XVI domenica tempo ordinario – anno B – 2018
Ger 23,1-6; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
‘Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’’. Gesù invita, in disparte, i suoi che aveva inviato e li chiama a riposare. Il punto d’arrivo del ‘fare e insegnare’ degli apostoli, sta nel riposo. Gesù li chiama a condividere un momento della sua stessa vita, la ricerca di solitudine nel prendere le distanze dall’essere sommersi da richieste e sollecitazioni: quando le folle lo circondavano, si ritirava tutto solo, in un luogo solitario (cfr. Mc 1,35; 6,46). Sono questi gli attimi in cui Gesù viene ritratto da Marco nella sua preghiera, nel silenzio e nella intimità del suo rapporto con il Padre, l’Abbà.
Gesù vuole introdurre i suoi in questa dimensione della vita come apertura alla gratuità dell’incontro con Dio. Nello stare in disparte, nel silenzio si fa spazio per ritorno alle sorgenti della vita. Non è solamente riposo dopo la fatica, ma luogo di un’esperienza di grazia.
E’ il cuore della preghiera di Gesù: tempo di incontro, fatto non di particolari attività e riti, ma tempo donato, liberato dalle esigenze dell’efficienza, segnato dalla disponibilità a ricevere. Gesù condivide tutto questo con i suoi: l’unica cosa richiesta è l’abbandono fiducioso ad una presenza di vicinanza e compassione . Il ‘luogo solitario’ è il deserto, luogo della prova e dell’essenzialità dove vivere l’incontro con Dio nell’amore non da servi, ma da amici.
“(Gesù) vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise ad insegnare molte cose”. Marco scorge nella compassione, lo ‘stringersi delle viscere’, verbo della sofferenza al femminile, un tratto fondamentale del volto di Dio e proprio dello stile di vita d Gesù. Gesù si lascia prendere dalla vita degli altri, dalle sofferenze. E’ l’attitudine del pastore che conosce e ha cura di ogni pecora: l’autentico pastore di un gregge disperso e senza guida è JHWH. E Gesù guarda le folle che lo cercano come gregge disperso, che cerca cura. Dio stesso è pastore che raduna: “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli: saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare” (Ger 23,3-4). In tale contesto i profeti annunciavano un ‘germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra’ (Ger 23,5).
Gesù risponde alla preghiera rivolta da Mosè a Dio: “Il Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (cfr. Num 27,16-17). La sua vita è un grande raduno e convocazione di chi segnato dalla fatica e sotto il peso dell’oppressione, è disorientato e senza orizzonte. In lui e con lui si può trovare riposo. Gesù manifesta l’affetto di tenerezza del Dio della benevolenza e della compassione.
Alessandro Cortesi op
Compassione
Motivo di meditazione in questo tempo di buio e di dolore per la sofferenza di tanti che non trova compassione e attenzione è il testo del discorso alla città pronunciato domenica sera dall’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice in occasione della festa di Santa Rosalia (consultabile al sito della diocesi di Palermo), un testo coraggioso e lucido che chiama per nome le cause di situazioni che oggi viviamo e indica percorsi da attuare. Un testo che richiama a tanti nomi, Pino Puglisi, Piersanti Mattarella, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Emmanuel Levinas, Francesco d’Assisi, Benedetto… e richiama ad uno stile di umanità, quello della fraternità, sempre da costruire, sempre da ricercare, e ad uno sguardo radicato nel vangelo e che si fa condivisione di tutto ciò che è speranza e attesa umana, a partire da chi non ha voce. E dove è indicata una direzione chiara anche per la chiesa, la cui unica ragione è stare accanto al suo Signore dove è lui, accanto ai derelitti della storia: “Noi, qui da Palermo, stasera, alziamo la nostra voce. Noi che sappiamo che cosa vuol dire essere migranti. Noi che abbiamo visto i nostri padri e i nostri nonni costretti a lasciare la loro casa, rifiutati, umiliati, buttati fuori da case e locali perché siciliani, perché italiani. Noi sappiamo e non taciamo. Cosa abbiamo fatto e cosa faremmo al posto di queste donne, di questi uomini, di questi bambini, in fuga dal nulla e dalla morte? Se fossero i nostri figli, i nostri parenti ad essere in pericolo di vita, senza cibo e assistenza, se fossero torturati e stuprati, che cosa faremmo? Una nuova epocale trasmigrazione dei popoli sta accadendo davanti ai nostri occhi, e abbiamo bisogno di chiarezza e di umiltà per capire quale società vogliamo costruire, quale risposta intendiamo dare ai segni dei tempi”. (ac)
Care Palermitane, Cari Palermitani,
è la sera della nostra festa, della festa di Palermo – la nostra Palermo – e il mio primo pensiero è quello di salutarvi con affetto: da padre, da fratello, da cittadino di questa Città, con voi e come voi. Benvenuti in questa piazza!
Vengo qui a parlarvi da padre e da pastore, ma sento profondamente di essere sulla vostra stessa barca, toccato dai tanti dolori della nostra terra, in cerca come voi di speranza e di verità. Da questo punto di vista, il Festino deve rappresentare per noi un momento di gioia, di condivisione, ma non di evasione e di estraneazione dalla realtà. Non è tempo di dormire, ma di stare svegli! È tempo di guardare con gli occhi ben aperti a quelli che Papa Giovanni XXIII chiamava “i segni dei tempi”. Che cosa sono i segni dei tempi? Sono gli eventi della storia concreta delle donne e degli uomini d’oggi che ci parlano, ci chiamano ad un cambiamento, interpellano la Parola di Dio che delle nostre esistenze custodisce il senso e la speranza. Vorrei stasera comunicare a tutti voi l’appello che riguarda noi, credenti della Chiesa di Palermo, e – perché no? – tutti voi, convenuti qui, donne e uomini di buona volontà uniti in una ideale assemblea della nostra Città, nell’affetto antico e sempre nuovo per Rosalia.
Ecco, c’è un’immagine tipica della festa della nostra Santa che stasera mi pare illuminante. È l’immagine della nave, del vascello che portiamo per le strade di Palermo e che ci ricorda la salvezza dal flagello della peste grazie ad un volto, apparso ad una donna semplice, in un momento terribile della vita della nostra Città. Sentiamoci stasera tutti ‘imbarcati’ su questa nave di Rosalia e alziamo lo sguardo verso coloro che possono rappresentare un punto di riferimento, offrirci una guida nella tempesta epocale del nostro tempo. Sono testimoni del passato che hanno ancora parole buone per il presente. Il vascello è uno solo, ma ha tre forme che vorrei mettere in luce separatamente, con voi, stasera.
1. La prima nave a cui penso, la prima forma del vascello è quella della nostra Città: è la nave di Palermo. Care Amiche, Cari Amici: quanto si avverte la fatica della navigazione su questo nostro veliero! Il mare è perennemente agitato, e ci sentiamo come i discepoli sulla barca sorpresa dal turbine durante la traversata verso l’altra riva, mentre Gesù se ne sta tranquillamente in un cantuccio, a dormire (cfr. Mc 4, 35-41). È proprio così. Abbiamo paura. Siamo angosciati. E Dio dorme, Dio sembra assente, lontano. E anche se lo sfidiamo, come fece Pietro sulla barca agitata dalle onde, vedendo Gesù camminare sull’acqua (“Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”, Mt 14, 27), poi ci sentiamo affondare in mezzo ai marosi, e la paura prevale (“ma per la violenza del vento si impaurì e, cominciando ad affondare, gridò”, Mt 14, 30). Vedete: il Vangelo non nega la paura. Non è un libro per superuomini. È bellissimo come i racconti che riguardano Gesù di Nazareth tengano sempre conto della nostra fragilità. In un biglietto, l’altra sera in cattedrale durante la veglia dei giovani, sulle orme della giovane Santa Palermitana, – celebrata con gioiosa determinazione, nonostante l’irruzione di ‘iene’ arroganti e mistificanti – uno di loro ha scritto: “Ho paura della paura”. Non è della paura che dobbiamo avere paura.
Non sono la paura e l’angoscia che dobbiamo negare, facendo finta che non ci siano. È vero, siamo impauriti qui, in questa nostra patria meravigliosa, perché il lavoro manca, drammaticamente e, a volte, tragicamente; perché i nostri giovani perdono la speranza e si sentono costretti a partire, privandoci della loro presenza, della loro giovinezza forte e creativa; perché nelle nostre periferie cresce il disagio, aumentano i poveri. Ma è così difficile dare voce alle periferie… Il giogo della mafia e di tutte le mafie – penso alla malavita, alla mentalità mafiosa – stringe il nostro territorio, penetra nelle nostre case, inquina la vita sociale, si incunea nella politica, persino in alcuni ambienti ecclesiali, con una tracotanza che ci lascia attoniti. È vero, abbiamo paura, ma dobbiamo dircelo insieme, perché le paure non vissute assieme provocano frammentazione e aggressività.
Cari Cittadini, Care sorelle, Cari fratelli di Palermo, guardiamo in faccia la paura, poiché il vero grande pericolo non è la paura, ma è la rabbia, è la rassegnazione, è l’evasione. Se infatti assumiamo da adulti le nostre paure, potremo assieme costruire qualcosa, anzitutto riconoscendo chi punta a cavalcarla questa paura, ad approfittarne per il suo misero successo personale. E sono tanti! Pronti a fare dei reali bisogni della nostra terra un uso interessato, ideologico, al fine di creare il nemico da combattere, al fine di condurre battaglie inesistenti per ergersi a capi e a paladini. Cari Amici, non lasciamo in mano a nessuno il nostro destino, non lasciamoci manipolare, prendiamo in mano la nostra vita, la vita e il futuro della nostra Città! Chiunque ha a cuore tutto questo non cerchi risposte semplici, salvatori di comodo, cesari di passaggio. Da questo vascello guardiamo ai nostri testimoni, ai nostri martiri, che possono davvero indicarci le strade per soluzioni creative e partecipate.
Lo sappiamo tutti: è il 25esimo anniversario della morte di don Pino Puglisi. Il suo messaggio deve risuonare a Palermo. Don Pino diceva che “è tempo di rimboccarsi le maniche”, di passare “dalle parole ai fatti”, di fare una proposta diversa rispetto alla “cultura dell’illegalità” promossa dai mafiosi, di adottare un nuovo “stile di vita”. E Libero Grassi, morto come lui per mano della mafia, da testimone umile e forte della verità, ricordava che non è la quantità del consenso elettorale che fa la democrazia: non si è uomini della polis, uomini ‘politici’ forti solo se si prendono tanti voti alle elezioni. Ciò che conta – diceva Grassi – è la qualità del consenso: ovvero la sua libertà, la sua convinzione, il suo essere frutto di una scelta e di un pensiero. Per questo sono morti i martiri palermitani della mafia, per questo è morto Piersanti Mattarella, che stasera vorrei ricordare con affetto e gratitudine.
Mi rivolgo anzitutto alle giovani e ai giovani di questa piazza: ad aiutarvi nella verità non è il politico che vi promette favori, il prete che vi raccomanda, il potente che vi chiede in contraccambio il sacrificio della vostra libertà, non è chi vi dice che risolverà in modo semplicistico e sommario i vostri problemi! Ad aiutarvi è chiunque vi ricordi la bellezza di essere giovani, chiunque abbia rispetto e fiducia in voi, chiunque sia disposto a fare un passo indietro per cedervi strada, chiunque rinnovi in voi la forza dello stare assieme, la speranza di trovare vie nuove, la gioia di vivere passioni non tristi ma vibranti perché fatte di partecipazione e di dono. A darvi una mano sono coloro che vi dicono che un mondo diverso è possibile e che la forbice tra chi ha e chi non ha può essere annullata da un pensiero di autentica condivisione.
Care Palermitane, Cari Palermitani, alziamoci in piedi! Non restiamo curvi, perché la nostra terra avrà un futuro se avremo la pazienza, il coraggio, la forza di costruirlo assieme. Questo deve significare ‘Palermo capitale della cultura’. Dobbiamo essere il baluardo della cultura, della nostra grande tradizione, contro l’anti-cultura della mafia che scommette sul fatto che la Sicilia, come temeva e gridava Leonardo Sciascia, sia “irredimibile”. Ma guardando il volto di don Pino (e dei tanti suoi fratelli ideali) facendoci carico della paura e del bisogno, mettendoci assieme, creando nuovi spazi di cura della polis, oltrepassando le secche dell’individualismo e della sfiducia, possiamo arrivare in porto. Coraggio!
2. La seconda nave. Sì, assieme, in porto. È una parola questa che vale anche per il vascello della nostra Italia. Come Palermo, pure l’Italia soffre. Lo dicevamo. La paura e la povertà, se non ascoltate, se non interpretate e raccolte, creano diffidenza, isolamento, disillusione, frattura. Questo dovrebbe essere il compito della politica, della scuola, delle nostre parrocchie: rompere l’isolamento, ascoltare il grido, raccontare il dolore, la fatica di vivere, e darle senso. Oggi a questo compito spesso veniamo meno: viene meno la politica, che usa il disagio e non se ne fa carico; viene meno la Chiesa, quando riduce la fede ad una devozione individuale, che non investe tutta la vita e non si fa fonte di autentica comunità. Un’illusione pericolosa si sta diffondendo: che la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione all’altro siano una soluzione, siano la soluzione. Ma una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine. È questo che vogliamo? In verità, la fortissima globalizzazione, contro le sue stesse intenzioni, ha reso l’umanità una totalità in cui il destino di uno, di un gruppo, di un popolo, condiziona la vita e il destino di tutti. Come in una famiglia. E chi di noi, chi di voi vorrebbe star bene dentro la sua famiglia al prezzo del disagio degli altri suoi familiari? Quale madre, quale padre potrebbe sentirsi felice, sereno, se gli altri membri della famiglia soffrono e vivono nell’indigenza! La felicità costruita e mantenuta sull’infelicità degli altri è perversa e menzognera, pronta in breve a rivelarsi tale. Lo sappiamo bene, per esperienza. Emmanuel Levinas in una intervista dichiarava: «L’altro uomo, che innanzitutto, fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto».
Il patrono della nostra Italia, Francesco d’Assisi, a cui vogliamo guardare stasera dal nostro vascello, propugnava e difendeva la fraternitas. Per Francesco, nel Cristo fratello, diventano fratelli sia il lebbroso esiliato fuori dalla città, sia il vicino di casa, il prossimo più prossimo. Per Francesco, cioè, la fraternità significa che siamo tutti figli, tutti sullo stesso piano, responsabili gli uni degli altri, legati reciprocamente con un vincolo inscindibile. Quello che ci raduna in nome di un Padre e ci raccoglie alla fine tra le braccia di una terra madre. La paternità di Dio per Francesco infatti era il principio di una nuova nascita: non la nascita di un popolo di figli omologati, ma di un popolo di diversi, di donne e di uomini che si riconoscono diversi e per questo si rispettano, per questo si accolgono, per questo imparano anche a dissentire, a discutere, sapendo che la relazione è l’unica strada. Fratelli diversi, ma fratelli. E quanto questa parola bellissima – fratello! – appare settaria se non indica una apertura totale a tutti, al più vicino e al più lontano! Ripartiamo da qui, dalla parola e dall’esempio del Patrono d’Italia Francesco d’Assisi. Non per nulla l’attuale vescovo di Roma, il Santo Padre Francesco, ha scelto questo nome come programma del suo pontificato. E a lui stasera va il nostro pensiero grato e affettuoso per la visita a cui vogliamo prepararci con un ‘salto’ di fraternità e di attenzione ai poveri, ai fratelli ‘minori’, a tutti i bambini di Palermo. Sono convinto, d’altronde, che non c’è facinoroso, non c’è politico, non c’è uomo pubblico catturato da slogan e da semplificazioni, che non porti dentro di sé quel tesoro di pace e di bene che Francesco augurava, quel nucleo profondo di umanità che ci rende legittimamente diversi, ma mai nemici. San Francesco – ci ricorda il Santo Padre – è stato un grande missionario di speranza”.
3. La terza nave. È il messaggio che dobbiamo portare anche sulla nave dell’Europa, la nave che tutti ci comprende in virtù di una geniale intuizione dei nostri padri. La logica del ‘prima noi’ mostra in questa Europa tutta la sua fallacia. Rischiamo fratture insanabili proprio perché ogni paese europeo comincia a ritenere che il suo benessere venga prima, senza capire che se la casa comune si distrugge tutti resteremo all’addiaccio, privi di un tetto. È la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti e da politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di costruire regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della democrazia. Di fronte a tutto questo, care sorelle e cari fratelli, la Chiesa non può restare in silenzio, io non posso restare in silenzio. Perché la Chiesa non ha alternative. Essa è stata collocata dal suo Signore accanto ai poveri e ai derelitti della storia, e tutte le volte che è uscita – e quante volte è successo – [è uscita] da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi, ai potenti, ha perso il senso stesso del suo essere.
Da giovane padre costituente, uno dei sognatori dell’Europa e del mondo uniti, Giorgio La Pira, nostro conterraneo, nato a Pozzallo – a cui vi invito a guardare stasera dal vascello dell’Europa – faceva delle “attese della povera gente” il suo faro e la sua guida, contro ogni esaltazione del mercato senza regole, dell’individualismo economico. E questa convinzione, animata in lui da una fede profonda nell’Evangelo, se la portò appresso a Firenze, dove fu il sindaco dei poveri, dei disoccupati, degli ultimi. Oggi La Pira ci inviterebbe a guardare alle tante navi che dirigono la loro prua verso l’Europa come alle navi della speranza. La speranza della povera gente che cerca protezione e vita buona, ma soprattutto la nostra speranza. Perché se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia di vivere, del nostro desiderio di comunione. Purtroppo l’informazione che ci giunge attraverso i mass media è spesso monca e distorta. Voglio essere chiaro con voi, stasera. Tutti dobbiamo sapere che lungo i decenni e soprattutto in questi ultimi trent’anni l’Africa – che è il continente più ricco del mondo – è stata sfruttata dall’Occidente, depredata delle sue materie prime. Ce le siamo portate via, anzi le multinazionali l’hanno fatto per noi, senza pagare un soldo. E abbiamo tenuto in vita governi fantoccio, che non fossero in grado di difendere i diritti della gente. Le potenze occidentali mantengono inoltre in Africa una condizione di guerra perenne che rende più facile lo sfruttamento e consente un fiorente commercio di armi.
Care Amiche, Cari Amici, siamo noi i predoni dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori, padri e madri senza figli. Un esodo epocale si abbatte sull’Europa, che ha deciso di non rilasciare più permessi per entrare regolarmente nel nostro continente. E allora questo esercito di poveri, che non può arrivare da noi in aereo, in nave, in treno, prova ad arrivarci sui barconi dei trafficanti di uomini, dopo due anni di viaggio allucinante nel deserto e di detenzione in Libia.
Cari Cittadini, devo gridare stasera questa verità: quelli che vengono chiamati centri di smistamento, di detenzione, quei centri che i nostri governi sollecitano e finanziano per ‘bloccare’ il flusso migratorio, spesso richiamano i campi di concentramento. E se settant’anni fa si poté invocare una mancanza di informazione, oggi no. Non lo possiamo fare, perché ci sono le prove, nella carne martoriata di questa gente, nei filmati, nei reportage di giornalisti coraggiosi (mentre giornali e telegiornali di altra fatta parlano dei migranti sulle navi come di un ‘carico’ alla maniera delle merci e delle banane!). Noi sappiamo, e siamo responsabili. E dobbiamo levarci! Giorgio La Pira era un uomo del Sud e non si scordò mai di esserlo. Noi, qui da Palermo, stasera, alziamo la nostra voce. Noi che sappiamo che cosa vuol dire essere migranti. Noi che abbiamo visto i nostri padri e i nostri nonni costretti a lasciare la loro casa, rifiutati, umiliati, buttati fuori da case e locali perché siciliani, perché italiani. Noi sappiamo e non taciamo. Cosa abbiamo fatto e cosa faremmo al posto di queste donne, di questi uomini, di questi bambini, in fuga dal nulla e dalla morte? Se fossero i nostri figli, i nostri parenti ad essere in pericolo di vita, senza cibo e assistenza, se fossero torturati e stuprati, che cosa faremmo? Una nuova epocale trasmigrazione dei popoli sta accadendo davanti ai nostri occhi, e abbiamo bisogno di chiarezza e di umiltà per capire quale società vogliamo costruire, quale risposta intendiamo dare ai segni dei tempi.
L’Europa è la civiltà della contaminazione. Geograficamente non esiste. Il Mediterraneo è la sua culla. La Pira lo sapeva e a rendere il Mediterraneo un lago di pace dedicò gran parte della sua opera lucidissima e visionaria. Perché credeva che il Vangelo non è un’utopia, ma una regola, una forma di vita. Paolo VI, ormai santo, diceva che l’Eucaristia contiene la forma vitae dei popoli. La stessa cosa di cui era convinto Benedetto da Norcia, patrono d’Europa: “Benedetto da Norcia – dichiara Benedetto XVI – con la sua vita e le sue opere ha esercitato un impulso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea”. Il Vangelo rivela il suo DNA se diventa forma vitae, se diventa una carta dei diritti che garantisce la difesa degli ultimi. Ed è questo messaggio che stasera vogliamo lanciare dal vascello di Palermo verso le navi d’Italia e di Europa. Non è questione di accoglienza, non si tratta di essere buoni, ma di essere giusti. Non di fare opere buone, ma di rispettare e, se necessario, ripensare il diritto dei popoli. È in nome del Vangelo che ogni uomo e ogni donna hanno diritto alla vita e alla felicità, perché “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero in Cristo Gesù” (Gal 3,28), perché il nostro Signore, morendo sulla croce, ha abbattuto – dice ancora Paolo – ogni muro di separazione tra gli uomini. È questa la forma di vita in cui il Vangelo deve incarnarsi per non perdere la sua concretezza storica, quella che gli viene da Gesù di Nazareth, figlio di Maria, custodito da Giuseppe. Gesù di Nazareth nostro fratello che è venuto ad annunciarci che Dio è Padre suo e Padre nostro e che ci ha donato il Suo Spirito, il vero amore che unisce ogni diversità’. Lo Spirito, infatti, tutti unisce perché comprende ogni linguaggio.
È questa la ‘forma’ del Vangelo che deve diventare sostanza viva, e che proprio in Italia lo è diventata, settant’anni fa, nei principi fondamentali della nostra Costituzione. Forse vi ricorderete che due anni e mezzo fa, rivolgendomi a voi per la prima volta, ritenni di dover citare il terzo articolo della nostra Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Cari Amici, care Amiche, quel che i padri avevano intuito, oggi deve diventare il nostro manifesto, la nostra carta fondativa di cittadini e di cristiani. Giuseppe Dossetti, il 21 novembre 1946, propose all’Assemblea Costituente di scrivere così nella Costituzione della Repubblica: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».
Riprendendo la sua ispirazione, leviamo stasera la nostra voce perché si scriva finalmente l’articolo 3 della Costituzione Europea, l’articolo del diritto di ogni uomo ad essere uguale, ad essere membro della città degli uomini, ad essere libero di vivere e di stare nel mondo, con dignità e fierezza. Scriviamolo questo articolo noi, sin d’ora, nelle nostre vite e nei nostri atti quotidiani, e chiediamo che al posto della miopia dei piccoli diritti esclusivi, riservati a pochi, che preparano un futuro di dolore e di guerra, si scriva il grande diritto della pace e del bene per tutti, l’unico diritto che ha la forma del Vangelo.“Il tema che si è voluto dare al Festino di quest’anno ‘Palermo bambina’ ci indirizza perché possiamo guardare la città degli uomini a partire dai più piccoli, cioè dai bambini”. Ed è questa la scommessa di una nuova civiltà: una civiltà dove nessun bambino venga educato a vedere nel diverso un nemico, una civiltà dove i governanti abbiano la passione per gli ultimi e per il rispetto della vita, di ogni vita, una civiltà dove ogni uomo impari, al termine della sua giornata, della sua esistenza, ad ascoltare la voce che viene da lontano, la voce del cuore, che grida: Adam, tu, uomo, dimmi dov’è tuo fratello!
Maria Santissima, la madre di Gesù, costretta a fuggire in Egitto a causa del despota Erode, la prima madre profuga col primo bambino profugo dell’era cristiana, con S. Rosalia ci precedano verso una ritrovata rotta di solidarietà e di pace. Viba Palermo e Santa Rosalia!
Arcivescovo metropolita di Palermo
XVII domenica tempo ordinario – anno B – 2018
2Re 4,42-44; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15
Il segno del pane è al centro della prima lettura: è narrata una distribuzione dei pani, per opera del profeta: Eliseo invita un uomo che si è recato a lui riconoscendolo profeta con primizie a distribuire i pani alla gente. “Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore. Ne mangeranno e ne avanzerà anche.’ Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore”.
I venti pani d’orzo e farro, cibo dei poveri, sono distribuiti ad un gran numero di persone e per tutti ce n’è abbastanza: non solo tutti ne mangiarono ma anche ne avanzarono. E questo compie la parola del Signore. Con pochi pani il profeta sfama tanta gente.
Gesù ebbe compassione delle folle ‘perché erano come pecore senza pastore’, Marco testimonia lo sguardo di Gesù e subito dopo racconta l’episodio della moltiplicazione dei pani. Il segno del pane sta al centro della sezione che da qui ha inizio (Mc 6,6-8,26). E’ la memoria di un pasto che Gesù visse con i suoi, aperto ad altri, che diviene racconto di miracolo: si rievoca così il gesto dell’ultima cena e il miracolo del pane di Elia.
La liturgia per cinque domeniche fa sostare sul segno dei pani e sospende la lettura di Marco per seguire il capitolo 6 del IV vangelo che riprende il segno del pane fa seguire il lungo discorso di Gesù sul ‘pane di vita’.
Davanti a tante persone che attendono di mangiare Filippo osserva che il denaro non può bastare, nemmeno per procurare solamente un pezzetto di pane a testa. Anche Andrea l’altro discepolo nota quanto pochi siano i pani e i pesci a fronte di tante persone. I cinque pani d’orzo e due pesci sono presi e distribuiti da Gesù e ce n’è per tutti.
Il IV vangelo conduce così a ricordare il gesto di Eliseo e fa riferimento anche alla manna e alle quaglie nel deserto (Es 16; Num 11). L’attesa giudaica guardava a Mosè che venendo avrebbe rinnovato il miracolo della manna. L’episodio dei pani avviene nel vangelo di Giovanni in un luogo distante deserto e in riferimento alla Pasqua vicina. Le persone sfamate sono moltissime: cinquemila. Gesù stesso distribuisce il pane e alla fine chiese di raccogliere gli avanzi perché nulla vada perduto.
La manna deperiva se era raccolta in quantità superiore al bisogno. I pani invece sono abbondanti e ne avanzano. I dodici canestri in cui i pani sono raccolti diventano simbolo del popolo d’Israele che si allarga a comprendere l’intera umanità. Il IV vangelo accentua inoltre alcuni riferimenti all’eucaristia: Giovanni non riporta infatti le parole di Gesù nell’ultima cena, ma qui al capitolo 6 offre una catechesi sull’Eucaristia. In particolare con la sottolineatura del verbo ‘rendere grazie’ che esprime il gesto di Gesù “Allora Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie (eucharistesas), li distribuì a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero”.
Giovanni vede in questo uno dei ‘segni’, che determinano la prima parte del suo vangelo: tuttavia le folle non comprendono. Ne sorge un equivoco. Riconoscono in Gesù un profeta e vogliono prenderlo per farlo re ma Gesù prende le distanze da tale ricerca: “Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò sulla montagna tutto solo”.
Gesù fugge coloro che lo seguono solo per essere saziati: non corrisponde alla ricerca di un messia che asseconda i bisogni ed offre soluzioni ai problemi immediati. Il segno dei pani per Gesù invece è indicazione di un modo diverso di intendere il rapporto con Dio e chiede un coinvolgimento della vita: Gesù stesso distribuisce i pani.
Si sta così attuando una rivelazione della sua persona e della sua identità, espressa nei termini del pane della vita (Gv 6,35): “Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. E’ lui colui che invita al convivio annunciato dai gesti di Elia e di Eliseo, banchetto della fine dei tempi aperto a tutti, e sollecita tutti ad aprirsi ad un nuovo modo di intendere l’esistenza. C’è un riferimento nel racconto alla vicinanza della Pasqua: un rapido accenno ma significativo. Esso indica che l’intera vita di Gesù sta nel segno della Pasqua.
Il segno del pane raccoglie in sé tutta la vita di Gesù, e spinge ad intendere la nostra vita come pane da spezzare. Condividere il pane, distribuire il pane riceviamo come dono della presenza di Gesù. La sua vita pane spezzato è riferimento per porre i passi della nostra vita sul suo cammino. Nella condivisione si può vivere l’esperienza dell’incontro con Gesù vivente.
Alessandro Cortesi op
Condividere il canto
Questa storia è riportata sulla pagina facebook dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati UNHCR ed è intitolata ‘viaggio di un quaderno’.
“L’ho pagato 5 dinari libici, me lo hanno dato assieme ad una biro. Avevo con me una memory card, comprata in un negozio di musica in Etiopia: l’idea era trasferire i salmi sul quaderno. Ma non avevo il cellulare e quindi ne ho trascritti pochi alla volta, quando incontravo qualcuno con il cellulare, a cui chiedevo di inserire la card per copiare un salmo, o alcune frasi. Sono stata nove mesi nelle prigioni dei trafficanti in Libia. Mi spostavano di continuo. In alcuni posti ci facevano cantare anche se piano, in altri invece ogni cosa era proibita. Le melodie le ho imparate dagli altri, le cantavamo insieme nei momenti in cui volevamo farci forza a vicenda. Alcuni mi chiedevano il libro dei canti per pregare da soli, poi me lo restituivano. Prima di imbarcarci, l’ho coperto con della plastica e me lo sono nascosto dietro la schiena, per non farmelo sequestrare. Ma in mare non ho cantato fino a quando non ho visto la nave dei soccorsi avvicinarsi: prima di allora ero impietrita dalla paura e non solo non cantavo, ma non riuscivo neanche a guardare l’acqua del mare”.
E’ la testimonianza di una ragazza di 16 anni, fuggita dall’Eritrea da sola, quando ne aveva 13. Il suo viaggio è stato segnato dal canto di salmi ricopiati in un canzoniere per trattenere quelle parole che sono risuonate e condivise negli spostamenti e nel buio dei luoghi di detenzione in Libia. La storia dell’esodo, cammino di liberazione, è vicina.
E’ storia che continua e come il canto di Maria dopo l’attraversamento del mare (Es 15) anche il canto di I. sulla riva di Pozzallo con lo sguardo rivolto finalmente alle acque del Mediterraneo è ancora memoria di attese di liberazione, di un doloroso passaggio, di lode nonostante tutto. Ed è anche denuncia di ogni ingiustizia, delle chiusure egoistiche e della disumanità di chi non sa ascoltare il canto di melodie lontane e la parola di Dio che si rende vicina nella diversità di armonie di lingue altre.
Condividere il libro che raccoglieva i salmi trattenuti come teosro prezioso, appiglio prezioso per continuare a resistere, è stato motivo di vita per continuare il cammino, anche nel buio della disperazione. Segno di condivisione di quel poco che nutre e fa andare avanti, e fa respirare la vita di un cibo che non perisce. Condividere quel poco (cinque pani due pesci… un canzoniere per cantare i salmi) che appare inutile e insufficiente per sfamare è gesto possibile nelle mani aperte dei poveri.
Alessandro Cortesi op