XXX domenica tempo ordinario anno C – 2013
Sir 35,15-22; Sal 33; 2Tim 4,6-18; Lc 18,9-14
Due uomini salirono al tempio a pregare… Gesù fissa in un’istantanea, in un momento nel tempio, nello spazio della preghiera, due volti, due atteggiamenti di fondo. Il fariseo e l’esattore delle imposte. Da un lato una persona giusta, corretta, anzi di più, impegnata oltre il dovuto e tesa a condurre una vita segnata da opere buone e da un’attitudine di giustizia, dall’altro un uomo che svolgeva un lavoro disprezzato per conto della potenza occupante romana e che attuava pratiche disoneste ed esose nei confronti dei suoi connazionali.
Entrambi si rivolgono a Dio, ma la loro preghiera respira di modi diversi di intendere tutta la vita. Il loro modo di pregare è specchio del modo di intendere la vita e di concepire il rapporto con Dio stesso. Due atteggiamenti sono evidenziati così in modo contrapposto: il fariseo sta in piedi, ritto davanti a Dio e nelle sue parole non è espressa invocazione né richiesta ma solo vanto di quanto riesce a fare e ringraziamento per essere migliore degli altri e diverso da loro. L’esattore invece si tiene a distanza, si batteva il petto e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo.
Gesù sottolinea questo diverso atteggiamento che si riversa nel modo di pregare ma che in sé reca un modo di intendere tutta la vita. Il fariseo parla di se stesso: il suo sguardo è concentrato su di sé, pieno di presunzione per quanto riesce a fare anche oltre il dovuto. Non si rivolge a Dio chiedendo qualcosa, ma esige un riconoscimento della sua situazione di uomo giusto. E il suo sguardo verso l’altro è uno sguardo duro, che tiene a distanza ed esclude. Il disprezzo appunto.
L’esattore non è un uomo da indicare come esempio, e la sua preghiera è riconoscimento di
inadeguatezza e di peccato e richiesta di pietà: ‘abbi pietà di me peccatore’. Non chiede a Dio di approvare il suo modo di vivere ma invoca un’accoglienza, chiede solo di essere accolto non perché lo merita ma per pura generosità. E’ la gratuità che non ha mai sperimentato e che non può sperimentare da coloro che gli stanno vicino. La distanza stessa che mantiene dice il senso di indegnità che avverte in sé, il suo non presumere nulla di se stesso.
Sono due attitudini di stare davanti a Dio e di intendere il rapporto con gli altri: il fariseo è gonfio di se stesso. Pur giusto e impegnato si appoggia sul suo agire, sulle sue forze, sui suoi risultati. E’ così schiavo – ed anche espressione consapevole o inconsapevole – di un sistema religioso che lo tiene ripiegato su di sé. L’esattore manifesta invece una consapevolezza profonda, che tutto può venire solo da Dio, che la sua vita dipende dalla gratuità di uno sguardo che solo può salvarlo e liberarlo. La salvezza non è un premio che certifica un cammino, ma è radicalmente dono. Questo il fariseo non lo comprende, mentre l’esattore si affida riconoscendo la sua condizione. Si batte il petto, riconosce di dover cambiare, e soprattutto attende tutto da Dio, non presenta pretese di fronte a Lui. Non è umile perché si abbassa, ma si pone in verità davanti a Dio.
Luca dice – offrendo così una chiave di lettura di queste righe – che Gesù pronunciò questa parabola “per alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri”. E’ una parabola che conduce a riflettere su come la preghiera sia esperienza che rivela l’attitudine che sta al cuore dell’esistenza. Smaschera la grande tentazione sempre presente in chi cerca di vivere nella linea dell’impegno, della giustizia. Il rischio sottile sempre presente in chi vive un percorso religioso sta nel perdere di vista che la salvezza è dono. E l’errore di fondo di intendere il rapporto con Dio si rende evidente nel modo in cui si guarda agli altri: il rischio è quello di maturare uno sguardo di distanza e di durezza, di disprezzo verso gli altri. La vita del fariseo è piena di cose buone, ma c’è un elemento che trasforma tutto e lo rende luogo di incomprensione totale del rapporto con Dio: è l’attitudine centrata su di sé, la presunzione intima e il ripiegamento. La fiducia non rivolta al di fuori di sé, nella relazione, ma ripiegata su se stesso, sulla bontà delle sue opere. Per questo non riconosce il primato di Dio e della sua grazia. Il suo sguardo di disprezzo lo tiene a distanza dall’altro, gli impedisce di incontrarlo e di sentirsi solidale con la vita degli altri.
C’è anche un’altra sottolineatura della parabola: è un invito rivolto a tutti coloro che vivono una storia ferita a riconoscere che lo sguardo di Dio verso ciascuno è di pietà e di accoglienza. Gesù critica una religione che diventa luogo di sicurezza e che genera senso di superiorità nei rapporti con gli altri. Solo chi accetta di stare davanti a Dio riconoscendo la propria inadeguatezza, il proprio peccato ed il bisogno di essere salvato e liberato scopre la grandezza di un dono. E’ una parola di speranza per tutti: anche quando tutte le porte umane siano chiuse non è chiusa la porta della misericordia di Dio. Gesù chiede di non perdere il senso della propria povertà e della salvezza come dono che viene solamente da Dio.
Il fariseo è l’uomo tronfio della sua autosufficienza, della sua religiosità costruita attorno ad un agire buono che è senza respiro perché tutto centrato su di sé. E’ la religiosità esclusiva di chi non sa guardare all’altro e di chi non si pone la domanda di verità: ‘qual è il mio peccato?’ e ‘potrei anch’io sbagliare come e ancor di più di chi ha sbagliato vicino o lontano da me’. Il fariseo è ‘ipocrita’ nel senso etimologico del termine perché vive all’interno di una parte teatrale fatta di apparenza – così facile nel contesto religioso e clericale – di esteriorità di attività buone che non sono coerenti con un’interiorità nutrita di autosufficienza e di disprezzo, di egoismo e narcisismo.
Ascoltiamo questa parabola mentre è vivo il dibattito sulla situazione delle carceri. Di fronte a situazioni disumane a cui si costringe a vivere chi è trattenuto nelle carceri italiane è sorprendente avvertire l’indifferenza e addirittura le voci ipocrite di coloro che richiamano ad una punizione senza pietà. Verso chi ha sbagliato e a chi ha vissuto l’ingiustizia o il male è spesso presente un’attitudine di tipo giustizialista e punitivo. Il modo di valutare queste situazioni è spesso segnato dalla mentalità del fariseo che si ritiene giusto e tende solo a distinguersi e tenersi a distanza da chi ha sbagliato. Ci possiamo chiedere in quali modi maturare una solidarietà con chi, pur avendo sbagliato e avendo compiuto il male, può aprirsi a percorsi di cambiamento. Come testimoniare, pur nel riconoscimento dei legittimi percorsi della giustizia umana, uno sguardo che testimoni la speranza offerta per tutti, la possibilità di una logica di perdono che va oltre la rigida giustizia? Come non scambiare lo sguardo di attenzione e di misericordia con il non riconoscimento del male, con l’assuefazione a condizioni di diseguaglianza, ai privilegi dei grandi e di chi detiene il potere, alla giustificazione dell’illegalità di chi ha i mezzi per sfuggire sempre alle esigenze dell’equità e della giustizia?
La parabola di Gesù conduce a scoprire la salvezza come dono, non come opera nostra. Ascoltiamo questa parabola nel contesto di un mondo in cui prevale la logica del dominio del denaro e del prezzo di ogni cosa, per cui si conosce il prezzo di tutto ma si perde il senso del valore delle cose, delle persone, delle relazioni. Come uscire da una mentalità religiosa modellata sul modello del dare-avere, sulla pretesa, e sulle opere attuate spesso secondo la logica che il fine giustifica i mezzi? E come introdurre nelle dinamiche della vita, del lavoro, delle relazioni quel respiro di dono e gratuità che deriva dal sapersi guardati con benevolenza da Dio che ha pietà di noi e che ascolta la preghiera del povero?
Alessandro Cortesi op
XXXI domenica tempo ordinario anno C – 2013
Sap 11,22-12,2; Sal 144; 2Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10
“Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato”. C’è uno sguardo di Dio sulle cose: è uno sguardo di compassione. La vita di tutte le cose non è lasciata in un abbandono senza attenzione come là dove non esiste sguardo, nell’indifferenza che annulla. Ogni cosa, anche la più piccola, è sostenuta nel suo essere da uno sguardo che ne coglie l’unicità e il significato.
Ed è sguardo di compassione davanti alla fragilità: ne è immagine la poca polvere sulla bilancia o la goccia di rugiada al mattino. Che cosa di più effimero di un po’ di polvere che non pesa nulla sulla bilancia e che un lieve soffio fa scivolare via? Cosa più passeggero della rugiada che evapora quando i primi raggi del sole toccano le foglie intrise di umidità notturna e il primo tepore del mattino riscalda l’aria? Benché le cose siano così fragili, passeggere, esposte a svanire, come polvere, come rugiada, Dio ha uno sguardo che non teme di soffermarsi, e si lascia invadere da stupore, e comunica accoglienza.
E’ anche sguardo che reca in sè promessa di una vita: le cose non rimarranno abbandonate e saranno accolte, trasfigurate nello sguardo creativo. La riflessione sapienziale accompagna a cogliere la benevolenza dello sguardo di Dio ed è interessante che questo passo del libro della Sapienza sia inserito all’interno di una sezione che riflette sul cammino dell’Esodo in cui è condotta una polemica contro l’idolatria e il culto degli animali e delle cose presente in Egitto, da cui Israele è messo in guardia (cfr Sap 11,4-19,22). Ci può essere idolatria delle cose ma si può rilevare lo spessore profondo delle cose, traccia di uno sguardo benevolente. Al di dentro di esse, quale tesoro in esse racchiuso, si può incontrare lo sguardo del creatore: tutte sono venute da lui ed egli ha ritirato se stesso per lasciar spazio ad altro, ad un mondo fragile di realtà segnate dalla precarietà ed anche dal peccato. C’è una traccia di Dio dentro le cose, un soffio che unisce come medesimo respiro la vita del creatore e delle sue creature: ‘il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose’. Così fragili, così esposte al venir meno eppure toccate da un soffio che le sostiene e le fa stare in una relazione. Sta in questa profonda intuizione di una presenza, nascosta eppure realissima, di Dio nella creazione, nelle pieghe più intime della realtà creata, una delle dimensioni della fede cristiana da scoprire ancora. Ed è questo un punto essenziale d’incontro con quella tensione profonda della ricerca umana e di ogni tradizione religiosa che si apre ad una ricerca di un ‘oltre’ a partire dallo sguardo alle cose, dalla meraviglia o dall’esperienza di energia e vita che le cose recano in sè.
Il volto di Dio che traspare da questa pagina è il Dio delle piccole cose, il Dio di cui ritrovare traccia non fuori del mondo, ma nelle cose, nella loro stessa fragilità: un Dio fragile. Lo sguardo di Dio si appoggia come carezza sulle cose e sulle persone. E’ sguardo amante, segno di una presenza che assume il nome di ‘amante della vita’: nella sua grandezza e benevolenza guarda alla possibilità di bene presente nell’umanità. ‘Tu sei indulgente con tutte le cose perché sono tue, Signore amante della vita’. Lo sguardo è comunicazione di un amore che si offre e guarda al cammino umano, non con l’esigenza inflessibile di chi non conosce la sofferenza ed è incapace di compatire, ma con la passione amante di chi conosce debolezza e si prende cura, con la pazienza di un educatore che sa la fatica della crescita, che conosce i passaggi del cammino e sa seminare speranza: “Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore”
E’ questo sguardo forse da accostare allo sguardo che Gesù manifesta nei confronti di Zaccheo. Il ricco esattore delle imposte di Gerico è uomo che aveva molte ragioni per essere impedito dal vedere Gesù e che pure cerca di superare ostacoli e si lascia vincere dalla sua curiosità, dal desiderio di vedere, dalla spinta di ricerca che gli premeva dentro.
Zaccheo – fa notare Luca – supera gli ostacoli che erano questioni legate alla sua vita: basso di statura, capo dei pubblicani e ricco. Esattore delle imposte, immerso in una vita disprezzata e che lo conduceva all’imbroglio, alla fatica quotidiana di conquistarsi uno spazio di vita tra le esigenze dei romani e il sospetto dei suoi compaesani, soprattutto a quella solitudine di non poter avere relazioni di amicizia, di sincerità, quelle relazioni che si costruiscono nella accoglienza della casa. Ed anche per la sua statura non riesce a superare l’ostacolo posto dalla folla. Luca sottolinea come la difficoltà per Zaccheo nel cercare di incontrare Gesù è data dalla folla come insieme anonimo, che non cerca Gesù pur assiepandosi ed acclamandolo guidata da qualche interesse e dall’entusiasmo facile. Ma costituisce una barriera che fa ostacolo alle ricerche profonde e autentiche che sono al fondo dei cuori e che esigono un riconoscimento personale. Zaccheo dimostra la creatività e l’intuizione di divenire se stesso. Salendo l’albero di sicomoro cercava di vedere e pensava così di avere egli stesso superato le difficoltà, con la sua inventiva, con le proprie forze.
Scopre invece che non l’appagamento di una curiosità, ma un cambiamento radicale, la scoperta di dimensioni nuove della sua vita – la salvezza – irrompe come dono. Inaspettatamente vive infatti l’esperienza di essere lui stesso cercato, anticipato, e superato nella sua stessa attesa dallo sguardo di qualcuno che lo precede. Cercava di vedere Gesù ma si scopre per primo cercato da lui. Gesù rivolge a lui il suo sguardo, e Zaccheo viene incontrato da colui che cerca ciò che è perduto. E’ lui che voleva vedere Gesù, ma di fatto è Gesù per primo che alza gli occhi verso Zaccheo, fissa il suo sguardo verso di lui, sa leggere e accogliere la sua ricerca e la conduce ad andare oltre.
Luca presenta qui anche una sorta di progetto di evangelizzazione alla sua stanca comunità. Gesù chiede a Zaccheo di fermarsi in casa sua: “Oggi devo fermarmi in casa tua”. C’è un oggi, un tempo nella vita che apre al fermarsi, al condividere, allo stare insieme. Non è momento di insegnamenti, dottrine, codici, ma di incontro nelle dimensioni quotidiane e domestiche della casa. Nella casa si vive la quotidianità e nella casa si condivide. E si tratta della casa non di una persona dabbene ma di un peccatore. La folla, tutti, ‘mormoravano’ – dice Luca -: “E’ entrato in casa di un peccatore”. In questo mormorare, che esprime il dubbio circa la presenza di Dio in mezzo al suo popolo – come nella mormorazione del deserto per Israele – si rivela paradossalmente quell’identità di Gesù che Luca delinea nel suo vangelo. Colui che è nato e deposto in una mangiatoia perché non c’era posto per lui nell’alloggio (Lc 2,7), trova alloggio entrando nella casa di un peccatore. Luca offre così un ritratto di Gesù: egli è colui che valica i confini che tengono separati giusti e peccatori; è colui che condivide e apre un tempo nuovo, un ‘oggi’ di salvezza che si compie nella condivisione e nell’ospitalità. Gesù è colui che cerca tutto ciò che è perduto.
Dal suo sguardo, dall’ospitalità ricevuta e donata sorge un cambiamento. E’ un cambiamento nella gioia che tocca i rapporti con l’altro. A Zaccheo si spalancano gli occhi: la salvezza diviene per lui rovesciamento dei rapporti di truffa e di ruberia, in rapporti di giustizia e di dono sovrabbondante che va oltre il dovuto. La salvezza è cammino che si apre per intendere la vita nel segno di un incontro che si apre ad altri, e che rimane segnato dallo sguardo e dalla ricerca di Gesù verso di lui.
Penso ad alcuni motivi di riflessione per noi oggi
Lo sguardo di Dio sulla bontà delle cose. Quanto siamo ancora segnati da una mentalità che guarda le cose o con la mentalità dei padroni che possono disprezzare rovinare e depredare le cose, oppure con la mentalità dualista per cui le cose non hanno valore e ciò che conta non ha a che fare con la materialità, con la corporeità delle cose e delle persone. Dovremmo imparare ad accogliere lo sguardo di bene di Dio sulle cose per vivere il rapporto con le cose in termini di cura e di benevolenza, di accoglienza e di custodia. Le cose, nella loro materialità ci insegnano la preziosità di ciò che sembra inutile e fragile, ci insegnano il valore di quanto si offre nella sua inutilità ma come parte di un mondo in cui scoprire le interazioni, ci guidano alla dimensione ecologica del nostro esistere come un vivere nella casa e un compito di ‘fare casa’, tessuto di relazioni e di interazioni sempre da ricostruire e sempre da ritrovare in un equilibrio sempre minacciato da una mentalità del possesso e del profitto. C’è uno sguardo da apprendere anche per prendersi cura di chi è più fragile, mentre solito il nostro sguardo si lascia attrarre da chi è più forte.
Lo sguardo di Zaccheo alla ricerca di Gesù: è paradigma di ogni sguardo che esprime la ricerca interiore, l’apertura a qualcosa che non si è raggiunto nella vita. E’ la ricerca di tanti che desiderano superare ostacoli interiori ed esteriori per rintracciare un senso alla propria esistenza. Gesù accoglie questa ricerca, anzi scorge in questa curiosità, nell’inquietudine che porta nella ad intraprendere viaggi, percorsi, ricerche diverse, uno spazio di disponibilità e di accoglienza. Gesù si è lasciato accogliere. Forse dovremmo essere meno preoccupati di portare qualcosa agli altri e accogliere le ricerche e valorizzare i desideri di ‘vedere’ nell’esistenza, varcare le soglie che dividono giusti e peccatori, persone dabbene e persone marginali e entrare in queste case. Si può scoprire una gioia inattesa…
Zaccheo è una storia di accoglienza e ospitalità: ed è una storia in cui il tempo della vita, l’oggi, si fa luogo di un incontro con Gesù che diviene cambiamento dell’esistenza. Un cambiamento generato dall’incontro. Oggi forse la sfida, in una realtà sociale segnata dalla frammentazione e dalla solitudine che diviene isolamento indifferenza ed esclusione, è quella di creare spazi e luoghi di accoglienza. Luoghi in cui le ricerche, le fatiche, i dubbi delle persone possano essere accolti e accompagnati offrendo condivisione e in un incontro di ricerche. In tanti modi tali ricerche sono nascoste spesso occultate dal clamore della folla: la realtà mediatica, il peso dato all’apparenza esteriore o anche forme di religiosità centrate sulla manifestazione spesso nascondono e impediscono tali cammini. Ci sono percorsi interiori profondi che hanno bisogno di essere ospitati e visitati con la delicatezza di chi si lascia interrogare dall’altro. Gesù porta il vangelo come ricerca di chi è perduto nella dimensione della visita. Lì nella casa si genera, a partire dal varcare soglie che separano, la possibilità di una scelta libera di rapporti nuovi con gli altri.
Un’ultima osservazione: l’aver incontrato Gesù, e in lui aver trovato la salvezza si esprime per Zaccheo, ma anche per ognuno di noi in un rapporto nuovo con gli altri in relazioni nuove che coinvolgono la concretezza della vita, il modo di pensare e usare i beni, le cose, nella linea della giustizia e del dono.
Alessandro Cortesi op