V domenica di Quaresima – anno A – 2023
Ez 37,12-14; Rom 8,8-11; Gv 11,1-45
Le letture di questa domenica parlano di vita quale dono di Dio e dello Spirito. Ezechiele contrappone una visione di morte ad uno scenario di vita e di ripresa. Alla desolazione è contrapposto lo stupore per un risvegliarsi di membra e di relazioni. La grande metafora delle ossa sparse nel deserto che poco alla volta si ricompongono, vengono rianimate e ricominciano a muoversi è rinvio alla situazione del popolo d’Israele nell’esilio. Disperso e nella morte, in una situazione di abbandono lo Spirito di Dio apre ad un futuro nuovo e genera nuova vita: in questo vivere nuovo si ricompone un popolo verso un futuro di comunione. Il profeta si fa portavoce dell’annuncio di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe … Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. L’immagine delle ossa aride vivificate dallo Spirito è movimento di risurrezione: è un evento spirituale e collettivo, inizio del compiersi della promessa: ‘Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo…’ (Ez 36,26).
Nella seconda lettura Paolo presenta il profilo di chi è stato afferrato da Cristo. E’ la sua stessa esperienza che egli esprime nel delineare il profilo del cristiano: è vita nella condizione di risorti. Morto al peccato il cristiano vive l’esperienza dello Spirito come vita nuova. Il Padre, che ha risuscitato Gesù Cristo dalla morte, darà vita anche ai corpi mortali per mezzo dello Spirito. Paolo vede così il battesimo come dono e cammino in cui si attua una trasfigurazione del credente. La vita nuova tutto avvolge e s’incontra con il gemito di tutta la creazione in attesa di vita piena. In questo sospiro Paolo legge il divenire di una umanità chiamata a configurarsi a Cristo nuovo Adamo.
Nel capitolo 11 del IV vangelo il ‘segno’ della vita segue gli altri segni (il vino a Cana, l’acqua al pozzo, la luce del cieco). Alla notizia della morte di Lazzaro Gesù nel dialogo con Marta le dice: ‘tuo fratello risusciterà’. Marta, radicata nella fede ebraica della risurrezione, gli risponde: ‘So che risusciterà nell’ultimo giorno’. Ma Gesù propone a Marta di scorgere in lui stesso un dono di vita. Nell’incontro con lui si genera un passaggio di vita: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà: chiunque vive e crede in me non morrà in eterno”. Ogni segno nel IV vangelo è orientato al grande segno della gloria che si manifesta sulla croce: è il segno che indica il volto di Dio come amore che si dona fino alla fine. La vita sgorga da questo amore.
Gesù propone a Marta di aprirsi, nell’incontro con lui, ad una vita nuova. La vita non può essere dominata dalla morte e Gesù accompagna Marta a credere, ad affidarsi a lui. ‘Vieni fuori’: il grido rivolto a Lazzaro è annuncio che Gesù ha vinto la morte: l’ultima parola è quella dell’amore. La risurrezione è dono di vita da accogliere nell’incontro con lui, ed è realtà non solo da attendere nel futuro ma già iniziata nel presente. Il ‘segno’ dell’uscita dalla morte di Lazzaro è rinvio alla presenza di Gesù come rivelatore del Padre, fonte di vita. Tuttavia proprio a Betania s’inasprisce l’opposizione a Gesù: mentre con la sua parola apre alla vita qualcuno inizia a preparare la sua morte. Betania è così luogo in cui si scontrano morte e vita. Di fronte alla morte Gesù è turbato e reagisce opponendosi a tutto ciò che la morte significa. Nel racconto di Lazzaro il IV vangelo presenta in filigrana l’annuncio della risurrezione di Gesù che ha affrontato la morte ma la morte non lo ha tenuto in suo potere. Le lacrime, il sepolcro, la pietra, le fasce, l’invito a ‘lasciar andare’ sono tutte indicazioni a leggere il senso della morte di Gesù. Lazzaro è un segno della vita nascosta nella morte di Gesù stesso: sulla croce proprio nel suo morire rivela la gloria del Padre, l’amore che vince la morte ed apre alla vita come ‘rimanere’ in lui e nel suo amore.
Alessandro Cortesi op
Morte e vita
C’è un’immagine della risurrezione nella storia che si distingue per un’originalità unica nel suo tenere insieme morte e vita, desolazione e speranza. Solitamente le grandi opere che raffigurano la risurrezione di Gesù, offrendo elementi narrativi ad un evento che nei vangeli è solo annunciato e mai descritto, sono caratterizzati da aspetti di trionfo, di vitalità, di esplosione di vita. Non così nell’elaborazione artistica di Donatello. Nei pulpiti per la chiesa di san Lorenzo a Firenze che Donatello elaborò e poi fuse in bronzo negli anni tra il 1461-66 si ritrova un’immagine della risurrezione segnata dai tratti dell’angustia e del dolore che ricalca il pensiero alla morte che rimane anche nel momento in cui si racconta la vittoria della vita.
Antonio Paolucci storico dell’arte, indicando quest’opera di Donatello come “immagine della Resurrezione che contraddice tutti gli stereotipi”, in un suo commento in “Luoghi dell’infinito” 2016 così ne parla: “Donatello, a quel tempo, è un uomo vecchio, ormai più che settantenne, già toccato dal Parkinson. Soffre infatti del “parletico” di cui parla Giorgio Vasari nella Vita dello scultore. Eppure, nonostante l’età avanzata, nonostante gli impedimenti della malattia, Donatello, in San Lorenzo, nei suoi anni tardi, realizza il capolavoro assoluto dell’intera carriera. Questo ciclo grandioso con gli episodi della Passione dovremmo chiamarlo, per originalità di contenuti e per profondità concettuale, “Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Donatello”, quasi fosse un nuovo Vangelo da aggiungere a quelli canonici. Quando si parla di prescrizioni iconografiche esterne nelle opere dell’antica arte sacra, di controllo dogmatico dell’autorità religiosa sull’espressione figurativa, si osservino i rilievi bronzei di Donatello nei pulpiti di San Lorenzo e si dica se si può essere più liberi (e più trasgressivi) di così”.
In questa scultura bronzea che narra la risurrezione, la figura Cristo appare nell’atto di uscire dal sepolcro in un movimento di salita, segnata da pesantezza e sofferenza. Si appoggia sul vessillo con il segno della croce con il gesto di chi nella salita arranca sostenendosi a fatica: è quasi una uscita dalle acque della morte ed una evocazione di quel passaggio dell’esodo nel momento della emersione con le vesti fradicie. Le bende ancora lo avvolgono e quasi impediscono i suoi movimenti. Il suo corpo appare non possente e luminoso, ma oppresso da un peso insopportabile. Il volto, con il capo coperto dalle bende, appare come immagine di sofferenza: lo sguardo è quasi trattenuto e disorientato come chi tenuto in prigionia o costretto a rifugiarsi in uno scantinato dopo un lungo tempo esce alla luce salendo ripidi scalini abituando gli occhi alla nuova luce. Non vi è tratto di apertura, di serenità e di gioia, ma il volto del risorto è teso, lacerato. Quasi il volto di un uomo torturato e supplice. Reca impresso il peso del male, gli occhi socchiusi e tumefatti, la bocca cadente di chi aspira ad un sorso di acqua, con il passo stentato di chi si muove a tentoni.
Impressiona il contrasto tra l’evento espresso, l’evento glorioso e luminoso della risurrezione e lo stile di tale narrazione: il corpo e il volto di Gesù comunicano il dramma del male e della morte che pesa sulla vita umana anche nel momento in cui la morte è vinta. Eppure attorno a lui i soldati, le guardie del sepolcro, sono raffigurati nel loro stare distesi a terra, abbandonati al sonno pur bardati di armature metalliche. Nel loro sonno e nella loro impotenza di fronte a tale uscita di vita appaiono quasi con le membra scisse e scomposte. Evocazione forse della disconnessione propria della condizione di morte, come le ossa aride di Ezechiele.
Gesù esce dal sepolcro con le bende avvolte, come Lazzaro, ed esce prendendo su si sè e facendosi carico di tutto il peso della morte che ha sperimentato quale contraddizione del dono di vita e di salvezza di Dio. Nel suo sguardo implorante offre una direzione per ricomporre tutto ciò che è disgregato e senza legame. Dal buio esce alla luce ed apre speranza per chi si rispecchia in quel volto che non attira gli sguardi e continua a recare in sé, risorto, i tratti dell’ignominia e della sofferenza che lo rende vicino a tutti i sofferenti.
Così in una sua meditazione del 2020 (La terza di tre meditazioni per la Pasqua) lo storico dell’arte Tomaso Montanari si sofferma sul volto di Gesù rappresentato da Donatello in quest’opera indicando alcuni signficati che si aprono a chi lo osserva: “Quella carne stanca è la nostra carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione. E, su un incredibile sfondo di architetture di vimini, i soldati dormono come pupi siciliani caduti dal chiodo. Chiusi nelle loro armature non si accorgono di nulla. Proprio come noi. Ecco, risorgere vuol dire scuotersi, svegliarsi, liberarsi dall’armatura di paura: contestare la morte in ogni giorno della vita. Vuol dire non chiamare “progresso” ciò che ci conduce verso la morte: la morte del pianeta, la morte della giustizia, la morte della nostra interiore umanità”.
Alessandro Cortesi op
Domenica delle Palme – anno A – 2023
Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
Matteo articola in sette tappe il racconto della passione di Gesù. Chiave di lettura dell’intera narrazione sta nelle parole rivolte da Gesù ai suoi: ‘Voi sapete che fra due giorni è pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso’ (Mt 26,2).
La Pasqua ebraica, evento di alleanza è il primo orizzonte in cui leggere i vari momenti della passione di Gesù. Un secondo elemento è il tema della ‘consegna’. Gesù viene tradito da uno dei suoi amici. Se il tradimento è inizio della vicenda della sua passione sul piano storico, Matteo indica anche una lettura nella fede e coglie come in tutto ciò che accade si sta attuando una consegna: Gesù si consegna al Padre e si consegna all’umanità: in questo donarsi manifesta la sua identità di messia e di servo d Jahwè.
Il racconto inizia con l’unzione di Betania, annuncio profetico della morte di Gesù.
Il secondo momento è la preparazione e lo svolgimento della cena pasquale: Gesù, tradito da Giuda (Mt 26,16.20) consegna liberamente se stesso: la sua vita è racchiusa nei segni del pane e del vino, ‘sangue dell’alleanza versato per tutti’ (Mt 26,28).
Il terzo momento si svolge al Getsemani: Gesù vi appare con il profilo del giusto che subisce la prova in rapporto con i suoi: ‘andò con loro… presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo… disse loro: … vegliate con me’ (Mt 26,26-38).
Segue la scena dell’arresto: al centro è ancora Gesù che si rifiuta di seguire la via violenza che pure ha contagiato anche i suoi discepoli (Mt 26,51-54). Gesù contesta la logica della spada ed orienta a leggere le sue scelte come ‘compimento delle Scritture’, cioè del disegno di Dio di alleanza e di salvezza.
Viene poi presentato il momento del processo giudaico (Mt 26,57-68) mentre Pietro rinnega Gesù (Mt 26,69-75): in questa sezione Gesù viene indicato con alcuni titoli, che dicono la sua identità di messia: ‘d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi dell’altissimo’ (Mt 26,64).
La sesta scena è il processo romano, davanti a Pilato. La folla di Gerusalemme viene guidata dai capi, Pilato manifesta la sua indifferenza e si lava le mani, mentre la moglie di Pilato esprime simpatia per Gesù indicandolo come giusto (Mt 27,19). A conclusione del processo si ha un nuovo passaggio di consegna: Pilato ‘lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso’ (Mt 27,26).
Al punto culmine della narrazione sta la crocifissione. Sulla croce Gesù viene schernito: ‘ha salvato gli altri, non può salvare se stesso’ (Mt 27,42). Egli accetta la morte e non salva se stesso: si consegna con libertà e nella nonviolenza. Proprio il momento della morte è narrato da Matteo con i segni di una grandiosa teofania. L’uso del linguaggio apocalittico, ricco di simboli, è significativo perché indica che quella morte è un evento in cui Dio interviene. La storia è segnata da una presenza che la segna. L’intero cosmo e tutta l’umanità sono coinvolti: precipitano le forze del male e tutta l’umanità è liberata: i morti escono dai sepolcri. Di fronte alla morte c’è chi rifiuta Gesù ma c’è chi si apre ad una nuova fede come il centurione pagano. Gesù sulla croce recita il salmo 22, preghiera di un giusto sofferente che si abbandona a Dio, lasciando a lui l’ultima parola: ‘il regno è del Signore… e io vivrò per lui…’. La rivelazione della morte compie la teofania del momento del battesimo (cfr. Mt 3,13-17) e ‘accade la pasqua’.
Il racconto della passione si chiude con la sepoltura e la doppia ‘vigilanza’ davanti al sepolcro: una è quella delle donne (Mt 27,61) l’altra è quella delle guardie imposta dall’autorità (Mt 27,64-65). Sono due tipi diversi di attesa e vigilanza: quella delle donne aprirà alla accoglienza dell’annuncio pasquale: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. E’ risorto..” (Mt 28,5-6).
Matteo presenta Gesù come il giusto che affida la sua vita al Padre e si consegna come messia che compie le Scritture nel ‘fare la pasqua con i suoi’.
Alessandro Cortesi op
Silenzio buio e luce
Jacopo Tintoretto (1519-1588) nacque a Venezia probabilmente nel 1519: figlio di un tintore, un artigiano, da cui il suo appellativo. Ebbe una formazione assai veloce e già nel 1539 in un documento si firma come “maestro”, ad indicare la sua affermazione in campo artistico. Più giovane di Tiziano diviene partecipe di una stagione di rinnovamento nel linguaggio artistico pittorico a Venezia. Gli artisti provenienti dall’Italia centrale e da Roma portarono novità ed offrirono nuovo impulso. Tintoretto si ispira allo stile di Tiziano, e riprende le sculture di Michelangelo e di Sansovino.
Il ‘miracolo di san Marco o dello schiavo’ costituisce una novità nell’arte dell’epoca: per l’uso del colore e delle forme. San Marco compare dal cielo a testa in giù e al centro del quadro lo schiavo nella sua nudità. Un forte senso di monumentalità segna le sue opere, come pure l’attenzione alla luce. Le sue rappresentazioni sono segnate da un forte senso di teatralità. Il ‘miracolo di San Marco’ (oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia) fu l’opera che lo rivelò come grande artista. Fu chiamato poi con altri a decorare le sale di Palazzo Ducale a seguito di incendi che avevano distrutto parte del palazzo. Ma le sue principali opere sono i cicli della Sala Grande e della Sala Inferiore della Scuola di San Rocco a cui Tintoretto accede nel 1564. Nella scuola di san Rocco Tintoretto opererà per più di vent’anni completando interi cicli del Antico e Nuovo Testamento e decorando l’intera scuola. Cristo davanti a Pilato, opera compiuta tra il 1566 e il 1567 è una di queste conservata nella Sala dell’Albergo che contiene i vari momenti della passione di Cristo.
In questa immagine si possono riscontrare alcuni elementi della passione nella narrazione di Matteo. Per Matteo Gesù nella passione è colui che adempie le promesse e si manifesta come il servo del Signore, che viene condotto alla morte in una condizione di silenzio e di inermità.
Nella narrazione di Matteo con il procedere della narrazione le parole di Gesù diminuiscono sempre più, fino al silenzio: la sua risposta ‘Tu lo dici’ alla domanda di Pilato ‘Sei tu il re dei Giudei’ è seguita da un silenzio anche davanti al ripetersi delle accuse che genera stupore: “Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito”. Il silenzio pervade la rappresentazione di Tintoretto in cui Gesù, vestito con una veste bianca, si pone in piedi, i piedi nudi sul gradino di marmo di una scala, le mani legate, la corda del prigioniero che pende sul petto, con lo sguardo rivolto verso il basso, quasi impietrito nel silenzio e fermo di fronte al prefetto romano che si sta lavando le mani. “Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!».” In una pittura come quella di Tintoretto segnata dall’attenzione ai gesti e quindi ai movimenti in vista di generare ciò che la pittura può provocare, ossia le emozioni, in questa tela è centrale il silenzio e l’immobilità dello stare di Gesù davanti a Pilato
Il volto di Pilato è ritratto mentre cerca di sfuggire dal confrontarsi con Gesù che gli sta di fronte. Guarda altrove, mentre si lava le mani, rapportandosi ad una figura in basso a cui si rivolge forse cercando suggerimento o rassicurazione, mentre un uomo piegato in primo piano raffigurato di spalle è fermato nell’atto dello scrivere con una penna in mano ma il libro davanti a lui risulta chiuso.
Pilato manifesta il volto del potere che non accetta di stare davanti al volto di chi ha davanti e che gli si fa incontro nella sua inermità. Il funzionario imperiale diviene così immagine della logica burocratica che non riconoscendo i volti di uomini e donne con il loro grido di sofferenza e le vittime della violenza e dell’ingiustizia, si rifugia nell’illusione di non prendere decisioni, nel delegare ad altri, o nel riversare le colpe fuggendo e ritraendosi da ogni coinvolgimento.
Nel quadro di una prospettiva che raccoglie un intenso movimento che attraversa il dipinto al centro la figura di Cristo è segnata dalla luce bianca, unica figura verticale che richiama la dirittura delle colonne emergente nelle prospettive dei palazzi mentre tutto attorno le altre figure appaiono piegate. Luce e biancore che rinviano al racconto della trasfigurazione.
Sullo sfondo un drappo rosso si staglia davanti ad un arco e giunge quasi a scendere sopra la folla. Le sue linee riprendono il profilo di Cristo che si stacca dal contesto per la luminosità riflessa dalla veste bianca e per l’aureola che il pittore pone sul suo capo. Il drappo rinvia nel suo colore al sangue della passione e al dono della vita nel sangue che Matteo sottolinea nel suo vangelo ponendo in bocca a Gesù le parole “Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. Si sta attuando la Pasqua non solo come memoria del cammino dell’esodo, passaggio dalla schiavitù alla libertà, ma come passaggio di Gesù che dona la sua vita e porta perdono, come Matteo indica nelle parole della cena: “questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Il drappo rosso nel dipinto che solca il buio e sovrasta la folla evoca il riferimento al sangue di Gesù, dono di alleanza che reca perdono. Al momento in cui Pilato si lava le mani dicendo «Non sono responsabile di questo sangue” il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Ma il sangue di Gesù, la sua vita donata, non è motivo di condanna ma di perdono. Propria di Matteo è la precisazione sul perdono nelle parole della cena.
Il dipinto manifesta tale contrapposizione. Domina il buio sulla folla indistinta e strumentalizzata. In mezzo ad essa svettano le lance indice della forza delle armi e del loro uso che opprime ogni luce. E’ buio il palazzo che sovrasta la scena, indice del potere nelle sue espressioni religiose e imperiali. Si perde nel buio anche lo sguardo di Pilato che non si lascia illuminare a vedere il volto del messia legato come uno schiavo davanti a lui. Peraltro la luce avvolge la veste bianca di Gesù acl centro. E’ il messia, figlio di Dio che non salva se stesso, ma dalla croce grida “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Alessandro Cortesi op