la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “ottobre, 2013”

XXXI domenica tempo ordinario anno C – 2013

DSCF4543Sap 11,22-12,2; Sal 144; 2Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10

“Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato”. C’è uno sguardo di Dio sulle cose: è uno sguardo di compassione. La vita di tutte le cose non è lasciata in un abbandono senza attenzione come là dove non esiste sguardo, nell’indifferenza che annulla. Ogni cosa, anche la più piccola, è sostenuta nel suo essere da uno sguardo che ne coglie l’unicità e il significato.

Ed è sguardo di compassione davanti alla fragilità: ne è immagine la poca polvere sulla bilancia o la goccia di rugiada al mattino. Che cosa di più effimero di un po’ di polvere che non pesa nulla sulla bilancia e che un lieve soffio fa scivolare via? Cosa più passeggero della rugiada che evapora quando i primi raggi del sole toccano le foglie intrise di umidità notturna e il primo tepore del mattino riscalda l’aria? Benché le cose siano così fragili, passeggere, esposte a svanire, come polvere, come rugiada, Dio ha uno sguardo che non teme di soffermarsi, e si lascia invadere da stupore, e comunica accoglienza.

E’ anche sguardo che reca in sè promessa di una vita: le cose non rimarranno abbandonate e saranno accolte, trasfigurate nello sguardo creativo. La riflessione sapienziale accompagna a cogliere la benevolenza dello sguardo di Dio ed è interessante che questo passo del libro della Sapienza sia inserito all’interno di una sezione che riflette sul cammino dell’Esodo in cui è condotta una polemica contro l’idolatria e il culto degli animali e delle cose presente in Egitto, da cui Israele è messo in guardia (cfr Sap 11,4-19,22). Ci può essere idolatria delle cose ma si può rilevare lo spessore profondo delle cose, traccia di uno sguardo benevolente. Al di dentro di esse, quale tesoro in esse racchiuso, si può incontrare lo sguardo del creatore: tutte sono venute da lui ed egli ha ritirato se stesso per lasciar spazio ad altro, ad un mondo fragile di realtà segnate dalla precarietà ed anche dal peccato. C’è una traccia di Dio dentro le cose, un soffio che unisce come medesimo respiro la vita del creatore e delle sue creature: ‘il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose’. Così fragili, così esposte al venir meno eppure toccate da un soffio che le sostiene e le fa stare in una relazione. Sta in questa profonda intuizione di una presenza, nascosta eppure realissima, di Dio nella creazione, nelle pieghe più intime della realtà creata, una delle dimensioni della fede cristiana da scoprire ancora. Ed è questo un punto essenziale d’incontro con quella tensione profonda della ricerca umana e di ogni tradizione religiosa che si apre ad una ricerca di un ‘oltre’ a partire dallo sguardo alle cose, dalla meraviglia o dall’esperienza di energia e vita che le cose recano in sè.

Il volto di Dio che traspare da questa pagina è il Dio delle piccole cose, il Dio di cui ritrovare traccia non fuori del mondo, ma nelle cose, nella loro stessa fragilità: un Dio fragile. Lo sguardo di Dio si appoggia come carezza sulle cose e sulle persone. E’ sguardo amante, segno di una presenza che assume il nome di ‘amante della vita’: nella sua grandezza e benevolenza guarda alla possibilità di bene presente nell’umanità. ‘Tu sei indulgente con tutte le cose perché sono tue, Signore amante della vita’. Lo sguardo è comunicazione di un amore che si offre e guarda al cammino umano, non con l’esigenza inflessibile di chi non conosce la sofferenza ed è incapace di compatire, ma con la passione amante di chi conosce debolezza e si prende cura, con la pazienza di un educatore che sa la fatica della crescita, che conosce i passaggi del cammino e sa seminare speranza: “Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore”

E’ questo sguardo forse da accostare allo sguardo che Gesù manifesta nei confronti di Zaccheo. Il ricco esattore delle imposte di Gerico è uomo che aveva molte ragioni per essere impedito dal vedere Gesù e che pure cerca di superare ostacoli e si lascia vincere dalla sua curiosità, dal desiderio di vedere, dalla spinta di ricerca che gli premeva dentro.

Zaccheo – fa notare Luca – supera gli ostacoli che erano questioni legate alla sua vita: basso di statura, capo dei pubblicani e ricco. Esattore delle imposte, immerso in una vita disprezzata e che lo conduceva all’imbroglio, alla fatica quotidiana di conquistarsi uno spazio di vita tra le esigenze dei romani e il sospetto dei suoi compaesani, soprattutto a quella solitudine di non poter avere relazioni di amicizia, di sincerità, quelle relazioni che si costruiscono nella accoglienza della casa. Ed anche per la sua statura non riesce a superare l’ostacolo posto dalla folla. Luca sottolinea come la difficoltà per Zaccheo nel cercare di incontrare Gesù è data dalla folla come insieme anonimo, che non cerca Gesù pur assiepandosi ed acclamandolo guidata da qualche interesse e dall’entusiasmo facile. Ma costituisce una barriera che fa ostacolo alle ricerche profonde e autentiche che sono al fondo dei cuori e che esigono un riconoscimento personale. Zaccheo dimostra la creatività e l’intuizione di divenire se stesso. Salendo l’albero di sicomoro cercava di vedere e pensava così di avere egli stesso superato le difficoltà, con la sua inventiva, con le proprie forze.

Scopre invece che non l’appagamento di una curiosità, ma un cambiamento radicale, la scoperta di dimensioni nuove della sua vita – la salvezza – irrompe come dono. Inaspettatamente vive infatti l’esperienza di essere lui stesso cercato, anticipato, e superato nella sua stessa attesa dallo sguardo di qualcuno che lo precede. Cercava di vedere Gesù ma si scopre per primo cercato da lui. Gesù rivolge a lui il suo sguardo, e Zaccheo viene incontrato da colui che cerca ciò che è perduto. E’ lui che voleva vedere Gesù, ma di fatto è Gesù per primo che alza gli occhi verso Zaccheo, fissa il suo sguardo verso di lui, sa leggere e accogliere la sua ricerca e la conduce ad andare oltre.

Luca presenta qui anche una sorta di progetto di evangelizzazione alla sua stanca comunità. Gesù chiede a Zaccheo di fermarsi in casa sua: “Oggi devo fermarmi in casa tua”. C’è un oggi, un tempo nella vita che apre al fermarsi, al condividere, allo stare insieme. Non è momento di insegnamenti, dottrine, codici, ma di incontro nelle dimensioni quotidiane e domestiche della casa. Nella casa si vive la quotidianità e nella casa si condivide. E si tratta della casa non di una persona dabbene ma di un peccatore. La folla, tutti, ‘mormoravano’ – dice Luca -: “E’ entrato in casa di un peccatore”. In questo mormorare, che esprime il dubbio circa la presenza di Dio in mezzo al suo popolo – come nella mormorazione del deserto per Israele – si rivela paradossalmente quell’identità di Gesù che Luca delinea nel suo vangelo. Colui che è nato e deposto in una mangiatoia perché non c’era posto per lui nell’alloggio (Lc 2,7), trova alloggio entrando nella casa di un peccatore. Luca offre così un ritratto di Gesù: egli è colui che valica i confini che tengono separati giusti e peccatori; è colui che condivide e apre un tempo nuovo, un ‘oggi’ di salvezza che si compie nella condivisione e nell’ospitalità. Gesù è colui che cerca tutto ciò che è perduto.

Dal suo sguardo, dall’ospitalità ricevuta e donata sorge un cambiamento. E’ un cambiamento nella gioia che tocca i rapporti con l’altro. A Zaccheo si spalancano gli occhi: la salvezza diviene per lui rovesciamento dei rapporti di truffa e di ruberia, in rapporti di giustizia e di dono sovrabbondante che va oltre il dovuto. La salvezza è cammino che si apre per intendere la vita nel segno di un incontro che si apre ad altri, e che rimane segnato dallo sguardo e dalla ricerca di Gesù verso di lui.

Penso ad alcuni motivi di riflessione per noi oggi

Lo sguardo di Dio sulla bontà delle cose. Quanto siamo ancora segnati da una mentalità che guarda le cose o con la mentalità dei padroni che possono disprezzare rovinare e depredare le cose, oppure con la mentalità dualista per cui le cose non hanno valore e ciò che conta non ha a che fare con la materialità, con la corporeità delle cose e delle persone. Dovremmo imparare ad accogliere lo sguardo di bene di Dio sulle cose per vivere il rapporto con le cose in termini di cura e di benevolenza, di accoglienza e di custodia. Le cose, nella loro materialità ci insegnano la preziosità di ciò che sembra inutile e fragile, ci insegnano il valore di quanto si offre nella sua inutilità ma come parte di un mondo in cui scoprire le interazioni, ci guidano alla dimensione ecologica del nostro esistere come un vivere nella casa e un compito di ‘fare casa’, tessuto di relazioni e di interazioni sempre da ricostruire e sempre da ritrovare in un equilibrio sempre minacciato da una mentalità del possesso e del profitto. C’è uno sguardo da apprendere anche per prendersi cura di chi è più fragile, mentre solito il nostro sguardo si lascia attrarre da chi è più forte.

Lo sguardo di Zaccheo alla ricerca di Gesù: è paradigma di ogni sguardo che esprime la ricerca interiore, l’apertura a qualcosa che non si è raggiunto nella vita. E’ la ricerca di tanti che desiderano superare ostacoli interiori ed esteriori per rintracciare un senso alla propria esistenza. Gesù accoglie questa ricerca, anzi scorge in questa curiosità, nell’inquietudine che porta nella ad intraprendere viaggi, percorsi, ricerche diverse, uno spazio di disponibilità e di accoglienza. Gesù si è lasciato accogliere. Forse dovremmo essere meno preoccupati di portare qualcosa agli altri e accogliere le ricerche e valorizzare i desideri di ‘vedere’ nell’esistenza, varcare le soglie che dividono giusti e peccatori, persone dabbene e persone marginali e entrare in queste case. Si può scoprire una gioia inattesa…

Zaccheo è una storia di accoglienza e ospitalità: ed è una storia in cui il tempo della vita, l’oggi, si fa luogo di un incontro con Gesù che diviene cambiamento dell’esistenza. Un cambiamento generato dall’incontro. Oggi forse la sfida, in una realtà sociale segnata dalla frammentazione e dalla solitudine che diviene isolamento indifferenza ed esclusione, è quella di creare spazi e luoghi di accoglienza. Luoghi in cui le ricerche, le fatiche, i dubbi delle persone possano essere accolti e accompagnati offrendo condivisione e in un incontro di ricerche. In tanti modi tali ricerche sono nascoste spesso occultate dal clamore della folla: la realtà mediatica, il peso dato all’apparenza esteriore o anche forme di religiosità centrate sulla manifestazione spesso nascondono e impediscono tali cammini. Ci sono percorsi interiori profondi che hanno bisogno di essere ospitati e visitati con la delicatezza di chi si lascia interrogare dall’altro. Gesù porta il vangelo come ricerca di chi è perduto nella dimensione della visita. Lì nella casa si genera, a partire dal varcare soglie che separano, la possibilità di una scelta libera di rapporti nuovi con gli altri.

Un’ultima osservazione: l’aver incontrato Gesù, e in lui aver trovato la salvezza si esprime per Zaccheo, ma anche per ognuno di noi in un rapporto nuovo con gli altri in relazioni nuove che coinvolgono la concretezza della vita, il modo di pensare e usare i beni, le cose, nella linea della giustizia e del dono.

Alessandro Cortesi op

XXX domenica tempo ordinario anno C – 2013

DSCF4374Sir 35,15-22; Sal 33; 2Tim 4,6-18; Lc 18,9-14

Due uomini salirono al tempio a pregare… Gesù fissa in un’istantanea, in un momento nel tempio, nello spazio della preghiera, due volti, due atteggiamenti di fondo. Il fariseo e l’esattore delle imposte. Da un lato una persona giusta, corretta, anzi di più, impegnata oltre il dovuto e tesa a condurre una vita segnata da opere buone e da un’attitudine di giustizia, dall’altro un uomo che svolgeva un lavoro disprezzato per conto della potenza occupante romana e che attuava pratiche disoneste ed esose nei confronti dei suoi connazionali.

Entrambi si rivolgono a Dio, ma la loro preghiera respira di modi diversi di intendere tutta la vita. Il loro modo di pregare è specchio del modo di intendere la vita e di concepire il rapporto con Dio stesso. Due atteggiamenti sono evidenziati così in modo contrapposto: il fariseo sta in piedi, ritto davanti a Dio e nelle sue parole non è espressa invocazione né richiesta ma solo vanto di quanto riesce a fare e ringraziamento per essere migliore degli altri e diverso da loro. L’esattore invece si tiene a distanza, si batteva il petto e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo.

Gesù sottolinea questo diverso atteggiamento che si riversa nel modo di pregare ma che in sé reca un modo di intendere tutta la vita. Il fariseo parla di se stesso: il suo sguardo è concentrato su di sé, pieno di presunzione per quanto riesce a fare anche oltre il dovuto. Non si rivolge a Dio chiedendo qualcosa, ma esige un riconoscimento della sua situazione di uomo giusto. E il suo sguardo verso l’altro è uno sguardo duro, che tiene a distanza ed esclude. Il disprezzo appunto.

L’esattore non è un uomo da indicare come esempio, e la sua preghiera è riconoscimento di
inadeguatezza e di peccato e richiesta di pietà: ‘abbi pietà di me peccatore’. Non chiede a Dio di approvare il suo modo di vivere ma invoca un’accoglienza, chiede solo di essere accolto non perché lo merita ma per pura generosità. E’ la gratuità che non ha mai sperimentato e che non può sperimentare da coloro che gli stanno vicino. La distanza stessa che mantiene dice il senso di indegnità che avverte in sé, il suo non presumere nulla di se stesso.

Sono due attitudini di stare davanti a Dio e di intendere il rapporto con gli altri: il fariseo è gonfio di se stesso. Pur giusto e impegnato si appoggia sul suo agire, sulle sue forze, sui suoi risultati. E’ così schiavo – ed anche espressione consapevole o inconsapevole – di un sistema religioso che lo tiene ripiegato su di sé. L’esattore manifesta invece una consapevolezza profonda, che tutto può venire solo da Dio, che la sua vita dipende dalla gratuità di uno sguardo che solo può salvarlo e liberarlo. La salvezza non è un premio che certifica un cammino, ma è radicalmente dono. Questo il fariseo non lo comprende, mentre l’esattore si affida riconoscendo la sua condizione. Si batte il petto, riconosce di dover cambiare, e soprattutto attende tutto da Dio, non presenta pretese di fronte a Lui. Non è umile perché si abbassa, ma si pone in verità davanti a Dio.

Luca dice – offrendo così una chiave di lettura di queste righe – che Gesù pronunciò questa parabola “per alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri”. E’ una parabola che conduce a riflettere su come la preghiera sia esperienza che rivela l’attitudine che sta al cuore dell’esistenza. Smaschera la grande tentazione sempre presente in chi cerca di vivere nella linea dell’impegno, della giustizia. Il rischio sottile sempre presente in chi vive un percorso religioso sta nel perdere di vista che la salvezza è dono. E l’errore di fondo di intendere il rapporto con Dio si rende evidente nel modo in cui si guarda agli altri: il rischio è quello di maturare uno sguardo di distanza e di durezza, di disprezzo verso gli altri. La vita del fariseo è piena di cose buone, ma c’è un elemento che trasforma tutto e lo rende luogo di incomprensione totale del rapporto con Dio: è l’attitudine centrata su di sé, la presunzione intima e il ripiegamento. La fiducia non rivolta al di fuori di sé, nella relazione, ma ripiegata su se stesso, sulla bontà delle sue opere. Per questo non riconosce il primato di Dio e della sua grazia. Il suo sguardo di disprezzo lo tiene a distanza dall’altro, gli impedisce di incontrarlo e di sentirsi solidale con la vita degli altri.

C’è anche un’altra sottolineatura della parabola: è un invito rivolto a tutti coloro che vivono una storia ferita a riconoscere che lo sguardo di Dio verso ciascuno è di pietà e di accoglienza. Gesù critica una religione che diventa luogo di sicurezza e che genera senso di superiorità nei rapporti con gli altri. Solo chi accetta di stare davanti a Dio riconoscendo la propria inadeguatezza, il proprio peccato ed il bisogno di essere salvato e liberato scopre la grandezza di un dono. E’ una parola di speranza per tutti: anche quando tutte le porte umane siano chiuse non è chiusa la porta della misericordia di Dio. Gesù chiede di non perdere il senso della propria povertà e della salvezza come dono che viene solamente da Dio.

Il fariseo è l’uomo tronfio della sua autosufficienza, della sua religiosità costruita attorno ad un agire buono che è senza respiro perché tutto centrato su di sé. E’ la religiosità esclusiva di chi non sa guardare all’altro e di chi non si pone la domanda di verità: ‘qual è il mio peccato?’ e ‘potrei anch’io sbagliare come e ancor di più di chi ha sbagliato vicino o lontano da me’. Il fariseo è ‘ipocrita’ nel senso etimologico del termine perché vive all’interno di una parte teatrale fatta di apparenza – così facile nel contesto religioso e clericale – di esteriorità di attività buone che non sono coerenti con un’interiorità nutrita di autosufficienza e di disprezzo, di egoismo e narcisismo.

Ascoltiamo questa parabola mentre è vivo il dibattito sulla situazione delle carceri. Di fronte a situazioni disumane a cui si costringe a vivere chi è trattenuto nelle carceri italiane è sorprendente avvertire l’indifferenza e addirittura le voci ipocrite di coloro che richiamano ad una punizione senza pietà. Verso chi ha sbagliato e a chi ha vissuto l’ingiustizia o il male è spesso presente un’attitudine di tipo giustizialista e punitivo. Il modo di valutare queste situazioni è spesso segnato dalla mentalità del fariseo che si ritiene giusto e tende solo a distinguersi e tenersi a distanza da chi ha sbagliato. Ci possiamo chiedere in quali modi maturare una solidarietà con chi, pur avendo sbagliato e avendo compiuto il male, può aprirsi a percorsi di cambiamento. Come testimoniare, pur nel riconoscimento dei legittimi percorsi della giustizia umana, uno sguardo che testimoni la speranza offerta per tutti, la possibilità di una logica di perdono che va oltre la rigida giustizia? Come non scambiare lo sguardo di attenzione e di misericordia con il non riconoscimento del male, con l’assuefazione a condizioni di diseguaglianza, ai privilegi dei grandi e di chi detiene il potere, alla giustificazione dell’illegalità di chi ha i mezzi per sfuggire sempre alle esigenze dell’equità e della giustizia?

La parabola di Gesù conduce a scoprire la salvezza come dono, non come opera nostra. Ascoltiamo questa parabola nel contesto di un mondo in cui prevale la logica del dominio del denaro e del prezzo di ogni cosa, per cui si conosce il prezzo di tutto ma si perde il senso del valore delle cose, delle persone, delle relazioni. Come uscire da una mentalità religiosa modellata sul modello del dare-avere, sulla pretesa, e sulle opere attuate spesso secondo la logica che il fine giustifica i mezzi? E come introdurre nelle dinamiche della vita, del lavoro, delle relazioni quel respiro di dono e gratuità che deriva dal sapersi guardati con benevolenza da Dio che ha pietà di noi e che ascolta la preghiera del povero?

Alessandro Cortesi op

80 anni di volti e storie

Qui di seguito due link a pagine della stampa locale vicentina che hanno riferito dell’incontro festivo svoltosi sabato 12 ottobre u.s. in occasione degli 80 anni di don Lino Genero, prete vicentino, educatore di generazioni di giovani.
A seguire una mia riflessione di testimonianza personale inserita, insieme a tante altre, nel libro pubblicato per l’occasione con il titolo: “Momenti forti, Gli 80 anni di don Lino Genero e l’esperienza del Movimento studenti di A.C. a Vicenza” a cura di Antonio Di Lorenzo, Piero Erle e Giovanni Maderni.

Don Lino

don Lino Voce dei Berici

Ho incontrato per la prima volta don Lino al Pordoi. Il vecchio albergo in pietra, antica proprietà dei gesuiti, pochi tornanti sotto il passo omonimo, era utilizzato in quegli anni per i campi-scuola. Era il 1974 e conclusi gli esami di terza media avevo accettato la proposta del mio insegnante di religione, don Lino Berton – che dopo poco morirà prematuramente su un sentiero di montagna – a partecipare ad una settimana per ragazzi più grandi, di prima e seconda superiore. Ho ricordi vaghi di quei giorni di fine giugno, a parte lo scricchiolare delle scale di legno della casa, la meraviglia della luce al tramonto sulle pareti del Sassolungo su cui dava la finestrina della stanza dove stavo, occupata dai letti a castello, all’ultimo piano. Ma ricordo l’atmosfera viva di fraternità che respirai sin dai primi momenti di accoglienza, quasi un ingresso in un mondo di giovani dove qualcosa stava nascendo di nuovo. Ricordo attività di gruppo, gite, relazioni. Poi un breve dialogo quando don Lino entrò – era forse l’ultima sera – nella camera dove probabilmente tardavamo in chiacchiere e confusione. Percepii in lui uno sguardo positivo, pieno di speranza verso noi ragazzi. Non s’imponeva, stava ad ascoltare, a volte imbarazzava con i suoi prolungati silenzi ed aveva un modo di accostarsi timido, che non s’imponeva. La proposta fu quella di rivederci alla ripresa della scuola in via Mure Pallamaio nella sede del ‘Movimento’. E così feci. I ricordi sono ancora vaghi ma mi rivedo, timidissimo e incerto, in una grande sala affollata di giovani, ma tutti più grandi di me, ad andare avanti e indietro per incrociare lo sguardo di don Lino, per essere riconosciuto e ricevere il suo saluto. E ricordo anche di aver assistito ad una discussione in un’assemblea in cui si contrapponevano due linee progettuali, l’esigenza di un cammino di maturazione interiore e di interiorità da un lato e la proposta un impegno proiettato prevalentemente sul sociale dell’altro perché compresi che alcuni erano attivi nella Pro senectute.

Porto poi il ricordo e l’impressione di una Messa in cui tutti sedevano da ogni parte nella piccola cappella, prendevano liberamente la parola, non c’era il clima compassato e distante delle Messe in parrocchia e molti parlavano sulle letture rapportandole alla vita. Questo stile mi faceva sentire inserito in un ambiente dove c’era spazio anche per le mie inquietudini, i miei dubbi, il mio desiderio di anticonformismo. Don Lino mi chiese di coinvolgere i compagni di scuola vedendo se qualcuno era interessato a formare un gruppo. Poi una tra le prime richieste fu quella di leggere i testi di un libretto per la preghiera per verificare se il linguaggio andava bene anche per me che ero uno tra i più piccoli. Mi sentii responsabilizzato da quel compito, e cominciai così a respirare un’aria nuova di un ambiente in cui tutti erano importanti e ciascuno era accolto per portare un suo contributo unico per la vita insieme.

Avvertivo che c’era qualcosa infatti da realizzare insieme e in stile di collaborazione. Don Lino era presenza all’interno di un ambiente più ampio in cui lui certamente era importante ma accanto a tanti altri. Era un’atmosfera quella che si respirava, un ambiente, in cui l’esperienza insieme faceva crescere. Da lì iniziò poi un coinvolgimento nella vita dei gruppi e delle attività del ‘movimento’ che non sapevo bene cosa fosse ma che per me significò dapprima gli incontri con il gruppo di coetanei, poi progressivamente l’approfondimento della fede, i campi scuola, e l’entusiasmo di vedere che la vita in ogni suo aspetto, scuola, tempo libero, amici poteva essere vissuta con impegno con il riferimento al vangelo e nel farsi carico degli altri. Ma soprattutto nell’incontro.

Da allora è iniziato un periodo intenso, durato circa dieci anni in cui ho vissuto accanto a don Lino, condividendo impegno, esperienze, incontri, cammini che è difficile tradurre in poche righe. Vivere con don Lino significava essere immersi nel mondo in cui lui si spendeva e condividere un impegno educativo nella relazione con tante generazioni di giovani. Vorrei solamente richiamare tre immagini che possono rinviare a quell’esperienza ritrovando alcuni tratti della sua figura e di quanto ci ha comunicato.

La prima immagine è un foglio con lunghe liste di nomi e cognomi: i fogli erano molti e le liste scritte a mano. Don Lino ricalcava con la penna, marcando ripetutamente nomi e cognomi, annotando brevi appunti, mentre ci parlava dei volti che stavano dietro a questi nomi. Potevano essere i suoi alunni a scuola o i ragazzi iscritti ad un campo, o più spesso i membri dei gruppi che sin dal primo pomeriggio – le fatidiche due e mezza – ogni giorno si riunivano al Movimento. Questa attenzione ai nomi e il tempo dedicato nel sostare su quei nomi è a mio avviso un primo tratto proprio di don Lino: la sua passione educativa, il suo sguardo che coglieva nel muoversi scomposto e sgraziato di adolescenti la scorza ancora acerba che nascondeva una ricchezza tutta da scoprire e da accompagnare a maturare. Don Lino ha avuto un dono innato di educatore e nel rapporto con i giovani ha saputo esprimere anche una linea di educazione che privilegiava l’ascolto e il contatto diretto, personale. La sua attenzione era rivolta ai percorsi singoli ed era sospettoso delle forme di un attivismo allora in voga in molti ambienti parrocchiali o del modello di Comunione e liberazione che in quegli anni stava affermandosi. Don Lino spendeva tempo nell’ascolto ed il dialogo personale era per lui il momento centrale di un accompagnamento che si compiva in modo silenzioso nel far maturare coscienze capaci di scelte personali.

Una seconda immagine è quella della Bibbia di Gerusalemme, ingiallita e consumata dall’uso e insieme ad essa di quelle Bibbie che venivano impilate su alcune sedie e che potevamo prendere all’inizio dei momenti di preghiera. Rivedo così don Lino, seduto in cappella o ad un tavolo, con la Bibbia in mano e davanti a lui tanti ragazzi – spesso gruppi di coetanei – seduti in cerchio attorno a lui. Il suo tenere la Bibbia in mano non era occasione di difficili esegesi. Piuttosto era occasione di dialogo, tentativo mai concluso di mettere in rapporto la Bibbia e la vita, tensione mai sopita di parlare la lingua del vangelo e di vivere la semplicità delle parabole di Gesù che toccavano per una decisione e per un progetto di vita.

C’era la Bibbia in tante giornate trascorse; c’era la Bibbia al centro di tanti interventi ai campi scuola, c’era la Bibbia come libro della preghiera. Ricordo l’insistenza con cui veniva proposta la preghiera come esperienza di incontro personale e comunitario con Gesù, come spazio di maturazione di una interiorità che avrebbe poi trovato le modalità di espressione in un servizio e in un impegno. E al centro la Bibbia. Di questo sono grato a don Lino: ci ha aperto la porta della Parola contenuta nella Scrittura. Ci ha messi in contatto con alcuni tra i maggiori biblisti italiani, ce li ha fatti incontrare come maestri e amici, don Bruno Maggioni, don Rinaldo Fabris. Ha avuto il fiuto di cogliere ambienti di educazione alla preghiera, al silenzio, all’interiorità come la Spello di Carlo Carretto e di Giuseppe Florio.

In tante giornate trascorse insieme, in tante serate c’era la Bibbia e con la Bibbia c’erano le pagine di dispense e sussidi. Erano dispense di fogli di carta grossa, fogli che impilati uscivano inchiostrati dal ciclostile che con il suo rumore ritmico accompagnava interi pomeriggi al movimento. Ma il ciclostile era l’ultimo passaggio dopo la sbobinatura dei testi, le correzioni e la battitura con le macchine da scrivere sulle matrici utilizzando il miracoloso correttore rosso quando si sbagliava. Avverto così ancora quell’odore di inchiostro che si diffondeva nei corridoi e che era accompagnato dalla voce di don Lino che richiamava all’importanza e all’urgenza di quel lavoro.

La lettura della Bibbia che don Lino proponeva era compiuta con attenzione pastorale e con un approfondimento di studio che non aveva un carattere intellettualistico. Ricordo le scuole bibliche al sabato pomeriggio in cui a turno ci si doveva preparare per poi presentare un brano o un libro biblico. Così pure le scuole bibliche della domenica mattina, prima della messa. Erano momenti di traduzione di quel metodo ‘vedere giudicare agire’ che era praticato nella Gioc francese e che in quegli anni trovava espressione nella lettura popolare della bibbia nelle comunità di base dell’America Latina, compiuto tuttavia con una capacità di interpretazione e di adattamento alla situazione specifica.

E poi le Messe al ‘movimento’, quel momento di scambio, di incontro e di ascolto insieme di una parola che generava vita. Cercando sempre di creare continuità tra momenti di celebrazione e momenti quotidiani, con i libretti di preghiera che uscivano da elaborazioni faticose su testi e letture. Se dovessi dire il senso che porto dentro di quell’esperienza e di quegli anni lo sintetizzerei nel senso di una libertà profonda che l’esperienza di fede generava. Era una libertà da tante forme chiuse e grette e un forte senso di partecipazione e responsabilità verso gli altri. La modalità della vita di gruppo, l’impegno dei più grandi nei confronti dei più piccoli con l’esperienza di divenire animatori nei gruppi è stato un luogo importante di crescita personale e di maturazione di capacità di relazione.

Infine una terza immagine: è l’immagine del cortile davanti al Movimento, affollato di tanti ragazze e ragazzi. E’ l’immagine di una comunità in cammino e che don Lino desiderava come luogo in cui imparare a divenire capaci di servizio per gli altri. E’ l’immagine che si accompagna con il sentimento interiore di avere maturato qualcosa di importante, di essere testimoni, non da soli, ma insieme. Questa sintonia tra di noi si manifestava in progetti comuni, in disponibilità diverse sul piano educativo, nella partecipazione alla vita della chiesa locale, nella partecipazione appassionata alla vita delle scuole, sul piano sociale. Don Lino ha creduto nella comunità, non ripiegata ma aperta e capace di testimonianza. Ha spinto anche ciascuno a prendersi carico della realtà in forme di servizio e impegno diverse: l’attenzione sociale, educativa, politica. Vivere la comunità non è mai percorso concluso, si esplica nelle forme di vita ecclesiale e in tutti i percorsi di vita insieme, di vita nella città. E’ presente nel tessuto di legami che a distanza di quarant’anni ci fa incontrare in questa bella occasione degli 80 anni di don Lino, con la semplicità e l’entusiasmo di quegli adolescenti che eravamo, disponibili a rispondere con tutto il cuore a richieste di impegno e a vivere con la passione di cui si è capaci a quindici anni.

La fiducia nelle persone e nell’educazione, la Parola nella Scrittura, la vita di una comunità responsabile e capace di condividere, la testimonianza nel servizio. E’ questa un’eredità che don Lino ci ha lasciato e di cui essergli grati oggi: è l’eredità del Concilio Vaticano II ed è l’eredità insieme di una passione civile e politica che don Lino ha espresso nel suo impegno a formare giovani generazioni guardando oltre. Da lui ancora possiamo imparare la sua attitudine a non attardarsi nella lamentela del tempo difficile o a lasciarci vincere dalla delusione. Possiamo far tesoro del suo sguardo in avanti, nella tensione a fare il possibile con costanza giorno dopo giorno. Ed essere grati a lui per il suo sguardo di speranza, quello di chi nella vecchiaia non smette di piantare alberi e di porre semi. E’ questa un’eredità ancora da compiere.

Nel Deuteronomio si dice che Mosè morì a centovent’anni: un commento rabbinico dice che i primi quarant’anni per Mosé furono gli anni dell’Egitto, poi i secondi quaranta furono gli anni del cammino nel deserto. Il cardinal Martini commentando queste fasi della vita di Mosè ha notato come i primi quaranta sono gli anni della scoperta della propria vocazione, i secondi quaranta il tempo della generosità nel darsi ad un grande ideale, la liberazione del popolo, incontrando però anche lo scacco e la prova. Gli ultimi quaranta sono segnati dalla scoperta che Dio è colui che opera nella vita, che Dio agisce e tutto quello che Mosè ha potuto compiere è dono di Dio stesso. E’ la medesima scoperta fatta da Elia quando avverte solo nella ‘voce di un leggero silenzio’ che Dio è stato presente nella sua vita, nei volti, negli incontri, nella storia quotidiana e gli è vicino sempre.

E’ questo l’augurio che vorrei fare a don Lino, e insieme a lui anche a tutti noi.

Alessandro Cortesi

Incroci di voci

incroci-di-voci-interno
incroci-di-voci-esterno

Un re un giorno, rese visita al grande mistico sufi Farid. Si inchinò davanti a lui e gli offrì in dono un paio di forbici di rara bellezza, tempestate di diamanti. Farid prese le forbici tra le mani, le ammirò e le restituì al suo visitatore dicendo: ‘Grazie, sire, per questo dono prezioso: l’oggetto è magnifico; ma io non ne faccio uso. Mi dia piuttosto un ago’. ‘Non capisco’ disse il re. ‘Se voi avete bisogno di un ago, vi saranno utili anche le forbici!’. ‘No’, spiegò Farid. ‘Le forbici tagliano e separano. Io non voglio servirmene. Un ago al contrario, cuce e unisce ciò che era diviso. Il mio insegnamento è fondato sull’amore, l’unione, la comunione. Mi occorre un ago per restaurare l’unità e non le forbici per tagliare e dividere’.
(J.Vernette, Parabole d’Oriente e d’Occidente, ed. Messaggero Padova 1995)

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«Il tempo ci obbliga oggi a vivere le differenze come ponti per l’incontro. Vivere le divergenze come altrettante occasioni per il dibattito e il dialogo fraterni, sereni, obiettivi e rispettosi. Vivere la pluralità come una ricchezza incomparabile. Dobbiamo anche stupirci della parte di mistero che ciascuno cela in sé. Dobbiamo poi aprirci per scoprirci e offrirci al fine di accogliere»
(Dahmane Belaid, musulmano algerino, amico dei monaci cristiani di Notre Dame de l’Atlas)

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Tempo verrà
in cui con esultanza
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti, è festa: la tua vita è in tavola.
(Derek Walcott, Amore dopo amore, in Mappa del nuovo mondo, Adelphi MIlano 1987,99)

testi citati in B.Salvarani, Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, ed. Dehoniane Bologna, 2003, 2 ed.

Pregare nella comunione

Mentre riflettevo sulle letture di domenica prossima, centrate sull’invito a pregare sempre senza stancarsi mi ha colpito la lettura di questo articolo, di Giovanni Bianchi: sono parole intrise di dolore e di domanda scritte in occasione della morte della figlia Sara Bianchi, ma sono parole che comunicano il senso di una preghiera come vita davanti a Dio, al suo silenzio e alla sua presenza.
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Da “Il sole 24 ore” 16 ottobre 2013
Una folla commossa si è raccolta ieri a Sesto San Giovanni per l’ultimo saluto a Sara Bianchi, la giornalista del Sole 24 Ore deceduta sabato. Il Gruppo 24 Ore ha deciso di intestare a Sara la “Sala Collina” nella sede di Milano. Pubblichiamo il ricordo che il padre Giovanni, ex presidente nazionale delle Acli e parlamentare del Ppi, le ha dedicato al termine della cerimonia.

Giovanni Bianchi
Una sera d’estate di qualche decennio fa, là fuori, sul sagrato di questa chiesa don Aldo Farina, allora parroco alla Resurrezione, mi vide crucciato e me ne chiese la ragione. Sara è troppo inquieta. Non ti preoccupare. Lasciale tempo e vedrai. Ho seguito il consiglio di don Aldo. È destino di noi genitori moderni e postmoderni aspettare i nostri figli, anche di notte, e lasciarci in buona misura educare da loro.
La malattia, velocissima e vorace, è piombata tra noi il Natale scorso.

In quest’ultimo mese la risonanza magnetica per stabilire l’entità delle metastasi al cervello è stata una delle tappe più temute. Sara desiderava che l’accompagnassi durante l’esame, ma mi fu impedito dai sanitari. Quando riemerse si concesse una delle sue uscite ironiche ed autoironiche: «Questi dottori della risonanza hanno l’aria di chi pensa “poveretta cos’hai dentro”, e per giunta non sempre hanno la faccia intelligente». Poi un’informazione inattesa: «La macchina è soffocante ma non è durato molto, neanche il tempo del rosario».
Era abituata a pregare. Con una scelta delle chiese e delle liturgie secondo un criterio drastico: dovevano essere vitali, positive, mentre rifiutava esplicitamente i luoghi che le suggerivano a qualche titolo atmosfere di morte.

Quindi subito una botta di vita. Superata la risonanza si doveva andare in centro Milano – sempre in macchina, mai il metrò – per acquistare il regalo di compleanno: due paia di jeans, ovviamente i più costosi. E poi un panzerotto, negatoci dalla chiusura settimanale del negozio.

Questo stavamo imparando insieme in questi mesi precipitosi eppure senza tempo: che la vita deve essere gustata fino in fondo. Questa è l’unica scelta sensata, ci dicevamo, vivere al massimo. Perché della vita sappiamo almeno in parte cosa sia, sulla morte quasi nulla. Ma ci muove la fondata speranza indicata dal cardinale Martini: che allora, all’ultimo passo terreno, sia il Signore a venirci incontro. Su questo l’accordo fra noi è stato totale. Aggiungevi con un velo di malinconia: «Mi piacerebbe invecchiare con voi, facendo cose assolutamente normali».

Adesso sei nella visione beatifica, anche se non sappiamo cosa sia. Su di essa ci dice più cose Dante nella Commedia che La Scrittura, così avara di metafore. Dicevi: «Dio non c’entra con la mia malattia. Lui cioè non ha colpe». Forse volendolo mettere al riparo dall’assedio che sapevi io avevo cominciato. Non ero d’accordo. E qui iniziano il mio rompicapo e il mio risentimento. Portavo a supporto della mia tesi e del mio atteggiamento Deuteronomio 15, il brano nel quale l’Altissimo detta a Israele le regole del giubileo, intromettendosi nella vita quotidiana del popolo senza lasciar perdere i particolari minuti e le condizioni concrete dell’esistenza.
Sempre Martini, il grande cardinale, ci ha insegnato come in noi coesistano fino alla fine il credente e il noncredente. Comincio dal noncredente. Tutti hanno fatto la loro parte, tranne Dio che non s’è fatto vedere. Lo chiedo da padre a padre: «Dov’eri quando le dicevo “ce la faremo Sara, ce la faremo”?». E lei, strizzando l’occhio e alzando il pollice, rispondeva «Certo che ce la faremo papà, ce la faremo». Il credente che è in me parte dalle medesime circostanze. Ragazza mia, ci siamo affidati insieme alla scienza dei medici e allo sguardo di Dio. I medici si sono impegnati con grandissima professionalità, creando relazioni profondamente umane e sicuramente comunitarie.

E il Buondio? Certamente non vorrà farsi battere dai suoi figli nella cura delle sue creature. Noi continuiamo a crederlo. Sul senso dell’esistere, visto dal punto di vista della malattia, l’accordo tra noi era totale. Non un mondo governato da un grande disegno, magari divino, tutto giustificato nelle sue ragioni ed esatto nei suoi ritmi. Se lo tengano gli svizzeri. A noi importa un mondo anche disordinato dove però ti senti accolto ed amato. Un Dio attento e appassionato: solo questo funziona. Mai solo pura intelligenza sovrana.

La nostra quotidianità doveva essere in linea con tutto questo: ci si vuole bene e non si ha il falso pudore di dirlo. Anche nella notte più faticosa, quando perse le parole normali ti esprimevi in un grammelot disperante, ripetevi: «Sono contenta perché siete tutti qui, compreso mio fratello, e ci vogliamo bene». Ma ci sarà tempo per ripensare tutto insieme, dire le tue lodi e farne memoria. L’ultima parola è quella della nostra preghiera comune, ovviamente a modo nostro. Inutile girare intorno al problema. Lo strappo è tragicamente violento. Appare perfino contro natura che la figlia vada via prima del padre. Anche se conosco l’obiezione: Maria sul Calvario stava ai piedi della croce. E quasi una geniale ossessione del cristianesimo fare a pezzi tutti gli schemi.

Quand’ero ragazzo era abituale nella comunità cristiana il riferimento alla comunione dei santi. Un sentire che teneva insieme il faticoso cammino dei pellegrini con quello dei trapassati. Con gli amici andati via continuavi a ragionare, a porre interrogativi, qualche volta a litigare. Un vissuto ben più solido del legame tra le generazioni. Proverò a recuperare.

E adesso arrivederci Sara. Te lo dicono anzitutto Francesco, la mamma, Davide e papà. Arrivederci.

XXIX domenica tempo ordinario – anno C – 2013

DSCF4461Es 17,8-13; 2Tim 3,14-4,2; Lc 18,1-8

Le mani levate in alto di Mosè sono un simbolo della preghiera. Levate verso l’alto perché l’alto, il cielo è luogo diverso dalla terra, è luogo del Dio altro, che non si confonde con gli idoli di terra, costruiti da mani o da intelligenze di uomini. Il suo è nome impronunciabile e presenza nascosta che può essere accolto solamente nel lasciare lo spazio di mani aperte e del silenzio. Nel rimanere. Le mani levate parlano di riconoscimento di presenza di un Dio vivente e rinviano all’esperienza della preghiera come incontro, vissuto e presente ma anche sempre da cercare, invocare, sperare.

Le mani levate esprimono anche l’esperienza profonda che il Dio dei cieli è anche e nel medesimo tempo il Dio appassionato e umanissimo che ascolta e condivide il dolore di chi sulla terra fatica e lotta. Nella pagina di Esodo si parla di battaglia, ma il messaggio profondo di questo testo va colto non nel pensare ad una assistenza di Dio che fa vincere gli eserciti, quanto piuttosto alla sua vicinanza in quell’unica lotta che sta al cuore della fede. Paolo dirà ai Romani: ‘vi esorto fratelli a combattere con me nella preghiera’ (Rom 15,30). E la lettera agli Efesini parla del vangelo della pace al cuore dell’unica battaglia che il credente è chiamato a combattere: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace” (Ef 6,11-15).

Le mani di Mosè sono levate in alto, quasi a salire nel riconoscere una presenza: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto. Il mio aiuto viene dal Signore egli ha fatto cielo e terra.” (Sal 121,1). Le mani levate riconoscono il volto di Dio custode di Israele. E’ il volto del Dio dell’esodo che ha ascoltato il grido del suo popolo, ed è sceso a liberarlo, e continua ad ascoltare il grido delle vittime, degli oppressi e scende. Preghiera è risposta a questo movimento di discesa, e le mani levate sono fiducia che Dio non dimentica il suo popolo.

Le mani levate dicono anche che la preghiera investe tutta la vita, nelle dimensioni di interiorità e corporeità. Con le mani entriamo a contatto con le cose, lavoriamo, modelliamo la realtà, ma con le mani anche entriamo in rapporto con gli altri, salutiamo, accarezziamo, stringiamo altre mani, le rendiamo simbolo di accoglienza o di rifiuto. Con le mani ci si può aggrappare a qualcuno e con le mani si può sollevare qualcuno e salvarlo. Le mani levate sono le mani che si fanno segno di una apertura radicale: con le sue mani Mosè porta il suo sguardo interiore e tutto il suo corpo a riconoscere Dio presente nella sua vita e a tendersi nell’attesa. Sono mani senza parole: puro affidamento e segno di una disponibilità aperta a ricevere ciò che non è, e non può essere, opera propria, ma unicamente dono che stravolge ogni pretesa ed ogni strategia umana. Quasi a dire che la preghiera non è metodo, non un fare che si appoggia su pratiche, devozioni, inventive umane, ma una accoglienza radicale, spazio lasciato all’agire dello Spirito. E il suo luogo è il silenzio e un corpo che accoglie.

Sono mani aperte e silenziose, quelle di Mosè, tenute aperte per la vita del suo popolo. Le sue mani sono intercessione, un passare attraverso, uno stare in mezzo facendosi carico della fatica del popolo. Pregare è farsi carico di una vicenda di popolo, sguardo aperto oltre se stessi. Le sue mani sono quasi il simbolo dell’accoglienza e della risposta alle mani di Dio: nel passaggio del Mar Rosso era stato la ‘mano alzata’ di Dio a permettere che gli israeliti passassero all’asciutto e i carri del faraone fossero travolti dalle acque del mare. La liberazione dell’esodo è quasi evento di una nuova creazione, che si ripete come in quello spazio sospeso tra la mano e il dito di Dio e Adamo che verso di lui sta in attesa e protende la sua mano nell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina.

Le mani di Mosè sono apertura della terra al cielo, ma sono mani che avvertono il peso e la stanchezza. Mosè non riesce a mantenerle alzate da solo. C’è la stanchezza di Mosè e c’è lo sfinimento di chi continua ad invocare giustizia e si trova di fronte all’esperienza dolorosa e drammatica del silenzio di Dio. E’ la stanchezza la grande sfida al rimanere davanti a Dio. Solo il sostegno di altri, solo il sedere sulla pietra fa sì che le mani di Mosè vincano la debolezza. La preghiera stessa di Mosè non può continuare senza aiuto, ha bisogno di altri che si affianchino, che mantengano le sua mani alzate per vincere la stanchezza. La preghiera è certo esperienza che segna la persona, ma non può essere mai cosa privata, percorso di individui isolati, è sempre cammino vissuto con altri, per altri, e che chiede condivisione, sostegno, aiuto reciproco.

Nella parabola del giudice iniquo e della vedova ancora l’insistenza è sulla preghiera: “Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. L’insistenza è sul non stancarsi perché c’è una fatica propria della preghiera, ed è la fatica drammatica e insopportabile del rimanere di fronte a Dio nel non percepire il suo ascolto e nel mantenersi in attesa di fronte al suo silenzio.

La preghiera è accostata al grido di una vedova ‘fammi giustizia’. Ancora una volta Gesù per parlare di Dio si riferisce ad un volto di donna e di una donna povera. La vedova non solo è una donna rimasta senza uomo, ma è senza altre sicurezze che possano essere difesa per la sua vita. Il suo è il grido del povero che non ha altri sostegni e appoggi umani e chiede di essere riconosciuto nella sua dignità di vita.

La figura del giudice insensibile e ingiusto che trascura di prendere in considerazione la causa di una vedova, ma che alla fine è quasi costretto ad ascoltare per la sua insistenza può essere letta in primo luogo come immagine di contrasto con il volto di Dio. Dio non è come il giudice iniquo, Dio è colui che ascolta il grido del povero, il suo volto è quello di chi si prende cura di coloro che non hanno sostegno e diritti. Al cuore della parabola sta un motivo di fiducia. Dio non rimane inerte di fronte al loro grido. Il grido che Dio certamente ascolta è quello dei poveri e degli oppressi che richiedono giustizia.

Ma in secondo luogo questo giudice iniquo che alla fine ascolta è anche un termine di paragone per indicare la fatica della preghiera, l’importanza del non stancarsi mai. L’invocazione ‘Fammi giustizia…’ è il grido che esprime il dramma della preghiera, che è grido del povero che cerca salvezza. La vedova non si stanca di continuare a invocare. Il cuore della parabola è ancora una volta narrazione dei tratti del regno di Dio: se quell’uomo ingiusto e insensibile è giunto alla fine a dare ascolto, quasi costretto dall’insistenza, Dio, che è fedele, ascolterà i suoi figli che lo invocano e si chinerà sui poveri che gridano a lui. “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre celeste darà lo Spirito santo a chi glielo domanda” (Lc 11,13). C’è una differenza di Dio rispetto ai nostri comportamenti cattivi e ingiusti: Dio non segue la povera misura del nostro agire, la ristrettezza dei nostri schemi.

La preghiera è esperienza che apre all’alterità di Dio, che accompagna ad entrare nell’incontro con Lui in una faticosa attesa che disarma le nostre aspettative e proiezioni: Dio è sempre più grande dei nostri pensieri e del nostro cuore. L’insistenza sul pregare ‘senza stancarsi’ è invito a cogliere che la preghiera è luogo di un’esperienza di affidamento; non è questione di metodi o di pratiche più o meno complicate ma esperienza di fede, incontro che investe la vita e la cambia. C’è una dimensione ardua e faticosa del pregare: affrontare il ritardo, il silenzio di Dio che sembra non ascoltare e non rispondere. Preghiera è stare davanti a Dio nella fiducia e nell’insistenza a portare la voce delle vittime di questa storia e vivere, la responsabilità di mettere le proprie forze a servizio degli altri.

Due sono le provocazioni di questa pagina per noi. La prima proviene dalla domanda che la conclude: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Il miracolo della preghiera sta proprio nella fede come rapporto personale, come affidamento che rimane anche nel silenzio, anche nella fatica. La domanda di Gesù non va intesa come minaccia ma può essere compresa come provocazione. Pregare rinvia a camminare nella fede. Come coltivare al cuore del nostro rapporto con Dio una attitudine di una fede che non si lascia stancare, non per forza nostra ma perché fondata sull’invocazione e sull’attesa?

La seconda provocazione è l’invito a vivere un ascolto che proviene dalla stessa preghiera: è l’ascolto del grido dei poveri ed è l’ascolto che conduce a farsi carico. ‘Fammi giustizia’ è invocazione che implora un rapporto, chiede riconoscimento e richiama ad una fedeltà (perché ‘giustizia’ in senso biblico è ‘fedeltà’ assumendo lo stile del Dio che non viene meno alle sue promesse di salvezza e vicinanza): fedeltà all’altro scoprendo che la nostra vita nell’ascolto di Dio è cammino di farci carico dell’altro. C’è una dimensione importante del pregare senza stancarsi e sta nel vivere l’affidamento a Dio nell’accogliere le grida di chi soffre.

Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica tempo ordinario – anno C – 2013

800px-CodexAureus_Cleansing_of_the_ten_lepers(miniatura dal Codex aureus Echternach – 1040 ca.)
2 Re 5,14-17 2; Sal 97; 1Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

Guarigione di Naaman, re della Siria recatosi dal profeta Eliseo; guarigione di dieci lebbrosi, che nel cammino si ritrovano tutti guariti. Ci sono storie di percorsi e di guarigioni al centro delle letture. Ma anche una domanda che si apre sulla salvezza. Naaman scopre la presenza di Dio oltre i confini di terre e popoli; il lebbroso straniero, unico che ritorna indietro a ringraziare, nell’incontro con Gesù riceve l’annuncio: ‘la tua fede ti ha salvato’. Guarigione è evento che riporta salute, recupero di serenità e di vita. Un dono ricevuto che è segno di un cammino da compiere, in cui scoprire l’attitudine fondamentale di rendere grazie. La salvezza come incontro va oltre la guarigione ed è scoperta che la vita è visitata ed è in radice dono in cui ringraziare il Dio vicino.

La vicenda di Naaman può essere ripercorsa mettendo in luce alcuni passaggi del racconto: il re potente, straniero, riceve il suggerimento da una schiava deportata, di recarsi presso un profeta sconosciuto, un uomo di Dio in Israele. Non tutto proviene dal potere e dal denaro. Ricco e orgoglioso Naaman vive una profonda mancanza e sofferenza: è malato, e viene indirizzato a mettersi in cammino ad invocare guarigione. La sua sorpresa e la sua ritrosia sono grandi di fronte alla pochezza dei gesti che gli sono richiesti per trovare guarigione.

E dopo aver compiuto un gesto semplice, insignificante ed apparentemente infecondo, come il lavarsi nelle acque del Giordano, Naaman intende sdebitarsi. Ha percezione della ricchezza della salute recuperata, apre i suoi occhi davanti ad un dono inatteso, e vede la grandezza di un’esperienza a cui intende rispondere a suo modo, con quantità di beni e denaro, per coprire il dovuto, per non avere più nulla da dare, per ricambiare. In fondo pagare è modo per non mantenere legami, per saldare il conto dando il dovuto. La sua difficoltà di uomo potente e ricco sta nel riconoscere qualcosa nella sua vita che non può pagare e comprare, che non può mantenere senza avere bisogno di altri, e senza legarsi in una relazione.

Vuole così sdebitarsi ma di fronte a questa intenzione si scontra con il rifiuto del profeta che innanzitutto sposta l’attenzione sul vero protagonista della guarigione: è Dio stesso da ringraziare, non l’uomo di Dio, ma il ringraziare implica entrare in una logica diversa da quella del potere che compra e riversa denaro. Naaman vive così una scoperta che lo spaesa. Chiede così di poter portare una quantità della terra di Israele per poter lodare Dio anche nella sua terra. Naaman, straniero in Israele, povero nella sua malattia e ora guarito, scopre una sorta di ius soli: può anche lui godere di un diritto di stare su quel suolo, su quella terra portata nella sua, e da lì vivere la gratitudine che si esprime nella lode, nell’adorazione.

Viene così guidato a scoprire la gratuità della lode nel riconoscere la presenza di Dio che va oltre i confini. L’incontro con Dio non è rinchiuso solo ad una terra, ma può essere vissuto, in modi nuovi, anche in altre terre, in ogni terra, nell’attitudine della gratuità. E quei sacchi di terra portati da due muli sono quasi immagine di una terra nuova che attraversa i confini ed è la terra del gratuito, del dono che fa sorgere la gratitudine.

Anche la pagina di Luca parla di guarigione e di gratitudine. Dieci lebbrosi si fermano a distanza. La loro condizione era quella di chi doveva stare ai margini della vita sociale. I motivi sanitari di tale distanza si intrecciavano con una interpretazione religiosa della impurità che connotava la loro malattia. Doppiamente esclusi, perché malati in primo luogo e perché la loro condizione era letta come irregolarità dal punto di vista religioso e portatrice di impurità da non toccare. Malati quindi e considerati lontani da Dio.

Essi gridano il loro desiderio di guarigione e Gesù travalica le barriere poste dal sistema religioso. Si fa avvicinare e immediatamente supera quella distanza. Accoglie la loro richiesta, vede in loro innanzitutto persone e li pone in cammino, indica loro di recarsi dai sacerdoti, che devono confermare la guarigione avvenuta. Li invita a recarsi dai sacerdoti del tempio, luogo dell’incontro con Dio, reinserendoli nella condizione di chi è puro. E’ un primo grande gesto e annuncio: non sono lontani da Dio. I gesti di Gesù sono tutti testimonianza del Dio vicino che accoglie a sé e non vuole che nessuno vada perduto.

Ed essi partono, e si scoprono guariti nel cammino. E’ scoperta che la parola già realizza quello che essi scopriranno nel cammino. Vivono una profonda fiducia sulla parola, e nel cammino si ritrovano guariti. Ma uno solo, tra di essi, ritorna indietro per dire il suo grazie, per esprimere la gratitudine a Gesù. In questo gesto di ringraziamento Gesù legge l’apertura del suo cuore al dono e all’incontro che stanno al cuore della fede. Nel suo volto e nel suo grazie legge non solamente la vicenda di un guarito, ma l’esistenza di un salvato. Questo unico che è ritornato sui suoi passi non è giunto dai sacerdoti, non è arrivato al tempio, ma ha scoperto la presenza di Dio vicino nella parola e nel gesto di Gesù. Ha lasciato spazio a quella apertura di affidamento che sta al cuore di uomini e donne, sani e malati, lo spazio della fede come luogo dell’incontro con Dio. Il lebbroso tornato a ringraziare ha vissuto così un primo superamento dei confini del sistema religioso.

Ma c’è anche un secondo superamento che Luca introduce facendo notare come questo unico ritornato a rendere grazie era uno straniero. Era un samaritano e Gesù si accorge di questo: sono valicate e abbattute le barriere che dividono le appartenenze religiose e culturali. Gesù vede nel volto di questo straniero, guarito, capace di ringraziare, il volto di chi ha sperimentato la salvezza: ‘la tua fede ti ha salvato’. Salvezza non si limita ad essere guarigione in quanto salute, benessere fisico e psicologico e possibilità di vita. Salvezza è più in profondità, anche nella vita che si confronta con lo scandalo del male e della morte, la scoperta di un dono e di una relazione che dà un senso nuovo ad ogni gesto, ad ogni parola. La fede viene quindi presentata come relazione con Gesù e, attraverso di lui, con il Dio del dono e dell’accoglienza. E’ un modo nuovo di guardare la vita in cui il ringraziare è rimanere nello spazio di chi si riconosce di fronte ad un dono. E’ possibilità nuova di sperimentare la bellezza della gratuità e la piccolezza grande del ‘grazie’. Fede è accogliere e affidarsi in una relazione in cui la vita si illumina come dono e chiede di essere condivisa.

Per noi oggi penso che ci siano alcune provocazioni che giungono da queste letture.

Possiamo sostare sull’importanza di riconoscere il servizio della guarigione: è innanzitutto guarigione da tutte le distanze che separano le persone, e in particolare di chi, malato, averte più profondamente il peso della propria sofferenza e separazione. C’è una guarigione fisica da tutte le malattie che va cercata perseguita e accompagnata e, insieme e forse anche distinta da questa, una guarigione diversa, una guarigione più profonda, come esperienza di essere salvati, che porta a scoprire la propria vita visitata dall’amore di Dio che non abbandona mai, nemmeno nella malattia e nella morte.

Possiamo lasciarci interrogare dalle parole di Gesù ‘la tua fede ti ha salvato’: la fede è presentata come forza di salvezza della nostra vita, apertura ad un affidamento personale che passa attraverso il contatto con l’umanità di Gesù, con la sua vita (‘Ricordati di Gesù Cristo…’ è l’invito della seconda lettura. Siamo invitati a camminare sulla parola di Gesù e a lasciarci accogliere nel movimento di accoglienza di Gesù e del Padre.

Possiamo sostare sull’importanza della figura dello straniero come l’unico capace di ritornare indietro e riconoscere il luogo in cui Dio si rende presente, quel luogo che non è una terra, un tempio, ma l’umanità di Gesù. Viviamo in un tempo in cui l’incontro con lo straniero è esperienza storica di un incontro con Dio ‘altro e straniero’ che vuole aprirci a considerare come noi stessi siamo stranieri a noi stessi e chiamati a scoprire il suo autentico volto e il nostro nell’incontro con lo straniero.

Dobbiamo sempre imparare, di nuovo, a ringraziare, sia nei modi in cui viviamo la nostra preghiera, sia nella vita quotidiana, di fronte a tutti i piccoli segni che ci fanno toccare con mano la gratuità di doni spesso ricevuti senza accorgersene e di persone che senza riserve sanno vivere guardando alla felicità degli altri.

Alessandro Cortesi op

XXVII domenica tempo ordinario – anno C – 2013

DSCF4482Ab 1,2-2,4; Sal 94; 2Tim 1,6-14; Lc 17,5-10

Violenza, ingiustizia, rapina e oppressione sono le parole che segnano la prima lettura. Abacuc s’interroga di fronte all’ingiustizia opera degli uomini, e al silenzio di Dio. E si pone come sentinella, in piedi ad ascoltare se c’è una risposta a questo lamento. “Fino a quando implorerò aiuto e non ascolti?” Il suo interrogare racchiude il grido di tanti che si lasciano inquietare dai drammi della storia, dalle ingiustizie. Non sono certo le domande – spesso assenti o assai diverse – di chi vive una religiosità fatta di tranquille certezze e assuefazione all’esistente, nella preoccupazione di difendere la propria sicurezza o i propri interessi. E’ piuttosto l’interrogarsi di chi si scontra con il male del presente, di chi sperimenta l’inquietudine, gli interrogativi radicali, ed è disposto a lasciarsi provocare dallo scandalo del male, dal successo e dall’impunità dei malvagi, da ciò che contraddice il disegno di giustizia e di pace di Dio nella storia e pone in crisi la fede. L’incontro con Dio, l’esperienza della fede si fa così lotta, confronto aspro e provocazione: “Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?”. Dio appare assente laddove prevale la violenza e sembra che tutto ciò non abbia fine: “fino a quando?” La domanda reca con sé la fatica di chi vede l’ingiustizia che domina, il violento che mantiene il potere, il diritto calpestato. Abacuc pone la questione se vi sia o meno un senso in questa storia in cui Dio sta in silenzio mentre dilaga l’ingiustizia.

Il suo domandare non ha risposta, ma accoglie un segno: parla di una ‘visione’ da incidere bene su tavolette, da mantenere e fissare. E’ un messaggio che proviene dalla promessa e dalla fedeltà di Dio stesso. L’ingiustizia non avrà l’ultima parola, anche se sembra che tutto vada in un’altra direzione: “soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. La fede è indicata come atteggiamento da mantenere, nella prova e nel silenzio: viene presentata innanzitutto come affidamento, adesione nonostante la fatica e nonostante le contraddizioni, alla fedeltà di Dio. E’ Lui il fedele e chiede fiducia senza riserve anche se la sua promessa si scontra con l’incomprensibilità del presente: vi sarà vita per chi si mantiene come giusto. Anche se sembra che abbia la meglio chi persegue violenza, inganno, sopraffazione tutto questo ha un termine: e una vita in tale direzione è vita che soccombe. Il giusto vivrà trovando la forza di resistere nel suo affidarsi nel Dio fedele, nel suo continuare a lottare contro l’ingiustizia. In questa visione da incidere nelle tavole del cuore sta una parola di invio a vivere un resistere quotidiano, faticoso, spesso contraddetto, nel realizzare giustizia come fedeltà davanti a Dio e al volto dell’altro.

Sperimentiamo in tanti modi la violenza e il prevalere dei prepotenti e di chi è senza scrupoli. Assistiamo impotenti a sofferenze causate dalla rapina dell’uomo sull’uomo. La crisi economica che per tanti significa preoccupazione, incupimento, depressione è frutto di scelte politiche che derivano da una visione per cui nel mondo non tutte le donne e uomini hanno medesima dignità, di sistemi di pensiero che mirano a preservare i privilegi dei più ricchi e vedono come parte dell’umanità sia da escludere. Un autentico sistema di idolatria e di iniquità. Scelte che mantengono e favoriscono le ricchezze accumulate, i soldi prodotti dai soldi, e non guardano alle sofferenze dei poveri.

Le morti di ormai migliaia di migranti che tentano di attraversare il mare Mediterraneo per raggiungere l’Europa, le stragi a Scicli, a Lampedusa, di cui abbiamo visto immagini e udito resoconti nei giorni scorsi, non sono fatalità ineluttabili, ma il frutto di scelte politiche che hanno ridotto la questione dell’immigrazione ad un problema di sicurezza, e non l’hanno affrontata come fenomeno umano, in cui è in gioco la giustizia sociale, la dignità di ogni essere umano e il riconoscimento di diritti fondamentali. L’ingiustizia si fa concreta in modi di pensare alla vita di chi pensa a se stesso e non intende guardare a vite di persone come noi, che sperimentano la disperazione, la violenza e la miseria. Sono volti di fratelli costretti a lasciare terra e affetti per trovare libertà, pane e dignità. Quelle morti sono anche frutto di scelte criminali di chi sfrutta la miseria e la disperazione, e sono esito dell’ignavia, dell’egoismo e dell’indifferenza di chi non scorge negli esodi degli impoveriti del nostro tempo una questione centrale per la responsabilità umana e per la stessa fede dei credenti. Ci possiamo chiedere: come vivere da giusti – capaci di guardare l’altro – e con fede – affidati alla promessa di Dio che accoglie il povero – queste situazioni?

“Aumenta la nostra fede”: è la preghiera degli apostoli a Gesù, chiamato con il termine ‘Signore’ che è titolo a lui dato dopo la pasqua. E’ una richiesta che viene immediatamente dopo le parole di Gesù sul perdono: fino a settanta volte sette per il fratello che pecca. Ma questo va al di là delle capacità umane, è gesto che rinvia ad una realtà nuova, il regno di Dio, già presente qui ed ora. Ed è tale percezione di impossibilità a generare l’invocazione ‘aumenta la nostra fede’: solo in un affidamento che decentra la vita e fa scoprire una forza che non viene da noi, si apre una possibilità nuova. Il credere si pone nella logica non della conquista ma del dono. La fede va implorata e continuamente è da invocare perché sempre è poca e va ad ogni passo, di nuovo, accolta come dono che non proviene da noi, ma dallo Spirito. Così fede è movimento di amore che è sempre segnato dal senso di pochezza rispetto a quanto si è ricevuto a quello che si dovrebbe dare. La dimensione più profonda della fede sta nel suo essere incontro vivente, affidamento esistenziale come un bambino in braccio a sua madre (Sal 131,2; Is 66,12-13) e scoperta di stabilità che viene da una presenza, dove si può trovare appoggio come roccia nel cammino (Is 65,16)

Gesù propone un’autorità nuova e diversa a chi si affida a lui, una autorità che dovrebbe essere al centro della vita della comunità: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo sicomoro: ‘Sràdicati e trapiàntati nel mare’, e vi ubbidirebbe”. In questo esempio paradossale è indicata un’autorità diversa da chi si fa obbedire secondo la logica del potere mondano: è autorità che non viene da altro se non dall’affidamento a Dio e vive nel servizio. La fede come un granellino minuscolo è piccola cosa, che reca in sé la forza di generare un grande albero. Chi diviene consapevole della pochezza della propria fede – ‘Signore, credo, aiutami nella mia incredulità’ (Mc 9,24)- si apre alla scoperta che cambia e sposta il centro della propria vita. La fede come affidamento ad un Tu vivente e gratitudine reca una forza capace di cambiare profondamente le cose.

Segue la parabola del servo che al ritorno del padrone viene richiesto di altri servizi. E’ un richiamo ad una situazione conosciuta ai tempi di Gesù. Il servo è chiamato a compiere altri gesti, a preparare la cena, a rimboccarsi le vesti, a servire, oltre a tutto il lavoro della giornata. La conclusione diviene parola come stile di vita di una comunità che si accentra sul servizio: “quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: ‘Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare’”. Un primo messaggio della parabola sta nell’indicazione di un’autorità nuova come servizio. La parabola è poi rivolta a scardinare l’atteggiamento religioso che può essere indicata come coscienza mercantile della religione: a chi sosteneva che il proprio agire pur buono dovesse porsi come pretesa davanti a Dio, Gesù presenta una via diversa, invita a cambiare modo di pensare alla relazione con Dio. La fede non si pone nella logica del dare e avere, del premio che corrisponde a meriti, della pretesa che richiede un pagamento di fronte a prestazioni. Non sta nella linea dell’utile, del commercio, ma del gratuito, del dono, dell’affidamento che non pone condizioni e non chiede contraccambi. La parabola chiama ad un cambiamento, a scoprire la fede come incontro vivente nel servizio. Certamente non si tratta di un servizio da schiavi, ma di una relazione viva in cui al centro sta il dono di presenza e comunione accolto con gratitudine. Si può allora forse interpretare la parola ‘servi inutili’ non nel senso di un rapporto da schiavi e quale espressione che reca in sé quasi un certo disprezzo per l’agire di chi accoglie il dono di Dio e opera. La parabola provoca ad andare oltre il paragone di un rapporto di potere umano, spinge a cogliere la differenza d un Dio che non è padrone. Gesù annuncia il volto del Padre che guarda alle piccole cose e ha cura di tutti: nulla e nessuno può essere inutile e vano ai suoi occhi. L’espressione ‘servi inutili’ potrebbe essere meglio reso con la traduzione ‘semplici servi’. Gesù chiede ai suoi di essere persone che vivono un darsi non con la pesantezza di chi rivendica pretese, riconoscimenti, ma con la leggerezza liberante di chi non è preoccupato di se stesso. Indica uno stile di servizio proprio del mite capace di generare spazi di libertà e di relazione. E’ la via di Gesù che si è fatto servo, ha vissuto la sua vita come servizio e si è affidato fino alla fine in una confidenza senza limiti al Padre.

Alessandro Cortesi op

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