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Per riflettere sul presente

Un decreto disumano

Qui sotto si può scaricare un documento elaborato da Terra Aperta di Pistoia, Rete di associazioni, cooperative sindacati e altre entità che operano nell’ambito dell’accoglienza. E’ una presa di parola sul cosiddetto ‘decreto Cutro’ approvato dalla Camera il 4 maggio us. Riguardo alla tragica vicenda del naufragio è stata aperta una inchiesta che ha visto i primi indagati per il mancato soccorso al barcone naufragato nei pressi delle coste calabresi a fine febbraio.

Un decreto disumano

II domenica tempo di Quaresima – anno A – 2023

Gen 12,1-4a; 2Tim 1,8b-10; Mt 17,1-9

Il cammino di Abramo inizia con una chiamata ad uscire, ad andare… Abramo accoglie una voce che è parola di Dio sulla sua vita: lo invita ad abbandonare una situazione conosciuta, le sue sicurezze, per aprirsi ad una novità, per intraprendere un cammino verso un futuro nascosto nelle mani del Dio della promessa: ‘va’, lascia…’. E’ cammino verso una terra da cercare, ma è anche cammino verso se stesso: ‘Esci, vai verso te stesso…’

La parola di Dio spinge Abramo ad uscire: è un cammino che lo coinvolge nella solitudine ma anche lo apre ad un futuro nuovo: la sua vita non sarà da isolato, ma dovrà allargarsi alla relazione con altri, spostando i confini della propria famiglia ad uno sguardo a tutte le famiglie della terra. La promessa lo apre di diventare benedizione per tutte le famiglie della terra: ‘farò di te un grande popolo e ti benedirò… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra’.

Abramo è chiamato a superare lo scandalo dell’attesa e della non evidenza, il dubbio e la prova. E’ fatica non solo di un momento, ma di un lungo viaggio che prende la sua esistenza: è chiamato a ricordare la benedizione e la promessa di Dio nonostante le contraddizioni. Il suo cammino è quello di ogni credente per divenire benedizione per gli altri.

Il racconto della trasfigurazione è passaggio decisivo nel cammino di Gesù. Matteo lo colloca a metà del racconto dopo l’annuncio della passione e l’invito a seguirlo: Gesù sta camminando verso Gerusalemme. La via che con decisione ha preso è quella che lo condurrà ad affrontare l’ostilità e la morte. Ma sul monte il suo volto è quello del risorto: le sue vesti divengono splendenti. Con il linguaggio proprio dell’apocalittica Gesù è presentato con il volto luminoso (Dan 10,6). E’ accompagnato da Mosè ed Elia che dicono il riferimento al cammino d’Israele nel Primo Testamento ma anche l’arrivo degli ultimi tempi perché Elia rapito in cielo era atteso (2Re 2,11). Il monte, lo splendore, la nube, la voce sono tutti elementi che richiamano il cammino del Sinai e la presenza di Dio nella tenda (Es 40,34-38). Tenda e dimora in cui si rende vicina la luce della presenza di Dio è il volto di Gesù che cammina davanti ai suoi discepoli. Pietro si rivolge a Gesù chiamandolo ‘Signore’. E’ il titolo del risorto. Il suo riferimento alle tende rinvia alla festa delle tende o capanne, festa di attesa messianica. Pietro dice i suo desiderio fermarsi: ormai i tempi del messia sono presenti (2Pt1,16-18).

Nel racconto si delinea un messaggio sull’identità di Gesù: sulle acque del lago i discepoli lo avevano riconosciuto come ‘messia’: ‘tu sei veramente il figlio di Dio’ (Mt 14,33), e così Pietro aveva presentato una professione di fede (Mt 16,16). Al momento del battesimo la voce dall’alto aveva indicato la sua identità in rapporto al Padre (Mt 3,17; cfr. Gv 12,27-28).

L’evento di luce sul monte apre i discepoli a scorgere una profondità nascosta dell’esistenza del loro maestro. Il volto sfigurato di colui che affronta la sofferenza e la croce è il medesimo volto del risorto: la sua risurrezione è vittoria del male e della morte ed acquista il suo senso profondo dalla via del dono e del servizio. Gesù incontra fallimento e rifiuto da parte degli uomini che cercano una religione della affermazione, della sicurezza e del potere, ma verrà confermato da Dio nel suo essere il vivente.

Il testo suggerisce anche una risposta alla domanda ‘chi è il discepolo?’: è chiamato a seguire Gesù per la via da lui percorsa. In questa via vi sono momenti di gioia in cui si fa presente il desiderio di fermarsi: ‘è bello per noi stare qui’. Ma il cammino del discepolo deve seguire Gesù. L’ultimo invito è un rinvio alla sua parola: ‘Ascoltatelo’: l’ascolto della Parola di Dio e l’ascolto di Gesù sono via aperta verso l’incontro con il Padre.

Alessandro Cortesi op

Il viaggio di Abramo e i viaggi

Abramo è paradigma della migrazione. Migrazione che è  spostamento da un luogo all’altro, ala ricerca di vita, di futuro, inseguendo speranze. Migrazione è anche movimento interiore, nell’inseguire domande, dello stare in ricerca, nell’affrontare la sfida a cercare il proprio autentico volto. Il percorso dell’esistenza ed ogni cammino di chi cerca è migrazione. Un antico autore Filone leggeva la migrazione di Abramo in modo allegorico come il movimento dell’abbandono di tutto ciò che è terreno per dirigersi verso il celeste e l’incontro con Dio. Ma in profondità il grande messaggio che Filone di Alessandria indica in Abramo è la sfida ad assumere una mentalità da straniero: «L’espressione ‘vattene da queste cose’ non implica una separazione secondo la sostanza – perché, in tal caso, questo sarebbe l’ordine di chi prescrive la morte – ma significa “assumi una mentalità da straniero” e, non lasciandoti catturare da alcuna di siffatte realtà, sta’ al di sopra di esse» (Filone, Migrazione di Abramo 7).

Leggiamo la pagina della chiamata di Abramo di fronte alle drammatiche immagini della strage di migranti sulla spiaggia di Cutro in Calabria. Uomini donne e bambini, cioè famiglie che si erano imbarcati in Turchia per inseguire un desiderio di vita. Fuggivano da terre dove c’è la guerra: l’Afghanistan abbandonato dagli occidentali dopo vent’anni di guerra ed ora in una terribile crisi umanitaria e in mano al regime fondamentalista talebano che discrimina le donne impedendo loro di vivere. L’Iran, dove il regime degli ayatollah condanna  a morte giovani che manifestano per la libertà, e avvelena le studentesse nelle scuole. La Siria segnata da dodici anni di guerra e distruzioni e dal terribile terremoto che ha colpito zone già devastate. Provenivano dal Pakistan segnato dalla violenza e dalla discriminazione religiosa, dalla Somalia terra di guerre e di povertà colpita particolarmente dalle conseguenze del cambiamento climatico.    

Avevano affrontato il mare per giorni e giorni. Cercavano di giungere in Europa sognando un futuro diverso per sé e per i propri figli, magari congiungendosi con parenti da cui erano stati separati. C’erano molti minori e bambini in quella barca: quattordici per ora sono i corpicini che il mare ha restituito.

Il naufragio è avvenuto tra le onde alte e le acque fredde: il barcone fatiscente ad un certo punto si è spezzato per la forza delle onde a cento metri dalla costa. La barca era stata individuata e segnalata sabato sera alle 22, 30 dall’aereo Eagle1 di Frontex, l’agenzia europea di sorveglianza dei confini, ma  non è seguito un intervento di soccorso da parte della Guardia costiera. Le domande che sorgono da questi fatti sono inquietanti. Certamente ciò che si può dire è che le scelte politiche dell’Unione Europea e dei Paesi dell’Europa, e tra di essi l’Italia da tempo stanno andando nella direzione di intendere la solidarietà come difesa dei confini dalla possibilità che giungano persone a richiedere asilo. E’ una solidarietà ribaltata nel suo significato che non riconosce quei diritti affermati solennemente nei Trattati dell’Unione e cerca di tener fuori dai propri confini i profughi fino a sostenere le politiche di respingimento.     

Quanto è avvenuto non è stato quindi un incidente. E’ piuttosto conseguenza delle politiche italiane e dell’Europa, che proseguono da anni. Potevano essere soccorsi in mare ma le politiche del governo italiano hanno anche recentemente posto ulteriori impedimenti alla presenza delle navi di soccorso delle ONG che operano nel Mediterraneo obbligando le navi di salvataggio a raggiungere porti molto distanti dal primo approdo sicuro di sbarco. Le persone presenti in quel barcone erano fuggite da situazioni di violenza: erano rifugiati che avevano diritto all’asilo come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione Europea e dalla Costituzione italiana che all’art. 10 riconosce l’asilo come un diritto fondamentale della persona.

Erano partiti dalla Turchia, divenuto il primo paese al mondo per numero di rifugiati: 3,8 milioni e non per caso: in base ad una dichiarazione di intenti tra capi di Stato e di governo europei la Turchia dal 2016 è stata scelta come paese di confinamento per bloccare i rifugiati fuori dai confini della UE. Per questo ha ricevuto il compenso di 6 miliardi di euro.

I rifugiati in Turchia rimangono così prigionieri: non possono rientrare nei loro Paesi di origine, in Turchia non vi hanno diritto d’asilo, e non possono pensare a ricostruirsi una vita dignitosa per il numero enorme di rifugiati presenti. Non sono previsti canali legali di ingresso in Unione europea né corridoi umanitari. A loro si apre solo la prospettiva di tentare di andare avanti affrontando ogni pericolo per la via che percorre la rotta balcanica, o attraverso il mare.

La scelta di imbarcarsi per le vittime di Cutro era forse dettata dal tentativo di evitare i respingimenti illegali e le violenze lungo la rotta balcanica, alle frontiere dell’Unione e dentro l’Europa, pratica denunciata e narrata nel film “Trieste è bella di notte” dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzoli e Matteo Calore.

La tragedia avvenuta sulle spiagge della Calabria sconvolge per il numero delle vittime, perché famiglie sono state smembrate e anche bambini e neonati hanno trovato la morte nel mare. 

Ma continua la strage nel mar Mediterraneo e lungo le altre frontiere dell’Europa ed è grave che non facciano più notizie i naufragi di barche lasciate senza possibilità di soccorso nel Mediterraneo. Le cause di tali tragedie sono da individuare in scelte politiche a livello italiano ed europeo orientate a bloccare i rifugiati al di fuori dei confini. Così il governo italiano ha stipulato accordi con le autorità della Libia per finanziare la cosiddetta Guardia costiera libica che attua operazioni di respingimento riportando i migranti in campi di concentramento in Libia dove inchieste ufficiali ONU hanno provato la pratica di torture, stupri e sistematica violazione di diritti fondamentali. 

Ignobili e indegne sono le parole del ministro dell’Interno che ha additato le vittime stesse della tragedia di Cutro come colpevoli di voler partire: un uomo delle istituzioni dovrebbe in primo luogo rispettare la Costituzione su cui ha giurato e che riconosce i diritti inviolabili di ogni persona.

Come ha scritto Gianfranco Schiavone: “bisogna innanzitutto tornare a rispettare quel diritto internazionale ed europeo in materia di asilo che è oggi è stato stracciato. Significa dunque cessare le politiche di esternalizzazione delle frontiere in paesi terzi e porre fine ai respingimenti illegali alle frontiere europee, sia marittime che terrestri, poiché nessuno pagherà mai un trafficante se può esercitare realmente il suo diritto a chiedere protezione a una frontiera europea”.

Negli scorsi mesi l’accoglienza prestata ai profughi dall’Ucraina ha dimostrato che in Europa e in Italia è possibile decidere e attuare misure di protezione e di accoglienza in un quadro di programmatico che superi la logica dell’emergenza e coinvolga tutte le amministrazioni e le realtà locali.

La Rete Terra Aperta di Pistoia, rete che unisce insieme molte associazioni impegnate nell’accoglienza sul territorio in vista della tutela dei diritti e dell’inclusione sociale dei migranti, a fronte di questa situazione, in un appello pubblicato oggi ha espresso le seguenti richieste:

“chiediamo:

– che sia promossa dalla Unione Europea una operazione strutturata di ricerca e soccorso in mare per salvare vite umane

– che siano attivati canali umanitari dalle principali aree di crisi

– che siano aperte vie legali di ingresso come visti per lavoro o nuovi criteri che consentano i ricongiungimenti familiari”.

Tali richieste indicano una via alternativa ad una politica disumana e miope a fronte dei drammi di uomini e donne come noi. E’ urgente contrastare la propaganda da tempo in atto nel nostro Paese volta a fomentare a paura nei confronti dei migranti e a dimenticare che chi fugge cerca rifugio da situazioni di violenza, discriminazioni e miseria che sono esito di politiche di sfruttamento e di guerra generate dai Paesi dell’Occidente ricco.

Il vescovo di Palermo Corrado Lorefice ha richiamato che oggi “rischiamo tutti di ammalarci di una forma particolare di Alzheimer, un Alzheimer che fa dimenticare i volti dei bambini, la bellezza delle donne, il vigore degli uomini, la tenerezza saggia degli anziani. Fa dimenticare la fragranza di una mensa condivisa”.  Egli ha anche detto: “non c’è spazio oggi per i qualunquismi: è tempo per tutti noi di rifuggire con chiarezza da ogni narrazione tesa a colpevolizzare l’anello più debole della società. La responsabilità è nostra…”.

Se il viaggio di Abramo è il viaggio originario che ricorda come ogni uomo e donna nella sua vita è in viaggio nella propria esistenza alla ricerca di una terra promessa e desiderata, Abramo ci ricorda anche che nel viaggio siamo chiamati a diventare benedizione per altri, ad accompagnare e  sostenere i viaggi, le fughe e gli spostamenti alla ricerca di pane e dignità, come anche gli itinerari alla ricerca del proprio autentico volto.

Oggi il fenomeno della migrazione forzata che segna la vita di cento milioni di persone nel mondo è un segno di questi tempi. E’ uno spazio che tutti coinvolge in un viaggio alla scoperta della propria condizione di stranieri e pellegrini, in cammino verso una terra dove abitare insieme.

La tragedia di Cutro, con il tragico silenzio delle vittime  e dei sopravvissuti è un evento che richiama ad una conversione da attuare, a sentire la sofferenza degli altri, ad agire per costruire sentieri comuni di incontro, a contrastare il venir meno della pietas e della compassione. Il viaggio di Abramo è provocazione ad un viaggio dentro di noi che si faccia prassi con scelte anche piccole di protezione, sostegno, accoglienza, per lasciare spazio al respiro di un volto umano autentico in questo tempo.

Alessandro Cortesi op

Webinar Giustizia e Pace – domenicani Europa

Al seguente link si può ascoltare l’intervento del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, che in questi giorni è mancato, a Firenze in occasione Consiglio comunale straordinario su “L’eredità di Giorgio La Pira nell’Europa di Oggi”. 19.10.2019.

III domenica di Pasqua – anno B – 2021

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Nei discorsi riportati negli Atti degli Apostoli si possono scorgere gli schemi della prima predicazione su Gesù dopo la Pasqua. Al centro sta la testimonianza della sua morte e della risurrezione. Nel discorso a Gerusalemme Pietro pone in luce il contrasto tra l’agire degli uomini, di rifiuto e rinnegamento nell’uccidere Gesù e l’azione potente del Dio di Abramo e dei padri che non lo ha lasciato nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’. A Lui l’Abbà, Gesù ha affidato tutta la sua vita rivolgendosi consegnandosi nel momento della morte (Lc 23,46). E il Padre lo ha risuscitato dai morti. Con il suo intervento di potenza e di vita il Padre ha portato a compimento – dice Pietro – ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’.  La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento di quel farsi vicino di Dio all’umanità per vie ‘che non sono le vostre vie’. E pone l’esigenza di un cambiamento, di una trasformazione della vita accogliendo il Santo e il Giusto e seguendo le tracce del suo cammino.

Di questo anche parlano i racconti delle apparizioni di Gesù. Queste pagine possono essere lette come tentativo di comunicare quell’indicibile esperienza di incontro in modo nuovo con il crocifisso dopo la sua morte. E sono anche indicazioni su come possiamo incontrarlo nella nostra vita.

Luca presenta un incontro con il Risorto a Gerusalemme, là dove tutto era iniziato e dove ora gli undici insieme ad altri, sono provocati ad aprirsi ad un modo nuovo di incontrare Gesù. La prima preoccupazione sta nell’affermare che il Risorto è il medesimo  Gesù visto sulla croce e che la sua presenza è viva e reale. Gesù è veramente risorto.

Luca intende contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche, presenti probabilmente all’interno della sua comunità di persone provenienti dalla cultura greca, di chi disprezzava la corporeità e pensava la risurrezione solamente come immortalità dell’anima. L’esperienza dell’incontro con il risorto conduce a scoprire che Gesù non è un fantasma.

Nel racconto Gesù invita a toccarlo e guardarlo, ad incontrarlo in una vita che comprende tutte le dimensioni della sua persona. ‘Sono proprio io’. Il risorto è colui che riporta in una condizione nuova anche tutto ciò che attiene alla corporeità dell’esistenza umana. In contrasto con una religiosità tutta centrata nel ‘salvare l’anima’ Gesù propone ai suoi di assumere il movimento che ha segnato tutta la sua vita, di entrare nella logica dell’incarnazione, di far continuare quella forza di trasformazione della realtà che Lui ha testimoniato nei suoi gesti di cura, di tenerezza iniziando una storia diversa segnata dall’amore che rinnova e trasforma.

Chiede di mangiare con i suoi e torna a tavola: richiama i tanti gesti di condivisione e di accoglienza degli esclusi vissuti nel suo cammino terreno nelle tavole delle case attorno alle quali radunava marginali e irregolari. In questo gesto sta il significato della condivisione e del suo stare in mezzo alla sua comunità ora in modo nuovo, che richiede uno sguardo rinnovato, e rinvia ad incontrarlo nella storia e nella vita laddove si attua la condivisione.

Gesù in mezzo ai suoi offre loro anche un’importante indicazione sui luoghi in cui ritrovare la sua presenza di Risorto. Apre infatti loro la mente all’intelligenza delle Scritture: invita a ritornare alle Scritture e scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia: quello è un luogo in cui incontrare il Risorto. Il mangiare insieme e la condivisione concreta del pane della vita è ancora luogo d’incontro.

Ed ancora l’essere radunati dal suo saluto: ‘Pace a voi’. Il dono del risorto e il saluto della pasqua è il saluto della pace. E’ questo l’orizzonte entro il quale poter vivere oggi l’esperienza del Risorto che ci fa suoi testimoni.

Alessandro Cortesi op

Non sono fantasmi

Non sono un fantasma… L’incontro con Gesù risorto rinvia i discepoli a scorgere l’importanza della corporeità. L’incontro con lui passa attraverso i corpi crocifissi di quanti subiscono la violenza e l’ingiustizia come lui.

Il pensiero non può non andare a uomini e donne sottoposti nelle diverse aree del mondo a  situazioni di violazione di diritti umani fondamentali. Non sono fantasmi: chiedono e implorano di essere accolti alla tavola in cui condividere parte dei beni della terra. E’ implorazione di condividere, il pane, in questo tempo della pandemia è richiesta di condividere i vaccini che possono evitare morte e sofferenza.

Non si può tacere di fronte ad una politica  europea e italiana che continua i respingimenti di esseri umani in violazione delle norme fondamentali di rispetto dei diritti e di soccorso. Anche in questi giorni continuano a giungere notizie non solo di naufragi dei gommoni pieni di persone che tentano di raggiungere l’Europa, ma anche di respingimenti attuati contro donne, bambini trattando persone in cerca di rifugio con la violenza e il disprezzo. Tutto questo dovrebbe suscitare l’indignazione e la reazione di tutti e delle comunità cristiane in particolare proprio in questo tempo di pasqua in cui si guarda al mistero della risurrezione del crocifisso,

Anche in questi giorni è stato documentato come avvengono i respingimenti di persone inermi abbandonando alla deriva barche con persone che implorano (cfr Nello Scavo, Grecia, le immagini choc di un altro respingimento in mare, “Avvenire” 14 aprile 2021)

Mentre accade questo in Libia il poliziotto trafficnate di uomini Bija viene non solo scarcerato per mancanza di prove relativamente ed accuse connesse al traffico di esseri umani e di commercio illegale di petrolio, ma anche promosso al grado di maggiore della cosiddetta guardia costiera libica: è accusato dalla Corte dell’Aia di crimini contro i diritti umani in quanto responsabile della gestione di traffici e di violenze e torture nei campi di detenzione dove i migranti sono trattenuti e sottoposti a torture e sevizie nell’area di Zawyah. (cfr. documentazione a cura del giornalista Nello Scavo)

Il Centro Astalli non cessa di ricordare ad ogni evento il dramma di tante persone e l’urgenza di cambiare orientamento di fronte ai migranti: nel comunicato stampa del 20 gennaio 2021 si legge  “Ogni giorno ascoltiamo di torture e violenze nei racconti dei migranti che incontriamo al Centro Astalli. Dalla Libia le persone non hanno altra possibilità che tentare di fuggire: la situazione che descrivono è di un clima generalizzato di violenza e terrore. È evidente che c’è un problema molto serio di gestione delle frontiere da parte degli Stati europei e di un’inerzia intollerabile da parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali. Le isole greche, i Balcani, la frontiera della Spagna e il Mediterraneo centrale, pur essendo contesti giuridicamente diversi, sono sempre più luoghi di morte. Non è possibile continuare a ignorare l’ecatombe che si consuma alle porte di casa nostra”.

E’ sconcertante che in questa situazione si siano ascoltate in sede di incontro ufficiale tra governo italiano e il nuovo governo libico espressioni da parte italiana di “soddisfazione per quello che fa la Libia nei salvataggi” (cfr. F.Mannocchi, Grandi affari in Libia: una torta da 450 miliardi di dollari. E l’Italia prova a giocarsi la partita, “L’Espresso”, 9 aprile 2021)

E tutto ciò mentre il governo italiano appare più preoccupato a favorire il commercio delle armi che vede in questi giorni la consegna all’Egitto della fregata multimissione Fremm, fornitura peraltro mai sottoposta alla verifica della Camera, confermando legami di interesse con un paese in cui sono in atto violazioni a livello generalizzato di diritti umani.

Scelte che favoriscono e assecondano violenza e scelte di commercio degli armamenti si manifestano in totale contrasto al riconoscere che l’umanità di Cristo va riconosciuta nei volti umani delle vittime dell’ingiustizia e dei torturati e dovrebbero suscitare un moto di reazione da parte di ogni credente in Cristo.     

Una valutazione della situazione generale aiuta anche a scorgere come sia urgente cambiare la narrazione riguardante la realtà delle migrazioni e delle richieste di asilo in Italia. Nell’ultimo anno si è registrato un calo delle richieste di asilo (-39%) e un aumento dei dinieghi: “Nel 2020 sono state presentate 26.963 domande d’asilo, in calo del 39% rispetto al 2019. Sul totale delle richieste esaminate dalle Commissioni territoriali per l’asilo (41.753), ben il 76% ha ricevuto un diniego; solo l’11,8% ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e il 10,3% la protezione sussidiaria. Infine, meno del 2% ha avuto la cosiddetta ‘protezione speciale’” (Ilaria Sesana, Migrazioni quei rifugiati senza protezione, “Avvenire”, 15 aprile 2021).

Come sottolineare il prof. Maurizio Ambrosini (Chiari i dati e la realtà socio-economica. Immigrazione uguale crescita, “Avvenire” 10 aprile 2021 ) si dovrebbe radicalmente cambiare il modo di vedere la presenza dei migranti anche in questo momento di generale difficoltà nella realtà italiana. La sua analisi basata sugli studi dell’Istituto Cattaneo curato da Asher Colombo e Gianpiero Dalla Zuanna rileva innanzitutto che “dalla crisi del 2008 i flussi migratori verso l’Italia hanno perso vigore, fino a toccare nel 2020 il livello minimo degli ultimi decenni, con un saldo positivo di appena 80mila unità, nascite comprese (…) negli ultimi trent’anni gli arrivi dall’estero hanno largamente sostituito l’immigrazione interna nelle regioni centro-settentrionali, fornendo un contributo decisivo alla crescita del bacino di lavoratori manuali a disposizione di imprese e famiglie…”.

“La ‘gelata’ dell’immigrazione negli ultimi anni è una conseguenza della stagnazione dell’economia italiana. Lo sviluppo economico invece è associato all’immigrazione: la attrae, la impiega, ne trae beneficio. Già oggi l’immigrazione si concentra nelle regioni più prospere, con più occupazione e più benessere per i nativi. Basti pensare a quello che succede in ambito familiare: per ogni donna adulta di classe media che trova un lavoro stabile fuori casa, vi sono buone probabilità che a casa sua si generi almeno un mezzo posto di lavoro, e che a beneficiarne sia una donna immigrata. Se vogliamo riprendere a crescere, avremo bisogno d’immigrati. Se arriveranno, vorrà dire che avremo ripreso a crescere”.

Sono osservazioni che anche da un punto di vista di analisi della vita sociale dovrebbero far riflettere in vista di un radicale cambio di direzione nelle politiche migratorie, da orientare innanzitutto nel rispetto dei diritti umani ed in una lungimirante visione della vita sociale di un Paese e nel quadro internazionale.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno B – 2020

Santa Sofia Istanbul – mosaico

Is 61,1-2a. 10-11; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

Un profeta del tempo dell’esilio scrive al popolo d’Israele rivolgendosi ai rimpatriati da Babilonia che avevano ripreso la costruzione del tempio di Gerusalemme. I deportati avevano fatto l’esperienza delle privazioni e dell’oppressione, ma dopo il ritorno tuttavia scoprono la fatica della libertà: ben altre costrizioni e schiavitù si presentano ed essi si confrontano con il cammino della fedeltà a Dio sempre da rinnovare. Il profeta porta un annuncio di liberazione a persone con il cuore spezzato, parla di rinnovamento, di germogli nuovi da coltivare, di restauri di antiche rovine e annuncia un tempo nuovo, anno di grazia, tempo della remissione dei debiti: tempo della gioia perché tempo di nuova condivisione.

Il capitolo 1 del IV vangelo riporta all’attesa di un messia. Al tempo di Gesù molte erano le interpretaazioni di questa attesa, con contenuti e modalità diverse. Al Battista chiedono: ‘Sei tu il messia oppure Elia o uno dei profeti?’.

L’attesa di un giorno del Signore e del suo intervento con le caratteristiche di un giudizio nella gloria si  componeva con l’attesa di un profeta più grande di Mosè (Dt 18,18). Giovanni Battista invitava con forza a prepararsi alla venuta del messia e si presenta come voce che grida: ‘Preparate nel deserto una via per il Signore’ “(Is 40,3-5). Nel quarto vangelo egli assume il profilo del testimone di Gesù che richiama a lui: ‘Ebbene io l’ho visto accadere, e posso testimoniare che Gesù è il Figlio di Dio’. (Gv 1,32-34)

Giovanni non attira a sè ma intende tutta la sua vita orientata a preparare la via all’incontro con Cristo: è l’amico dello sposo che prepara l’incontro. La venuta di Gesù come Messia è incontro di comunione tra il Dio dell’amore e l’umanità chiamata a partecipare della sua vita (cfr. 1Gv 1,2-3).

Nella lettera ai Tessalonicesi – scritto da Paolo del 50-51 – Paolo si rivolge ad una comunità segnata dalla persecuzione e dalla difficoltà ricordando di essere sempre lieti e richiama al fondamento della gioia: ‘Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo’. Tutto deve esser vissuto per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. L’invito alla gioia è motivato dalla fiducia nella venuta di Gesù Signore. La fede dei Tessalonicesi è ancora malferma, in crescita. Essi vivono difficoltà tuttavia il loro cammino si nutre dell’attesa di Gesù Cristo che verrà. Paolo ricorda loro che la parola di Dio non è semplice parola umana, ma parola efficace che opera nei credenti: è ‘parola di Dio… veramente tale e agisce in voi che credete!” (1Tess 2,13). Proprio nell’esperienza della prova egli invita a rimanere nella gioia, fondati sulla sua Parola. Sta qui il senso profondo del celebrare questa domenica d’avvento che inizia con l’invito ‘Rallegratevi nel Signore’.

Alessandro Cortesi op

…farà germogliare la giustizia

E’ stato presentato il 3 dicembre on line il Report 2020 Il diritto d’asilo dal titolo: Costretti a fuggire… ancora respinti. Si tratta del quarto report annuale curato dalla Fondazione Migrantes di Caritas Italiana sulla situazione dei richiedenti asilo e rifugiati. Riporta dati e osservazioni sulla situazione del diritto d’asilo a livello mondiale e italiano in particolare e si può scaricare gratuitamente nel sito Vie di fuga. Il Report è strutturato in 12 contributi scritti da diversi autori impegnati sia sul versante della ricerca sia nell’accompagnamento di richiedenti asilo e rifugiati.

I dati dell’UNHCR del luglio 2020 riportano che il numero di sfollati e rifugiati nel mondo ha raggiunto livelli che non si vedevano dal tempo della seconda guerra mondiale: quasi 80 milioni sono nel mondo le persone costrette da varie ragioni a fuggire dalla loro case. Questi motivi spesso sono guerre e situazioni di violenza e conflitto, impossibilità di avere accesso al cibo o all’acqua, violazioni di diritti fondamentali, processi di desertificazione o di land grabbing, disastri ambientali dovuti ai cambiamenti climatici. Tra questi 80 milioni di persone circa 50 milioni sono sfollati interni, cioè persone che hanno lasciato la loro casa ma permanendo all’interno del proprio Paese, spesso in campi profughi.

Il Report offre elementi per comprendere la situazione di questo momento storico. Viene posto in luce come sia aumentata la richiesta di protezione nei paesi del mondo, ma ciononostante l’Unione europea e l’Italia sempre meno rispondono a tale richiesta. Nel 2019 e 2020 si sono resi palesi e tangibili gli effetti delle politiche di chiusura e di rifiuto dei migranti condotte in Italia da vari anni e a livello globale la pandemia scoppiata nei primi mesi del 2020 ha spinto a chiudere ancor più le frontiere e a rendere sempre più difficile la condizione di chi è in fuga lasciando la propria casa.

A livello europeo è stato presentato nel settembre il nuovo progetto della Commissione europea di “Nuovo Patto per la migrazione e l’asilo”. La lettura di quella che per ora rimane ancora una proposta manifesta tuttavia che obiettivo di fondo, al di là di alcune affermazioni generali di principio, non è generare una solidarietà tra Paesi europei nel senso dell’accoglienza delle persone in fuga e di offrire concrete vie di impegno per la rimozione delle cause all’origine delle migrazioni. Obiettivo di fondo appare invece l’attuazione di una collaborazione nel difendere le frontiere del continente evitando per quanto si può ulteriori ingressi e con la paura del ripetersi di situazioni critiche come si è verificato nel 2015. La condizione della pandemia ha dato poi il pretesto per definire ulteriori chiusure e misure difensive.

Tra gennaio e settembre 2020 sono circa 72.000 gli attraversamenti “irregolari” di migranti e rifugiati giunti nell’Unione Europea, con una diminuzione del 21% rispetto allo stesso periodo 2019. Le rotte più frequentate sono quella del Mediterraneo centrale e quella dei Balcani occidentali, ma con una drastica diminuzione rispetto agli anni precedenti in particolare dal 2015 anno dell’“emergenza migranti” europea. Negli ultimi mesi sono aumentati gli arrivi nell’Atlantico nel territorio spagnolo delle Canarie.

Coloro che nel 2019 sono riusciti a chiedere asilo nell’Unione Europea provengono principalmente dalle seguenti regioni: Siria (circa 74.000), Afghanistan (53.000), Venezuela (45.000), Colombia (32.000) e Iraq (27.000). L’ultimo anno ha visto in forte aumento i richiedenti asilo venezuelani e colombiani rispetto al biennio precedente.

Nel 2019 l’UE ha garantito protezione a circa 300.000 persone con riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di quella umanitaria, ma le percentuali di riconoscimento delle varie forme di protezione sul totale dei richiedenti esaminati permangono molto basse. In Italia la percentuale di riconoscimento di protezione è al di sotto della media europea e vede il riconoscimento per appena il 20% sul totale degli esaminati.

Nonostante i messaggi di allarme e finalizzati a generare paura da parte di alcune forze politiche che paventavano nuove ondate di sbarchi e nuove invasioni, nell’anno 2020 gli arrivi in Italia di migranti e rifugiati via mare risultano a livelli minimi rispetto agli anni precedenti: a fine settembre 2020 gli arrivi erano 23.720 (a confronto dei 132.043 nello stesso periodo del 2016 e i 105.417 del 2017). Certamente si è attuata una lieve crescita rispetto al biennio 2018‐2019 segnato dalla politica dei “porti chiusi” e della “guerra alle ONG”. Un altro dato su cui riflettere è che fra l’estate 2019 e l’estate 2020 una rilevante parte degli “sbarchi” in Italia è avvenuta in maniera autonoma e meno di un rifugiato/migrante su cinque è stato soccorso dalle ONG.

La rotta più pericolosa permane quella del Mediterraneo centrale, verso l’Italia e Malta (25.888 gli arrivi da gennaio a settembre 2020). Nel 2019 risultano 8 morti e dispersi ogni 100 rifugiati e migranti che ce l’hanno fatta ad arrivare in Italia e Malta.

Fra gennaio e settembre 2020 circa 9.000 rifugiati e migranti sono stati intercettati e riportati nell’inferno di Libia dalla Guardia costiera “libica”. L’ONU e l’UNHCR hanno ripetuto denunce e appelli perché la Libia non è un porto sicuro. Anche varie ONG hanno denunciato e reso note le condizioni disumane dei lager libici. Le testimonianze e documentazioni su questa situazione di continua e palese violazione di diritti umani sono ormai innumerevoli ed è scandalosa a fronte di questi orrori l’indifferenza da parte europea e internazionale.

Il Report offre un approfondimento in particolare sulla rotta balcanica evidenziando come nell’intera area vi sia “un approccio oltremodo ostile verso i migranti nel complesso e i rifugiati in particolare”. Vengono denunciate autentiche forme di respingimento attuate dai paesi dell’Unione europea e dal confine orientale dell’Italia verso Paesi non UE. Sono respingimenti operati con estrema violenza e facendo ricorso a procedure completamente al di fuori della, legalità. Si attuano così respingimenti cosiddetti a catena: dall’Italia alla Slovenia e Croazia, fino in Bosnia, all’esterno delle frontiere UE, senza consentire ai migranti di fare richiesta di asilo e di avere assistenza legale.  Il 24 luglio 2020 è stata presentata un’interrogazione da Riccardo Magi al ministero dell’Interno, su tali respingimenti. La risposta ha dato conferma di procedimenti di riammissione anche per chi vorrebbe richiedere protezione internazionale. Inoltre le riammissioni sono attuate senza consegnare alcun provvedimento e senza documentazione. Si tratta di una grave situazione di violazione di diritti umani proprio ai confini del nostro Paese.

Nelle conclusioni del Report si legge: «Anche i rifugiati, come abbiamo mostrato in questo volume, lungi dall’essere un “problema” o un “peso economico” si rivelano frequentemente un volano per trasformare le società in una direzione più dinamica capace di futuro. Ma questo può avvenire solo se riconosciamo pienamente la soggettività dei nuovi arrivati e se concepiamo le politiche di accoglienza e integrazione come un “investimento”. Se si fosse adottato questo approccio sin dagli anni Novanta, rinunciando alla deriva emergenzialista che ha caratterizzato queste politiche, già oggi avremmo a livello europeo e italiano una struttura più stabile e ordinaria, rispettosa dei diritti, e allo stesso tempo capace di valorizzare queste presenze, ricevendone partecipazione e supporto, da pieni cittadini»

Alessandro Cortesi op

XVI domenica tempo ordinario – anno A 2020

Seminatore-Millet-Museum-Fine-Arts-BostonJean François Millet, Il seminatore, 1850 – Museum of Fine Arts Boston

Sap 12,13.16-19; Rom 8,26-27; Mt 13,24-43

“Il regno dei cieli è simile ad un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo”. Dopo la parabola del seminatore altre parabole sulla semina: quella del seme e della zizzania che crescono insieme nel campo altre, quella del seme di senapa e infine una breve parabola del lievito.

Le parabole costituiscono un linguaggio proprio di Gesù. Parlano di vicende quotidiane che potevano essere vissute da chiunque lo ascoltava. Ed in esse c’è sempre rinvio ad una realtà nuova, la vicinanza di Dio che cambia la storia prendendo le parti dei poveri e chiamando ad una trasformazione dei rapporti. Dio apre ad un futuro di liberazione e salvezza.

Gesù annuncia che è iniziato un tempo nuovo, in cui Dio interviene per adempiere la promesse dei profeti: ‘Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie’ (Is 53,4; cfr.Mt 8,17). E’ dono di speranza e di incontro per tutti, che non pone confini di appartenenza culturale e religiosa che richiede solamente fiducia in lui (cfr Mt 8,5-17).

Le parabole rivelano una prima attitudine di Gesù nei confronti delle persone: il suo parlare toccava la vita, richiamava all’esperienza umana, invitava ad uno sguardo profondo sulle cose di tutti i giorni, sulle realtà semplici e ordinarie lontane dalla sfera della religione. Con ciò indicava che nell’esperienza di tutti i giorni è racchiuso un tesoro, vi è qualcosa da cercare: è la presenza del Dio vicino, liberatore.

Le parabole sono anche una chiamata: parlano sempre del ‘regno di Dio’: nella quotidianità è già presente il dono di una vita nuova. Le parabole nel loro essere racconti e paragoni richiamano a questa ‘novità’ e ad un impegno da accogliere.

Le tre parabole di questa pagina richiamano alcuni tratti del ‘regno dei cieli’. In primo luogo il regno non si afferma senza fatica e senza lotta; esige pazienza e attesa. Non risponde alle esigenze del magico e dell’immediato; richiede invece uno sguardo che si lasci formare allo stile di Dio. Grano e zizzania crescono insieme: il regno cresce ma ci sono elementi che possono soffocare il grano buono.

C’è chi vorrebbe subito fare chiarezza, mietere con violenza, separare i buoni dai cattivi. La parabola presenta la novità del regno: lo stile di Dio è la fiducia nella crescita, la pazienza dell’attesa, lo sguardo dei tempi lunghi. Il sogno di Dio è che alla fine anche la zizzania possa diventare grano perché il Padre non vuole che nessuno vada perduto.

E’ una parola su Dio. Ed è anche una chiamata ad essere responsabili del proprio ambiente: il regno cresce in mezzo a fatiche e lotte, nella difficoltà, ma la fiducia va riposta nella fecondità del seme buono gettato. Gesù presenta lo stile di Dio, non del freddo giudizio ma della cura appassionata.

Una seconda caratteristica del regno è la sproporzione: la parabola del seme di senapa presenta la differenza tra la piccolezza del seme di senape e la grandezza spropositata dell’albero. Il regno non si impone con mezzi grandiosi, ma è presente in realtà minuscole e che non attirano attenzione: Dio sceglie ciò che è debole, piccolo e disprezzato. A partire da quel seme quasi invisibile cresce un albero molto grande.

Una terza caratteristica del regno è la sua forza che fa crescere dall’interno: l’azione del lievito nella pasta, la fa levare con la sua energia nascosta. Gesù indica l’azione quotidiana dell’impastare. Seguire lui è intendere la propria vita come il lievito, in un movimento al servizio di una realtà più grande: nella pasta della storia e dell’umanità c’è un servizio da compiere per la crescita di una realtà più grande. Nascosto nella pasta il lievito si perde ma fa crescere la vita e offre la sua forza per una crescita di qualcosa di più grande.

Gesù indica anche uno stile: non la separazione, la contrapposizione nella condanna dell’altro, ma la silenziosa azione, la condivisione che fa crescere piano piano, non cercando il proprio interesse ma perdendosi all’interno della realtà. Questo è il modo di agire di Dio, che lascia spazio, condivide e scende. Questo dovrebbe essere lo stile dei discepoli, lievito nella pasta della vita e della storia.

Alessandro Cortesi op

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“Poche ore prima che il Parlamento confermasse, con una sparuta dissidenza, i fondi per la cosiddetta Guardia costiera libica, a cui si chiede di catturare i migranti in mare e riportarli nei campi di prigionia a terra, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni aveva descritto cosa vuol dire gettare degli esseri umani tra i carcerieri finanziati dall’Italia. “Innumerevoli vite perse, altre detenute o trattenute da trafficanti in orrori inimmaginabili”. Proprio così, “orrori inimmaginabili” li ha chiamati Federico Soda, l’italiano a capo della missione dell’Oim a Tripoli: “L’Ue deve agire per porre fine ai ritorni del limbo migratorio della Libia”. Tutto inutile. Gli autori degli “orrori indicibili”, già denunciati dal segretario generale Onu e ribaditi dalla Corte penale dell’Aja, non dovranno spegnere la macchina istituzionale della tortura. Da governi diversi, il voto ha riunito tutti i protagonisti di questi anni, da destra a sinistra, riuscendo nel “miracolo libico” di creare una maggioranza trasversale nelle stesse ore in cui 65 esseri umani rischiano di perdere la vita mentre nessuno interviene: né le motovedette di Tripoli, né Malta e meno che mai l’Italia, ormai autorelegata all’interno delle acque territoriali”.

Così riferisce Nello Scavo su Avvenire (Vivi e morti abbandonati in mare. Partiti uniti contro i migranti, “Avvenire” 16 luglio 2020) denunciando con cognizione di causa, come l’Italia e i paesi europei stiano tradendo i principi affermati solennemente nei Trattati costitutivi e i fondamentali diritti di ogni uomo e donna riconosciuti a livello internazionale. La linea politica è quella di finanziare la cosiddetta Guardia costiera libica formata dai medesimi sfruttatori e trafficanti di esseri umani che tengono i migranti prigionieri, torturati nei campi di detenzione in Libia.

La foto pubblicata sui quotidiani di un cadavere di un uomo in mare, adagiato su di un gommone sgonfio trascinato dalle onde, più volte segnalato nell’arco di due settimane perché fosse recuperato, e lasciato abbandonato è ennesima prova di quello che ormai tutti da tempo sappiamo e che viene documentato dalle ONG, da giornalisti, da organizzazione internazionali. E’ la situazione di una continua, sistematica e atroce violazione di diritti umani dei migranti che trovano in Libia un luogo di schiavitù e di sfruttamento.

Non vi è soccorso dei vivi durante le traversate in mare. Vi è impedimento in tutti i modi alle ONG di essere presenti per soccorrere per testimoniare le atrocità che stanno avvenendo nel Mediterraneo. Tanto meno vi è soccorso dei morti. Con la conferma del Memorandum di accordi con la Libia – che non è stato sottoposto a discussione e ratifica nel Parlamento – il governo italiano ricerca un’ immunità da pesanti responsabilità di tipo giuridico scaricando il lavoro sporco di deportare e tenere imprigionati i migranti alla cosiddetta ‘Guardia costiera’ libica.

Fa indignare la scelta del Parlamento italiano che ha trovato il consenso della maggioranza per approvare il rinnovo dei fondi di sostegno alla Libia con la conoscenza diffusa dei delitti e reati contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati in quel Paese immerso in una guerra civile e in cui dovrebbero essere evacuati tutti i centri di detenzione trasferendo coloro che sono tenuti prigionieri in luoghi sicuri.

Genera desolazione e tristezza la mancanza di volontà da parte di un governo che aveva preso l’impegno di abolire i decreti Salvini e di instaurare nuove linee di politica sulle migrazioni. Appare l’incapacità politica di sollevarsi da un clima avvelenato in cui la questione dei migranti e dell’accoglienza degli stranieri nelle società europee non viene affrontata in prospettiva costruttiva e con un progetto politico ma è lasciata quale tema di campagna elettorale continua facendo ricadere situazioni di atroce ingiustizia sulla pelle dei più deboli.

Al confine nordest dell’Italia altre violazioni sempre contro i migranti sono compiute e non trovano eco nei media. Gianfranco Schiavone dell’ASGI lo ricorda: “È inconcepibile che (i richiedenti asilo, ndr) attraversino tre paesi e che non ci sia la minima traccia di nessun atto amministrativo. Secondo le testimonianze raccolte, le persone riammesse non avrebbero ricevuto alcun provvedimento e ignare di tutto, si sono ritrovate respinte in Slovenia, quindi in Croazia, e infine in Serbia o in Bosnia sebbene fossero interessate a domandare protezione internazionale all’Italia… Siamo nella più assoluta illegalità, ma sembra che il fatto non interessi a nessuno”. (cfr. G.Marcon, Il silenzio sugli innocenti, Huffington Post 13 luglio 2020).

In un accorato Discorso alla città nella festa di santa Rosalia mons. Corrado Lorefice vescovo di Palermo, richiamando il riferimento al mare Mediterraneo in questi terribili giorni, che prolungano anni drammatici e desolanti di disumanità, ha detto:

“E’ lo stesso mare nel quale oggi finiscono le vite e le speranza di tante donne e di tanti uomini dell’Africa e dal Medio Oriente, spinti dalla fame e dalla guerra verso il nostro Occidente e sottoposti per questo ad un esodo disumano: abbandonati nel deserto, catturati e torturati nei campi di concentramento libici, lasciati morire in mare o magari crudelmente respinti. Apro il mio cuore davanti a te stasera, cara Santuzza nostra, perché la pandemia sembra essere diventata un motivo ulteriore di disinteresse, di chiusura e di respingimento. Come se il nostro malessere fosse una scusa buona per chiudere la porta in faccia a quanti, ancora una volta da noi, hanno ricevuto, dopo secoli di soprusi e di rapine, anche il virus che si trova sui barconi. Giorni fa, addirittura, abbiamo avuto l’ardire di rimandare in Libia, nei campi di concentramento, un bambino neonato. E’ stato il colmo dell’abiezione. E stasera davanti a te io devo gridare basta: basta con questo egoismo omicida e suicida! Basta con questa miopia! Se il virus non ci ha insegnato che il destino del mondo è uno solo, che ci salveremo o periremo assieme; se la pandemia ci ha resi ancora più pavidi e calcolatori, facendoci credere di poter salvare il nostro posto al sole, siamo degli illusi, dei poveri disperati. Basta con gli stratagemmi internazionali, con i respingimenti, basta con le leggi omicide. I ‘traditori degli ospiti’, ricordiamocelo, Dante li getta nel fondo dell’inferno (cfr La Divina Commedia. Inferno, Canto XXXIII). Ma l’inferno per questi nostri fratelli è diventata, per causa nostra, questa terra. E’ diventato questo ‘mare salato’ di cui cantava il poeta, salato per le lacrime dei disperati che vi sono affondati senza riparo, senza una mano che li soccorresse, nella distruzione di ogni speranza”.

E’ tempo per coltivare pazienza, con la speranza contro ogni speranza perché possa crescere il seme buono dell’ospitalità e dell’incontro anche oggi su questa terra. E’ anche tempo che richiede coraggio e responsabilità per denunciare ed opporsi al diffondersi della zizzania della xenofobia, dell’egoismo, dell’indifferenza nel campo di questa storia.

Alessandro Cortesi op

S.Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe – anno A

Gesù altalenaSir 3,2-6.12-14; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23

Il capitolo 2 di Matteo presenta in contrapposizione la ricerca dei Magi nell’andare incontro al Messia, e l’ostilità di Erode che uccide i bambini di Betlemme. Al centro vi sono due sogni di Giuseppe in cu riceve indicazione di fuggire in Egitto e poi di ritornare. Alla fine la famiglia giunge a Nazaret. Ai progetti di morte di Erode si contrappone un annuncio di vita e l’indicazione di una via di salvezza.

I vari momenti sono accostati a citazioni di testi profetici legate ai luoghi: l’Egitto, Betlemme-Rama, Nazareth. Matteo intende così suggerire il senso della nascita di Gesù. Gesù compie il cammino che era stato quello di Israele. Si rinvia all’esodo dall’Egitto, e si insiste sul ‘nome’ di Gesù: ‘il figlio’ e il ‘nazareno’. Un chiave di lettura di queste pagine è un versetto del libro di Osea: “dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 2,15).

Erode ha i tratti di un nuovo faraone, rappresentante di un potere politico fautore di progetti di morte. Il cammino di Giuseppe che segue le indicazioni dell’angelo ripropone la vicenda del popolo di Israele perseguitato in Egitto che vive l’uscita dall’oppressione. Proprio nel deserto Israele sperimentò la vicinanza di Dio liberatore: “tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva!” (Es 4,22-24) E’ promessa confermata a Davide: ‘Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio’ (2Sam 7,14). Matteo vede Gesù che ripercorre nella sua vita il cammino della fede di Israele: egli è così il ‘figlio’ che compie la volontà del Padre identificandosi nel popolo di Dio.

Nella scena di persecuzione dei bambini di Betlemme, Matteo rilegge un testo del primo Testamento (Ger 31,15): nella deportazione al tempo della conquista babilonese viene ricordato il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe, nel vedere i suoi figli oppressi e uccisi. “Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più”. Dice il Signore: “Trattieni il tuo pianto, i tuoi occhi dalle lacrime, perché c’è un compenso alle tue fatiche – oracolo del Signore -: essi torneranno dal paese nemico”. La strage voluta da Erode è opera di un potere impaurito e coinvolge ‘tutti’. Gesù, nuovo Mosè, non è accolto nel suo essere profeta e messia.

La narrazione si conclude con una nuova tappa: Giuseppe con Gesù e sua madre rientrano dall’Egitto a Nazareth, in Galilea. Così si specifica che Gesù è nazareno, ‘consacrato’ (come Sansone ‘nazir = consacrato, cfr. Gdc 13,5.7) ed è messia quale ‘germoglio’ dal tronco di Iesse (in ebraico ‘nezer’; cfr. Is 11,1).

Gesù ha i tratti del profeta come Mosè, ed è accostato a Giacobbe, figura singola ed insieme collettiva (Giacobbe porta infatti il nome del popolo, Israele). Giacobbe-Israele scese infatti in Egitto e tornò come popolo numeroso (Gen 46,3). Il cammino della famiglia di Gesù in Egitto ripercorre i passi di Israele-Giacobbe.

Di Giuseppe si ripete ‘prese con sé il bambino e sua madre’: è uomo ‘giusto’, cioè ‘fedele’, disponibile a stare davanti a Dio e a rimanere accanto a Maria. Giuseppe ascolta e ‘prende con sé’. Ascoltare la Parola e farsi carico di coloro che Dio affida: sono i due aspetti della vita della famiglia di Nazareth. Gesù è ‘il figlio’ che rivela il volto del Padre nel suo cammino umano. Nazareth, nell’essere luogo del quotidiano, della vita semplice, delle relazioni umane, è la via scelta da Dio per rivelarsi.

Alessandro Cortesi op

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Dall’Egitto ho chiamato mio figlio…

Secondo i dati dell’anno sono 272 milioni i migranti internazionali. Tra di essi circa 24 milioni sono i rifugiati oltre confine e i richiedenti asilo. Si tratta di un numero rilevante ma da considerare in rapporto alla percentuale della popolazione che è stabile o al massimo si muove all’interno del proprio Paese: si tratta del 96 % della popolazione mondiale. Questi numeri sfatano un mito presente nella propaganda di alcune forze politiche per cui saremo di fronte ad una invasione ed in presenza di numeri esorbitanti.

E’ anche da tener conto che le direttrici dei movimenti migratori sono diverse. La maggior parte conducono verso paesi in via di sviluppo: 2/5 dei migranti si dirige verso paesi poveri. Color che cercano rifugio fuori dal loro Paese per più di 4/5 si dirigono verso paesi poveri. Non è vero quindi che la migrazione è unicamente diretta dal Sud verso i Paesi ricchi del Nord del mondo.

Un altro dato da rilevare è che i movimenti migratori sono molto presenti nel quadro internazionale: le barriere e chiusure esistono in modo selettivo e sono rivolte ai migranti più deboli, coloro che cercano asilo, persone che non possono prestare lavori qualificati.

In Italia negli ultimi tre anni vi è stata una forte diminuzione degli ingressi di migranti a causa degli accordi europei con la Turchia nel 2016 e a seguito di un memorandum stilato tra governo italiano e Libia (benché questo Paese sia in una condizione di guerra civile e siano documentate le continue e terribili violazioni di diritti umani nei centri di detenzione dei migranti di quel paese). Ma ciò non significa che siano diminuite le persone che cercano rifugio. Il numero delle vittime nei viaggi in mare è aumentato anche per l’impedimento all’azione delle ONG che operavano nel Mediterraneo. La situazione di chi rimane bloccato nei campi profughi in Grecia nell’isola di Lesbo ad esempio, in Turchia, o di chi viene riportato in Libia sono disumane. Tale quadro che corrisponde a scelte politiche e ad indifferenza conduce a pensare che non vi sia intenzione di corrispondere ai grandi impegni di protezione dei diritti umani espressi nei Trattati internazionali ed in particolare nell’Europa che ha conosciuto l’orrore delle due guerre mondiali e le sofferenze dei profughi. Piuttosto la preoccupazione sembra orientata a lasciare fuori, a non fare arrivare, a non aiutare… un orientamento di disumanità e di barbarie.

Maurizio Ambrosini studioso del fenomeno e attento osservatore annota: “Governare il fenomeno (delle migrazioni ndr) è una necessità. Nessun Paese può riuscirci da solo. Tre criteri dovrebbero imporsi: concertazione, distinzione, responsabilità. Concertazione significa dare corso ai due Global Compact, su immigrazione e asilo (per l’Italia, anzitutto, significa firmarli), e tradurli in regole condivise. Distinzione vuol dire ragionare su categorie specifiche, non sull’immigrazione in generale: domandarsi per esempio di quante lavoratrici le nostre famiglie avrebbero bisogno, e come accoglierle regolarmente. Responsabilità implica onorare le convenzioni internazionali, sull’asilo come sui minori, ripristinando i diritti umani come uno dei principi-guida delle politiche migratorie: non l’unico, ma nemmeno il minore e il più elastico” (M.Ambrosini, Chi cammina davvero. Migranti: la giornata ONU e i dati reali, “Avvenire” 18 dicembre 2019).

In Italia non ci sono segni da parte di chi ha responsabilità pubblica per impostare un progetto di governo di tale fenomeno con responsabilità, con sguardo realistico e nel rispetto dei diritti umani.

Il 18/12 una nota informale del servizio centrale Siproimi (rete del sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati che sostituisce gli SPRAR a seguito delle legi sicurezza) invoca la cessazione delle misure di accoglienza dei titolari di protezione umanitaria al 31/12/19. Un decreto del Ministero dell’Interno del 19/12 ingiunge l’esclusione a partire dal primo gennaio 2020 dei richiedenti asilo ancora presenti nei progetti Siproimi dai servizi di integrazione.

Normative di questo tipo rendono ancor più precaria la vita di coloro che richiedono asilo e hanno ottenuto permessi di protezione umanitaria. Rende per loro difficile ogni percorso di cura, di studio, di lavoro e integrazione. Li espone ad essere senza appoggi e sostegni nel percorso di integrazione sociale e li mette a rischio di divenire facili prede della malavita. Certamente li spinge in una condizione di esclusione sociale. La logica che guida tali scelte appare come un logica punitiva tesa a rendere loro la vita difficile se non impossibile.

Tali normative contraddicono peraltro le norme del sistema di accoglienza (SPRAR) versione 2018 espresse nelle direttive SPRAR (Manuale Operativo 2018) che indica l’obiettivo di una (ri)conquista dell’autonomia quale elemento comune a ogni tipologia di accoglienza, a prescindere dalle caratteristiche dei beneficiari. E indica altresì che tutti i servizi elencati devono necessariamente essere garantiti sempre, per tutti gli accolti…

In questi mesi si è potuto registrare il fallimento del cosiddetto decreto sicurezza (dlgs 132/18, convertito in legge 113/18) e del “sistema” che ne è derivato: unico effetto eclatante è l’aver prodotto una impressionante crescita della marginalità di persone che non possono accedere a nessuna forma di accoglienza, l’aver causato nuove forme di insicurezza.

La Rete Europasilo che riunisce enti e associazioni impegnati nel settore, ha diramato in questi giorni un appello in cui sono presentate alcune puntuali richieste che appaiono sempre più urgenti nell’attuale contesto:

– il ritiro immediato della circolare del 18.12.19 e del decreto 132/18;

– il ripristino del sistema Sprar, del suo carattere di sistema unico per richiedenti e titolari di protezione, pubblico e nazionale e del suo regime di sussidiarietà tra enti locali e terzo settore;

– il superamento della “volontarietà” nell’accesso degli enti locali al bando;

– il ripristino di un piano di ripartizione nazionale che consenta una programmazione nazionale e una equa distribuzione di responsabilità e risorse.

Papa Francesco, nel Messaggio per la 105 giornata del Migrante e del Rifugiato 2019 ha scritto: “Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessuno. Il mondo odierno è ogni giorno più elitista e crudele con gli esclusi. I Paesi in via di sviluppo continuano ad essere depauperati delle loro migliori risorse naturali e umane a beneficio di pochi mercati privilegiati. Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti. Chi ne fa le spese sono sempre i piccoli, i poveri, i più vulnerabili..”

Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. Si tratta dell’umanità che intendiamo costruire di ciò che vogliamo essere ora e in futuro…

Alessandro Cortesi op

Un libro per pensare e individuare nuove vie di accoglienza in tempi difficili

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E’ appena uscito presso i tipi della casa editrice Nerbini il testo Gli intrecci delle migrazioni. Accoglienza e crisi delle politiche di asilo, a cura di Alessandro Cortesi e Camilla Reggiannini, ed. Nerbini, Firenze 2019, pp. 168.

Il libro è il 33° volume della collana ‘Sul confine’ promossa dal Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’ che ha sede nel convento san Domenico di Pistoia.

Chi fosse interessato può richiederne copia presso: info@bibliotecadeidomenicani.it

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III domenica tempo ordinario – anno C – 2019

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Ne 8,2-10; 1Cor 12,12-31; Lc 1,1-4; 4,14-21

Due libri stanno aperti davanti a noi in questa terza domenica del tempo ordinario: il rotolo della Bibbia che il sacerdote Esdra apre nello spazio del Tempio ricostruito mentre sullo sfondo compare Gerusalemme ricostruita dopo il ritorno dall’esilio (forse attorno al 444 a.C.) e legge davanti a tutto il popolo e il rotolo aperto da Gesù nella sinagoga di Nazaret.

Il rotolo di Esdra viene letto a brani distinti, spiegato ed accolto come parola che tocca i cuori dei presenti. Coinvolge profondamente al punto da suscitare un pianto di pentimento e il desiderio di conversione.

Ma mentre il popolo piangeva ascoltando le parole della legge, Neemia, capo politico del popolo d’Israele tornato dall’esilio, invita a cogliere il senso profondo della parola di Dio, l’invito alla gioia: “Questo giorno è consacrato al Signore, andate, mangiate carni grasse, bevete vini dolci perché la gioia del Signore è la vostra forza”.

Il pentimento dev’essere solo una tappa dello stare davanti alla Parola di Dio. Questa trasforma i cuori e li rende capaci di gioia, aperti ad accogliere la speranza messianica di un banchetto dove non ci sarà più morte, né pianto, né afflizione.

Il secondo libro al centro di questa liturgia è il rotolo di Isaia. Gesù lo apre nella sinagoga, quando di sabato, come ogni pio ebreo adulto è invitato a leggere e commentare la Scrittura. Nel suo paese Nazaret, di fronte ai suoi parenti e a coloro che lo conoscevano, il figlio di Giuseppe e Maria, legge parole che indicano una missione di liberazione e di pace: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Si tratta di un testo del terzo Isaia (61,1-2).

Ma la pagina del profeta è riportata con piccole ma importanti modifiche: nella lettura è tralasciato ogni riferimento al ‘giorno di vendetta del Signore’, e sono riprese invece tutte le espressioni che parlano di vita nuova, di libertà, di salvezza, di gioia, di sconfitta di ogni male e oppressione. Al termine Gesù non commenta il testo ma dice solamente ‘Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi’. La promessa di Dio di liberazione e di giustizia diviene ora presente nell’oggi di Gesù. Si tratta non solo di un ‘oggi’ che indica un tempo cronologico, ma è un ‘oggi’ che indica il tempo di salvezza ormai giunto e vicino.

Nel vangelo di Luca questo ‘oggi’ tornerà in momenti decisivi per chi incontrando Gesù si apre alla vita nuova e alla liberazione che da lui vengono, come Zaccheo a cui Gesù dice: ‘oggi la salvezza è entrata in questa casa’ (Lc 19,9), o come il malfattore appeso alla croce accanto a Gesù che ascolta le parole: ‘oggi sarai con me in paradiso’ (Lc 23,43).

La parola di Dio, le sue promesse di vita di liberazione, di senso nuovo per la vita, di gioia diviene presente nell’agire di Gesù. Tutto ciò genera meraviglia e scandalo: non è lui il figlio di Giuseppe?… Fa difficoltà aprirsi ad un incontro con Dio che si fa vicino nella debolezza di un uomo, che ci raggiunge come ‘figlio di Giuseppe’, così simile a noi e senza caratteristiche eccezionali, senza potenza. Gesù reagisce a questa meraviglia sospettosa e distante, e fa riferimento a due episodi del Primo testamento in cui Dio si è rivelato per mezzo dei suoi profeti non ai vicini, e ai membri del popolo d’Israele, ma ad una donna pagana, una vedova di Sarepta. E’ una donna capace di un gesti di accoglienza e di cura verso il profeta Elia (1Re 17,1) che si presenta come ospite alla sua casa. Così un lebbroso, Naaman, proveniente dalla Siria, cioè un pagano, fu risanato da Eliseo (2Re 5,14) per l’intervento e suggerimento a lui offerto in piena gratuità e contro ogni buonsenso umano da una ragazza di un popolo straniero, prigioniera.

Gesù scardina le pretese di possedere in qualche modo Dio e la sua stessa persona, da parte di coloro che sono i ‘suoi’. Ed afferma la necessità di una conversione della vita. La salvezza, l’incontro con Dio si rende presente nei gesti di gratuità e accoglienza che testimoniano la liberazione di Dio. E’ un appello alla fede che implica non diritti di appartenenza ma apertura del cuore.

La vedova di Sarepta o il lebbroso Naaman, al di fuori delle appartenenze costituite, lontani o pagani, sono testimoni di liberazione, di apertura degli occhi e del cuore. E’ la bella notizia ed è animato dalla forza dello Spirito che soffia dove vuole. E conduce a riscoprire l’unzione dello Spirito che invia al seguito di Gesù ad essere annunciatori di liberazione nel servizio accanto a chi è oppresso.

Alessandro Cortesi op

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Gesti di cura

Cristina Cattaneo è docente di medicina legale all’Università di Milano e dirige il LabAnOf, il laboratorio di antropologia e odontologia forense. La sua attività di medico forense si è indirizzata inizialmente allo studio di resti umani di epoche antiche, ma con il tempo ha visto il suo impegno orientarsi nel contribuire a fare giustizia, nello studio in particolare delle vittime di violenza, nel centro medico specialistico di assistenza per i problemi della violenza alle donne.

Una delle attività più coinvolgenti e drammatiche della sua vicenda professionale è stata la partecipazione all’opera di studio e identificazione dei morti in naufragi di navi migranti nel Mediterraneo, in particolare dei morti nel naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015.

Nel suo libro Naufraghi senza volto. Dare nome alle vittime del Mediterraneo (ed. Raffaello Cortina 2018) ha descritto l’impegno della sua comunità scientifica, composta di professionisti la cui opera è quella di ricostruire e identificare le vittime soprattutto quando avvengono disastri come un incidente aereo, uno tsunami, un deragliamento di treno, cogliendo tuttavia una sorta di distacco e indifferenza di fronte alle tragedie del Mare Mediterraneo che colpivano i migranti:

“… è proprio per questo che rimasi scioccata quando mi accorsi che, per le tragedie dei barconi pieni zeppi di migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, morti e sepolti senza un nome, nessuno della comunità internazionale batteva ciglio. Nessuno della ‘mia’ comunità, quella che sapeva benissimo che cosa significasse lasciare un corpo senza identità e che aveva sgomitato per dare il proprio contributo in occasione di tanti altri disastri, aveva mosso un dito” (27)

Ricorda i segnali di umanità sorti in Italia in un passato che oggi appare lontano e dimenticato: il soccorso dalle spiagge per aiutare naufraghi, le iniziative della Marina militare e della Guardia Costiera, i sistemi di prima accoglienza messi in atto da governo e ONG, le sepolture quasi sempre dignitose. “Ma quando si trattava di dare un nome a questi corpi.. niente”.

Nelle pagine del suo racconto offre una descrizione del suo personale coinvolgimento dal putno di vista professionale e umano, a partire dalla tragedia di Lampedusa che scosse le coscienze. In questo disastro di un ‘imbarcazione che portava migliaia di persone furono recuperati 366 cadaveri. Da lì nacque l’operazione Mare nostrum “e da lì iniziò, seppur molto lentamente, a pensare ai loro morti come ai nostri” (44)

E poi il 18 aprile 2015, un altro naufragio a cento chilometri dalle coste libiche con quasi mille morti. Era il Barcone che conteneva circa mille passeggeri quasi tutti adolescenti e giovani la maggioranza proveniente dall’Africa sub-sahariana. Il più grande disastro di cui si ha conoscenza per numero di morti in questi decenni in cui il mare Mediterraneo è divenuto la tomba di decine di migliaia di uomini e donne che viaggiavano in cerca di un futuro.

Così Cristina Catteno descrive lo squarcio di umanità che in quell’occasione si aprì: “Di solito queste vittime, soprattutto dall’Europa ‘che conta’, non vengono considerate degne di pietas né di essere identificate, né i loro parenti degno di sapere se il proprio figlio è vivo o morto, di entrare in ossesso di certificati di morte, fondamentali per esempio come nel caso di Lampedusa, per il ricongiungimento degli orfani. Per il Barcone, invece, si è momentaneamente aperto uno squarcio di umanità in un periodo nuvoloso per la rabbia e l’ostilità, grazie alla volontà di un paese che, ironicamente, era proprio l’ultimo che poteva permettersi tale gesto…. Nei trent’anni di attività, questo è trai gesti collettivi più nobili che abbia visto e sentito” (99-100).

Un gesto di cura, di pietas umana, un gesto antico che ripete lo squarcio del cuore di chi accompagna alla sepoltura un proprio caro, facendo di questo gesto un momento fondamentale che dà senso all’esistenza nel riconoscimento dell’altro.

La ricerca di identificazione e ricostruzione dei corpi delle vittime di quel naufragio è narrata nelle pagine di questo libro che toccano e accompagnano a percepire come si possa morire di speranza. E’ quella speranza racchiusa nei sacchetti di terra recati con sé e trattenuta in fagottini di cellophane tra gli indumenti di giovani eritrei, è la speranza portata nel leggero bagaglio di una tessera di biblioteca e di una attestazione di donatore di sangue gelosamente custodite nel viaggio, ed è la speranza scolpita nei voti di una pagella scritta in arabo e francese, recuperata dopo aver scucito una tasca da un giubbotto di un adolescente del Mali:

“mentre tastavo la giacca, sentii qualcosa di duro e quadrato. Tagliammo dall’interno per recuperare, senza danneggiarla qualsiasi cosa fosse. Mi ritrovai in mano un piccolo plico di carta composto da diversi strati. Cercai di dispiegarli senza romperli e poi lessi: Bulletin scolaire e, in colonna le parole un po’ sbiadite mathematiques, sciences physiques.. Era una pagella. ‘Una pagella’, qualcuno di noi ripeté a voce alta. Tutti si avvicinarono e ci furono diversi secondi di silenzio durante i quali si sentiva soltanto il lontano chiacchiericcio dei medici legali che operavano nella tenda accanto dettandosi appunti. Pensammo tutti la stessa cosa, ne sono sicura: con quali aspettative questo giovane adolescente del Mali aveva con tanta cura nascosto un documento così prezioso per il suo futuro, che mostrava i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, e che pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea, orami ridotto a poche pagine colorite intrise di acqua marcia?” (134-135).

Ai suoi occhi e nel quotidiano operare delle sue mani nel prendersi cura di corpi irriconoscibili e di cui rimaneva talvolta solamente un brandello è apparso come quell’imbarcazione, diventata la tomba di tanti giovani diveniva una reliquia, un memoriale che avrebbe potuto ricordare cosa non doveva più accadere.

Sappiamo tuttavia che le tragedie sono continuate, sappiamo che innumerevoli barche, gommoni contenenti settanta ottanta cento persone hanno continuato naufragare, sappiamo come contro i migranti provenienti dall’inferno della Libia si sia accanita una politica che ha fatto di loro merce di mercanteggiamento elettorale in questa Italia in cui pure squarci di umanità si sono aperti e si aprono magari nascosti e soffocati da una cattiveria dilagante, sappiamo la disumanità della chiusura dei porti, sappiamo i patti iniqui di governanti italiani con la polizia libica, sappiamo la criminalizzazione avvenuta delle ONG che salvavano vite umane e le cui navi ora sono costrette a rimanere ferme, sappiamo l’orrore dei respingimenti riportando nelle mani di torturatori spietati persone che fuggono dalla persecuzione.

“Il Barcone rappresentava cosa succedeva dietro l’angolo di quell’Europa e dei rispettivi parlamenti, che si dichiarano i più civili, democratici e liberali: adolescenti e giovani morti, stipati su imbarcazioni che nulla hanno di diverso dalle antiche navi guerriere, per scapare dalla guerra, dalla persecuzione o dalla fame. Un monito di ciò che non deve più succedere o, meglio, di quanto sia facile dimenticare o non voler guardare, dal momento che, ancora una volta, è successo proprio a noi di non guardare e di dimenticare” (176).

Cristina Cattaneo racconta e immortala questa storia nelle righe del suo libro, con gli occhi di un medico legale che insieme a tante collaboratrici e collaboratori ha vissuto i giorni di Melilli per dare un nome alle vittime dimenticate, per dare venerazione, nei pazienti gesti della ricomposizione dei corpi, a volti distrutti vittime della malvagità e dell’indifferenza che parlano come nessun altro può, di violenze, sofferenze, speranze e sogni traditi. “Non ti abitui mai a parlare con i parenti delle vittime” (69)…

La sua voce, come quella di Antigone, è richiamo oggi, nel tempo dei porti chiusi, nel tempo in cui si impedisce il soccorso in mare, a insorgere in una resistenza civile, a recuperare quel senso di umanità che porta a dare un nome e accompagnare nella sepoltura i morti, per rispondere all’angustia di chi non sa la sorte dei propri cari, per ricordare ai vivi la sofferenza delle vittime e per indicare vie di giustizia e di cura.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

 

 

«Non è solo una questione di memoria o del diritto sacrosanto ad avere un nome anche nella morte. Identificare significa anche tutelare i vivi, basti pensare al ricongiungimento familiare dei minori rimasti orfani»

 

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