la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “marzo, 2023”

Domenica delle Palme – anno A – 2023

Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66

Matteo articola in sette tappe il racconto della passione di Gesù. Chiave di lettura dell’intera narrazione sta nelle parole rivolte da Gesù ai suoi: ‘Voi sapete che fra due giorni è pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso’ (Mt 26,2).

La Pasqua ebraica, evento di alleanza è il primo orizzonte in cui leggere i vari momenti della passione di Gesù. Un secondo elemento è il tema della ‘consegna’. Gesù viene tradito da uno dei suoi amici. Se il tradimento è inizio della vicenda della sua passione sul piano storico, Matteo indica anche una lettura nella fede e coglie come in tutto ciò che accade si sta attuando una consegna: Gesù si consegna al Padre e si consegna all’umanità: in questo donarsi manifesta la sua identità di messia e di servo d Jahwè.

Il racconto inizia con l’unzione di Betania, annuncio profetico della morte di Gesù.

Il secondo momento è la preparazione e lo svolgimento della cena pasquale: Gesù, tradito da Giuda (Mt 26,16.20) consegna liberamente se stesso: la sua vita è racchiusa nei segni del pane e del vino, ‘sangue dell’alleanza versato per tutti’ (Mt 26,28).

Il terzo momento si svolge al Getsemani: Gesù vi appare con il profilo del giusto che subisce la prova in rapporto con i suoi: ‘andò con loro… presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo… disse loro: … vegliate con me’ (Mt 26,26-38).

Segue la scena dell’arresto: al centro è ancora Gesù che si rifiuta di seguire la via  violenza che pure ha contagiato anche i suoi discepoli (Mt 26,51-54). Gesù contesta la logica della spada ed orienta a leggere le sue scelte come ‘compimento delle Scritture’, cioè del disegno di Dio di alleanza e di salvezza.

Viene poi presentato il momento del processo giudaico (Mt 26,57-68) mentre Pietro rinnega Gesù (Mt 26,69-75): in questa sezione Gesù viene indicato con alcuni titoli, che dicono la sua identità di messia: ‘d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi dell’altissimo’ (Mt 26,64).

La sesta scena è il processo romano, davanti a Pilato. La folla di Gerusalemme viene guidata dai capi, Pilato manifesta la sua indifferenza e si lava le mani, mentre la moglie di Pilato esprime simpatia per Gesù indicandolo come giusto (Mt 27,19). A conclusione del processo si ha un nuovo passaggio di consegna: Pilato ‘lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso’ (Mt 27,26).

Al punto culmine della narrazione sta la crocifissione. Sulla croce Gesù viene schernito: ‘ha salvato gli altri, non può salvare se stesso’ (Mt 27,42). Egli accetta la morte e non salva se stesso: si consegna con libertà e nella nonviolenza. Proprio il momento della morte è narrato da Matteo con i segni di una grandiosa teofania. L’uso del linguaggio apocalittico, ricco di simboli, è significativo perché indica che quella morte è un evento in cui Dio interviene. La storia è segnata da una presenza che la segna. L’intero cosmo e tutta l’umanità sono coinvolti: precipitano le forze del male e tutta l’umanità è liberata: i morti escono dai sepolcri. Di fronte alla morte c’è chi rifiuta Gesù ma c’è chi si apre ad una nuova fede come il centurione pagano. Gesù sulla croce recita il salmo 22, preghiera di un giusto sofferente che si abbandona a Dio, lasciando a lui l’ultima parola: ‘il regno è del Signore… e io vivrò per lui…’. La rivelazione della morte compie la teofania del momento del battesimo (cfr. Mt 3,13-17) e ‘accade la pasqua’.

Il racconto della passione si chiude con la sepoltura e la doppia ‘vigilanza’ davanti al sepolcro: una è quella delle donne (Mt 27,61) l’altra è quella delle guardie imposta dall’autorità (Mt 27,64-65). Sono due tipi diversi di attesa e vigilanza: quella delle donne  aprirà alla accoglienza dell’annuncio pasquale: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. E’ risorto..” (Mt 28,5-6).

Matteo presenta Gesù come il giusto che affida la sua vita al Padre e si consegna  come messia che compie le Scritture nel ‘fare la pasqua con i suoi’.

Alessandro Cortesi op

Silenzio buio e luce

Jacopo Tintoretto (1519-1588) nacque a Venezia probabilmente nel 1519: figlio di un tintore, un artigiano, da cui il suo appellativo. Ebbe una formazione assai veloce e già nel 1539 in un documento si firma come “maestro”, ad indicare la sua affermazione in campo artistico. Più giovane di Tiziano diviene partecipe di una stagione di rinnovamento nel linguaggio artistico pittorico a Venezia. Gli artisti provenienti dall’Italia centrale e da Roma portarono novità ed offrirono nuovo impulso. Tintoretto si ispira allo stile di Tiziano, e riprende le sculture di Michelangelo e di Sansovino.

Il ‘miracolo di san Marco o dello schiavo’ costituisce una novità nell’arte dell’epoca: per l’uso del colore e delle forme. San Marco compare dal cielo a testa in giù e al centro del quadro lo schiavo nella sua nudità. Un forte senso di monumentalità segna le sue opere, come pure l’attenzione alla luce. Le sue rappresentazioni sono segnate da un forte senso di teatralità. Il ‘miracolo di San Marco’ (oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia) fu l’opera che lo rivelò come grande artista. Fu chiamato poi con altri a decorare le sale di Palazzo Ducale a seguito di incendi che avevano distrutto parte del palazzo. Ma le sue principali opere sono i cicli della Sala Grande e della Sala Inferiore della Scuola di San Rocco a cui Tintoretto accede nel 1564. Nella scuola di san Rocco Tintoretto opererà per più di vent’anni completando interi cicli del Antico e Nuovo Testamento e decorando l’intera scuola. Cristo davanti a Pilato, opera compiuta tra il 1566 e il 1567 è una di queste conservata nella Sala dell’Albergo che contiene i vari momenti della passione di Cristo.

In questa immagine si possono riscontrare alcuni elementi della passione nella narrazione di Matteo. Per Matteo Gesù nella passione è colui che adempie le promesse e si manifesta come il servo del Signore, che viene condotto alla morte in una condizione di silenzio e di inermità.

Nella narrazione di Matteo con il procedere della narrazione le parole di Gesù diminuiscono sempre più, fino al silenzio: la sua risposta ‘Tu lo dici’ alla domanda di Pilato ‘Sei tu il re dei Giudei’ è seguita da un silenzio anche davanti al ripetersi delle accuse che genera stupore: “Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito”. Il silenzio pervade la rappresentazione di Tintoretto in cui Gesù, vestito con una veste bianca, si pone in piedi, i piedi nudi sul gradino di marmo di una scala, le mani legate, la corda del prigioniero che pende sul petto, con lo sguardo rivolto verso il basso, quasi impietrito nel silenzio e fermo di fronte al prefetto romano che si sta lavando le mani. “Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!».” In una pittura come quella di Tintoretto segnata dall’attenzione ai gesti e quindi ai movimenti in vista di generare ciò che la pittura può provocare, ossia le emozioni, in questa tela è centrale il silenzio e l’immobilità dello stare di Gesù davanti a Pilato

Il volto di Pilato è ritratto mentre cerca di sfuggire dal confrontarsi con Gesù che gli sta di fronte. Guarda altrove, mentre si lava le mani, rapportandosi ad una figura in basso a cui si rivolge forse cercando suggerimento o rassicurazione, mentre un uomo piegato in primo piano raffigurato di spalle è fermato nell’atto dello scrivere con una penna in mano ma il libro davanti a lui risulta chiuso.

Pilato manifesta il volto del potere che non accetta di stare davanti al volto di chi ha davanti e che gli si fa incontro nella sua inermità. Il funzionario imperiale diviene così immagine della logica burocratica che non riconoscendo i volti di uomini e donne con il loro grido di sofferenza e le vittime della violenza e dell’ingiustizia, si rifugia nell’illusione di non prendere decisioni, nel delegare ad altri, o nel riversare le colpe fuggendo e ritraendosi da ogni coinvolgimento.

Nel quadro di una prospettiva che raccoglie un intenso movimento che attraversa il dipinto al centro la figura di Cristo è segnata dalla luce bianca, unica figura verticale che richiama la dirittura delle colonne emergente nelle prospettive dei palazzi mentre tutto attorno le altre figure appaiono piegate. Luce e biancore che rinviano al racconto della trasfigurazione.

Sullo sfondo un drappo rosso si staglia davanti ad un arco e giunge quasi a scendere sopra la folla. Le sue linee  riprendono il profilo di Cristo che si stacca dal contesto per la luminosità riflessa dalla veste bianca e per l’aureola che il pittore pone sul suo capo. Il drappo rinvia nel suo colore al sangue della passione e al dono della vita nel sangue che Matteo sottolinea nel suo vangelo ponendo in bocca a Gesù le parole “Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. Si sta attuando la Pasqua non solo come memoria del cammino dell’esodo, passaggio dalla schiavitù alla libertà,  ma come passaggio di Gesù che dona la sua vita e porta perdono, come Matteo indica nelle parole della cena: “questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Il drappo rosso nel dipinto che solca il buio e sovrasta la folla evoca il riferimento al sangue di Gesù, dono di alleanza che reca perdono. Al momento in cui Pilato si lava le mani dicendo «Non sono responsabile di questo sangue” il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Ma il sangue di Gesù, la sua vita donata, non è motivo di condanna ma di perdono. Propria di Matteo è la precisazione sul perdono nelle parole della cena.

Il dipinto manifesta tale contrapposizione. Domina il buio sulla folla indistinta e strumentalizzata. In mezzo ad essa svettano le lance indice della forza delle armi e del loro uso che opprime ogni luce. E’ buio il palazzo che sovrasta la scena, indice del potere nelle sue espressioni religiose e imperiali. Si perde nel buio anche lo sguardo di Pilato che non si lascia illuminare a vedere il volto del messia legato come uno schiavo davanti a lui. Peraltro la luce avvolge la veste bianca di Gesù acl centro. E’ il messia, figlio di Dio che non salva se stesso, ma dalla croce grida “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Alessandro Cortesi op

V domenica di Quaresima – anno A – 2023

Ez 37,12-14; Rom 8,8-11; Gv 11,1-45

Le letture di questa domenica parlano di vita quale dono di Dio e dello Spirito. Ezechiele contrappone una visione di morte ad uno scenario di vita e di ripresa. Alla desolazione è contrapposto lo stupore per un risvegliarsi di membra e di relazioni. La grande metafora delle ossa sparse nel deserto che poco alla volta si ricompongono, vengono rianimate e ricominciano a muoversi è rinvio alla situazione del popolo d’Israele nell’esilio. Disperso e nella morte, in una situazione di abbandono lo Spirito di Dio apre ad un futuro nuovo e genera nuova vita: in questo vivere nuovo si ricompone un popolo verso un futuro di comunione. Il profeta si fa portavoce dell’annuncio di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe … Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. L’immagine delle ossa aride vivificate dallo Spirito è movimento di risurrezione: è un evento spirituale e collettivo, inizio del compiersi della promessa: ‘Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo…’ (Ez 36,26).

Nella seconda lettura Paolo presenta il profilo di chi è stato afferrato da Cristo. E’ la sua stessa esperienza che egli esprime nel delineare il profilo del cristiano: è vita nella condizione di risorti. Morto al peccato il cristiano vive l’esperienza dello Spirito come vita nuova. Il Padre, che ha risuscitato Gesù Cristo dalla morte, darà vita anche ai corpi mortali per mezzo dello Spirito. Paolo vede così il battesimo come dono e cammino in cui si attua una trasfigurazione del credente. La vita nuova tutto avvolge e s’incontra con il gemito di tutta la creazione in attesa di vita piena. In questo sospiro Paolo legge il divenire di una umanità chiamata a configurarsi a Cristo nuovo Adamo.

Nel capitolo 11 del IV vangelo il ‘segno’ della vita segue gli altri segni (il vino a Cana, l’acqua al pozzo, la luce del cieco). Alla notizia della morte di Lazzaro Gesù nel dialogo con Marta le dice: ‘tuo fratello risusciterà’. Marta, radicata nella fede ebraica della risurrezione, gli risponde: ‘So che risusciterà nell’ultimo giorno’. Ma Gesù propone a Marta di scorgere in lui stesso un dono di vita. Nell’incontro con lui si genera un passaggio di vita: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà: chiunque vive e crede in me non morrà in eterno”. Ogni segno nel IV vangelo è orientato al grande segno della gloria che si manifesta sulla croce: è il segno che indica il volto di Dio come amore che si dona fino alla fine. La vita sgorga da questo amore.

Gesù propone a Marta di aprirsi, nell’incontro con lui, ad una vita nuova. La vita non può essere dominata dalla morte e Gesù accompagna Marta a credere, ad affidarsi a lui. ‘Vieni fuori’: il grido rivolto a Lazzaro è annuncio che Gesù ha vinto la morte: l’ultima parola è quella dell’amore. La risurrezione è dono di vita da accogliere nell’incontro con lui, ed è realtà non solo da attendere nel futuro ma già iniziata nel presente.  Il ‘segno’ dell’uscita dalla morte di Lazzaro è rinvio alla presenza di Gesù come rivelatore del Padre, fonte di vita. Tuttavia proprio a Betania s’inasprisce l’opposizione a Gesù: mentre con la sua parola apre alla vita qualcuno inizia a preparare la sua morte. Betania è così luogo in cui si scontrano morte e vita. Di fronte alla morte Gesù è turbato e reagisce opponendosi a tutto ciò che la morte significa. Nel racconto di Lazzaro il IV vangelo presenta in filigrana l’annuncio della risurrezione di Gesù che ha affrontato la morte ma la morte non lo ha tenuto in suo potere. Le lacrime, il sepolcro, la pietra, le fasce, l’invito a ‘lasciar andare’ sono tutte indicazioni a leggere il senso della morte di Gesù. Lazzaro è un segno della vita nascosta nella morte di Gesù stesso: sulla croce proprio nel suo morire rivela la gloria del Padre, l’amore che vince la morte ed apre alla vita come ‘rimanere’ in lui e nel suo amore.

Alessandro Cortesi op

Morte e vita

C’è un’immagine della risurrezione nella storia che si distingue per un’originalità unica nel suo tenere insieme morte e vita, desolazione e speranza. Solitamente le grandi opere che raffigurano la risurrezione di Gesù, offrendo elementi narrativi ad un evento che nei vangeli è solo annunciato e mai descritto, sono caratterizzati da aspetti di trionfo, di vitalità, di esplosione di vita. Non così nell’elaborazione artistica di Donatello. Nei pulpiti per la chiesa di san Lorenzo a Firenze che Donatello elaborò e poi fuse in bronzo negli anni tra il 1461-66 si ritrova un’immagine della risurrezione segnata dai tratti dell’angustia e del dolore che ricalca il pensiero alla morte che rimane anche nel momento in cui si racconta la vittoria della vita.

Antonio Paolucci storico dell’arte, indicando quest’opera di Donatello come “immagine della Resurrezione che contraddice tutti gli stereotipi”, in un suo commento in “Luoghi dell’infinito” 2016 così ne parla: “Donatello, a quel tempo, è un uomo vecchio, ormai più che settantenne, già toccato dal Parkinson. Soffre infatti del “parletico” di cui parla Giorgio Vasari nella Vita dello scultore. Eppure, nonostante l’età avanzata, nonostante gli impedimenti della malattia, Donatello, in San Lorenzo, nei suoi anni tardi, realizza il capolavoro assoluto dell’intera carriera. Questo ciclo grandioso con gli episodi della Passione dovremmo chiamarlo, per originalità di contenuti e per profondità concettuale, “Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Donatello”, quasi fosse un nuovo Vangelo da aggiungere a quelli canonici. Quando si parla di prescrizioni iconografiche esterne nelle opere dell’antica arte sacra, di controllo dogmatico dell’autorità religiosa sull’espressione figurativa, si osservino i rilievi bronzei di Donatello nei pulpiti di San Lorenzo e si dica se si può essere più liberi (e più trasgressivi) di così”.

In questa scultura bronzea che narra la risurrezione, la figura Cristo appare nell’atto di uscire dal sepolcro in un movimento di salita, segnata da pesantezza e sofferenza. Si appoggia sul vessillo con il segno della croce con il gesto di chi nella salita arranca sostenendosi a fatica: è quasi una uscita dalle acque della morte ed una evocazione di quel passaggio dell’esodo nel momento della emersione con le vesti fradicie. Le bende ancora lo avvolgono e quasi impediscono i suoi movimenti. Il suo corpo appare non possente e luminoso, ma oppresso da un peso insopportabile. Il volto, con il capo  coperto dalle bende, appare come immagine di sofferenza: lo sguardo è quasi trattenuto e disorientato come chi tenuto in prigionia o costretto a rifugiarsi in uno scantinato dopo un lungo tempo esce alla luce salendo ripidi scalini abituando gli occhi alla nuova luce. Non vi è tratto di apertura, di serenità e di gioia, ma il volto del risorto è teso, lacerato. Quasi il volto di un uomo torturato e supplice. Reca impresso il peso del male, gli occhi socchiusi e tumefatti, la bocca cadente di chi aspira ad un sorso di acqua, con il passo stentato di chi si muove a tentoni.

Impressiona il contrasto tra l’evento espresso, l’evento glorioso e luminoso della risurrezione e lo stile di tale narrazione: il corpo e il volto di Gesù comunicano il dramma del male e della morte che pesa sulla vita umana anche nel momento in cui la morte è vinta. Eppure attorno a lui i soldati, le guardie del sepolcro, sono raffigurati nel loro stare distesi a terra, abbandonati al sonno pur bardati di armature metalliche. Nel loro sonno e nella loro impotenza di fronte a tale uscita di vita appaiono quasi con le membra scisse e scomposte. Evocazione forse della disconnessione propria della condizione di morte, come le ossa aride di Ezechiele.

Gesù esce dal sepolcro con le bende avvolte, come Lazzaro, ed esce prendendo su si sè e facendosi carico di tutto il peso della morte che ha sperimentato quale contraddizione del dono di vita e di salvezza di Dio. Nel suo sguardo implorante offre una direzione per ricomporre tutto ciò che è disgregato e senza legame. Dal buio esce alla luce ed apre speranza per chi si rispecchia in quel volto che non attira gli sguardi e continua a recare in sé, risorto, i tratti dell’ignominia e della sofferenza che lo rende vicino a tutti i sofferenti.

Così in una sua meditazione del 2020 (La terza di tre meditazioni per la Pasqua) lo storico dell’arte Tomaso Montanari si sofferma sul volto di Gesù rappresentato da Donatello in quest’opera indicando alcuni signficati che si aprono a chi lo osserva: “Quella carne stanca è la nostra carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione. E, su un incredibile sfondo di architetture di vimini, i soldati dormono come pupi siciliani caduti dal chiodo. Chiusi nelle loro armature non si accorgono di nulla. Proprio come noi. Ecco, risorgere vuol dire scuotersi, svegliarsi, liberarsi dall’armatura di paura: contestare la morte in ogni giorno della vita. Vuol dire non chiamare “progresso” ciò che ci conduce verso la morte: la morte del pianeta, la morte della giustizia, la morte della nostra interiore umanità”. 

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Quaresima anno A – 2023

1Sam 16,1.4.6-7.10-13; Efes 5,8-14; Gv 9,1-41

La vicenda del cieco nato è uno dei sette ‘segni’ del IV vangelo: sono tutti orientati al grande segno della morte e risurrezione di Gesù: non sono detti ‘miracoli’ ma ‘segni’: hanno funzione di guida all’incontro con Gesù. La sua morte è il segno più grande dell’amore.

L’incontro con il cieco nato è di sabato, al principio dell’autunno, nel quadro della festa delle capanne, memoria del cammino nel deserto di Israele. Il sommo sacerdote si recava alla piscina di Siloe per attingere acqua da versare poi sull’altare dei sacrifici e le mura di Gerusalemme venivano illuminate con fuochi di ogni tipo: uno spettacolo di luminaria avvolgeva la città nel buio.

Le acque di Siloe in Isaia sono simbolo dell’affidamento al Signore in contrasto con le abbondanti acque dell’Eufrate simbolo della potenza degli imperi e della loro violenza (Is 8,5-7).

Il brano presenta un dialogo di Gesù con ‘i Giudei’, identificato come paradigma di chi vive la religione come sistema di potere, con una mentalità chiusa e di esclusione. Gesù presenta un altro orizzonte: per lui la malattia non è punizione di Dio né retribuzione per un peccato ma è un male da combattere. L’agire di Dio non va racchiuso negli schemi asfittici della contabilità umana. Gesù è venuto per sanare da ogni male e questo è il progetto di Dio dare la vita: “Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” (vv.3-5).

La guarigione del cieco è presentata come azione laboriosa: Gesù infrange la legge del riposo nel giorno di sabato (v.13). Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato proprio perché il Dio del sabato è il Dio ‘amante della vita’ (vv.6-7).

Il cieco non solo recupera la vista ma vive un cammino di apertura alla fede come nuovo modo di vedere: diviene così figura di ogni credente che si apre a vedere in modo nuovo. Al centro sta l’incontro con Gesù.

Il cieco guarito viene poi sottoposto ad un pressante esame dai giudei: testimonia che i suoi occhi ‘sono stati aperti’ e riconosce Gesù come inviato di Dio. Scorge in lui il profeta, ‘ma i Giudei non vollero credere….’ (v.18) E chiamano i genitori. Nonostante le minacce di essere escluso, giunge a professare la sua fiducia: ‘proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi’ (v.30) Quando il cieco viene cacciato fuori, Gesù gli si fa accanto, e lo accompagna ad un incontro nuovo: ‘Tu credi nel Figlio dell’uomo?

L’itinerario del cieco è così un percorso di riconoscimento ed incontro: al principio c’è un dono da accogliere. Dal buio di un modo di concepire di Dio secondo una modalità religiosa opprimente si apre alla fede come incontro.

Mentre gli uomini religiosi sono ciechi il cieco ‘cacciato fuori’ si apre al vedere: la luce è l’incontro con Gesù stesso al quale egli affida la sua vita: ‘Io credo in te Signore’.


Alessandro Cortesi op

El Greco e il cieco nato

L’episodio dell’incontro di Gesù con il cieco nato fu caro a El Greco, pittore di origini greche, nato a Creta nel 1541, giunto in Italia prima a Venezia nel 1567 e poi trasferitosi a Roma nel 1570 venendo a contato con gli artisti del mondo romano del tempo e godendo della stima del cardinal Alessandro Farnese.  A partire dal 1577 si spostò in Spagna svolgendo attività artistica prima a Madrid poi a Toledo dove morì nel 1614.

Tre sono le versioni del tema dell’incontro di Gesù con il cieco ripreso dal capitolo 9 del IV vangelo. La prima è quella della tela di Dresda, collocabile nel primo periodo di Venezia in cui El Greco conobbe lo stile di Tiziano e Tintoretto, con la sensibilità al colore e alla prospettiva tipici della pittura veneziana del periodo.

La scena è raffigurata con davanti la piscina di Siloe (con rinvio al termine ‘Inviato’: è Gesù l’inviato del Padre). Gesù invia il cieco all’acqua in obbedienza al significato profondo del sabato che è giorno di liberazione e di dono della alleanza con il Dio vicino. L’incontro avviene infatti di sabato nel quadro della festa delle Capanne, memoria del cammino di Israele nel deserto.

Sulla destra del quadro gruppi di persone discutono animatamente e il loro movimento esprime l’interrogarsi, il dubbio, l’animazione a fronte del segno di Gesù mente apre gli occhi del cieco. In contrasto con tale agitazione sulla destra nella parte sinistra un personaggio alle spalle del cieco nato si china con un chiaro intento di vedere e di avvicinarsi al cieco che sta per essere guarito. E’ forse simbolo di ogni credente che cerca di comprendere e di avvicinarsi per partecipare ad un dono di guarigione e di luce.

In un’altra versione dell’episodio, conservata a Parma, datata al 1570, El Greco presenta la scena ponendo i protagonisti in primo piano al centro della scena. Si intravede in un secondo piano la piscina di Siloe e sullo sfondo una prospettiva composta di edifici classici. La luce investe il volto e il corpo di Gesù, vestito con un abito rosso e un mantello blu. Le sue braccia si aprono con una mano a sorreggere il braccio del cieco chinato davanti a lui e con l’altra a toccarne gli occhi. Il bastone, sostegno e sicurezza, lasciato per terra dal cieco è segno di superamento della cecità. C’è anche in questa tela la presenza di un personaggio che si china a sorreggere il cieco e con le sue braccia lo accompagna ad alzarsi. Un accenno all’importanza di una presenza di compagnia proprio nel cammino di essere discepoli, al seguito di Gesù incontrato come colui che porta luce all’esistenza. E’ interessante poi scorgere forse un intento di unire nella medesima rappresentazione due momenti dell’episodio: infatti sulla sinistra il personaggio raffigurato di spalle potrebbe essere interpretato come il medesimo cieco dopo la guarigione. Sembra infatti vestito allo stesso modo del cieco: con il suo braccio rivolto verso l’alto è ritratto nel movimento di invitare altri ad alzare lo sguardo verso un punto indefinito, in alto. Solo uno dei personaggi che veste un copricapo di tipo orientale si volge a guardare verso l’alto.

Nella terza versione dell’episodio, una tela conservata a New York, considerata appartenere all’epoca dell’arrivo di El Greco in Spagna, in primo piano sono raffigurati due personaggi, forse i genitori del cieco. Gesù prende per mano il cieco nato e gli tocca gli occhi donandogli nuova luce. Forse anche in questa tela, come probabilmente nella seconda, la narrazione è disposta sul medesimo piano, ma rappresenta diversi momenti. Appare infatti una somiglianza tra il cieco al centro, il personaggio alla sua sinistra che indica verso l’alto e un personaggio a destra che discute con un gruppo che gli fa ressa davanti.

Ancora si può forse leggere questi personaggi quali indicazione molteplice della medesima figura del cieco nato, che una volta guarito, giunge a maturare una luce nuova dentro di sé che lo apre a vedere Gesù non solo come profeta ma come Signore kyrios. Sembra che l’inquietudine che attraversa il gruppo alla destra della tela sia l’interrogativo sull’essere capaci di vedere: «Siamo ciechi anche noi?» (Gv 9,40).

Il cieco nato compie un cammino verso un vedere che si connota come apertura ad una luce che è la persona stessa di Gesù, che lo guida a dire: “Credo, Signore!” E si prostra davanti a lui (Gv 9,38). Diviene così testimone presso gli altri della scoperta da lui vissuta. Il progressivo accentuarsi dei colori degli abiti del personaggio nel dipinto, a differenza dei toni meno vividi degli abiti di tutti gli altri è forse segno di questa trasmissione di luce che dice il coinvolgimento della vita e si riflette nel dipinto nella vivezza del colore.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno A – 2023

Es 17,3-7; Rom 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

Nel deserto il popolo d’Israele in cammino sperimenta la mancanza di acqua e sorge la mormorazione. La mormorazione è lamentale ma anche dubbio radicale. La domanda ‘Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto?’ è rivolta a Mosè ma è protesta portata contro Dio. Esprime il dubbio che l’intero cammino non abbia alcun senso ed è sospetto sulla chiamata stessa di Dio, sulla sua presenza.

Il popolo nel deserto di fronte alla durezza del presente avverte la nostalgia della schiavitù e sogna un ritorno al passato: non valeva la pena tutto questo cammino per poi morire di sete nel deserto. La domanda pone in discussione il rapporto stesso con il Dio dell’alleanza e della liberazione: ‘il Signore è in mezzo a noi sì o no?’. Massa e Meriba rimarrà nella memoria di Israele quale paradigma di un passaggio decisivo, momento di prova e di tentazione. Il cammino del deserto fa vacillare la fede d’Israele che si scontra con la fatica, con la contraddizione, con il dubbi e interrogativi inquietanti. Il dono dell’acqua da parte di Dio è segno di una vicinanza che fa ricordare la sua fedeltà, chiede un affidamento radicale ed apre nuovo cammino.

Il motivo dell’acqua è al cuore dell’incontro tra la donna di Samaria e Gesù. L’incontro avviene presso il pozzo di Giacobbe nell’incrociarsi di due cammini, quasi per caso, nella quotidianità. Ma è questo un dato su cui sostare: il pozzo della vita, il luogo della quotidianità diviene luogo di incontro, di scoperta, di nuovo inizio. L’incontro ha inizio da una domanda di Gesù stesso. ‘Dammi da bere’. E’ una richiesta di avere ma racchiude il desiderio di dare; è primo passo, per un dialogo che prosegue e fa aprire a scoperte inaudite. La parola offerta suscita un cammino nel cuore della donna e la provoca a scavare dentro di sé, come in un pozzo, andando al fondo delle sue attese. La richiesta di acqua da bere suscita uno stupore che apre a nuove domande. La donna giunge a comprendere che dovrebbe essere lei a chiedere da bere: ‘Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice ‘dammi da bere’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. C’è una attesa di acqua per la vita, per dissetarsi e per le necessità. Ma il riferimento stesso al pozzo suggerisce profondità da sondare. Gesù guida la donna a leggere in se stessa una attesa più profonda, di acqua viva. C’è un’acqua che indica una vita nuova non solo da attendere nell’aldilà, ma vita eterna che può iniziare dal presente, una vita diversa nella sua qualità di fondo. E la donna giunge a chiedere ‘Signore dammi di quest’acqua’. Dall’acqua il dialogo si sposta poi alla questione del luogo dove adorare Dio: la donna poco alla volta insegue i tratti del volto di chi le sta davanti: un giudeo, forse grande come il patriarca Giacobbe (4,12), un profeta (4,19), il Messia, colui che annunzierà ogni cosa, che fa incontrare il Dio (4,25-26). Di fronte a Gesù percepisce un incontro che dà vita.

E Gesù la apre ad un incontro personale. C’è un cambiamento da vivere: Dio si adora su un monte o su un altro – i monti diversi erano luoghi dello scontro tra giudei e samaritani – ma l’incontro con Dio esige coinvolgimento della vita: ‘in spirito e verità’. Gesù si manifesta alla donna come un volto in cui incontrare Dio stesso. Quel futuro che la donna vede in lontananza con un messia che deve venire ha già avuto inizio: ‘Sono io che ti parlo’ (4,26).

Segno di questo coinvolgimento è la brocca dimenticata: la donna lascia la brocca va ad annunciare nella città e ‘molti credettero per le parole della donna’. Ma la fede richiede l’esperienza personale dello ‘stare con’ Gesù: “lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti più credettero per la sua parola…” (4,41-42).

Alessandro Cortesi op

Nel tempo della siccità

Leggiamo l’episodio della samaritana con al centro il dialogo sull’acqua nel tempo della siccità che sta affliggendo le regioni dell’Europa, e che da tempo colpisce in modo drammatico altre regioni del mondo causando desertificazioni e carestie.

L’acqua reca con sè vita e la siccità è sintomo di un malessere profondo che segna la vita della terra in questo momento. E’ connessa alla crisi climatica, esito di scelte umane, di produzione e di consumo delle risorse, che influiscono pesantemente sull’ambiente e ne provocano squilibri.

Quella vita nuova di cui l’acqua è simbolo, annunciata dalle parole di Gesù nel dialogo con la donna di Samaria, è dono ma nel medesimo tempo appello a promuovere un rapporto diverso tra umanità e ambiente, in particolare nell’attenzione all’acqua.

Un articolo recente può aiutare ad individuare l’urgenza di prendere in seria considerazione la crisi idrica di questo tempo anche perché coinvolge il rapporto con la terra e la possibilità stessa della vita per l’umanità. L’acqua viva ha a che fare con la vita in rapporto all’acqua da accogliere come dono per promuovere una convivenza dei popoli nella condivisione dei beni comuni. Su queste scelte si potrebbero aprire vie di pace.   

Qui di seguito alcuni brani dall’articolo apparso in Altreconomia di Carlo Modonesi (Isde Italia) il 24 Febbraio 2023 dal titolo Storia di una crisi idrica annunciata: che cosa si rischia se perdura l’immobilismo:

“Ci sono molte buone ragioni per temere la nuova ondata di siccità che, con buona probabilità, ci aspetta nei prossimi mesi, soprattutto nei distretti Nord-occidentali del territorio nazionale. È del tutto evidente che gli eventi meteorologici sono in stretta relazione con il cambiamento climatico, e che quest’ultimo andrebbe affrontato con una “vera” politica basata su “veri” accordi multilaterali volti a una riduzione drastica delle emissioni serra e alla messa in opera di contromisure per la mitigazione e l’adattamento. (…)

La siccità non va monitorata e combattuta soltanto per le sue ricadute rovinose su paesaggi, agricolture ed economie ma anche per le conseguenze drammatiche che produce quando diventa un fattore limitante e persistente in grado di inibire o depotenziare le funzioni degli ambienti naturali, a detrimento di una miriade di organismi che vi risiedono. (…)

È bene sottolineare che il ciclo dell’acqua è strettamente associato al ciclo dei nutrienti (in particolare nel suolo), in quanto la stragrande maggioranza degli organismi assorbono le sostanze nutritive mediante soluzioni acquose, per cui la disponibilità di acqua e dei soluti che essa trasferisce dall’idrosfera alla biosfera gioca un ruolo biologico insostituibile in tutte le dinamiche ambientali. Anche se può sembrare strano, la prima conseguenza di un apporto insufficiente di acqua negli ambienti naturali è che gli esseri viventi muoiono di fame più che di sete. (…)

… quando si parla di sistemi agricoli e di sistemi naturali si parla implicitamente anche di suoli, perché la vitalità di tutti i sistemi ecologici di terra dipende dalla loro matrice pedologica. Il suolo viene spesso e giustamente associato alla produzione alimentare ma, in un’ottica più generale, si deve osservare che i suoli sani sono fondamentali nei processi vitali di tutti i biotopi, in quanto provvedono a molte altre funzioni cruciali, tra cui la disponibilità di nutrienti, i meccanismi biochimici di ciclizzazione della materia, il sequestro del carbonio, la purificazione dell’acqua, la detossificazione dei composti tossici, e una miriade di altre funzioni. (…)

Questo fragile strato di qualche decina di centimetri che avvolge la Terra deve essere protetto dagli effetti delle attività umane per motivi etici ma anche per motivi molto pratici. Soprattutto per il fatto che entro il 2050 i suoli del mondo dovranno purificare l’acqua e fornire il cibo necessari per soddisfare le necessità di una popolazione mondiale di quasi dieci miliardi di persone. (…)

Occorre mettere a punto fin d’ora un programma di gestione e di utilizzo delle risorse idriche che tenga conto del peso dei vari usi idrici a livello sociale, naturale ed economico. Una delle soluzioni possibili, anche se certamente non l’unica, è quella di utilizzare i bacini idrici artificiali e naturali esistenti a cui attingere. Come anticipato sopra, la nuova edificazione di grandi invasi è caratterizzata da una serie di controindicazioni ambientali che è bene evitare, tuttavia, i piccoli invasi inseriti in reti locali di approvvigionamento idrico a favore delle colture ma utili anche a non mandare in sofferenza gli ambienti naturali hanno un impatto sul territorio decisamente inferiore.

Piccoli corpi idrici creati senza uso di cemento in siti territoriali e paesaggistici idonei possono dare un contributo sostanziale in termini di “auto-sufficienza” idrica. Questo ragionamento, ovviamente, deve essere accompagnato da un razionale impiego dell’acqua in tutti i settori che ne fanno uso. Dopodiché, è chiaro che un problema come quello della siccità, peraltro affrontato in una fase già critica e avanzata, richiede una serie di contromisure su grande e piccola scala …

Nel breve periodo appare urgente un’azione politica rigorosa volta a frenare i problemi di deterioramento e di scarsità di acqua, non solo in Italia ma in tutta Europa. Suolo e acqua (e aria) sono entità ambientali infinitamente più preziose e vulnerabili di quanto si pensi”.

Alessandro Cortesi op

II domenica tempo di Quaresima – anno A – 2023

Gen 12,1-4a; 2Tim 1,8b-10; Mt 17,1-9

Il cammino di Abramo inizia con una chiamata ad uscire, ad andare… Abramo accoglie una voce che è parola di Dio sulla sua vita: lo invita ad abbandonare una situazione conosciuta, le sue sicurezze, per aprirsi ad una novità, per intraprendere un cammino verso un futuro nascosto nelle mani del Dio della promessa: ‘va’, lascia…’. E’ cammino verso una terra da cercare, ma è anche cammino verso se stesso: ‘Esci, vai verso te stesso…’

La parola di Dio spinge Abramo ad uscire: è un cammino che lo coinvolge nella solitudine ma anche lo apre ad un futuro nuovo: la sua vita non sarà da isolato, ma dovrà allargarsi alla relazione con altri, spostando i confini della propria famiglia ad uno sguardo a tutte le famiglie della terra. La promessa lo apre di diventare benedizione per tutte le famiglie della terra: ‘farò di te un grande popolo e ti benedirò… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra’.

Abramo è chiamato a superare lo scandalo dell’attesa e della non evidenza, il dubbio e la prova. E’ fatica non solo di un momento, ma di un lungo viaggio che prende la sua esistenza: è chiamato a ricordare la benedizione e la promessa di Dio nonostante le contraddizioni. Il suo cammino è quello di ogni credente per divenire benedizione per gli altri.

Il racconto della trasfigurazione è passaggio decisivo nel cammino di Gesù. Matteo lo colloca a metà del racconto dopo l’annuncio della passione e l’invito a seguirlo: Gesù sta camminando verso Gerusalemme. La via che con decisione ha preso è quella che lo condurrà ad affrontare l’ostilità e la morte. Ma sul monte il suo volto è quello del risorto: le sue vesti divengono splendenti. Con il linguaggio proprio dell’apocalittica Gesù è presentato con il volto luminoso (Dan 10,6). E’ accompagnato da Mosè ed Elia che dicono il riferimento al cammino d’Israele nel Primo Testamento ma anche l’arrivo degli ultimi tempi perché Elia rapito in cielo era atteso (2Re 2,11). Il monte, lo splendore, la nube, la voce sono tutti elementi che richiamano il cammino del Sinai e la presenza di Dio nella tenda (Es 40,34-38). Tenda e dimora in cui si rende vicina la luce della presenza di Dio è il volto di Gesù che cammina davanti ai suoi discepoli. Pietro si rivolge a Gesù chiamandolo ‘Signore’. E’ il titolo del risorto. Il suo riferimento alle tende rinvia alla festa delle tende o capanne, festa di attesa messianica. Pietro dice i suo desiderio fermarsi: ormai i tempi del messia sono presenti (2Pt1,16-18).

Nel racconto si delinea un messaggio sull’identità di Gesù: sulle acque del lago i discepoli lo avevano riconosciuto come ‘messia’: ‘tu sei veramente il figlio di Dio’ (Mt 14,33), e così Pietro aveva presentato una professione di fede (Mt 16,16). Al momento del battesimo la voce dall’alto aveva indicato la sua identità in rapporto al Padre (Mt 3,17; cfr. Gv 12,27-28).

L’evento di luce sul monte apre i discepoli a scorgere una profondità nascosta dell’esistenza del loro maestro. Il volto sfigurato di colui che affronta la sofferenza e la croce è il medesimo volto del risorto: la sua risurrezione è vittoria del male e della morte ed acquista il suo senso profondo dalla via del dono e del servizio. Gesù incontra fallimento e rifiuto da parte degli uomini che cercano una religione della affermazione, della sicurezza e del potere, ma verrà confermato da Dio nel suo essere il vivente.

Il testo suggerisce anche una risposta alla domanda ‘chi è il discepolo?’: è chiamato a seguire Gesù per la via da lui percorsa. In questa via vi sono momenti di gioia in cui si fa presente il desiderio di fermarsi: ‘è bello per noi stare qui’. Ma il cammino del discepolo deve seguire Gesù. L’ultimo invito è un rinvio alla sua parola: ‘Ascoltatelo’: l’ascolto della Parola di Dio e l’ascolto di Gesù sono via aperta verso l’incontro con il Padre.

Alessandro Cortesi op

Il viaggio di Abramo e i viaggi

Abramo è paradigma della migrazione. Migrazione che è  spostamento da un luogo all’altro, ala ricerca di vita, di futuro, inseguendo speranze. Migrazione è anche movimento interiore, nell’inseguire domande, dello stare in ricerca, nell’affrontare la sfida a cercare il proprio autentico volto. Il percorso dell’esistenza ed ogni cammino di chi cerca è migrazione. Un antico autore Filone leggeva la migrazione di Abramo in modo allegorico come il movimento dell’abbandono di tutto ciò che è terreno per dirigersi verso il celeste e l’incontro con Dio. Ma in profondità il grande messaggio che Filone di Alessandria indica in Abramo è la sfida ad assumere una mentalità da straniero: «L’espressione ‘vattene da queste cose’ non implica una separazione secondo la sostanza – perché, in tal caso, questo sarebbe l’ordine di chi prescrive la morte – ma significa “assumi una mentalità da straniero” e, non lasciandoti catturare da alcuna di siffatte realtà, sta’ al di sopra di esse» (Filone, Migrazione di Abramo 7).

Leggiamo la pagina della chiamata di Abramo di fronte alle drammatiche immagini della strage di migranti sulla spiaggia di Cutro in Calabria. Uomini donne e bambini, cioè famiglie che si erano imbarcati in Turchia per inseguire un desiderio di vita. Fuggivano da terre dove c’è la guerra: l’Afghanistan abbandonato dagli occidentali dopo vent’anni di guerra ed ora in una terribile crisi umanitaria e in mano al regime fondamentalista talebano che discrimina le donne impedendo loro di vivere. L’Iran, dove il regime degli ayatollah condanna  a morte giovani che manifestano per la libertà, e avvelena le studentesse nelle scuole. La Siria segnata da dodici anni di guerra e distruzioni e dal terribile terremoto che ha colpito zone già devastate. Provenivano dal Pakistan segnato dalla violenza e dalla discriminazione religiosa, dalla Somalia terra di guerre e di povertà colpita particolarmente dalle conseguenze del cambiamento climatico.    

Avevano affrontato il mare per giorni e giorni. Cercavano di giungere in Europa sognando un futuro diverso per sé e per i propri figli, magari congiungendosi con parenti da cui erano stati separati. C’erano molti minori e bambini in quella barca: quattordici per ora sono i corpicini che il mare ha restituito.

Il naufragio è avvenuto tra le onde alte e le acque fredde: il barcone fatiscente ad un certo punto si è spezzato per la forza delle onde a cento metri dalla costa. La barca era stata individuata e segnalata sabato sera alle 22, 30 dall’aereo Eagle1 di Frontex, l’agenzia europea di sorveglianza dei confini, ma  non è seguito un intervento di soccorso da parte della Guardia costiera. Le domande che sorgono da questi fatti sono inquietanti. Certamente ciò che si può dire è che le scelte politiche dell’Unione Europea e dei Paesi dell’Europa, e tra di essi l’Italia da tempo stanno andando nella direzione di intendere la solidarietà come difesa dei confini dalla possibilità che giungano persone a richiedere asilo. E’ una solidarietà ribaltata nel suo significato che non riconosce quei diritti affermati solennemente nei Trattati dell’Unione e cerca di tener fuori dai propri confini i profughi fino a sostenere le politiche di respingimento.     

Quanto è avvenuto non è stato quindi un incidente. E’ piuttosto conseguenza delle politiche italiane e dell’Europa, che proseguono da anni. Potevano essere soccorsi in mare ma le politiche del governo italiano hanno anche recentemente posto ulteriori impedimenti alla presenza delle navi di soccorso delle ONG che operano nel Mediterraneo obbligando le navi di salvataggio a raggiungere porti molto distanti dal primo approdo sicuro di sbarco. Le persone presenti in quel barcone erano fuggite da situazioni di violenza: erano rifugiati che avevano diritto all’asilo come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione Europea e dalla Costituzione italiana che all’art. 10 riconosce l’asilo come un diritto fondamentale della persona.

Erano partiti dalla Turchia, divenuto il primo paese al mondo per numero di rifugiati: 3,8 milioni e non per caso: in base ad una dichiarazione di intenti tra capi di Stato e di governo europei la Turchia dal 2016 è stata scelta come paese di confinamento per bloccare i rifugiati fuori dai confini della UE. Per questo ha ricevuto il compenso di 6 miliardi di euro.

I rifugiati in Turchia rimangono così prigionieri: non possono rientrare nei loro Paesi di origine, in Turchia non vi hanno diritto d’asilo, e non possono pensare a ricostruirsi una vita dignitosa per il numero enorme di rifugiati presenti. Non sono previsti canali legali di ingresso in Unione europea né corridoi umanitari. A loro si apre solo la prospettiva di tentare di andare avanti affrontando ogni pericolo per la via che percorre la rotta balcanica, o attraverso il mare.

La scelta di imbarcarsi per le vittime di Cutro era forse dettata dal tentativo di evitare i respingimenti illegali e le violenze lungo la rotta balcanica, alle frontiere dell’Unione e dentro l’Europa, pratica denunciata e narrata nel film “Trieste è bella di notte” dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzoli e Matteo Calore.

La tragedia avvenuta sulle spiagge della Calabria sconvolge per il numero delle vittime, perché famiglie sono state smembrate e anche bambini e neonati hanno trovato la morte nel mare. 

Ma continua la strage nel mar Mediterraneo e lungo le altre frontiere dell’Europa ed è grave che non facciano più notizie i naufragi di barche lasciate senza possibilità di soccorso nel Mediterraneo. Le cause di tali tragedie sono da individuare in scelte politiche a livello italiano ed europeo orientate a bloccare i rifugiati al di fuori dei confini. Così il governo italiano ha stipulato accordi con le autorità della Libia per finanziare la cosiddetta Guardia costiera libica che attua operazioni di respingimento riportando i migranti in campi di concentramento in Libia dove inchieste ufficiali ONU hanno provato la pratica di torture, stupri e sistematica violazione di diritti fondamentali. 

Ignobili e indegne sono le parole del ministro dell’Interno che ha additato le vittime stesse della tragedia di Cutro come colpevoli di voler partire: un uomo delle istituzioni dovrebbe in primo luogo rispettare la Costituzione su cui ha giurato e che riconosce i diritti inviolabili di ogni persona.

Come ha scritto Gianfranco Schiavone: “bisogna innanzitutto tornare a rispettare quel diritto internazionale ed europeo in materia di asilo che è oggi è stato stracciato. Significa dunque cessare le politiche di esternalizzazione delle frontiere in paesi terzi e porre fine ai respingimenti illegali alle frontiere europee, sia marittime che terrestri, poiché nessuno pagherà mai un trafficante se può esercitare realmente il suo diritto a chiedere protezione a una frontiera europea”.

Negli scorsi mesi l’accoglienza prestata ai profughi dall’Ucraina ha dimostrato che in Europa e in Italia è possibile decidere e attuare misure di protezione e di accoglienza in un quadro di programmatico che superi la logica dell’emergenza e coinvolga tutte le amministrazioni e le realtà locali.

La Rete Terra Aperta di Pistoia, rete che unisce insieme molte associazioni impegnate nell’accoglienza sul territorio in vista della tutela dei diritti e dell’inclusione sociale dei migranti, a fronte di questa situazione, in un appello pubblicato oggi ha espresso le seguenti richieste:

“chiediamo:

– che sia promossa dalla Unione Europea una operazione strutturata di ricerca e soccorso in mare per salvare vite umane

– che siano attivati canali umanitari dalle principali aree di crisi

– che siano aperte vie legali di ingresso come visti per lavoro o nuovi criteri che consentano i ricongiungimenti familiari”.

Tali richieste indicano una via alternativa ad una politica disumana e miope a fronte dei drammi di uomini e donne come noi. E’ urgente contrastare la propaganda da tempo in atto nel nostro Paese volta a fomentare a paura nei confronti dei migranti e a dimenticare che chi fugge cerca rifugio da situazioni di violenza, discriminazioni e miseria che sono esito di politiche di sfruttamento e di guerra generate dai Paesi dell’Occidente ricco.

Il vescovo di Palermo Corrado Lorefice ha richiamato che oggi “rischiamo tutti di ammalarci di una forma particolare di Alzheimer, un Alzheimer che fa dimenticare i volti dei bambini, la bellezza delle donne, il vigore degli uomini, la tenerezza saggia degli anziani. Fa dimenticare la fragranza di una mensa condivisa”.  Egli ha anche detto: “non c’è spazio oggi per i qualunquismi: è tempo per tutti noi di rifuggire con chiarezza da ogni narrazione tesa a colpevolizzare l’anello più debole della società. La responsabilità è nostra…”.

Se il viaggio di Abramo è il viaggio originario che ricorda come ogni uomo e donna nella sua vita è in viaggio nella propria esistenza alla ricerca di una terra promessa e desiderata, Abramo ci ricorda anche che nel viaggio siamo chiamati a diventare benedizione per altri, ad accompagnare e  sostenere i viaggi, le fughe e gli spostamenti alla ricerca di pane e dignità, come anche gli itinerari alla ricerca del proprio autentico volto.

Oggi il fenomeno della migrazione forzata che segna la vita di cento milioni di persone nel mondo è un segno di questi tempi. E’ uno spazio che tutti coinvolge in un viaggio alla scoperta della propria condizione di stranieri e pellegrini, in cammino verso una terra dove abitare insieme.

La tragedia di Cutro, con il tragico silenzio delle vittime  e dei sopravvissuti è un evento che richiama ad una conversione da attuare, a sentire la sofferenza degli altri, ad agire per costruire sentieri comuni di incontro, a contrastare il venir meno della pietas e della compassione. Il viaggio di Abramo è provocazione ad un viaggio dentro di noi che si faccia prassi con scelte anche piccole di protezione, sostegno, accoglienza, per lasciare spazio al respiro di un volto umano autentico in questo tempo.

Alessandro Cortesi op

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