piccolo e il suo Decreto Sicurezza bis che criminalizza il soccorso in mare, è la più classica forma di omaggio alla legalità sostanziale, fondata sul rispetto delle norme internazionali sancite dal diritto del mare”. (Gad Lerner, L’onore di disobbedire, La Repubblica 27 giugno 2019)

Tutto ciò avviene mentre i giornali di tutto il mondo pubblicano la foto di un migrante al confine tra Messico e Usa trovato annegato sulla riva del Rio Grande con attaccata a sé la figlioletta. C’è chi si incammina verso un futuro mosso dalla forza della speranza e chi non vuole ascoltare il grido che proviene dalla disperazione.

“Questa Speranza — in nome della quale tanti uomini moriranno e tanti uomini uccideranno — è lo spirito messianico dei profeti, l’attesa e la preparazione dell’avvento del Messia, quella Terra Promessa verso la quale Mosé non si è stancato di guidare il suo popolo pur sapendo che egli stesso non vi avrebbe mai messo piede. Questo spirito religioso ebraico, questo guardare al futuro — che in qualche modo è già in atto nella traversata del deserto per raggiungerlo — assume una forma universalmente politica — pervasa di messianesimo — nel «sogno di una cosa» di cui parlava Marx, il sogno dell’umanità che rivendica la pienezza, la libertà, la vita vera o semplicemente la vita tout court , perché quella degli schiavi, degli oppressi, dei miserabili non è vita. Questa cosa sognata non si trova nel passato, in un Eden originario da cui l’umanità è stata scacciata, ma nel futuro, nel «non ancora». Come ci hanno insegnato a scuola, sperare è per definizione un verbo che vuole il futuro. E questo «non ancora», dice Virgilio morente nel grande romanzo di Broch, contiene l’«eppure già», perché il cammino verso la Terra Promessa è già Terra Promessa” (C.Magris, Elogio dell’uomo che spera, Corriere della sera 27 giugno 2019).

Questa speranza è spinta che nella vita ha un fragilissimo confine con la disperazione. E’ quella disperazione che ha guidato il gesto di un padre a gettarsi nella corrente del fiume con la figlia legata a sé dentro la sua stessa maglia. Ed è la disperazione incomprensibile ai grandi della terra e a chi comanda:

“Le parole. C’è questo tema dell’abisso che separa la Cosa dalle parole che chi comanda nel mondo — chi ha dunque la responsabilità, anche, di dire per tutti la parola appropriata — usa per indicare la Cosa. Donald Trump ha detto: “Stiamo mettendo le cose a posto, compresa la costruzione del muro”. È spaventosa, sarebbe imbarazzante se non fosse tragica, la convinzione di chi pensa che un muro, una barriera, un porto chiuso un divieto possano convincere Oscar e i milioni di persone che si buttano in acqua rischiando di morire coi propri figli in braccio, morendo con loro, a non farlo. Non sono capaci, i governanti, di indovinare la disperazione, di immaginare l’abisso”. (Concita Di Gregorio, Quanto male ci fa quella foto, La Repubblica 27 giugno 2019)

Anche in Italia ci sono i piccoli Trump, incapaci di scorgere le attese di speranza e gli abissi della disperazione:

“Provate a uscire — immaginate di farlo — andare in riva al mare, nuotare vestiti o salire su una barca che vi porta forse in un’altra terra, forse a morire. Ci andreste, stamani, stanotte, a nuoto, altrove? Vi mettereste vostra figlia nella maglia, se ha due anni e non sa nuotare? E cosa potrebbe indurvi a farlo, furbetti che non siete altro? Facile, eh? Provare a fottere le nostre leggi. I porti sono chiusi. Pensavate di fregarci? E invece guarda: siamo noi che freghiamo voi. Che soddisfazione. Applausi. Speriamo solo che nessuno dei Trump grandi e piccoli, al mondo, abbia mai bisogno di una mano che si tende, a mare. Speriamo che mettersi nei panni anziché esserci davvero, provare a immaginare, sia ancora un esercizio praticabile” (Concita Di Gregorio, ibid.).

«Grazie Carola! Grazie del peso dell’umanità di cui ti sei fatta carico nel mondo grande e terribile governato dell’egoismo». Così il parroco di Lampedusa don Carmelo La Magra ha salutato la decisione della capitana della Seawatch mentre trascorre le notti dormendo sul sagrato della chiesa in segno di solidarietà nell’attesa che la nave possa attraccare sull’isola.

«Chi ha a cuore le sorti del nostro Paese non se la prende con dei poveri disperati che sono allo stremo, ma si batte per cambiare le regole che fanno dell’Italia il capro espiatorio di un fenomeno, che esiste da sempre e che abbiamo il dovere di governare». Così si esprime Pietro Bartòlo, medico degli immigrati di Lampedusa. «Invece ho l’impressione che chi ha costruito gran parte del suo consenso facendo dell’immigrazione un problema, ha tutto l’interesse a che il problema resti così com’è, alimentando una campagna elettorale permanente» (A.Picariello, L’Europa intervenga ne ha il potere. Intervista a Pietro Bartolo, Avvenire 27 giguno 2019).

“Guardiamoci allo specchio, per una volta. E chiediamoci quanto già ci abbia avvelenato la disumanizzazione del nostro prossimo di cui parla Philip Zimbardo in «Effetto Lucifero», quanto vediamo di quel prossimo soltanto la dimensione numerica,vera anticamera dell’inferno che in fondo, come i nazisti ben sapevano, è la semplice negazione della singolarità umana. Così, ecco 40 sbarchi, 50 annegati, tutti uguali: ma è un inganno. Perché le notizie non sono mai tali e quali, come, ad esempio, non lo sono i bimbi sulle navi, ognuno con la sua originale paura del buio, il suo pupazzo preferito, il suo modo di dire mamma. Diverso da ciascuno e diverso dal piccolo siriano Alan, l’unico che, esanime su una spiaggia turca, «vedemmo»come fosse un bambino nostro; e che perciò ci reintegrò, sia pur per poco tempo, nei ranghi dell’umanità”. (G.Buccini, Navi e numeri. Il  rischio (inumano) di assuefarsi, Il Corriere della sera 25 giugno 2019)

Giovanni Ricchiuti, vescovo, presidente di Pax Christi, esprime la sua indignazione: “vorrei però condividere con voi la mia indignazione di fronte a quanto sta succedendo in questi giorni, con la nave Sea Watch, a cui è vietato l’ingresso nel porto di Lampedusa, con a bordo 42 migranti. Il Parroco di Lampedusa, don Carmelo La Magra, dorme sul Sagrato della chiesa fino a quando i profughi non scenderanno a terra in un porto sicuro. E il ministro degli interni gli ha risposto in tono irrisorio “Dorma bene!”. Il Vescovo di Torino, Mons. Nosiglia ha dato la disponibilità ad accogliere senza alcun onere per lo Stato le persone a bordo della nave, e il ministro degli Interni gli ha risposto: “Caro Vescovo, penso che Lei potrà destinare i soldi della Diocesi per aiutare 43 Italiani in difficoltà. Per chi non rispetta la legge i nostri porti sono chiusi”. Sono parole inaccettabili! Bene ha scritto il direttore di Avvenire, parlando di imprudenza, impudenza e arroganza! Come già detto più volte “io non ci sto!”. “Noi non ci stiamo!”. (Verba volant, giugno 2019)

Sono le voci, le parole, le sofferenze, le esistenze che chiamano a seguire Gesù oggi in questo tempo.

Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica tempo ordinario – anno B – 2018

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 (Francesco Bonsignori, attr. – Verona 1455-1519 – Venezia – Ca’ d’oro)

Sap 7,7-11; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

“Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” Questa domanda è rivolta a Gesù da ‘un tale’. Un volto senza nome che potrebbe forse raffigurare ogni profilo di persona in ricerca, toccata dal desiderio di trovare un senso profondo per la propria vita. Si tratta di ‘un tale’ educato nella tradizione religiosa, osservante della legge. E’ un uomo con apertura sincera e buono. Gesù manifesta sentimenti di accoglienza e benevolenza: “Fissatolo lo amò…”. Nell’incontro si fa strada una proposta: “una cosa sola ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Gesù propone di compiere un passo che non riguarda una osservanza ma coinvolge tutta la vita: gli chiede di intendere la vita nel seguirlo attuando una libertà nuova. Gli indica la via di una povertà scelta con libertà nel farsi solidale con i poveri. Indica la via per entrare così in rapporto con lui condividendo il suo cammino: è una liberazione da quanto appesantisce per ‘venire e seguirlo’.

Nella tradizione questa pagina è stata letta spesso come esempio di una chiamata rivolta solo a qualcuno. Nel quadro del vangelo risulta invece una proposta di Gesù rivolta a tutti coloro che desiderano seguirlo: dopo aver parlato del progetto di Dio sul rapporto tra uomo e donna nel cap. 10 Marco pone questo episodio che tocca il rapporto con i beni. Quel tale “se ne andò via afflitto perché aveva molti beni”. Quel tale sperimenta la difficoltà nel seguire Gesù e nell’accogliere la radicalità della sua proposta. Questa scena invita a vivere un rapporto diverso e nuovo con i beni. La salvezza, il senso della vita, non è da riporre nelle ricchezze: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio… è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

Questa immagine può trovare varie spiegazioni: forse cammello indica una corda utilizzata dai marinai, così la cruna può esser rinvio ad una porta stretta della città di Gerusalemme detta ‘cruna d’ago’ da cui si passava quando le altre porte erano chiuse forse. Il messaggio al cuore di quest’immagine è il richiamo a seguire di Gesù non affidandosi alle proprie forze. Per questo i discepoli vivono smarrimento e paura: “e chi mai si può salvare?” Gesù indica loro l’affidamento senza riserve a Dio, per trovare solo in lui la forza per vivere rapporti nuovi. Non nasconde loro che la pretesa di considerare la salvezza un progetto umano è fallimentare: affidare la salvezza alle ricchezze è impossibile: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! perché tutto è possibile presso Dio”: è questo il grande annuncio dell’opera del Dio.

Il senso autentico della vita non si ritrova come esito di conquista o ricompensa di sforzi e meriti, non proviene dall’osservanza dei comandamenti, ma è radicalmente dono, è agire gratuito di Dio che invita ad un cammino a seguire e trasforma la vita suscitando la nostra libertà. Non è solo un bene da attendere nel futuro ma è esperienza possibile sin dal presente nella vita quotidiana. Per tutti coloro che seguono Gesù c’è un lasciare, un uscire, e un ritrovare, uno scoprire relazioni nuove nella condivisione: “non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.

E’ importante sottolineare una variazione in questa frase: manca il riferimento al ‘padre’ nella seconda parte. Nel quadro della società fortemente patriarcale in cui Gesù vive egli indica che la sua comunità, la nuova famiglia che raduna con chi lo segue non dovrà riproporre le forme del dominio e della superiorità, ma porsi in modo alternativo secondo uno stile di fraternità di uguali.

“La Parola di Dio è viva, efficace…” ascoltare la Parola di Dio è fonte di vita per i credenti. Essa è viva e opera nella nostra vita.

Alessandro Cortesi op

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(palla d’altare usata nella messa in cui mons.Oscar Romero fu ucciso – ora a Barcellona)

San Romero d’America

Domenica prossima insieme a Paolo VI sarà ufficialmente proclamato santo Oscar Arnulfo Romero, ucciso il 24 marzo 1980. Sono due volti di testimoni del vangelo in questo tempo. In modi diversi, per cammini diversi nella loro esistenza hanno incontrato Gesù Cristo che li ha chiamati ad un servizio ai poveri. E’ bene ricordare alcuni aspetti dell’esperienza e spiritualità di Romero.

Romero visse nella sua vita un progressivo cambiamento che ha i tratti di una conversione: a partire da quando era vescovo a Santiago de Maria e in particolare quando fu ucciso il gesuita Rutilio Grande insieme a due contadini nel 1977. Era un periodo durissimo per il Salvador. L’oligarchia al potere si serviva dell’esercito e degli squadroni della morte per opprimere i contadini e soffocare ogni movimento di reazione nel sangue. La persecuzione si rivolse anche contro la parte della chiesa che stava dalla parte del popolo. La presa di consapevolezza della vita degli oppressi fu per Romero motivo di cambiamento della vita.

La sua vita si mosse nel senso della accoglienza al suo vescovado e all’hospitalito. Si trovò a vivere la compassione di fronte alle vittime di violazioni e della violenza.

Cristo insiste nelle sue apparizioni: Toccatemi, sono io! Sono lo stesso Cristo storico che, attraverso la Pasqua di morte e risurrezione, vivo incarnato sulla terra. Sono il Cristo salvadoregno. Cristo vive nel Salvador. Cristo vive in Guatemala. Cristo vive in Africa. Il Cristo storico. Dio fatto uomo vive in tutti i tempi della storia, in tutti i popoli del mondo. Questa è la caratteristica del Cristo vivo e presente”. (Omelia del 2 aprile 1978)

Le sue omelie divennero momento di denuncia delle ingiustizie nel ricordo dei nomi delle vittime, delle situazioni in cui avvenivano le violazioni, di elencazione dei nomi degli esecutori delle violenze. Intese la sua vita nela solidarietà al popolo degli oppressi: “non abbandonerò questo popolo”.

Quando disprezziamo il povero, coloro che raccolgono caffè, cotone o tagliano la canna da zucchero, il contadino che va in gruppo peregrinando  a lavorare cercando il sostentamento  per tutto l’anno, fratelli pensiamo, non lo dimentichiamo, in loro c’è il volto di Cristo. Volto di Cristo presente nei torturati e maltrattati nelle carceri. Volto di Cristo presente nei bambini che muoiono di fame perché non hanno da mangiare. Volto di Cristo presente nel bisognoso che chiede di aver voce nella chiesa”. (Omelia del 26 novembre 1978)

Fino alla supplica nei giorni precedenti alla sua uccisione: «In nome di Dio, in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi chiedo, vi supplico, vi ordino, in nome di Dio, cessi la repressione!».

Così Romero parlava di seguire Gesù nella sua incarnazione, proponendo un coinvolgimento radicale della vita:

Questo è l’impegno dell’essere cristiano: seguire Cristo nella sua incarnazione. E se Cristo è il Dio maestoso che si fa uomo umile fino ad accettare la morte degli schiavi e vive con i poveri, così deve essere la nostra fede cristiana. Il cristiano che non vuole vivere questo impegno di solidarietà con il povero, non è degno di chiamarsi cristiano”. (Omelia del 17 febbraio 1979)

“Monsignor Romero aveva chiara coscienza che doveva riconoscere le stimmate sofferenti del Cristo nei volti dei poveri del suo popolo. La sua opzione per loro è l’angolo concreto e storico che ci permette di comprendere il suo impegno e il suo messaggio, il suo appello alla pace basata sulla giustizia, la sua lettura del Vangelo” (G.Gutierrez, L’assassinio di Romero, “Il giorno” 26 aprile 1980).

Così lo ricorda Jon Sobrino: “Noi concludiamo dicendo che mons. Romero è già stato canonizzato. E ricordiamo i principali momenti di questa sua canonizzazione. Mons. Casaldaliga, appresa la notizia del suo martirio, scrisse il poema “San Romero de América, pastor y mártir nuestro”, concludendo con una certezza: «Nessuno farà tacere la tua ultima omelia». (…) Il popolo, su pobrería (celebre espressione di dom Pedro Casaldáliga, ndt), lo amò come raramente si ama un’autorità, un vescovo. Lo piansero come solo si piange un padre. Oggi, 33 anni dopo, molti continuano ad amarlo veramente. In El Salvador, lo amano in maniera diversa da come amano altri santi popolari canonizzati. Lo amano e lo ricordano in modo speciale i sopravvissuti ai massacri, mogli e madri di mariti e figli assassinati e desaparecidos, familiari di vittime di cui nessuno si ricorda. E senza sapere esattamente cosa significhi “canonizzazione”, “culto pubblico”, “intercessione”, si rallegrano che un papa proclami il suo nome solennemente e dica a tutto il mondo che Monsignore è stato una persona buona. Sono contenti. E questa non è piccola come espressione di canonizzazione” (J.Sobrino, San Romero di America, “Adista documenti” 1.06.2013).

Alessandro Cortesi op

La messa incompiuta. Le omelie di un vescovo assassinato EDB, Bologna 2014.

Ettore Masina, L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo, Il Margine, Trento 2011

Piergiorgio Cattani (ed.), Romero, santo dei poveri. Il martirio di un vescovo convertito dal popolo, Il Margine, Trento 2015

Antonio Angeli, Il Cristo di Romero. La teologia che ha nutrito il Martire d’America», EMI, Bologna 2010

Jon Sobrino, Romero, martire di Cristo e degli oppressi», EMI, Bologna 2015

Maria Clara Bingemer, Oscar Romero. Martire della liberazione, Messaggero, Padova 2015

II domenica tempo ordinario – anno B – 2018

IMG_20241Sam 3,3-10.19; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

La storia di Samuele, un giovinetto che si apre alla chiamata di Dio nella sua vita è posta in un tempo di silenzio di Dio: “la parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti” (1Sam 3,1). Gli occhi di Eli si andavano indebolendo e non riusciva più a vedere.

In un tempo di aridità Dio chiama e un giovane si dispone all’ascolto e si apre una storia nuova. Dio irrompe in modo inatteso e Samuele è inviato ad essere profeta, uomo della parola. La chiamata di Dio è rivolta a chi dal punto di vista umano non ha particolari doti. Samuele è il figlio della preghiera di Anna che a Dio aveva implorato: “lo offrirò al signore per tutti i giorni della sua vita” (1Sam 1,11). Il suo nome reca in sé il segno del dono e della promessa. La sua vita è segno di grazia e di restituzione: “lo chiamò Samuele perché, diceva, al Signore l’ho richiesto” (1Sam 1,20).

Dio guarda ai piccoli e a lui rivolge la chiamata nel pronunciare il suo nome e lo invia. Samuele si rende pronto con disponibilità: ‘Parla Signore, il tuo servo ti ascolta’. Tutta la sua vita sarà sotto il segno della parola con un cuore docile: “non lasciò andare a vuoto” le parole di Dio (cfr. 1Sam 3,19). La chiamata di Dio si rende vicina e comprensibile attraverso incontri e voci umane: la presenza paziente e saggia di Eli, che si tira indietro e lascia spazio ad un ascolto e ad un’apertura del cuore davanti a Dio, orienta il giovane Samuele. Eli non pretende di sapere, non lo rinchiude in schemi prefissati. Apre cammini di libertà. E rimane disponibile al disegno di Dio.

Anche nella pagina del IV vangelo c’è un racconto di chiamata: è l’incontro dei primi discepoli con Gesù, posto nel quadro dei primi sette giorni dell’attività di Gesù. Una evocazione dei sette giorni della creazione: la Sapienza di Dio, la sua Parola, sta operando una nuova creazione.

L’incontro è suscitato dall’indicazione del Battista: ‘Ecco l’agnello di Dio’ … e due dei suoi discepoli sentendolo parlare così, si misero a seguire Gesù. Gesù è indicato come agnello: è questo un simbolo che evoca l’alleanza e il cammino dell’esodo di Israele. La vita di Gesù è inoltre accostata a quella del profeta, il servo di JHWH: ‘era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì bocca’ (Is 53,7).

A chi inizia a seguirlo Gesù pone una domanda decisiva, ‘Che cosa cercate?’, un itinerario che sarà sviluppato lungo tutto il vangelo. Dopo la morte di Gesù Maria, nel giardino dove si reca per visitare il sepolcro, sarà sorpresa dalla voce dell’ortolano che le chiede: ‘Chi cerchi?’. Il IV vangelo si dipana quindi tra queste due domande fondamentali e accompagna nel passaggio dall’una all’altra: il ‘che cosa cercate?’ all’inizio si compie nella domanda ‘chi cerchi?’ alla fine. Domande che rimangono aperte per chiunque legge queste pagine.

I discepoli rispondono a Gesù con un’altra domanda: ‘Maestro dove dimori?’. Sono spinti da una curiosità e da una ricerca. ‘Dimorare’ rinvia ad un rapporto di comunione di vita: così ‘rimanere’ rinvia a quel rimanere dei tralci nella vite, a cui Gesù invita come modalità di vivere il rapporto con lui ‘perché senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,4-5).

Gesù non propone una dottrina, né li rinchiude in una serie di obblighi ma chiede loro di seguirlo. Seguire Gesù si connota come uno stare dietro a lui per aprirsi ad un vedere nuovo: ‘Venite e vedrete’. Li invita così ad una condivisione. Da quell’ora di quel giorno la vita dei due discepoli diverrà un vivere insieme con Gesù, un rimanere in lui. La sua dimora è la sua presenza. La fede è essenzialmente un cammino insieme a lui. E Giovanni annota… ‘quel giorno rimasero con lui’. Chi scrive ha un ricordo preciso di quando ciò avvenne: forse un riferimento ad un’esperienza personale che ha segnato l’esistenza in un’ora decisiva?

In questa pagina è presentata un’altra sottolineatura: l’incontro con Gesù si attua in una rete di legami quotidiani: Andrea e Simone sono fratelli, poi Filippo incontra Natanaele e gli dice ‘Abbiamo trovato … Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret’. La chiamata di Gesù si fa vicina nel tessuto di rapporti, di vicinanza. Gesù è il figlio di Giuseppe, e nel contempo di lui hanno parlato Mosè e i profeti. La ricerca che inizia nel rimanere con Lui è itinerario per continuare a fissare lo sguardo su di lui. Ma per primo è lui che ha fissato lo sguardo su di noi e chiama per nome. Dà un nome che è fiducia, segno di fedeltà, ed anche invio a divenire il nome che abbiamo ricevuto.

Alessandro Cortesi op

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“Vengo in mezzo a voi perché voglio portare nei miei i vostri occhi – io ho guardato i vostri occhi –, nel mio il vostro cuore. Voglio portare con me i vostri volti che chiedono di essere ricordati, aiutati, direi “adottati”, perché in fondo cercate qualcuno che scommetta su di voi, che vi dia fiducia, che vi aiuti a trovare quel futuro la cui speranza vi ha fatto arrivare fino a qui.

Sapete cosa siete voi? Siete dei “lottatori di speranza”! Qualcuno non è arrivato perché è stato inghiottito dal deserto o dal mare. Gli uomini non li ricordano, ma Dio conosce i loro nomi e li accoglie accanto a sé. Facciamo tutti un istante di silenzio, ricordandoli e pregando per loro. [silenzio] A voi, lottatori di speranza, auguro che la speranza non diventi delusione o, peggio, disperazione, grazie a tanti che vi aiutano a non perderla”

(papa Francesco, Incontro con i migranti – Bologna hub di via E.Mattei – 1 ottobre 2017)

Chiamata

“Il Centro Astalli esprime profondo cordoglio per l’ultima tragedia nel Mar Mediterraneo.  Si teme un’ecatombe: stando alle testimonianze dei superstiti, il gommone su cui erano stati imbarcati dai trafficanti conteneva 100 persone.

Assistiamo attoniti all’ennesimo oltraggio alla vita umana. Un doppio oltraggio: per le condizioni disumane in cui uomini e donne sono costretti a morire e per un’indifferenza sempre più dilagante da parte di istituzioni nazionali e sovranazionali e purtroppo anche della società civile.

Il Centro Astalli chiede a istituzioni nazionali ed europee una tempestiva azione umanitaria di ricerca e soccorso in mare per le imbarcazioni in difficoltà, consentendo approdo sicuro in un porto europeo e l’istituzione immediata di un canale d’evacuazione dalla Libia per i migranti in transito e in detenzione in un Paese in cui dignità, sicurezza e diritti umani non sono garantiti”.

E’ questo l’ultimo appello (9.01.2018) emesso dal centro Astalli dei gesuiti di fronte all’ultima strage di migranti nel Mediterraneo. E’ un appello a soluzioni praticabili, possibili. Ed esprime il senso di tristezza per la sordità dei paesi europei di fronte a quanto sta avvenendo, per l’indifferenza rispetto alle condizioni di tanti uomini e donne che affrontano le fatiche e i drammi della migrazione.

In questo tempo in cui le parole di umanità sono rare e così anche la parola di Dio è rara perché non ascoltata, c’è un grido che proviene in modo incessante innanzitutto da chi è vittima di una condizione del mondo segnata da ingiustizia e iniquità.

Un missionario da anni in Niger ricorda che guardare l’Europa dal Sud capovolge i criteri di giudizio, fa imparare tante cose: “ecco la fortuna che mi ha accompagnato in tutti questi anni fino ad oggi. La fortuna di ‘sguardare’ il mondo dal Sud che poi è un altro mondo, un mondo che apre gli occhi sulla realtà che ci avviluppa. È solamente dal punto di vista dei poveri che si può scoprire la verità delle cose e della storia. Vivere a Sud di Lampedusa, l’isola diventata il simbolo della frontiera tra l’Italia e l’Africa, mi ha insegnato tante cose. Una di queste è la scoperta che la frontiera dell’Italia mi ha seguito, si trova nel Niger, ad Agadez” (M.Armanino, L’Italia torna in Africa. La vergogna di un italiano in Niger,Avvenire” 9 luglio 2018).

In una  situazione internazionale segnata dal crescere di una retorica della forza e dalla violenza praticata in molti modi, sconcerta anche l’utilizzo di armi fabbricate in Italia nei bombardamenti aerei sulle zone abitate da civili in Yemen come ha rilevato un’inchiesta del New York Times e come è stato denunciato dalla Rete italiana per il disarmo e da altre associazioni (cfr. R.Beretta, Yemen e armi ai sauditi: coerenza nordica, ipocrisia italica e i suoi giannizzeri, http://www.unimondo.org)

In un tempo di visioni corte c’è chi suggerisce visioni diverse. E non manca la voce di Dio che si fa vicina in modi sempre nuovi. E’ una voce che è appello di umanità.

E’ possibile rimanere ciechi e non cogliere le esigenze del vangelo e renderlo motivo per giustificare egoismi e chiusure, per mantenere lo status quo, per coltivare indifferenza e ingiustizie. Oggi la chiamata di Dio è da scorgere nelle chiamate di uomini e donne che chiedono dignità.

La voce di Dio si rende presente in chi grida speranze e attese che oggi naufragano in un mare divenuto muro di separazione e di allontanamento. Chiama ad un ascolto che provoca credenti e non credenti per scoprire le radici di un’umanità vissuta nella benevolenza, nell’ascolto dell’altro e nel perseguire rapporti giusti nella pace. Per vivere la fede come cammino in cui l’incontro con Dio si compie nell’ascolto di chi soffre.

Alessandro Cortesi op

XXII domenica tempo ordinario – anno A – 2017

IMG_0774Ger 20,7-9; Sal 62,2-6.8-9; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

Leggendo la sua storia in un momento di difficoltà, Geremia apre uno squarcio sull’interiorità della sua vicenda di uomo chiamato ad essere profeta. Propone una confessione dal tono intimo e appassionato. La sua vita è stata segnata da un incontro con Dio che l’ha cambiato. E’ chiamata che lo ha portato ad essere sentinella ma ciò ha sconvolto le sue attese e i suoi progetti umani fino ad affrontare il rifiuto e lo scherno. Vive così la tentazione di abbandonare tutto e di fuggire lontano; eppure avverte contemporaneamente il senso di una presenza che lo ha afferrato e a cui è legato. Non vi sono solo ostacoli dall’esterno, ma ora egli vive anche il rifiuto e si affaccia il pensiero di non parlare più nel nome del Signore. Nonostante la ritrosia a vivere ciò a cui è inviato, la Parola di Dio è come fuoco che brucia dentro di lui e lo spinge.

Gesù affida a Pietro un compito e Pietro non comprende. Gesù inizia a parlare della sua via su cui incontra il rifiuto, e l’ostilità. Non è tolta la sofferenza, ma questa è affrontata nella libertà. Le parole di Gesù a Pietro sono con probabilità una esplicitazione opera dalla comunità dopo l’evento della Pasqua. Gesù aveva preparato i suoi alla via che lo avrebbe condotto alla croce non tanto con predizioni, quanto con il suo atteggiamento, con alcune parole che i discepoli compresero solamente dopo, con la decisione della sua scelta nel vivere sino in fondo la scelta del servizio e l’annuncio di liberazione. La figura del figlio dell’uomo fa intravedere l’orizzonte della risurrezione e della gloria ricevuta da Gesù da parte del Dio fedele. La sua esistenza – ci dice Matteo – va letta alla luce della vicenda del figlio dell’uomo.

Matteo vede qui l’inizio di una fase particolare della vita di Gesù. Il suo insegnamento viene riservato alla cerchia dei discepoli chiamati a seguirlo. Le folle sono rimaste deluse perché quanto Gesù propone non corrisponde ad un’idea di messia vittorioso e potente. Gesù si concentra sulla comunità dei discepoli e indica la via. Il suo orientamento si pone in fedeltà al disegno di Dio, all’agire di liberazione e di vicinanza presente in tutta la storia della salvezza. Matteo richiama come Gesù vive la sua obbedienza al Padre in riferimento e compimento delle Scritture. Non si tratta però di adempiere una sorta di predizione, ma Gesù nella sua libertà vive in coerenza al disegno di salvezza di Dio. Gesù è presentato da Matteo come ‘figlio di Dio’ che va incontro alla sofferenza alla morte e alla risurrezione (l’espressione ‘il terzo giorno’ è richiamo al primitivo annuncio della risurrezione).

Pietro, il primo dei Dodici, reagisce con forza a questo insegnamento e lo rifiuta. Deve vivere un difficile passaggio: lasciarsi coinvolgere nel seguire Gesù è una sfida difficile. Stare dietro a lui è quanto Gesù gli aveva chiesto sin dall’inizio: ‘venite dietro a me’. C’è un cammino da compiere e un’autentica conversione: dalla fede nel ‘figlio di Dio’ alla fede nel ‘figlio dell’uomo’ che affronta la sofferenza per la fedeltà all’amore. Ci può essere una accoglienza teorica della presenza di Gesù come figlio di Dio, come messia, ma si tratta di andare oltre. Ciò implica andare al di là di un ‘pensare secondo gli uomini’. Nel dialogo con Pietro c’è l’opposizione di due modi di pensare il messia. Pietro rappresenta l’attesa di un messianismo di gloria e di affermazione. L’apparente buon senso e saggezza di Pietro, che si rifiuta di accettare la via della sofferenza e della morte è stoltezza per Dio. Il ruolo di Pietro è proprio quello di ricordare con la sua stessa presenza, come primo dei dodici, questo cammino della fede.

Seguire Gesù implica un cambiamento radicale: inoltre Matteo nel suo vangelo è attento al fatto che Gesù chiama a seguirlo come comunità. La comunità che Gesù desidera è una comunità che vive innanzitutto un rapporto profondo con lui, lo segue, non si lascia distrarre da altri criteri di riferimento. Questa comunità è capace di lasciarsi mettere in discussione dal rimprovero di Gesù, e lasciarsi cambiare da lui. Inoltre condivide la via di Gesù, ne fa il nucleo dell’annuncio e lo stile della sua vita, anche se questo va contro modelli dominanti e diffusi.

Alessandro Cortesi op

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Seguire

In un tempo di muri seguire Gesù significa scegliere di percorrere ponti, di sognare ponti. Una bella preghiera proposta nel Natale 2016 dalla comunità di san Niccolò all’Arena di Verona può aiutare ed essere traccia di cammino:

Ponti, non muri tra la testa e il cuore perché non ci sia un amore senza pensiero e un pensiero senza amore.

Ponti, non muri tra giovani e vecchi perché non ci sia un futuro senza memoria e una memoria senza futuro.

Ponti non muri tra religioni diverse perché non esista violenza in nome di Dio e la terra trovi il suo cuore pensante.

Ponti, non muri tra chiesa e mondo perché non ci sia una chiesa fuori dal mondo, chiusa nelle sue paure, e un mondo senza gioia.

Ponti, non muri tra politica ed economia perché ci sia una politica bella e una economia che guardi dalla parte dei poveri.

Ponti, non muri tra scuola e lavoro perché la cultura sia il pane quotidiano, il linguaggio della non esclusione.

Ponti, non muri tra educazione e libertà perché educare sia liberare dalla dipendenza e dalla rassegnazione.

Ponti, non muri tra confine e confine perché il mondo sia la casa di tutti e le porte siano aperte al vento.

Ponti, non muri tra mare e mare, tra oceano e oceano perché donne e bambini non sprofondino nell’abisso ma danzino il girotondo della vita.

Ponti, non muri tra Natale e Pasqua perché tutti possano rinascere e risorgere ogni giorno.

Ponti, non muri tra Dio e le persone perché tutti possano gustare l’abbraccio della tenerezza di Dio.

Ponti, solo ponti tra sguardo e sguardo, tra città e città.

Ponti, solo ponti! Un grande arcobaleno che congiunge terra e cielo, perché non ci può essere allegria nel cielo se non c’è amore sulla terra! Amen

III domenica tempo ordinario – anno A – 2017

img_1784III domenica tempo ordinario – anno A

Is 8,23b.9,1-3; 1Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23

Terra di Zabulon e di Neftali sulla via del mare: è territorio al nord della Palestina, passaggio di strade calpestate da eserciti conquistatori nei secoli. Terra di confine dove si conoscevano devastazioni, violenze che accompagnavano i cambiamenti dei dominatori. Terre abitate da tenebre del male e della malvagità. Era quello il ‘territorio dei pagani’. Eppure Isaia vede proprio quella terra, situata ai margini, il luogo in cui si fa presente una luce nuova: vi sarà liberazione, vi sarà diritto e giustizia. E’ luce che viene da Dio ed è donata in luoghi avvolti da tenebre. Lo sguardo del profeta si fa interprete dell’agire di Dio: i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie. La luce entra nella storia dai luoghi dove si pensa che vi debba essere solo tenebra perché è Dio che ascolta il grido del povero, sceglie i dimenticati dalla storia. Lo stile di Dio capovolge i pensieri umani.

Anche Gesù, dopo il suo aver seguito Giovanni Battista e il suo battesimo, torna verso il territorio di Zabulon e Neftali, in quel territorio di confine. Giovanni Battista è stato consegnato – dice Matteo – anche Gesù sarà consegnato nella sua passione e morte. Ma ora va nella terra dei pagani. Mentre già si delinea l’esito della sua vita nel suo consegnarsi, la sua passione e morte, Matteo invita a scorgere come il cammino di Gesù attraversi le terre ai margini.La sua vita non può essere tenuta racchiusa ma è attraversamento. Torna in Galilea, non a Nazareth ma a Cafarnao.

Matteo scrive il suo vangelo in rapporto ad una comunità di cristiani che venivano dalla fede ebraica, che conoscevano la Bibbia. E’ sensibile quindi a sottolineare la continuità tra le promesse del Primo testamento e Gesù. Ma anche insiste sul fatto che la vicenda di Gesù è aperta: viene infatti riconosciuto dai magi che provenivano da lontano, da chi ha attraversato il buio, seguendo la luce della stella. Ora Gesù si rende presente nelle terra dei pagani, segnata da tenebre. C’è una luminosità che segna la sua vita e diviene luce accolta da chi sta ai margini, lontano, considerato escluso.

La prima parola di Gesù è un invito al cambiamento: ‘convertitevi’. Il suo annuncio riguarda il farsi vicino di Dio in modo sorprendente: il regno dei cieli è farsi vicino di Dio che dona futuro e liberazione a chi è considerato perduto, lontano. Convertirsi è allora invito a cambiare direzione. Il criterio per orientarsi in modo diverso è quello dell’agire di Dio che si rende presente nei gesti di Gesù, nelle sue scelte. Gesù invita a cambiare per aprirsi ad un orientamento nuovo. Il regno non è qualcosa di lontano ma è la luce nuova della vicinanza di Dio. Irrompe nella situazione di buio ed è dono per un cammino di liberazione. Nei suoi gesti e nelle sue parole dice che Dio Padre è vicino ai poveri, a chi è considerato perduto, o malato da tenere lontano. Questa scoperta chiede un cambiamento radicale: dall’essere ripiegati e indifferenti al vivere la vita come segno di liberazione.

Gesù così chiama a seguirlo: ‘Venite dietro a me’. Non si tratta di imparare qualcosa da sapere né di una carriera da intraprendere. Non promette ricchezze né guadagni o onori. Chiama a seguirlo sul suo cammino, a condividere le sue scelte di una vita vissuta davanti a Dio e per gli altri. Gesù vide due fratelli: il suo sguardo si ferma su di loro: è riflesso dello sguardo di Dio. Simone e Andrea si sentono amati, chiamati per nome, e avvertono in quell’essere guardati una forza che li spinge a lasciare ciò che stavano facendo per seguire Gesù.

Sono due fratelli. Gesù li chiama nella normalità della loro esistenza di ogni giorno, mentre gettavano le reti in mare. Ci sarà continuità e rottura nella loro vita. Saranno ancora pescatori, ma in modo nuovo. Lo saranno per gli altri. L’attività di un ‘pescatore’ è quella di raccogliere per offrire cibo e per dare vita: ‘pescatori di uomini’ è seguire Gesù vivendo il servire perché altri abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Il regno cresce allora nelle scelte di chi ascolta questa chiamata di Gesù. Il regno si rende presente in una esperienza di ‘stare con’ Gesù, nel vivere un cammino insieme. La vita al seguito di Gesù si compie nel seguirlo, in una relazione personale con lui, quotidiana semplice, attuata insieme, aperta ad una convocazione che va al di là di ogni fissazione. Gesù, nella Galilea dei lontani, chiama dei fratelli perché impariamo a divenire ‘fratelli’ in modo nuovo.

Alessandro Cortesi op

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Nei ‘Promessi sposi’ si possono ritrovare due storie di conversione: la prima è quella dell’Innominato, narrata nel suo momento finale ne tempo della notte dopo il rapimento di Lucia. La seconda è quella del giovane Ludovico che diverrà poi fra Cristoforo. Due storie che in qualche modo possono raccogliere l’esperienza e la riflessione di Manzoni stesso che visse un’esperienza profonda di cambiamento che segnò la sua vita.

Tutto avvenne in rapporto ad una data e ad un luogo. Era il 2 aprile 1810 e il luogo era Parigi. Durante i giorni di festa per le nozze di Napoleone qualcuno iniziò a sparare, si diffuse il panico  e rimasero morti tra la folla. Nel disordine e parapiglia che ne seguì Enrichetta, la moglie di Alessandro, svenne. Manzoni si trova improvvisamente sperduto e solo a trovare rifugio. Prende l’ingresso della chiesa di san Rocco per ripararsi. Lì scoprendosi solo, smarrito e chiedendo di poter ritrovare Enrichetta, visse un momento di incontro con la presenza di Dio, momento indescrivibile di chiarezza ma anche di serenità e di orientamento nuovo per tutta la sua vita. Probabilmente quel momento avvenne dopo un lungo cammino di cui in qualche modo Manzoni fa accenno anche nel raccontare le due vicende di conversione presentate nel suo romanzo. Mentre la sua conversione rimase racchiusa nel segreto del suo cuore le conversioni dei due personaggi del romanzo hanno una rilevanza pubblica. Ma forse esse vanno lette scorgendo tra le righe di quelle pagine una vicenda esistenziale ed un riflettersi del medesimo autore.

Ermes Visconti, amico del Manzoni a cui fu chiesta una lettura del romanzo nella sua prima redazione il ‘Fermo e Lucia’ scritta tra il 1821 e 1823, nelle sue note lo richiamava a non porre troppo ascetismo nella narrazione con parole proprie di libri relativi allo spirito cristiano. In riferimento alla descrizione della figura dell’innominato suggeriva di approfondire il caso umano più che la partecipazione cristiana e concludeva: “Perché non sarei capace, mi rimetto al parere di chi sa meglio di me, che sia convertire ed essere convertito”.

Manzoni tenne conto di queste osservazioni e, forse in base a questa sollecitazione, nelle edizioni successive aggiunse la famosa pagina della notte dell’Innominato:

“Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi a atto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’un’audacia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. “Invecchiare! morire! e poi?” E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a se stesso, o di soggiogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per ria errare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer se stesso ch’era ancor quello” (A.Manzoni, I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, a cura di A. Stella e C. Repossi, Torino, Einaudi-Gallimard, 291-2)

Manzoni nel rivedere le pagine del Fermo e Lucia, narra così la conversione dell’Innominato nei termini di un processo graduale faticoso, che trova il suo vertice drammatico nella notte dopo l’incontro con Lucia. Ma è un processo che matura poco alla volta, in una inquietudine che fa emergere una sensibilità legata al modo di intendere la fede di Pascal. E’ il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe colui che si fa incontrare nella notte di fuoco. E Manzoni sottolinea anche che la via della grazia non irrompe in modi eclatanti e improvvisi ma segue le vie della maturazione umana, si inserisce tra le pieghe della vita con le sue ferite, interruzioni e inquietudini. Non si tratta così di un evento folgorante e miracoloso, ma di un lento cammino che coinvolge, genera domande, aperture, desideri e conduce a rivedere la propria esistenza con occhi nuovi. Fino al momento della crisi narrato nella inquieta notte del rapimento.

Manzoni conduce a scorgere il conflitto interiore, la crisi vissuta in un interrogarsi che si fa lucidità autocritica, rilettura della propria vita e desiderio di apertura a qualcosa di nuovo. Ciò che sta al cuore di questa speranza che irrompe nel quadro di considerazioni desolate sul proprio passato sono le semplici parole di Lucia. L’innominato è presentato secondo il profilo di un ‘tormentato esaminator di se stesso’ (311):

“A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! – disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: – via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa”. E per farsela passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non nite, in vece d’animarsi al com- pimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’a acciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina. “La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo?”. A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico” (310-11).

Giunge così ad un passo dal suicidio a prendere in mano un’arma per farla finita: ma un pensiero di speranza si affaccia: “Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni” (312).

Manzoni qui delinea nel cambiamento dell’Innominato una sorta di resa, un abbandonare ogni pretesa e prepotenza, connesso all’uso delle armi, tenute in mano ancora, questa volta, non per affermare il proprio dominio sugli altri ma per togliere a se stesso la vita, per interrompere un tormento e il venir meno all’orgoglio. E’ così un arrendersi, un cedere le armi ed un presentarsi spoglio, nel proprio cuore, davanti a Dio, che coincide con una resa alle parole miti di Lucia, che rinviavano alla misericordia e ricordavano il perdono: si tratta di una resa liberante.

Nel dialogo con il cardinal Federigo Borromeo le parole del cardinale offriranno una sorta di interpretazione di quell’esperienza. Alla questione dove Dio si renda vicino, il cardinale suggerisce: “E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?” (327)

C’è un uomo nuovo che sta emergendo ma questa vita non è senza rapporto con il percorso di un ‘uomo vecchio’ in cui la voce della coscienza si faceva sentire pur rimanendo soffocata o flebile. Il superamento del passaggio vissuto è visto non come totale rottura ma nell’essere maturato nell’interezza di un percorso, nel valore dell’inquietudine della domanda che ha condotto al momento di consapevolezza nuova. Nulla è rigettato di quanto di buono era già presente e maturato nell’esistenza di quella vita, dei percorsi tortuosi e tormentati della coscienza. Non c’è eliminazione e scarto, ma superamento e assunzione.

“E voi domandate cosa Dio possa far di voi? […] cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover’uomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene?” (328)

Il volto del cambiamento dell’Innominato sarà nell’andare solo senz’armi, capace di accettare di stare senza difese.

La conversione del giovane Ludovico che diverrà fra Cristoforo è un altro elemento per comprendere l’intera sua missione e l’incontro con Renzo. Aveva vissuto una giovinezza e il suo carattere manifestava da un lato desiderio di onestà ma anche tratti violenti. Educato al sistema feudale incontra il rifiuto e l’esclusione, si dedica a difendere le cause degli oppressi ma lo fa utilizzando i modi di prevaricazione dei bravi. Tuttavia vive interiormente il sentimento di un contrasto che permane, qualcosa di non risolto dentro di sè. L’idea di farsi frate, ‘sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita’, ma ad un certo punto divenne una scelta in seguito a quello che Manzoni indica come un ‘accidente’, l’uccisione del signore che ha incontrato per strada, evento tragico in cui perde la vita il suo compagno, di nome Cristoforo, che rimane ucciso. Ancora un momento puntuale, drammatico, ma che segna il punto di svolta e di arrivo di un lungo percorso. L’assunzione del nome dell’amico ucciso (Cristoforo, portatore di Cristo) al suo ingresso in convento è segno di un cambiamento e di un programma di vita.

L’itinerario di un cambiamento quale conversione è la questione centrale nella vita di Manzoni che si pone l’interrogativo su tale esperienza a partire dalla sua vicenda ma con sguardo anche a coloro che vivono una attitudine razionalistica, gli illuministi del suo tempo. Scrivendo all’amico Claude Fauriel, critico letterario, evoca come la dimensione del cuore non contrasti con lo spirito. Rilegge così le intuizioni di Pascal, in riferimento ad una fede che non si confonde con una costruzione intellettuale ma affonda nell’esperienza di un incontro vivente che coinvolge il ‘cuore’. Ezio Raimondi (Sulla conversione di Alessandro Manzoni, in http://www.bibliomanie.it) ha parole illuminanti commentando una lettera che Manzoni invia al suo interlocutore segnato da una mentalità razionalistica nell’invitarlo ad occuparsi di tale questione:

“posso esprimere, caro Fauriel, la speranza che anche voi ve ne occupiate (…) mi fa paura per voi la parola terribile Abscondisti haec a sapientibus et prudentibus, et rivelasti ea parvulis (…) ma non ho in realtà timore perché la bontà e l’umiltà del vostro cuore non è inferiore né al vostro spirito (esprit) né ai vostri lumi (lumières). Scusate la predica che un parvulus si prende libertà di farvi».

Così commenta Raimondi: “Si tratta di un testo straordinario, se lo si considera in una certa luce: è denso di significato, perché intanto Fauriel è un lettore dei migliori moralistes del Seicento e del Settecento e, a differenza di altri intellettuali della tradizione illuministica, ha il senso della personalità di Pascal. Del resto, Manzoni sta per l’appunto citando Pascal, nella speranza che l’altro capisca al volo. Coeur ed esprit sono due termini determinanti nel mondo di Pascal. Potremmo chiamare coeur la coscienza incarnata, quella che sente Dio: «non lo sentite nel cuore» del cardinale (ecco le rispondenze verbali). Esprit è la ragione, l’esprit géométrique che non può aspirare al sentimento diretto della presenza divina: questa riguarda tutta la realtà profonda dell’uomo.”

Forse il senso più profondo della conversione di fra Cristoforo può essere visto significato nel pezzo di pane che tira fuori da una vecchia scatola, e che lascia in dono ai due sposi Renzo e Lucia a conclusione del romanzo. Le sue parole che accompagnano quel gesto sono quasi eco delle parole di Lucia che ritornavano alla memoria nella notte all’innominato “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”:

“Qui dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità; quel pane di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!”.

Alessandro Cortesi op

 

 

Maria ss. Madre di Dio – anno 2017 – Giornata della pace

img_2064(Duomo di Trento – rosone della facciata)

Num 6, 22-27; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

I racconti dell’infanzia di Luca non sono narrazioni di cronaca o di descrizione di avvenimenti con preoccupazioni dello storico. Sono invece ricchi di teologia, intessuti di riflessioni indirizzate a comunità che vivono l’esperienza della fede in Gesù dopo la sua morte. Sono scritti pensando alla situazione di credenti che sperimentano le fatiche e difficoltà del continuare nel tempo la via del seguire Gesù. Luca proietta quindi sin nei primi momenti della vita di Gesù, il riferimento all’esperienza di coloro che hanno accolto la sua presenza e lo seguono.

Nello sguardo alle presenze che attorniano Gesù alla nascita Luca offre un quadro diversificato di reazioni e sentimenti. Pone così in luce i tratti dell’esperienza del credere e del discepolato nelle attitudini di coloro che hanno accolto la bella notizia dell’incontro con Gesù. In lui si è manifestato il volto di Dio che capovolge le logiche proprie del mondo riguardo alla grandezza ed è stato posto in discussione il modo di pensare Dio stesso. Luca insiste sul segno che riguarda una salvezza donata da Dio alla storia. Il segno è un bambino, avvolto in fasce: è un segno piccolo e povero, che contrasta con la grandezza degli imperi e con il dominio sui popoli (il censimento di Cesare Augusto). Gesù nella sua vita racconta il volto di un Dio che si può incontrare non nei luoghi del potere umano, ma nella vita dei poveri, nella condizione di chi è escluso “perché non c’era posto per loro nell’alloggio”.

Luca anche insiste su questo segno piccolo che è volto di un bambino con Maria e Giuseppe: è presenza di un bambino con i suoi genitori. L’incontro con Dio passa attraverso le vicende della vita umana ordinaria, nell’esperienza della cura per un bambino inerme, bisognoso di tutto, che nasce nel contesto di un amore umano concreto. L’incontro con Dio passa attraverso la cura ed il piegarsi all’umano fragile.

A questo punto Luca offre un profilo di chi è stato segnato da questa bella notizia presentando le reazioni di chi ha visto questo piccolo segno e se ne è lasciato toccare. Sono presenze non di chi umanamente è ritenuto importante o rilevante, ma di chi è marginale, di persone piccole, senza nomi illustri: sono i pastori, sono persone senza nome ma di cui si sottolinea la capacità di stupore, è Maria stessa, è Giuseppe.

Un primo tratto del profilo di chi segue Gesù è quello dell’uscire e del cammino: “i pastori andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro”.

I pastori si sono lasciati prendere da una chiamata di messaggeri e si sono posti in cammino: in ogni cammino umano, in ogni uscita da sicurezze per aprirsi all’incontro sta una novità e un dono. Tutto ciò avviene con urgenza: è bella notizia che apre a orizzonti nuovi la vita e chiede di essere comunicata. Dopo aver visto non rimangono chiusi, vanno a riferire, comunicano ad altri non un insegnamento ricevuto, né particolari richieste. Comunicano la gioia di un’esperienza inaudita: per loro, i dimenticati dalla storia, c’è posto nel cuore di Dio. La presenza di quel bambino dice loro che Dio si prende cura di chi è piccolo. Scorgono che l’incontro con Dio non è questione di sistemi religiosi o di appartenenze particolari, ma è possibile nella vita, nella loro vita concreta.

Una seconda reazione è quella di persone senza nome, di cui però si dice che vivono una ascolto di quanto è loro comunicato e si aprono allo stupore. “Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori”. Anche qui il riferimento va alla vita della comunità nel tempo: l’esperienza della fede sorge nella testimonianza e nel ricevere una parola di testimoni che ricordano e richiamano l’incontro con Gesù: da qui può nascere uno stupore che cambia l’esistenza. Lo stupore è il tratto proprio dei racconti dell’infanzia di Luca che in questo atteggiamento condensa il senso di novità che prende di fronte ad un’esperienza di un Dio che si rende vicino, che fa sorgere vita che porta nascite e nuovi inizi in situazioni segnate dalla sterilità, dalle vecchiaia, dalla difficoltà.

Infine Luca sottolinea una attitudine propria di Maria: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Maria tiene insieme, fa simbolo. Il suo ascolto è interiore. Penso si possa leggere questa indicazione come movimento proprio del cuore del credente che tiene insieme lo sguardo di fronte al comunicarsi di un Dio che sceglie la povertà, fragile e vulnerabile, ad un operare di Dio e le difficoltà, domande e dubbi che provengono dalla storia, dalle contraddizioni.

Di Giuseppe non si dice nulla: solamente che era presente. Nel fugace accenno al suo nome si può cogliere solamente una presenza silenziosa, uno stare accanto che non fa mancare la sua cura, la sua vicinanza. E’ forse indicazione di una esperienza credente del mantenersi vicini, con la propria individualità, con il proprio nome, comunicando nel silenzio l’ascolto di una chiamata e di una missione. Giuseppe appare come un albero piantato, che rimane al suo posto e vive così la risposta al nome che gli è dato.

Infine ancora i pastori: Luca qui indica un altro tratto dell’esperienza del credere espresso nei verbi del lodare e rendere gloria a Dio. Nell’esperienza dell’incontro con Gesù, si apre una comprensione nuova della vita: la gloria di Dio si compie nella pace per coloro che egli ama. La gloria di Dio allora è la vita di chi vede riconosciuta la sua dignità, è una vita in relazioni nuove di giustizia, di riconoscimento. La gloria di Dio è possibilità al povero di avere dignità e vita.

“I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”

img_2284(disegno – cartone di Pietro Bugiani – Pistoia)

Voci di donne

Il 1 gennaio è giornata di preghiera per la pace. In questi giorni il settimanale “La repubblica delle donne” ha promosso un sondaggio sulla figura di donna dell’anno. Tre volti sono stati indicati: la mamma di Giulio Regeni, ricercatore torturato e ucciso al Cairo lo scorso gennaio, che ha manifestato coraggio e forza di fronte all’ingiustizia nella ricerca di verità; l’avvocato Lucia Annibali, sfigurata con l’acido dal suo ex partner e divenuta simbolo della lotta contro la violenza sulle donne; Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, prima cittadina di un luogo di frontiera dell’accoglienza dei migranti che dall’Africa affrontano la traversata attraverso il mar Mediterraneo.

In una intervista a cura di Maria Accettura, Paola Regeni così si è espressa: “«Penso che in Italia anche chi proviene da un paese di piccole dimensioni possa diventare cittadino del mondo. Non a caso si parla di “identità glocali”, legate al territorio ma con uno sguardo aperto sul mondo. Fiumicello ha un’identità friulana ma è in posizione strategica e quindi in contatto con altre culture, con la Slovenia e l’Austria. Le nostre stesse famiglie d’origine hanno diverse provenienze. Noi abbiamo sempre viaggiato anche con i bambini piccoli, lo ritenevamo fondamentale per l’educazione. Perciò lasciare Giulio libero nelle scelte e negli spostamenti faceva parte del nostro modo di essere». E ad una domanda sul suo rapporto con suo figlio ha così risposto: “I figli ci insegnano molto se siamo disposti ad ascoltare. Giulio in particolare che cosa le ha trasmesso? «Mi ha permesso di seguirlo, che non è sempre scontato, e questo è stato stupendo. Mi ha insegnato molte cose a livello culturale, e con lo spirito critico che lo contraddistingueva ha cercato di farmi comprendere le problematiche che vivono i giovani di oggi. Giulio era energia: di fare, conoscere e relazionarsi».

Un’altra storia di madri – trascurata dalla grande comunicazione e che si pone in contrasto al dilagare di mentalità dello scontro e della pretesa di risolvere i problemi con la violenza e l’oppressione, proviene da una iniziativa organizzata da donne, madri appartenenti al movimento delle donne per la pace, sorto nel 2014 in Palestina: si tratta di una marcia di donne che recentemente hanno manifestato insieme, camminando, cantando e pregando ciascuna secondo le modalità della propria cultura e tradizione religiosa, ebree, musulmane e cristiane invocando una pace che appare impossibile tra israeliani e palestinesi (qui il video). Nella loro inermità si sono radunate a migliaia per esprimere nel camminare insieme un orizzonte inedito e nuovo ed hanno cantato la preghiera delle madri contro la logica della guerra.

Ancora una parola di donna dà a pensare: è la parola della madre di uno degli agenti che a Sesto san Giovanni hanno fermato e poi ucciso l’attentatore tunisino Anis Amri che pochi giorni prima a Berlino aveva compiuto una strage di persone inermi scagliandosi con un Tir a tutta velocità nel mercatino di Natale nei pressi della Gedächtnis Kirche. Mentre i titoli dei giornali e i commenti su questo evento risuonavano di parole d’odio, di vendetta, di soddisfazione per l’annientamento di un pericoloso criminale, le parole di questa madre  sono state una delle poche, flebili espressioni che hanno manifestato un pensiero anche per la vita di chi aveva seminato tanto dolore seguendo la logica assurda della violenza e che ha avuto anche la sua vita spezzata. Ha ricordato così il senso di una pietà umana di fronte alla morte di ogni uomo, anche dell’assassino, per non lasciarsi imprigionare dalla medesima logica di male e scegliere la nonviolenza: voce di una donna nel tempo della violenza.

Voci di donne in un giorno memoria di Maria e di preghiera per la pace.

Alessandro Cortesi op

img_2273-versione-2(Martino di Bartolomeo, polittico, part. 1403 – museo di san Matteo, Pisa)

XXIII domenica tempo ordinario – anno C – 2016

IMG_0518_2Sap 9,13-18; Fm 9-10.12-17; Lc 14,25-33

Gesù nel suo cammino ha chiamato altri a seguirlo e ha loro proposto un rapporto particolare con lui e alcune condizioni fondamentali per stare con lui. Luca raccoglie in una pagina una serie di insegnamenti di Gesù sulla sequela.

Richiama a questo dato essenziale: Gesù chiama a seguirlo. Non presenta come maestro una dottrina da imparare, non offre una proposta di carriera e di affermazione o di guadagno, non si pone nemmeno come fondatore di un nuovo gruppo. La sua proposta è un invito a condividere un cammino, ponendo i propri piedi sulle sue tracce. Invita ad essere coinvolti nella sua strada. Seguirlo è chiamata ad una condivisione e ad una relazione particolare con lui. Chiede di vivere la docilità ad ascoltare la parola di Dio con fedeltà, nel percorso intero della vita.

Un secondo aspetto da cogliere: Gesù si presenta con autorità in questa richiesta. Si tratta dell’autorevolezza di chi vive una testimonianza in mood radicale, per questo la sua pretesa suscita stupore. Le esigenze presentate a chi desidera seguirlo richiedono una decisione chiara e definitiva. Essere discepoli si attua nel seguire. La strada che Gesù apre è cammino per ognuno e nelle diverse fasi della vita. Seguirlo implica ogni giorno rimanere in ascolto della parola di Dio.

Luca raccoglie alcune condizioni per chi segue Gesù: la prima riguarda il mettere lui al primo posto. “se uno viene a me e non ‘odia’ suo padre, sua madre…” Il termine ‘odiare’ richiede una lettura attenta ed un’interpretazione. L’uso di questo termine proviene dall’assenza nelle lingue semitiche del modo di dire ‘amare di meno’: per esprimere un amore non totalizzante è quindi usato il verbo ‘odiare’. Le parole di Gesù non sono per l’odio ma per amare: chiede di amare non solo i vicini e gli amici ma anche i nemici. Inoltre Gesù richiama anche la cura dei rapporti familiari prima e al di sopra di un culto separato dalla vita (Mt 15,3-6): la sua critica è dura contro coloro che facevano un’offerta al tempio e con questo si ritenevano esonerati dall’onorare il padre e la madre e facendo così “annullavano la parola di Dio”. Gesù chiede a chi lo segue di porre la relazione con lui e di riferire tutta la vita a lui. Il seguire lui viene prima di ogni altra cosa: non contrasta gli affetti più cari, ma vivere lo stile da lui testimoniato conduce a vivere in profondità tutti i rapporti e apre la vita nella logica del dono e del servizio.

La seconda condizione è la scelta di andare dietro a lui ‘portando la croce’: la croce è sintesi dell’intero progetto di vita di Gesù, la sua scelta di essere uomo per gli altri fino alla fine. La croce è strumento di tortura e di violenza e di dolore, segno della violenza umana. Gesù è rimasto fedele ad una vita intesa come servizio anche sulla croce. Ha testimoniato che anche lì, nel luogo della morte, è possibile rimanere fedeli all’amore. Per lui la croce è luogo in cui ha attuato il dono di sé e la solidarietà fino in fondo con tutti, con gli umiliati e i sofferenti. La croce diviene quindi indicazione di un cammino che non viene meno all’affidamento di sé a Dio e all’amore per gli altri, anche laddove sembra impossibile, nella sofferenza e del dolore. Scrivendo il vangelo Luca, con riferimento ad una comunità che vive la fatica di continuare una fedeltà nel tempo, aggiunge una precisazione importante: seguire Gesù non è questione di momenti eccezionali ma di quotidianità. Le scelte di ogni giorno, i gesti quotidiani sono luogo in cui attuare la sequela di Gesù: “se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23; cfr Mt 10,38).

La torre da costruire e la guerra da preparare, sono due immagini che indicano innanzitutto la libertà e la consapevolezza che Gesù chiede ai suoi discepoli. Contro ogni tipo di superficialità e di avventatezza chiede un coinvolgimento dell’esistenza in tanti aspetti. Rinunciare ai beni indica una attitudine di libertà. Non è richiesta di non usare i beni necessari alla vita, ma è indicazione di uno stile di non appropriamento della vita e di tutti i beni nell’indifferenza verso gli altri. E’ lo stile dei miti e dei poveri. Farsi borse che non invecchiano è l’immagine che invita a scoprire come l’unica vera ricchezza è la condivisione.

Alessandro Cortesi op

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Borse che non invecchiano

Il 27 agosto 1999, quindici anni fa, moriva Hélder Câmara, arcivescovo di Olinda-Recife uno dei vescovi latinoamericani che partecipò al Vaticano II e visse la scelta di una chiesa povera per i poveri nel contesto latinoamericano. Nato nel 1909 in una famiglia numerosa entrò in seminario e fu ordinato sacerdote nel 1931. Cresciuto in ambiente piuttosto conservatore visse una conversione nella sua vita a partire dal 1952, anno in cui fu nominato vescovo ausiliare di Rio de Janeiro. Diviene noto a quel tempo come il ‘vescovo delle favelas’ e la sua testimonianza si diffuse. Promosse poi la nascita della Conferenza episcopale brasiliana quale organo di servizio e coordinamento.

Partecipò al Vaticano II. Al Concilio ispirò il ‘Patto delle catacombe’ di cui fu redattore, un invito ai fratelli nell’episcopato a condurre una vita di povertà e ad essere una Chiesa serva e povera. Un testo di presa di impegno in cui i vescovi firmatari affermano la loro decisione a vivere essi stessi la povertà reale delle maggioranze e a soffrire il disprezzo generato da questa povertà reale. Una assunzione di impegno da parte di chi, proprio per la sua responsabilità, dovrebbe vivere per primo e esigenze del vangelo e attuare una cambiamento radicale rispetto ad un modo di intendere la chiesa come una società di potere e di suddivisioni gerarchiche. Le sue note nel tempo del Concilio sono state pubblicate nel libro “Roma, due del mattino” (San Paolo 2011).

Nel 1964, anno del golpe che diede inizio al regime militare in Brasile, viene nominato arcivescovo di Recife, nel Pernambuco, una tra le regioni più povere del Brasile. Dom Hélder, così volle sempre essere chiamato aveva un particolare stile di sobrietà e di attenzione alle persone, con tutti coloro che incontrava: il tratto tipico del suo farsi incontro stava nell’ascolto.

Tale sua impostazione si ritrova nella conferenza di Medellin nei cui documenti si legge: «Vogliamo che la nostra Chiesa latino-americana sia libera da legacci temporali, da connivenze e ambiguo prestigio; che, “libera in spirito rispetto ai vincoli della ricchezza”, sia più trasparente e forte nella sua missione di servizio» (n. 18). Molti suoi scritti e discorsi furono raccolti da amici e pubblicati nel libro Rivoluzione nella pace (ed. Jaca Book 2013)

Il suo stile si pone come radicalmente distante dalle forme dell’uso del potere del denaro, di ricerca di visibilità, di affermazioni di superiorità e di privilegio, di clericalismo ancor così presenti e diffuse nella chiesa soprattutto nelle sue strutture di vertice. Diceva: “Quando do da mangiare a un povero mi chiamano santo ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora mi chiamano comunista”. Quest’espressione è stata ripresa da Francesco, vescovo di Roma, pochi mesi fa nel dialogo con alcuni giovani belgi: “Ho sentito che una persona ha detto: con tutto questo parlare dei poveri, questo Papa è un comunista! No, questa è una bandiera del Vangelo, la povertà senza ideologia; i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù”.

Così dom Helder parlava del suo sogno: “Ho molta fiducia nei piccoli, nei deboli che si uniscono in movimenti nonviolenti, senza aver bisogno di prestigio, sia nei nostri che nei vostri paesi, piccoli gruppi senza potere che si mettono d’accordo per affermare senza odio, senza violenza alcuna, ma anche senza codardia, per affermare che bisogna arrivare a condizioni giuste e umane nelle relazioni tra pesi ricchi e paesi poveri, tra le grandi compagnie ed i nostri paesi… E Dio che ama gli umili, i deboli, i piccoli; non abbandonerà questo mondo. E’ lui la forza della nostra debolezza!. Partire è anzitutto uscire da sé. Rompere quella crosta di egoismo che tenta di imprigionarci nel nostro io. Partire è smetterla di girare in tondo intorno a noi, come se fossimo al centro del mondo e della vita. Partire è non lasciarsi chiudere negli angusti problemi del piccolo mondo cui apparteniamo: qualunque sia l’importanza di questo nostro mondo l’umanità è più grande ed è essa che dobbiamo servire. Partire non è divorare chilometri, attraversare i mari, volare a velocità supersoniche. Partire è anzitutto aprirci agli altri, scoprirli, farci loro incontro”.

Alessandro Cortesi op

XX domenica tempo ordinario – anno C – 2016

IMG_0599_2Ger 38,4-6.8-10; Ebr 12,1-4; Lc 12,49-57

“Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!”.

Gesù parla della sua passione come di un ‘battesimo’, termine che traslittera l’espressione greca che significa ‘immersione’. Immergersi è scendere giù, sotto, sprofondare. Immersione è discesa sotto l’acqua in una condizione che evoca la sepoltura. L’immagine del battesimo/immersione richiama così lo sprofondare nella morte. In tale discendere è indicato il percorso di Gesù nella passione: uno scendere nell’abisso dell’ingiustizia e della violenza, un farsi sommergere dalla malvagità e dalla cecità del potere. Il suo battesimo è la sua morte. La discesa nelle acque ne diviene metafora come segno di una scelta di fede nel seguire Gesù nel suo cammino.

Gesù manifesta lucidità di fronte a quanto lo attende, ma non fugge di fronte ad un esito della sua vita che si profilava tragico. Nei vangeli si trova attestazione della sua dirittura nell’andare incontro al rifiuto e alla violenza ostile per portare fino in fondo la sua fedeltà al regno di Dio. Di fronte a questa ‘immersione’ ha paura e angoscia: non è un eroe superiore alle sofferenze e insensibile, ma condivide l’angoscia e il senso di debolezza di chi si sente fragile. Gesù vive questa immersione nella morte in un modo nuovo: la rende luogo di dono e di consegna di sé sino alla fine. Non si fa complice del male, non sceglie la via della violenza, ma apre una via nuova: fa di quella morte il luogo di una testimonianza della possibilità di amare anche lì, fino alla fine.

Un desiderio forte prevale al cuore della sua vita: è il desiderio che il fuoco della sua missione possa rimanere acceso e accendere altri. Fuoco è immagine biblica che rinvia alla parola dei profeti (cfr. Ger 5,14 ad es.), alla fine dei tempi ed al giudizio (Is 66,15; Lc 3,). E’ anche riferimento al dono dello Spirito: Luca presenta infatti nel quadro della Pentecoste (At 2,3) le fiamme di fuoco che si dividono e si poggiano sul capo di ciascuno degli apostoli quale segno del dono dello Spirito. L’immersione nella passione porterà ad un dono che è dono del respiro di Gesù, lo spirito che animava la sua esistenza, lo Spirito che rimane dentro e dà vita a coloro che lo seguono.

Anche nel vangelo di Marco si ritrova questo riferimento alla morte di Gesù come battesimo. Ai due discepoli che gli chiedevano i primi posti Gesù dice: “‘Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui sono battezzato?’ Gli risposero: ‘Lo possiamo’. E Gesù disse: ‘Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo” (Mc 10,38-39).

La passione ha così i tratti di un’immersione nella morte. Ma la violenza e la morte non sono l’ultima parola. Si apre una vita che sconfigge le forze della morte: è il dono dello spirito. E il discepolo è chiamato a seguire il percorso del maestro.

“…corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato” (Eb 12,1-4). Il battesimo che Gesù ha vissuto è immersione nella morte per poter comunicare quel fuoco che non distrugge ma vince ogni male che rende la vita meno umana ed è quindi forza di vita nuova.

“D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre”. Aderire a Gesù, alla sua persona, conduce ad una decisione che non può lasciare indifferenti o neutrali. Il fuoco che Gesù comunica genera scelte di cambiamento, di ripensamento della propria esistenza in rapporto agli altri, di condivisione. La scelta segna la vita di ogni comunità che prende sul serio la proposta di Cristo. Il tempo presente è il tempo della comunità in cui sono già iniziati gli ultimi tempi: ognuno è posto di fronte a scelte decisive sull’orientamento di fondo dell’esistenza. Luca sottolinea la radicalità della scelta nel seguire Gesù.

Seguire Gesù non pone ‘contro’ qualcuno, eppure suscita ostilità o rifiuto da parte di chi non vuole cambiare nulla, intende mantenere situazioni di ingiustizia, è preoccupato solo di difendere privilegi o potere. La scelta di stare con Gesù lasciandosi prendere dal fuoco della sua missione non si compie senza difficoltà e incomprensioni: genera rifiuto e conduce a subire emarginazione. Lo stile che Gesù ha scelto, quello della nonviolenza, deve essere lo stile del discepolo.

Gesù infine chiede di ‘giudicare da voi ciò che è giusto’: è una chiamata a scegliere in rapporto a lui ed è un appello alla responsabilità. E’ una chiamata a prendere posizione e a leggere i segni della presenza di Dio nella storia.

Alessandro Cortesi op

Team Refugees

Fuoco sulla terra

In questi giorni si stanno svolgendo i giochi olimpici a Rio de Janeiro ed un fuoco è al centro della grande manifestazione che raccoglie atleti da tutto il mondo nella partecipazione alle gare. Quel braciere, acceso con la torcia olimpica portata dai tedofori nella lunga corsa, può facilmente sfuggire allo sguardo quale frammento di una gigantesca coreografia delle olimpiadi divenute un ingranaggio della grande macchina del mercato mondiale. Ma nel suo fuoco reca tuttavia con sé antichi e dimenticati riferimenti. E’ rinvio al fuoco sacro di Olimpia che rimanendo acceso durante tutta la durata dei giochi segnava anche un confine alla guerra facendola tacere almeno per un tratto e delimitava un tempo di sospensione dalla violenza.

Quel fuoco recava in sé una nostalgia e una promessa di pace, tutti elementi tragicamente negati dagli eventi che viviamo in questi giorni. Altri fuochi ben diversi sono  sputati da armi che alimentano il conflitto senza tregua in Siria, vengono accesi nella durissima repressione del golpe in Turchia in cui ogni diritto viene calpestato. Ancora fuochi ben diversi sono quelli delle bombe che hanno portato distruzione in ospedali in luoghi di cura di malati e bambini, o nell’assedio di Aleppo dove due milioni di persone sono rinchiuse senza acqua e elettricità, proprio in questi giorni in cui le prime pagine dei giornali sono occupate dai record dei migliori atleti mondiali.

Forse questo fuoco olimpico può illuminare anche aspetti rimasti al buio dell’evento delle Olimpiadi e di situazioni dei nostri giorni che rischiamo di vivere da spettatori distratti: illumina le favelas di Rio in cui le Olimpiadi vengono percepite solamente come eco di un mondo ricco e inavvicinabile, dove lo spettacolo è osservato da lontano mentre la vita di stenti non è per nulla cambiata. Esso illumina la squadra dei rifugiati che è riuscita a partecipare alle Olimpiadi 2016, senza attirare troppa attenzione da parte dei media: di essa fanno parte atleti fuggiti dai loro paesi tra i tanti migranti che hanno cercato rifugio ed hanno continuato a coltivare un sogno, pur essendo ormai senza patria, o meglio avendo scoperto che siamo tutti stranieri in cerca di una patria comune.

Il fuoco di quel braciere può ricordare che nel nostro tempo dovrebbe essere rovesciato il motto olimpico: citius, altius, fortius. Quel fuoco può suggerire ad un mondo che guarda solo ai primi e si lascia attrarre solo dai record o dai fallimenti e delusioni dei campioni, di pensare al senso perduto di un evento ordinario e quotidiano come il gioco nella vita umana indirizzndo lo sgaurdo a chi resta indietro, a chi solo ha partecipato. Nel gioco ciascuna e ciascuno può partecipare, indipendentemente dalle fattezze del proprio corpo, nel riconoscimento della propria provenienza,  e vivere quel sentimento profondamente umano della gioia di gareggiare, di affrontare insieme lo sforzo e la fatica. Nel gioco tutti possono misurarsi nella competizione in cui l’altro non è un nemico ma un volto accomunato nella medesima umanità e passione, tutti possono manifestare l’abilità quale dono di natura e frutto di esercizio, tutti possono vivere la gioia di vincere ma anche assaporare la gioia di perdere scoprendo come proprio nel perdere s’impara l’autentica vittoria non di un momento ma del crescere nel divenire più umani.

Quel fuoco ricorda allora di cambiare prospettiva, non solo in rapporto alle olimpiadi, da scorgere recuperando la luce di quell’antico fuoco liberandolo dal rimanere elemento decorativo e retorico. E’ richiamo ad una conversione in rapporto al modo globale di concepire l’esistenza: non più citius altius fortius più veloce, più in lato, più forte, ma lentius profundius suavius, più lentamente, più in profondità, più dolcemente. Questo potrebbe essere il motto di un mondo che scopre dimensioni inedite e da praticare nella scelta della possibilità dell’impossibile. Lo ricordava Alex Langer anni fa in un suo intervento ripreso nella raccolta di suoi scritti ‘Il viaggiatore leggero’:

“Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico ‘citius, altius, fortius’ – più veloce, più alto, più forte – che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la mobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in ‘lentius, profundius, suavius – più lento, più profondo, più dolce -, e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso(da Intervento ai Colloqui di Dobbiaco 94, in Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio 2011, 210).

Alessandro Cortesi op

 

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