la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “gennaio, 2020”

Presentazione del Signore – anno A – 2020

Giovanni-Bellini-Presentazione-al-tempio 1474 Querini stampalia ca_JPG-media.Giovanni Bellini – Presentazione di Gesù al tempio – Galleria Querini Stampalia – Venezia

Ml 3,1-4; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40

La prima presentazione che Luca narra nel suo vangelo è quella di Gesù ai pastori. Sono essi i primi ad accogliere l’invito ad andare e a trovare un segno: un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia. E’ la presentazione di Betlemme, fuori dall’albergo perché non c’era posto per Maria e Giuseppe che erano in cammino. Lontano dal tempio e dai luoghi del sacro. In questa prima presentazione sono i marginali, gli irregolari a lasciar posto nelle loro notti ad una voce di messaggeri che invita, ad una luce che squarcia il buio e li pone in cammino, in una ricerca di segni.

Luca in un secondo momento narra un’altra presentazione: questa volta nel cuore del tempio, a Gerusalemme, dove fa iniziare il suo vangelo, con l’episodio di Zaccaria e luogo dove Gesù compirà il suo cammino. Per poi iniziare un movimento che da Gerusalemme va verso i confini della terra. Nel cuore del tempio sono due persone avanti negli anni, Simeone e Anna ad accogliere Gesù. Maria e Giuseppe intendono adempiere le prescrizioni della legge. Ma nel tempio dove i poveri facevano le loro offerte secondo la legge qualcosa di particolare si compie. E’ un incontro tra una lunga attesa e il dono di una presenza. E’ il momento di arrivo di una lunga vita in cui è maturato uno sguardo capace di scrutare i segni. E’ il momento di una benedizione e di una lode che giunge da due vecchi che hanno mantenuto la capacità di sperare, di guardare oltre a loro stessi, di affidarsi ad una promessa a cui non venir meno. E’ un omento di fede che si apre a leggere la luce di Dio, la vicinanza di Dio nel volto inerme e umano di quel bambino, Gesù.

Simeone è descritto in queste parole: “uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui”. Uomo sensibile agli impulsi dello spirito. Anche quel giorno, mosso dallo Spirito giunse al tempio. Nel tempio, in un momento in cui si compiono gesti secondo prescrizioni della legge, la novità dello Spirito è presente negli occhi di un vecchio.  Accoglie tra le braccia il bambino e benedice Dio. La sua vita è stata una attesa e giorno dopo giorno ha continuato ad affidarsi alla promessa.

Ora in quel bambino scorge il punto di arrivo del suo percorso e la sua preghiera è ringraziamento e affidamento: “Ora lascia o Signore che il tuo servo, vada in pace secondo la tua parola… i miei occhi hanno visto la tua salvezza… preparata per tutti i popoli“. Simeone è un anziano, esempi di fedeltà e di uno stare davanti al Signore in modo semplice e generoso: non pretende nulla ma si affida ad una promessa che orienta tutta la sua vita e non viene meno.

I suoi occhi nel tempo si sono affinati nell’imparare a guardare i segni e proprio in quel bambino scorge la luce per i popoli e la risposta all’attesa di Israele. La salvezza che si fa vicina nella debolezza e fragilità di un bambino: ci vuole uno sguardo particolare per entrare in questo paradosso, per vedere una risposta alla sua lunga attesa.

Il suo nome Simeone significa ‘Dio ha ascoltato’ (dal verbo shamà ascoltare). Simeone, carico di anni, riconosce che Dio ha ascoltato la sua attesa. La sua esistenza è un cammino di fede semplice, senza particolari caratteri se non la capacità di stare fermo nell’attendere. Non pieno di qualcosa proveniente da se stesso, ma aperto ad un dono di Dio capace di assecondare le spinte dello Spirito. E i suoi occhi sono resi trasparenti per vedere una salvezza non solo per sé ma per tutti, per Israele, per i popoli. Sono occhi che sanno guardare lontano.

Anna è profetessa: Anna nel suo nome rinvia al ‘dono’ (significa graziosa, benedetta). anche lei è donna che ha percorso tante fatiche in anni carichi di vita. Anche lei attende solo consolazione per tutto il popolo. Anche lei è mossa dallo Spirito e ‘si mise a lodare Dio e parlava del bambino…’. In quei gesti e in quelle parole si manifesta il suo saper riconoscere il dono di Dio che si fa vicino in un bambino.

Simeone e Anna sono i primi tra quei credenti provenienti dal popolo di Israele che sono i poveri di JHWH, persone che non hanno altre sicurezze ma sanno affidarsi. Non tengono Gesù per se stessi, ma riconoscono in lui una luce che è per tutti i popoli. Annunciano quel bambino come salvatore. La luce del volto di Gesù, che comunica un Dio vicino che si china sulla nostra debolezza e la prende insieme, ha tolto loro ogni paura: ogni paura della vita ed anche l’ultima paura quella della morte. Nei loro occhi rimane quella luce che rimane anche nel passare l’ultima linea d’ombra.

Alessandro Cortesi op

Gerusalemme3

Invochiamo pace su Gerusalemme

Trump, l’attacco del secolo al diritto internazionale. Questo il titolo di un articolo di Michele Giorgio de “Il Manifesto” riportato nel sito “Nenanews” sul piano di Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Il 28 gennaio us il presidente USA ha presentato pubblicamente quello che ha definito ‘Accordo del Secolo’. E’ un piano di fatto elaborato dal suo genero, Jared Kushner, che avrebbe la pretesa di essere un piano di pace ma che contiene tutte le premesse per essere un appoggio a Netanyahu e un regalo alla destra israeliana in vista delle prossime elezioni.

Viene annunciato come un ‘accordo’ ma è un piano elaborato in modo unilaterale senza tener conto delle richieste dei palestinesi e manifestando una logica di umiliazione di questo popolo e delle sue legittime attese.

“…l’Accordo del secolo (…) a conti fatti è solo la negazione del diritto internazionale e del principio sancito dalle Nazioni Unite dell’uguaglianza dei popoli e del loro diritto alla libertà e alla dignità. Con il premier israeliano Netanyahu al suo fianco, Trump ieri a Washington ha delineato la soluzione con cui gli Stati uniti assegnano in via ufficiale – perché sul terreno è già così dal 1967 – quasi tutto il territorio della Palestina storica a Israele. Ad eccezione di qualche frammento di terra entro i quali il presidente americano prevedono la nascita di uno Stato palestinese senza sovranità, senza controllo del suo spazio aereo e dei suoi confini (di fatto non avrà confini) che di fatto sarà sotto il controllo di Israele. Trump ai palestinesi offre una serie bantustan in Cisgiordania e la Striscia di Gaza – collegati da una combinazione di strade e tunnel – che saranno chiamati «Stato di Palestina»” (ibid.).

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Trump ha pubblicato in un suo tweet la mappa della nuova divisione territoriale. Appare come ad Israele venga riconosciuta sovranità su tutti gli insediamenti della West Bank – cioè su quei territori conquistati con la guerra del 1967 e militarmente occupati in aperta violazione della convenzione di Ginevra – e su tutta la Valle del Giordano. Il territorio dello Stato palestinese verrebbe quindi scorporato in due grandi parti e spezzettato con punti di collegamento previsti per mezzo di tunnel e ponti. Di fatto tale condizione presenta il progetto di una serie di territori frammentati e disseminati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza collegati tra loro e sottoposti ad uno stretto controllo da parte israeliana. Ne deriva la previsione di uno Stato palestinese riconosciuto sì come tale, ma senza sovranità e di fatto sottoposto al controllo di Israele.

Nel discorso di Trump Gerusalemme è stata ripetutamente indicata come capitale indivisibile di Israele. Viene altresì riconosciuta la sovranità israeliana sul Golan siriano occupato illegalmente nel 1967 e sulle colonie – illegali secondo il diritto internazionale – con la promessa che non vi saranno spostamenti degli israeliani che vi si sono installati sinora.

“Trump afferma che il suo piano contiene una mappa, in basa alla quale l’estensione territoriale dell’Autonomia palestinese come è attualmente codificata dagli accordi di Oslo del 1993, sarebbe addirittura raddoppiata. Ma si tratta di una fandonia, una delle tante che volano questa sera tra le sete e gli stucchi del salone della East Wing della Casa Bianca, dove un presidente sotto procedura di impeachment e bisognoso dell’appoggio delle sette evangeliche, più a destra della destra israeliana, colma un primo ministro israeliano da oggi formalmente imputato di gravi reati, di doni da presentare alla vigilia delle elezioni del 2 marzo come successi personali” (Alberto Stabile, La tragica farsa dell’Accordo del Secolo, “La Repubblica” 28 gennaio 2020).

Trump ha indicato che la capitale dello Stato palestinese sarebbe nei sobborghi est di Gerusalemme e verrebbe assicurato il diritto di pregare nella Città Santa nel rispetto dello status quo attuale, ma non è prevista alcuna sovranità su Gerusalemme. La città invece è indicata nel piano come unica capitale indivisa dello Stato d’Israele, situazione già affermata con il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.

Trump con questo annuncio manifesta “la totale indifferenza per il diritto internazionale, il disinteresse – se non il fastidio – per le rivendicazioni palestinesi e per il diritto al ritorno, nemmeno citato, e l’abnegazione all’agenda israeliana. Li ha elencati lui stesso i regali a Tel Aviv: “Il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento del Golan e più di tutto l’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano” (M.Giorgio, cit.).

La reazione da parte da palestinese a questo accordo che di fatto è un diktat e cela un inganno ai danni del popolo palestinese è stata di opposizione e protesta. Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese si è rifiutato di ricevere il testo del documento e ha chiesto la convocazione della Lega araba. Ma gli appelli dei palestinesi ai Paesi arabi e all’Europa a rifiutare il piano americano, denunciandone la decisione unilaterale e la logica di inganno sottesa, per ora rimangono inascoltati.

La preghiera del vecchio Simeone, anziano cercatore di luce, capace di leggere i segni, è invocazione da ripetere oggi proprio nelle contraddizioni e nel buio di questo presente, ricordando Gerusalemme, pregando per la pace, per una pace che respiri di giustizia e diritto, sogno di Dio per tutti i popoli, che tanta opposizione e falsità trova oggi proprio nella terra che ha visto la luce della presenza di Gesù.

Alessandro Cortesi op

Per approfondire: Duccio Facchini, Il ‘futuro sempre più oscuro’ per i territori palestinesi. Dove l’occupazione è divenuta annessione. Intervista a Michael Lynk, Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, in “Altreconomia” 1 ottobre 2019, consultabile a questo link

III domenica tempo ordinario – anno A – 2020

IMG_6548Is 8,23b.9,1-3; 1Cor 1,10-17; Mt 4,12-23

In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…” Terra di Galilea, terra di pagani: una regione devastata dalle guerre, popolazioni di confine considerate male e con sospetto come pagani.

Isaia con lo sguardo lungo del profeta vede le tenebre di questa regione ai margini aprirsi ad una luce e ad una gioia nuova: annuncia una liberazione e la speranza che un re, ancora bambino, avrebbe portato luce e pace. E’ l’annuncio di un giorno in cui il diritto e la giustizia sono ristabiliti. Una luce grande entra nella storia proprio nella terra di confine, degli incroci, dei mescolamenti e dell’emarginazione. Isaia scorge un cammino di popolo dalle tenebre alla luce.

All’inizio del suo racconto Matteo riprende questo testo di Isaia e presenta Gesù che ritorna verso la Galilea. Vi si reca dopo il ritiro nel deserto e dopo che Giovanni Battista è arrestato. Giovanni Battista è consegnato nella sua passione e morte. In questo momento in cui Gesù, venuto a conoscenza di quanto era accaduto a Giovanni, poteva comprendere ciò a cui egli stesso andava incontro, si reca nella provincia dei pagani, nel territorio di confine, dei marginali: il suo essere messia parte da lì, segue vie che non corrispondono a progetti di potenza. Torna in Galilea, ma a Cafarnao, villaggio degli incontri, con coloro che sono dimenticati e esclusi dove i suoi incontri sono con malati e lontani. Gesù è venuto per tutti. E lì si fa vicino e i suoi gesti sono di guarigione e liberazione.

Il suo invito ‘convertitevi’ segue l’annuncio del regno dei cieli. Viene cioè dopo l’annuncio di un dono che genera gioia: il ‘regno dei cieli’ indica la vicinanza di Dio che apre ad un modo nuovo di intendere la vita come fratelli e sorelle, nella ospitalità. Il regno non è qualcosa lontano dalla nostra vita, è dono che viene dal Dio Padre: dono di vicinanza. Ed è anche scoperta che genera la gioia di lasciare tutto per cercarlo perché è una ricchezza che salva l’esistenza e le fa trovare il suo senso più profondo. Aprirsi al regno suscita un radicale cambiamento nella vita. Conversione è il movimento di cambiamento radicale, di mutare direzione, con cui si accoglie la presenza di Dio che si fa vicina nell’agire e nelle parole di Gesù. I suoi gesti di liberazione, guarigione, accoglienza e le sue parole indicano un modo nuovo di intendere la vita non come accaparramento ma come gratuità, non come egoismo ma come fratellanza. Rapporti nuovi sono possibili sin da ora nell’affidarsi a Dio che vuole la salvezza.

Gesù chiama a seguirlo: ‘Venite dietro a me’. E’ indicazione dell’essenziale della vita dei discepoli: rimanere dietro, camminare sui passi di Gesù, condividere lo stile della sua esistenza. Quando Gesù vede i due fratelli esprime lo sguardo di Dio che vede ogni persona come unica e originale e propone una chiamata. Simone e Andrea sono guardati nella loro vita ordinaria e nella loro unicità. Gesù li chiama nel loro operare di ogni giorno, mentre gettavano le reti in mare. Si fa vicino non nei luoghi religiosi, ma nei luoghi della vita. Li chiama ad essere ancora pescatori, ma ad esserlo in modo nuovo: pescatori di uomini. ‘Pescatore’ è da scorgere come chi porta vita: indica un servizio in riferimento ad altri, perché ognuno possa trovare il senso profondo della sua vita. Il regno dei cieli inizia a realizzarsi nella vita di Gesù: la vita cristiana non è apprendimento di una astratta dottrina fatta di principi e norme e neppure mera esecuzione di indicazioni morali, ma si compie nel seguire Gesù, nel porre i propri passi sulla sua via, nella creatività di vivere in relazione con lui che cammina sempre davanti, che annuncia e cura indicando la via del dono e del servizio.

Alessandro Cortesi op

SF00000000_67691687Maria Vingiani, un’esistenza ecumenica

Una donna, laica, un’esperienza profetica di questo tempo, una donna capace di cammini di fede e di incontro che hanno condotto a riscoprire il vangelo nella sua forza di novità e cambiamento. Una donna che ha seguito Gesù nella originalità di rispondere alla sua chiamata nel tempo.Di lei si può dire che ha accolto la voce: ‘Venite dietro a me’.

Maria Vingiani, all’età di 98 anni, è morta il 17 gennaio scorso. Un giorno particolare: è infatti la data dedicata al dialogo tra cattolici e ebrei. Su questa frontiera ella aveva svolto il suo cammino maturando intuizioni che guardavano avanti e aprivano nuovi orizzonti ben prima del Concilio Vaticano II.

Proveniva da una famiglia napoletana ed era nata nel 1921 a Venezia dove visse la sua infanzia e dove maturò la sua educazione e impegno in ambienti cattolici. Nel particolare contesto costituito dalla città lagunare, con la sua storia e pluralità di testimonianze artictiche e religiose, ebbe modo di scorgere l’esistenza di diverse comunità cristiane oltre quella cattolica: ognuna si diceva chiesa… Questo sguardo attento attorno a sé e il contatto con la vita fu l’humus in cui sorse in lei una profonda inquietudine e una domanda. Brunetto Salvarani nel suo libro Un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Città Nuova 2016) in cui trascrive appunti presi in colloqui personali, riporta il ricordo diretto di Maria in quella fase della sua vita:

“Tra le chiese non c’era conflitto ma piuttosto indifferenza e reciproca ignoranza! Allora giovanissima, a Venezia vivevo un itinerario di fede nella mia parrocchia cattolica, ma m’incuriosivano le altre chiese che vedevo camminando per strada: quella valdese, luterana, metodista… Un giorno, avevo undici o dodici anni, decisi di entrare in una di queste in Campo Santi Apostoli. Mentre lo facevo mi sentii subito colpevole; qualcuno avrebbe potuto vedermi… Ma entrai lo stesso, e fui subito attratta dai libri poggiati sopra di un tavolo. Mi avvicinai autogiustificandomi, dicendomi che in fin dei conti stavo semplicemente guardando dei libri (…) Volevo capire e per capire dovevo studiare. Crescendo e arrivando alla laurea, pur tra mille difficoltà anche familiari, decisi di approfondire proprio il tema delle relazioni tra le chiese, non trovando praticamente nulla: solo qualche studio apologetico di parte cattolica. La mia vocazione ecumenica nacque da lì, dal fatto che non potevo accettare di buon grado le barriere esistenti tra chiese unite dall’unico vangelo, dall’unico Cristo, dall’unica salvezza. Quelle barriere per me erano una contraddizione inaccettabile!”. (cfr. anche una intervista inedita di Brunetto Salvarani a Maria Vingiani in Settimananews)

A quel tempo il solo partecipare ad una celebrazione di altre chiese era motivo di scomunica: Maria ottenne per questo il permesso dal patriarca di Venezia card. Piazza che glielo concesse non senza una messa in guardia per ‘non perdersi’.

Erano gli anni del dopoguerra. Sin da quel tempo iniziò a promuovere attività di conoscenza e formazione ecumenica. Si impegnò nell’ambito politico e fu eletta, molto giovane, in Consiglio comunale, divenendo poi assessora alle Belle Arti. In tale veste di responsabile per il patrimonio artistico cittadino incontrò il patriarca Roncalli, quando nel 1953 arrivò a Venezia, facendo il suo ingresso in città su una gondola. Lo incontrò come uomo di dialogo, di apertura mentale, capace di ascolto e di riportare la Parola di Dio al centro della vita cristiana. Di Roncalli Maria Vingiani ricordava ammirata la lettera pastorale del 1956 in occasione del V centenario della morte di san Lorenzo Giustiniani. In quella lettera il patriarca invitava a leggere Antico e Nuovo Testamento non solo nelle occasioni comunitarie della liturgia ma nella dimensione personale e nella vita familiare: “Noi cattolici non avevamo mai sentito parlare della Bibbia in quel modo, allora la Bibbia non c’era, nelle nostre case”. Con Roncalli maturò un rapporto di stima e profonda fiducia che passò dagli ambiti propri del rapporto professionale legato alla custodia dell’arte ai temi dell’ecumenismo a lei tanto cari e che guidavano il suo cammino di fede. Trovandosi così a condividere un orizzonte di fede ma anche ad ispirare con la sua intuizione aperture e scelte che troveranno maturazione in tempi successivi.

MariaVingiani-1956_InPixioQuando Roncalli fu eletto papa e dopo pochi mesi, il 25 gennaio 1959, annunciò un futuro Concilio di carattere ecumenico, Maria Vingiani intuì la portata epocale di quanto stava per iniziare. Da qui la sua decisione di lasciare l’impegno amministrativo e politico a Venezia e di trasferirsi a Roma dove continuò l’insegnamento di lettere nella scuola.

A lei si deve l’incontro tra Giovanni XXIII e Jules Isaac, grande studioso ebreo, indagatore delle radici dell’antisemitismo cristiano – l’insegnamento del disprezzo-, la cui famiglia era stata sterminata ad Auschwitz. Maria Vingiani aveva conosciuto Isaac in occasione delle Biennali di Venezia – a cui lui partecipava regolarmente in ricordo della morte artista uccisa ad Auschwitz -. E fu Maria che favorì l’occasione di un incontro diretto avvenuto il 13 giugno 1960. Giovanni XXIII rimase toccato dalla testimonianza dell’anziano professore che cercava di far giungere il suo appello come missione. Da quel momento il tema del rapporto tra Israele e chiesa divenne una delle questioni inserite nel dibattito conciliare e che condusse ad una tra le novità più profonde del Concilio, una autentica conversione nel modo di intendere i rapporti con l’ebraismo e alla redazione della dichiarazione Nostra aetate, che aprì una nuova prospettiva di incontro e dialogo. Tale cambiamento riflette una intuizione propria di Maria che scorgeva come la divisione dei cristiani non poteva trovare orizzonte di riconciliazione se non in un nuova comprensione delle proprie radici riandando ad un rinnovato incontro con l’ebraismo scoprendosi sempre situati in rapporto con l’altro.

Ebbe a scrivere a proposito della sua lettura delle divisioni dei cristiani: «Mi era ormai chiaro che l’unica vera grave lacerazione era alle origini del cristianesimo e che, per superare le successive divisioni tra i cristiani, bisognava ripartire insieme dalla riscoperta della comune radice biblica e dalla valorizzazione dell’ebraismo». Da tali intuizioni ebbe origine il Segretariato Attività Ecumeniche che continua a tutt’oggi ad essere uno dei luoghi di incontro e formazione ecumenica e prevede nella sua costituzione di ‘partire dal dialogo ebraico-cristiano’.

Specificità di tale movimento interconfessionale fondato da Maria Vingiani, è la sua laicità: non è previsto che alcun responsabile ‘religioso’ sia membro ma può essere amico o consulente, e molti sono stati negli anni gli amici e consulenti di tale tipo, preti, pastori, rabbini. Tuttavia la caratterizzazione laica del movimento indica la scelta di un ecumenismo dal basso, con stretto legame alla vita e capace di forza profetica rispetto ai ritardi, alle incomprensioni ed alle durezze delle istituzioni e delle gerarchie. «Una scelta che comporta autonomia totale, anche economica, per favorire un percorso nuovo di incontro, dialogo, formazione e quindi poi l’intesa, la collaborazione e la comunione». I convegni nazionali del Segretariato Attività Ecumeniche ebbero inizio dalla metà degli anni ’60 e a partire dal 1978 fino al 1998 si tennero al passo della Mendola. Del SAE Maria Vingiani è stata presidente fino al 1996. E la vita del Segretariato continua tutt’oggi.

Nell’intervista raccolta da “Avvenire” (Riccardo Maccioni, Aveva 98 anni. È morta Maria Vingiani: il coraggio del dialogo, “Avvenire”, 17 gennaio 2020) in occasione dei suoi novant’anni Maria diceva: “Abbiamo vissuto anni di grande passione in cui bisognava sempre combattere, sperare, chiarire. Ogni volta c’erano battaglie da vincere, muri da far cadere, separazioni da trasformare in cammino di incontro, di riconciliazione. Oggi invece – continua – l’ecumenismo corre il rischio della tranquillità. Sembra che sia tutto normale, quasi scontato, mancano salti di qualità. Il pericolo è che la normalità sfoci nell’indifferenza (…) Occorre una grande passione, un grande amore per i nostri fratelli, nel senso di un’autentica fraternità. Bisogna puntare sul Vangelo, valorizzare al massimo la Bibbia. Io però non ho fatto nulla, a lavorare sono stati la fede, l’esperienza e la grazia di Dio” .

La sua testimonianza rimane come luce in questo tempo, nei cammino dell’umanità chiamata a riconciliazione perché come ella amava ricordare “la fede si vive nella speranza” (cfr. intervista nel sito della diocesi di Cremona)

Alessandro Cortesi op

II domenica del tempo ordinario – anno A – 2020

IMG_6518.JPGIs 49,3.5-6; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34

Il tempo ordinario è tempo in cui condurre un cammino per ritornare a Gesù, scorgere il suo volto, imparare a seguirlo, ad essere sue discepoli e discepoli lungo la sua via.

Un’espressione ripetuta nella pagina del vangelo è ‘rendere testimonianza’. Giovanni Battista nel IV vangelo rende testimonianza perché ‘vede’ in modo più profondo e sa indica la presenza di Gesù: ‘in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete’ (Gv 1,26). Testimonianza è così rinviare ad un incontro. Il IV vangelo lega insieme il gesto del battesimo con l’invito a conoscere Gesù: ‘sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere ad Israele’ (Gv 1,31). La prima testimonianza del Battista è quella dell’amico: annuncia qualcuno che viene dopo di lui ma che sta prima e il gesto che egli propone, l’immersione nel Giordano indica un’attesa: ‘Ecco colui del quale io dissi: dopo di me viene un uomo che mi è passato davanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo…’ (1,30). Il Battista riconosce il suo limite e la sua incapacità. Indica Gesù rinviando ad una scoperta da attuare in un incontro. Gesù è presenza da scoprire: viene dopo ma egli era da prima. In Gesù si fa vicina la Parola di Dio, e su di lui rimane lo Spirito. ‘Io non lo conoscevo, ma colui che mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: l’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito santo’ (1,33)

Il Battista è testimone perché risponde ad una chiamata di Dio e per dono del Padre può riconoscere Gesù come colui che battezza in Spirito Santo.

Gesù è presentato come uomo nuovo: la sua umanità è ripiena dello Spirito che si ferma e rimane su di lui. Risuonano così pagine del Primo testamento: ‘Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza…’ (Is 11,2) ‘Ecco il mio servo… ho posto il mio spirito su di lui’ (Is 42,1).

Gesù è conosciuto così da Giovanni come colui che vive nello Spirito: la dimensione più profonda della sua vita sta in questo respiro che è il soffio di Dio. La sua missione è comunicazione della forza dello Spirito a noi: seguendo lui si viene immersi nello Spirito e si apre una nuova creazione. Come all’inizio della creazione lo Spirito aleggiava sulle acque (Gen 1,2) e come dopo il diluvio una colomba annuncia sopra le acque un mondo nuovo così ora la colomba – vista da Giovanni sopra Gesù – indicare la presenza dello Spirito e l’inizio di una storia nuova. La testimonianza di Giovanni riguarda l’identità di Gesù: ‘E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio’ (Gv 1,34).

Il discepolo è colui che rende testimonianza ed è chiamato a vedere con occhi nuovi, con gli occhi della fede. Giovanni Battista indica Gesù come l’agnello: ‘Ecco l‘agnello di Dio che toglie il peccato del mondo’. Gesù è venuto a liberare questa realtà di tenebre, il ‘mondo’ quale dominio dell’egoismo, ricerca del possesso, superbia (cfr. 1Gv 2,16). L’agnello è immagine che rinvia alla pasqua. La via del discepolo sarà seguire Gesù fino alla sua pasqua di morte e risurrezione.

Alessandro Cortesi op

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Testimoni di gentilezza

Ogni anno le chiese cristiane di una regione del mondo preparano il materiale della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. E’ questa una settimana di incontro e preghiera comune: il Concilio Vaticano II ha sottolineato l’importanza di coltivare il cammino ecumenico: “Siccome oggi, sotto il soffio della grazia dello Spirito Santo, in più parti del mondo con la preghiera, la parola e l’azione si fanno molti sforzi per avvicinarsi a quella pienezza di unità che Gesù Cristo vuole, questo santo Concilio esorta tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all’opera ecumenica” (Unitatis Redintegratio 4).

Quest’anno la settimana si svolgerà dal 18 al 25 gennaio ed è inaugurata dalla giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei anticipata al 16 gennaio. Le chiese cristiane di Malta e Gozo hanno predisposto la traccia per quest’anno richiamando ad una storia di vicinanza di Dio e di accoglienza umana. Il testo base della settimana è quello di Atti degli apostoli in cui è narrato il naufragio di Paolo nel suo viaggio in catene verso Roma e il suo approdare nell’isola di Malta dove – è questo il titolo ripreso come linea guida di preghiera – ‘ci trattarono con gentilezza’ (At 28,2).

In questi anni in cui si perpetua il dramma dei migranti che cercano rifugio in viaggi su barconi e gommoni verso l’Europa, in una regione, come Malta che condivide con gli altri Paesi europei la chiusura, l’incapacità di pensare in termini progettuali l’accoglienza, le chiese di Malta propongono alla meditazione comune dei cristiani la pagina del naufragio di Paolo, un racconto in cui dopo tante peripezie nel mare «tutti giunsero salvi a terra» (At 27, 44). Non è stato così per tante e tanti che hanno perso la vita nel Mediterraneo in questi anni. Ma il messaggio che giunge per questa settimana di preghiera provoca a considerare le chiamate di Dio a vivere il vangelo che ci giungono dalla storia e dagli oppressi.

Paolo è in catene ma anche in questa condizione di prigioniero mentre sta per essere condotto a Roma la missione di Dio continua. Sulla barca sono indicate presenti 276 persone. Tra di esse vari gruppi: i soldati, i marinai e i prigionieri. I più vulnerabili sono i prigionieri in catene. Nel mare in tempesta tutti sperimentano la condizione di debolezza di fronte allo scatenarsi delle forze della natura. I prigionieri sono nella condizione di essere condannati ad una esecuzione sommaria. Ma nel tumulto del mare e dei cuori Paolo comunica la sua testimonianza e la sua fede che la vita di tutti è nelle mani di Dio. Tutti ne sono incoraggiati e condividono insieme il pane aprendosi ad una fiducia che viene dalle sue parole. “Nessuno di voi perderà neppure un capello” (At 27, 34; cfr Lc 21, 18). E’ questa la testimonianza di Paolo che indica il disegno di salvezza di Dio per tutta l’umanità. Su quella barca Paolo spezza il pane insieme a coloro che erano tra i medesimi pericoli ‘dopo aver reso grazie’: un gesto di condivisione e nel contempo anche un gesto di eucaristia, in cui vivere la comunione nel chiedere al Signore forza nella prova e nello scoprire la comunione degli uni con gli altri al di là dei confini di separazione.

Persone diverse per tanti motivi si trovano ad approdare, dopo la tempesta, ad una medesima destinazione dove incontrano gesti di ospitalità, attorno al fuoco, benché le loro lingue siano diverse. Gli abitanti dell’isola di Malta offrono ai naufraghi, che sono stranieri, una accoglienza fatta di cura e di attenzione: ‘ci trattarono con gentilezza’. Per questa loro particolare gentilezza si attua un raduno ed un incontro che si manifesta come esperienza di ospitalità. La provvidenza di Dio si rende vicina e manifesta nell’ospitalità dei maltesi, nella loro apertura ad accogliere gli sconosciuti naufraghi che avevano fatto approdo alla loro isola, con gesti di ospitalità.

“L’ospitalità è una virtù altamente necessaria nella ricerca dell’unità tra cristiani. (…) La nostra stessa unità di cristiani sarà svelata non soltanto attraverso l’ospitalità degli uni verso gli altri, pur importante, ma anche mediante l’incontro amorevole con coloro che non condividono la nostra lingua, la nostra cultura e la nostra fede”. (Sussidio, Introduzione, p.9)

L’ospitalità è al cuore della testimonianza e del messaggio di Gesù. E’ una via in cui scoprire che la nostra vita sorge e si sviluppa in un essere accolti e vive della responsabilità di ricevere e dare accoglienza. Nella gentilezza dell’ospitalità si rende presente lo stile di Gesù: chi coltiva un cuore ospitale e scelte di ospitalità attua il superamento dell’indifferenza, attitudine di chi non guarda e non è sensibile alle sofferenze degli altri.

Oggi vivere ospitalità con gentilezza è una tra le sfide maggiori nel mondo segnato dalle migrazioni di tanti che cercano aiuto e protezione e cure. “Questo racconto ci interpella come cristiani che insieme affrontano la crisi relativa alle migrazioni: siamo collusi con le forze indifferenti oppure accogliamo con umanità, divenendo così testimoni dell’amorevole provvidenza di Dio verso ogni persona?” (Sussidio, Introduzione, p. 10)

Alessandro Cortesi op

Qui è possibile scaricare il Sussidio del Centro Pro Unione

Battesimo del Signore – anno A – 2020

baptismIs 42,1-4.6-7; Sal 28; At 10,34-38; Mt 3,13-17

L’episodio del battesimo di Gesù da parte del Battista è uno dei punti fermi della ricostruzione del cammino storico di Gesù nella sua vita. Ed è un passaggio che sin dagli inizi fece difficoltà alle prime comunità cristiane: indicare Gesù come Messia e presentarlo come unito alla folla di coloro che si recavano da Giovanni Battista per essere immersi nel Giordano, Gesù quindi come discepolo, Gesù come parte di un popolo in attesa di perdono, nell’accogliere l’invito alla conversione è certamente un dato che pone difficoltà. Il racconto di Matteo riprende sostanzialmente quello di Marco da cui dipende.

‘Gesù vide i cieli squarciarsi’: non è rinvio ad un evento prodigioso ma è un modo per esprimere il significato profondo di quel momento: una apertura si attua nel rapporto con Dio. I cieli chiusi sono metafora usata dai profeti per esprimere il silenzio di Dio (Is 51,9-10): ora i cieli si aprono.

In quel momento è presentata una missione nella forza dello Spirito. Lo Spirito scende su Gesù come colomba (Mc 1,10): come Mosè quando risalì dal mare e ricevette il dono dello Spirito secondo il racconto dell’Esodo. Gesù, risalendo dalle acque ripropone il cammino di liberazione dell’esodo, il farsi vicino di Dio, che sta all’origine della vita di un popolo chiamato ad un cammino di libertà e servizio. Gesù come Mosè, guida questa cammino all’incontro con Dio.

Lo Spirito gli è donato per una missione: la sua identità è indicata nell’essere il Figlio diletto nel quale Dio si compiace: ‘diletto’ è chiamato il ‘servo’ di Isaia (42,1). Gesù è così presentato come Figlio, messia (con riferimento al salmo 2,7): è il Figlio amato che nella sua vita attua la missione di quel profeta di cui Isaia aveva parlato. E’ questo un momento in cui a Gesù si rende chiara la sua missione di portare la bella notizia dell’amore perdonante di Dio a tutto il popolo, senza esclusioni.

La versione di Matteo, che riprende il testo di Marco, aggiunge sottolineature proprie. Indica innanzitutto che Gesù sceglie liberamente e chiede di farsi battezzare da Giovanni. Poi inserisce in aggiunta un dialogo tra Gesù e il Battista in cui si dà spiegazione del significato di questo gesto di immersione: Gesù si fa battezzare ‘per realizzare ogni giustizia’. Per Matteo la ‘giustizia’ è un dono di Dio, è la sua fedeltà di amore e di cura. Sarà questo il cuore dell’annuncio di Gesà nel discorso della montagna: ‘cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia’. In questo gesto di penitenza Gesù viene a compiere la legge ma nel contempo manifesta una giustizia che sta oltre la legge ed è dono di Dio. Si manifesta come il ‘servo’. In lui tutti avranno perdono per la giustizia che è fedeltà di Dio al suo amore, misericordia senza limiti.

Giovanni Battista proponeva questo gesto di immersione nelle acque del fiume Giordano come un gesto di penitenza, segno dell’impegno ad una conversione: Gesù accoglie tale proposta del profeta del deserto che propone un volgersi a Dio distante dalle pratiche del tempio, dal sacerdozio e dal sistema dei sacrifici.

E’ questo il primo passo della missione di Gesù come messia del servizio e di un rapporto con Dio vissuto nella pratica della vita come dono. La scelta di Gesù di farsi immergere nelle acque è indicazione della sua via: intende la sua vita sulle tracce del servo e si fa solidale con il cammino dell’umanità in attesa di salvezza.

Alessandro Cortesi op

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Acqua

“27. (…) Conosciamo bene l’impossibilità di sostenere l’attuale livello di consumo dei Paesi più sviluppati e dei settori più ricchi delle società, dove l’abitudine di sprecare e buttare via raggiunge livelli inauditi. Già si sono superati certi limiti massimi di sfruttamento del pianeta, senza che sia stato risolto il problema della povertà.

28. L’acqua potabile e pulita rappresenta una questione di primaria importanza, perché è indispensabile per la vita umana e per sostenere gli ecosistemi terrestri e acquatici. Le fonti di acqua dolce riforniscono i settori sanitari, agropastorali e industriali. La disponibilità di acqua è rimasta relativamente costante per lungo tempo, ma ora in molti luoghi la domanda supera l’offerta sostenibile, con gravi conseguenze a breve e lungo termine. Grandi città, dipendenti da importanti riserve idriche, soffrono periodi di carenza della risorsa, che nei momenti critici non viene amministrata sempre con una adeguata gestione e con imparzialità. La povertà di acqua pubblica si ha specialmente in Africa, dove grandi settori della popolazione non accedono all’acqua potabile sicura, o subiscono siccità che rendono difficile la produzione di cibo. In alcuni Paesi ci sono regioni con abbondanza di acqua, mentre altre patiscono una grave carenza.

29. Un problema particolarmente serio è quello della qualità dell’acqua disponibile per i poveri, che provoca molte morti ogni giorno. Fra i poveri sono frequenti le malattie legate all’acqua, incluse quelle causate da microorganismi e da sostanze chimiche. La dissenteria e il colera, dovuti a servizi igienici e riserve di acqua inadeguati, sono un fattore significativo di sofferenza e di mortalità infantile. Le falde acquifere in molti luoghi sono minacciate dall’inquinamento che producono alcune attività estrattive, agricole e industriali, soprattutto in Paesi dove mancano una regolamentazione e dei controlli sufficienti. Non pensiamo solamente ai rifiuti delle fabbriche. I detergenti e i prodotti chimici che la popolazione utilizza in molti luoghi del mondo continuano a riversarsi in fiumi, laghi e mari.

30. Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità. Questo debito si salda in parte con maggiori contributi economici per fornire acqua pulita e servizi di depurazione tra le popolazioni più povere. Però si riscontra uno spreco di acqua non solo nei Paesi sviluppati, ma anche in quelli in via di sviluppo che possiedono grandi riserve. Ciò evidenzia che il problema dell’acqua è in parte una questione educativa e culturale, perché non vi è consapevolezza della gravità di tali comportamenti in un contesto di grande inequità.

31. Una maggiore scarsità di acqua provocherà l’aumento del costo degli alimenti e di vari prodotti che dipendono dal suo uso. Alcuni studi hanno segnalato il rischio di subire un’acuta scarsità di acqua entro pochi decenni se non si agisce con urgenza. Gli impatti ambientali potrebbero colpire miliardi di persone, e d’altra parte è prevedibile che il controllo dell’acqua da parte di grandi imprese mondiali si trasformi in una delle principali fonti di conflitto di questo secolo”.

Nella lettera enciclica Laudato si’ di papa Francesco  la questione dell’acqua è affrontata come una tra le emergenze che compongono il quadro di ciò che sta accedendo nella casa della Terra, in quella casa comune che è l’ambiente (LS 27-31) .

Una tra le conseguenze più drammatiche della mancanza di risorse idriche è lo scoppio di conflitti a motivo dell’acqua: l’Istituto Agenzia Italiana Sviluppo Sostenibile (Asvis) ha rilevato come 844 milioni di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile e 2,3 miliardi non hanno servizi igienici di base (dati 2018).

I cambiamenti climatici producono un aumento della temperatura e da qui hanno luogo i processi di desertificazione e di abbandono di regioni segnati dalla siccità da parte di intere popolazioni (i cosiddetti migranti climatici). A seguito del cambiamento climatico le guerre per l’acqua stanno diventando una emergenza. Il World Resources Institute in un report “Water, peace and security” (Wps), pubblicato il 5 dicembre 2019 a Ginevra ha presentato al riguardo uno studio che rileva come l’acqua diverrà nel prossimo futuro una delle cause principali di conflitto e emigrazione.

“Le crisi idriche stanno aumentando in tutto il mondo e saranno solo aggravate dai cambiamenti climatici. Comprendere la dimensione idrologica di tali crisi non è sufficiente per trovare soluzioni accettabili: dobbiamo anche comprendere le loro implicazioni sugli esseri umani e sui sistemi sociali, economici e politici, spesso mal equipaggiati per affrontare tali crisi in modo efficace e cooperativo”, ha dichiarato Eddy Moors, rettore dell’ Ihe delft Institute for water education. (Ivan Manzo, Nel 2020 previsti conflitti per l’acqua in India, Iran, Iraq, Mali, Nigeria, Pakistan; 27 dicembre 2019)

Nella Laudato sì c’è un invito a vivere il senso profondo del rapporto con le cose da leggere come creazione (LS 76): “Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato. La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca ad una comunione universale”.

E’ anche ricordato come nelle cose vi sia una presenza divina che è continuazione dell’azione creatrice (LS 80): “Lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo: «La natura non è altro che la ragione di una certa arte, in specie dell’arte divina, inscritta nelle cose, per cui le cose stesse si muovono verso un determinato fine. Come se il maestro costruttore di navi potesse concedere al legno di muoversi da sé per prendere la forma della nave» (Tommaso d’Aquino)”.

Il rapporto con gli elementi della terra e con le cose è così luogo di incontro con Dio (LS 233): “L’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto. Quindi c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero. L’ideale non è solo passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire l’azione di Dio nell’anima, ma anche arrivare a incontrarlo in tutte le cose”. A questo proposito è citato un mistico islamico maestro spirituale Ali Al-Khawwas: “C’è un “segreto” sottile in ciascuno dei movimenti e dei suoni di questo mondo. Gli iniziati arrivano a cogliere quello che dicono il vento che soffia, gli alberi che si piegano, l’acqua che scorre, le mosche che ronzano, le porte che cigolano, il canto degli uccelli, il pizzicar di corde, il fischio del flauto, il sospiro dei malati, il gemito dell’afflitto”.

“…la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti” (LS 93). Ed è proposta una direzione che non si limita a singole azioni limitate ma ad un nuovo modo di intendere la vita e a scegliere nuovi e diversi paradigmi secondo una visione culturale ecologica (LS111): “La cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico”.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

II domenica di Natale – anno A – 2020

IMG_6452Sir 24,1-4.8-12; Efes 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

Al cuore della prima pagina del IV vangelo sta l’espressione ‘E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi’. Più esattamente si potrebbe tradurre ‘pose la sua tenda in mezzo a noi’.

La tenda, chiamata la ‘dimora’, aveva accompagnato il percorso dell’esodo ed era il luogo in cui risiedeva la ‘gloria’ di Jahwè (cfr. Es 26,1-14): in essa era posta l’arca dell’alleanza con le tavole della legge. Tenda e arca sono simboli che rinviano all’alleanza e all’opera di liberazione di Dio sceso per liberare il suo popolo. Tale luogo era pensato come la sede in cui Dio aveva il suo trono sedendo sopra: “Davide…si alzò e partì con tutta la sua gente… per trasportare di là l’arca di Dio, sulla quale è invocato il suo nome, il nome del Signore degli eserciti, che siede in essa sui cherubini” (2Sam 6,2).

La tenda è vissuta da Israele come ‘luogo dell’incontro’: “a questa tenda del convegno posta fuori dell’accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore” (Es 33,9). La tenda è segno della presenza di Dio che accompagna il cammino d’Israele dall’Egitto verso la terra promessa. Sopra la tenda sostava la nube simbolo della presenza di Dio. La nube da un lato rivela e dall’altro mantiene velato; con la tenda indica la vicinanza del Dio altissimo che parlava con Mosè ‘come un uomo parla con un altro’.

Dio rimane l’inaccessibile, l’Altro dalla creatura, ma la tenda è luogo segno di incontro con Lui che si rende vicino ogni volta che si ascolta la sua Parola: ‘Io sono il Signore tuo Dio’. “Se due si riuniscono insieme per dedicarsi alle parole della Torah, la shekinah (la dimora) è presente” (Pirkê Abot III 3; cfr. Mt 18,20).

I profeti indicheranno che Dio non abita in qualche luogo particolare, ma abita il suo popolo: Dio sta in mezzo a Israele per adempiere la sua promessa: ‘Io sarò con te’ (Es 3,12) e la sua presenza è per costruire il suo popolo. Anche il tempio, sede dell’arca dell’alleanza nel tempo della stabilità dopo il cammino nel deserto, è solamente un segno. “Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché ecco io vengo ad abitare in mezzo a te… nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo popolo ed egli dimorerà in mezzo a te” (Zac 2,14).

“il Verbo ha posto la sua tenda in mezzo a noi” è espressione che rinvia a tali riferimenti. La Parola si è resa vicina nella presenza umana di Gesù. “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha raccontato” (Gv 1,18). Nel volto di Gesù il IV vangelo legge il farsi vicino della Parola di Dio: ha posto la sua tenda in mezzo a noi, nella umanità, la carne. Gesù spiega e fa vedere nel suo volto umano la gloria di Dio il Padre.

Il Verbo fatto carne è la nuova tenda di una alleanza, non frutto di opera umana, ma dono da accogliere: “a quanti però l’hanno accolto ha dato il poter di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo nome, i quali non da volere di carne, né da volere di sangue, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). La nascita di Gesù è vista dal IV vangelo nel mistero profondo della vita di Dio. Quella vita segnata dalla fragilità dell’esistenza umana (la carne) è ‘tenda’ in cui incontrare il volto di Dio, la sua Parola. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,4.14).

Alessandro Cortesi op

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Sguardi di umanità

E’ stata una scoperta particolare qualche anno fa. I restauratori dell’Opificio delle pietre dure di Firenze durante un sopralluogo nel vescovado di Fiesole hanno posto attenzione a quest’opera, una terracotta policroma, modellata nella creta con materiali particolarmente preziosi, indicazione di una ricca committenza. Si tratta di un modello utilizzato poi per altre repliche realizzate da questo prototipo. La Madonna di Fiesole è così stata sottoposta a restauro e presentata nel 2008. E’ apparso come la sua fattura, dipinta a freddo, fosse particolarmente raffinata al punto da condurre ad una attribuzione a Filippo Brunelleschi, il grande architetto fiorentino progettatore della cupola della Cattedrale di s. Maria del Fiore e del portico dell’Ospedale degli Innocenti. Brunelleschi fu anche scultore: si era formato in età giovanile in una bottega di scultori e aveva collaborato all’altare argenteo di san Jacopo di Pistoia. La terracotta è collocabile agli inizi del Quattrocento e risente dello stile di Brunelleschi come appare da un raffronto con il crocifisso di santa Maria Novella. Potrebbe essere un’opera giovanile successiva al concorso del 1401 sulle porte del Battistero e prima delle grandi opere di architettura.

Forse l’opera venne trasferita a Fiesole dopo la cacciata di Piero de’ Medici e della sua famiglia, avvenuta il 9 novembre 1494, a seguito del saccheggio del giardino di San Marco e delle altre proprietà Medicee. Risultano infatti scalpellati gli stemmi medicei alla base. La Madonna potrebbe essere stata recuperata da qualcuno e condotta a Fiesole in tale circostanza.

Nella terracotta Maria è raffigurata con volto giovane e delicato. Il suo sguardo si perde nell’orizzonte ma la sua testa è chinata dolcemente ad incontrare il volto del bambino e a sfiorare con il suo zigomo la fronte riccioluta, su cui scendono capelli dorati, di Gesù. La scultura evoca i pensieri di Maria in rapporto al suo figlio. Gesù è raffigurato nel movimento dello stringersi alla mamma. Anche nel suo sguardo traspare un velo di tristezza, quasi un movimento di ritrarsi. E’ proprio della tradizione iconografica cristiana raffigurare la madre il bambino, con una evocazione degli eventi della morte di Gesù, letta insieme  al mistero della risurrezione. Nel suo volto si delinea già l’ombra del dramma della sua vita, ma nel contempo l’abbandono in Dio e la decisione serena che guida la sua esistenza: una tenerezza che racconta la misericordia di cui la croce è segno supremo. Il bambino si stringe alla madre e quasi si rannicchia sotto il manto di lei che lo copre avvolgendone il corpo, non a coprirlo interamente, ma lasciandolo in parte nudo. Le sue gambine scoperte si intrecciano con la mano di Maria che ne tiene una come se stesse accarezzandola mentre l’altra le si appoggia dolcemente. E l’altra mano di Maria sorregge Gesù facendosi arco e appoggio al suo corpo. La nudità del bambino è indicazione della sua umanità, del suo condividere la fragilità di ogni creatura. Gesù si stringe alla mamma quasi aggrappandosi a lei e alla sua veste: una veste particolarmente preziosa, decorata con oro. Maria è raffigurata con sul capo una corona di cui sono andate perdute le punte risultando così come un cerchio che tiene fissato il suo velo. E così il suo volto manifesta i tratti di una giovane donna. Gesù appare nella sua fragilità, nella nudità del suo essere bambino, nella vulnerabilità di chi cerca rifugio e protezione con lo sguardo che sembra esprimere sentimenti diversi: paura, desiderio di sottrarsi al male e ai pericoli, senso di affidamento e ricerca di sicurezza ed anche riposo sereno nelle braccia della madre. Un dialogo silenzioso avvolge la scena di questo stare insieme, intrecciati e facendosi dono di tenerezza e di sostegno l’uno all’altra.

Il gruppo scultoreo è poggiato su una base rettangolare, in cui appaiono archetti intrecciati in stile gotico e sui lati degli stemmi che sono stati cancellati. Ai piedi la scritta ‘O mater Dei memento mei’, ‘Madre di Dio ricordati di me’: una preghiera che sgorga dal soffermarsi ad incontrare lo sguardo del bambino e della giovane madre.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

 

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