XXXIV domenica tempo ordinario – anno A – Cristo re dell’universo – 2017
Ez 34,11-17; 1Cor 15,20-16,28; Mt 25,31-46
La grande scena del re che giudica tutti i popoli conclude il quinto grande discorso del vangelo di Matteo, il capitolo 25 centrato sui temi dell’attesa, della responsabilità nel tempo, del restare svegli. “quando il Figlio dell’uomo verrà…”: il Figlio dell’uomo è tratteggiato nel suo venire.
Figlio dell’uomo è figura evocata dal profeta Daniele (Dan 7). Dopo aver offerto un panorama della storia umana in cui gli imperi che avevano dominato sui popoli crollano uno dopo l’altro, alla fine dei tempi scorge il giungere di una figura proveniente da Dio ‘simile a figlio dell’uomo’. E si apre un giudizio. In Dan 7,13-14 questa figura riunisce i tratti di una figura singolare e collettiva. In altri scritti conosciuti ai tempi di Gesù (le parabole di Enoch 45-57, IV Esdra) questa figura era interpretata in senso singolare. Matteo riprende questo titolo applicandolo a Gesù: è Gesù il ‘figlio dell’uomo’. E’ il medesimo che ha pronunciato il discorso della montagna, ha chiamato a seguirlo annunciando il regno dei cieli, ha raccolto attorno a sé una comunità, ha chiesto di mettere al centro i piccoli e di perdonare. E’ lui che ha inviato i suoi apostoli a dare gratuitamente ciò che gratuitamente hanno ricevuto.
All’inizio del suo vangelo Matteo aveva evocato un ‘nuovo principio’, riprendendo con questo termine la prima parola della Bibbia: una nuova ‘genesi’ è letta con riferimento a Gesù. La nascita di Gesù si situa in una storia orientata ad un incontro. Per questo Matteo legge i gesti di Gesù quale compimento delle promesse di Dio. La sua vita è segno della fedeltà di Dio. L’ultima pagina del vangelo – prima del racconto della passione – conduce a scorgere l’esito di questa storia: quando il figlio dell’uomo verrà…
Nella figura del figlio dell’uomo Matteo quindi delinea il profilo di Gesù mettendo insieme un venire alla fine dei tempi e il suo venire vicino, il suo cammino terreno di giusto che subisce una ingiusta condanna. Nel processo davanti al sommo sacerdote che lo interroga (Mt 26,64) Gesù risponde: ‘vedrete il Figlio sedere alla destra della potenza e venire sulle nubi del cielo’. Per Matteo allora figlio dell’uomo non è solo qualcuno che viene alla fine, ma è il veniente è quel Gesù che è venuto e viene. Qui per Matteo sta la ‘nuova creazione’: il venire di Gesù apre un incontro una comunione che investe tutta l’umanità. C’è un riferimento ad un tempo lontano, ad un futuro, ma anche c’è l’evocazione di un venire immediato, sin d’ora. Matteo invita la sua comunità a scorgere sin dal presente un venire vicino di Gesù. Questo presente è legato alla fine della storia. Non ci sarà il buio dell’assenza ma un incontro. Il cammino di tutte le genti è diretto verso quel momento.
Nella grande scena del giudizio il re è presentato come il pastore che raduna le sue pecore. Secondo il modulo letterario del parallelismo e del contrasto tutto il brano è strutturato in una contrapposizione che intende dare risalto al messaggio dell’accoglienza. La seconda parte è tutta orientata ad evidenziare per contrasto quanto è detto nella prima parte: ‘venite benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sin dall’origine del mondo’. Già nel principio c’è una promessa e un sogno del Padre: il regno è riferimento per dire un progetto di incontro e comunione.
La fine della storia sarà una grande accoglienza, e la parola definitiva sarà di comunione ‘Venite’. E’ un incontro non fatto di parole ma vissuto concretamente negli incontri con chi ha avuto bisogno. Il giudizio si compie nel rapporto con gli altri. Gesù s’identifica con l’assetato, il senza dimora, il rifugiato senza mezzi di sostentamento, il malato, il carcerato. Ci sono tutti coloro che hanno vissuto la vita con attenzione all’altro, anche senza sapere che nei loro gesti e nelle loro scelte incontravano Gesù. La domanda stupita che essi rivolgono al re suona infatti: “Quando ti vedemmo affamato e ti demmo da mangiare o assetato e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino e ti ospitammo, nudo e ti coprimmo? Quando ti vedemmo infermo o in carcere e venimmo a trovarti?”
Il regno non è conseguenza di una appartenenza religiosa, ma ‘viene’ laddove si risponde alla chiamata del povero. Dare da mangiare, dare da bere, offrire un tetto e assistenza, accogliere chi sta ai margini, sono i gesti della cura e della vicinanza al povero. Sono gesti in cui scoprire la propria nudità di poveri accanto ad altri.
Il re invita a venire nel suo regno. E’ questa una provocazione alla comunità di coloro che desiderano seguire Gesù. Questa è formata da tutti coloro che vivono rapporti nuovi di riconoscimento dell’altro e di fraternità e sororità: è il ‘regno’ già iniziato.
E’ Gesù il veniente, che continua a venire nei più piccoli dei fratelli (e sorelle): “tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli e sorelle l’avete fatto a me”.
Alessandro Cortesi op
Poveri
L’11 settembre 1962 in uno dei discorsi preparatori del Concilio Vaticano II papa Giovanni XXIII pronunziò queste parole “la chiesa vuole essere la chiesa di tutti, ma soprattutto la chiesa dei poveri”. L’accento di questa espressione cadeva non sull’impegno a prendersi cura dei poveri, ma ad essere la chiesa ‘dei poveri’. Il fatto stesso di essere chiesa, raduno e assemblea, è a partire dalla scelta di Dio di farsi povero nella storia umana nel cammino di Gesù.
Il card. Giacomo Lercaro di Bologna, durante la prima fase dei lavori del Concilio, presentò la proposta di impostare i lavori attorno al mistero del Cristo povero, ma tale idea non ebbe seguito. Da allora questo accento non è stato più ripreso forse anche le radicali esigenze di revisione che poneva ad una chiesa che si doveva scoprire chiamata non ad inseguire mire terrene ma a testimoniare lo stile del vangelo.
E’ stato Francesco, vescovo di Roma proveniente dall’America latina segnata dall’opzione preferenziale per i poveri, a riportare al primo posto l’attenzione a tale questione come sfida fondamentale per vivere il vangelo oggi: una delle sue affermazioni forti è stata: “i poveri sono la carne di Cristo.” La povertà non è questione astratta ma si rende presente in volti concreti:
“Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà. Eppure, essa ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata”. (Messaggio di indizione della I giornata mondiale dei poveri)
“La povertà ha il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro. Quale elenco impietoso e mai completo si è costretti a comporre dinanzi alla povertà frutto dell’ingiustizia sociale, della miseria morale, dell’avidità di pochi e dell’indifferenza generalizzata! Ai nostri giorni, purtroppo, mentre emerge sempre più la ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati, e spesso si accompagna all’illegalità e allo sfruttamento offensivo della dignità umana, fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo” (ibid.)
La mano tesa dei poveri è appello ad uscire da sicurezze e comodità che rendono la vita ripiegata in un egoismo senza gli altri, in una indifferenza senza cura, in una religiosità del culto separato dalla vita.
In un recente libro Giovanni Ferretti, professore emerito di filosofia teoretica dell’Università di Macerata (Il criterio misericordia – Sfide per la teologia e la prassi della Chiesa, ed. Queriniana 2017) sottolinea come la dimensione del fenomeno della povertà nel mondo globalizzato con il dominio dell’economia finanziaria esiga oggi una consapevolezza particolare e divenga sfida centrale per la fede cristiana. Esige infatti di “riflettere in forma nuova sulla natura dell’apporto del Vangelo alla salvezza integrale dell’uomo – di tutto l’uomo e di tutti gli uomini – fin da questa vita terrena e ad operare di conseguenza” (ibid. p.143). Per questo la proposta di papa Francesco “sta operando un importante spostamento nella considerazione delle sfide del mondo moderno contemporaneo: dal primato della sfida della ragione illuministica moderna e post-moderna, che ha impegnato la Chiesa per più di due secoli, al primato della sfida della povertà e della disumanità dilagante nel mondo” (ibid. p. 142).
E’ quanto viene affermato in Evangelii Gaudium dove è delineato un magistero proprio dei poveri a cui prestare ascolto proprio per vivere la fede: “Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro” (Evangelii Gaudium, 198).
Francesco sottolinea innanzitutto che la povertà è una chiamata anzitutto a seguire Cristo: è un cammino che apre a riconoscere il limite e a non cadere nelle diverse forme dell’idolatria.
“Non dimentichiamo che per i discepoli di Cristo la povertà è anzitutto una vocazione a seguire Gesù povero. È un cammino dietro a Lui e con Lui, un cammino che conduce alla beatitudine del Regno dei cieli. Povertà significa un cuore umile che sa accogliere la propria condizione di creatura limitata e peccatrice per superare la tentazione di onnipotenza, che illude di essere immortali. La povertà è un atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione per la felicità. E’ la povertà, piuttosto, che crea le condizioni per assumere liberamente le responsabilità personali e sociali, nonostante i propri limiti, confidando nella vicinanza di Dio e sostenuti dalla sua grazia. […] Facciamo nostro, pertanto, l’esempio di san Francesco, testimone della genuina povertà. Egli, proprio perché teneva fissi gli occhi su Cristo, seppe riconoscerlo e servirlo nei poveri” (Messaggio per la I giornata dei poveri).
“Se, pertanto, desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione. Nello stesso tempo, ai poveri che vivono nelle nostre città e nelle nostre comunità ricordo di non perdere il senso della povertà evangelica che portano impresso nella loro vita”. (Messaggio per la I giornata dei poveri)
La condizione di povertà è da combattere per eliminare situazioni che sono degradanti per le persone. Tuttavia proprio nell’incontro con chi è più segnato dalla fatica, dalle difficoltà e dalla fatica del vivere si dà un incontro che porta a cambiare la vita. E’ ciò che viene testimoniato da tanti che si sono lasciati coinvolgere nella vita dei poveri, ascoltando voci e incontrando sguardi (cfr. Luis Antonio Tagle, Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze ed. Emi 2016). L’incontro con i poveri è esperienza che cambia non solo il modo di intendere la vita, ma conduce a scorgere il mistero di Cristo che da ricco si fece povero…
“Come, concretamente, possiamo allora piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo. Subito dopo il brano che abbiamo ascoltato oggi, Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole: «Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore.”[…] Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una “forza salvifica”. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali.” (omelia nella Giornata mondiale dei poveri 19 novembre 2017)
Alessandro Cortesi op
I domenica di Avvento – anno B – 2017
Is 63,16-17.19; 64,1-7; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37
“Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?”
Il volto di Dio è presentato dal terzo-Isaia, profeta del dopo esilio, come colui che porta salvezza, redentore. Il vagare senza meta e il cuore indurito sono le due immagini che esprimono la condizione di chi si è dimenticato della presenza di Dio nella vita, della relazione che lega in una alleanza.
L’invocazione del profeta si fa preghiera: “Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità”. E’ una richiesta a ritornare guardando a coloro che si ricordano delle sue vie. E’ sottintesa implorazione a far ricordare quelle vie che sono state vie di liberazione. La richiesta di un ritorno di Dio si unisce al riconoscimento di aver vissuto il peccato come ribellione. Ma la fiducia nella vicinanza di Dio è più grande del peccato: Dio è colui che si fa incontro:
“Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli”.
L’invocazione si chiude con una immagine che richiama la creazione e la presenza di Dio padre di tutte le cose perché sorgente di ogni esistenza. L’argilla è solo materia informe nelle mani del vasaio. Deve riconoscere come tutto proviene dalle mani di chi la può plasmare e riplasmare di nuovo. Così la vita di una umanità tratta dalla terra che vive per l’opera e per il soffio di Dio: “Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.
Dio ha i tratti di un tu che ‘va incontro’ a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle sue vie.
Paolo, iniziando a scrivere alla comunità di Corinto di cui ha avuto notizie e a cui si appresta a rispondere a tante difficoltà e dubbi sollevati, innanzitutto ha parole di lode per i tanti e diversi doni che rendono quella comunità ricca di differenze: “non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”.
Paolo richiama ad un futuro manifestarsi di Gesù. Ogni impegno trova suo fondamento nella fedeltà di Colui che è fedele: “Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!”
‘Dio è fedele’. La sua fedeltà è in rapporto ad un sogno di comunione. Su questo deve fondarsi l’attesa dei Corinti verso il manifestazione di Cristo. C’è una chiamata nella vita dei cristiani ad un legame di comunione che lega insieme e avviene attraverso l’incontro con Gesù.
La parabola dei servi e del portiere è posta nel quadro del capitolo 13 di Marco, i cosiddetto discorso apocalittico: il richiamo di fondo al cuore di questo discorso è a vegliare, cioè vivere il tempo con consapevolezza e impegno.
C’è un ricordo della stanchezza degli apostoli che si addormentarono e non resistettero nel rimanere accanto a Gesù (Mc 14,37). Ma c’è anche un rinvio alla vita di una comunità che si stanca e non tiene il passo. Vegliare significa non perdere di vista il rapporto con Gesù. lo stare con lui. Gesù visse il tempo della sua vita nel rapporto profondo unico con l’Abba. Ha vissuto l’affidamento della fede e nel suo ‘vegliare’ sta la radice del suo agire.
Vegliare si oppone all’indifferenza, alla superficialità, alla disattenzione di sprecare il tempo. “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà…”
Vegliate non è imperativo che mantiene sotto la minaccia e nella paura. E’ piuttosto il vegliare di chi sa che qualcuno sta giungendo e per questo il tempo assume un altro spessore. E’ annuncio del ritorno di colui che è passato facendo del bene, di Gesù che ha testimoniato nella sua vita il disegno di Dio di un mondo di fraternità. E’ invito a scorgere all’orizzonte di un presente contraddittorio i segni di un farsi vicino che non viene meno e porterà a compimento le promesse del Dio fedele. L’incontro con Gesù, la comunione, saranno l’ultima parola della storia. Nel tempo il vegliare si declina nello scorgere i segni, affrettare il venire, preparare il cuore.
Alessandro Cortesi op
Vegliate
‘Vegliate’ è il grande invito dell’avvento: come chi nella notte attende una presenza amata che torni e bussi alla porta. Come chi veglia accanto a chi soffre.
E’ di questi giorni una notizia che ci ha drammaticamente riportato il contrasto tra la perdita di umanità, e la capacità dei poveri di saper vegliare anche laddove la malvagità sembra cancellare ogni respiro di dignità.
Una eritrea di 24 anni ha partorito un figlio, nato morto mentre era ancora in Libia, imprigionata, in attesa di potersi imbarcare nel viaggio della speranza verso l’altra sponda del Mediterraneo, verso l’Europa agognata. Ma dopo il parto è rimasta per tre giorni agonizzante, fino a morire prima dell’imbarco. I trafficanti hanno caricato il suo cadavere sul barcone ordinando a coloro che erano stati imbarcati di gettarlo in mare durante la traversata. Altre donne salite sul barcone non hanno obbedito a questo comando disumano. L’hanno vegliata fino all’approdo in Sicilia ad Augusta, dopo essere stati recuperati dalla ONG spagnola ‘Open arms’, il 25 novembre u.s. ‘Era nostra sorella’ hanno detto. Sono stati 431 i superstiti di questa navigazione.
L’hanno vegliata nel buio della notte e nel mare, nel buio della malvagità degli aguzzini e nel buio dell’indifferenza di un’Europa che non riconosce ai migranti dignità e sta conducendo una guerra per tenerli esclusi. Quel vegliare ha reso testimonianza della gratuità dell’umana compassione. Private di ogni cosa hanno saputo donare: la loro cura, la loro umanità, la loro speranza: ‘Qui troverà pace’ hanno anche detto. Hanno saputo scorgere negli occhi di una vittima lo specchio dell’essere tutti stranieri nel tempo dell’esistenza. Cosa che non riusciamo a vivere nell’Europa che si arrocca e sigilla le frontiere. Quel vegliare è un sussulto di umanità, un messaggio silenzioso a chi non sa più vegliare su volti umani che recano sofferenza.
Questo anonimo vegliare è segno profetico e dovrebbe risvegliare da un sonno che pesa sui nostri giorni. La navigazione umana è un viaggio comune in una attesa che chiederebbe di essere condivisa.
Alessandro Cortesi op