(mosaici sec. XII – Duomo di Monreale)
Is 2,1-5; Rom 12,11-14; Mt 24,37-44
“Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo… non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo… Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti”.
Il tempo dell’avvento è orientato a volgere lo sguardo verso la venuta definitiva del Risorto che visita la nostra vita e tornerà. Anche nel vangelo di Matteo che sarà letto in questo nuovo anno liturgico, è riportato un discorso di Gesù sulla venuta del Figlio dell’uomo. Il Figlio dell’uomo, titolo per indicare Gesù risorto, ritornerà e non si potrà rimanere indifferenti: nel libro di Daniele (cap. 7) Figlio dell’uomo è figura che viene dall’alto in rapporto con ultimi tempi, in cui si attuerà un ‘giudizio’.
Matteo richiama la sua comunità a scorgere che questa ‘ora’ non è qualcosa di lontano e futuro, ma è già in atto nel presente ed esige un modo diverso di intendere la vita. Il ricordo dei tempi di Noè è significativo perché mentre tutto mangiavano e bevevano non accorgendosi di nulla, Noè si mise a preparare l’arca per salvare persone e animali dalle acque simbolo del male. Ci può essere un modo di vivere il presente nella spensieratezza, nella distrazione che rende insensibili, indifferenti. Noè fece attenzione ai ‘segni’ e si preparò cercando di raccogliere, di custodire, operando per la vita degli altri e prendendosi cura di tutta la creazione.
Gesù invita ad essere vigilanti, a tenere gli occhi aperti sulla vita e sulla storia: ci sono segni della presenza di Dio che esigono ascolto attento alle persone, agli eventi, capacità di leggere dentro. Vegliare è termine della cura, che indica l’attenzione al presente. Chi veglia è teso al futuro ma impegnato nel qui ed ora, è operoso nelle piccole cose del momento che sta vivendo. Il ‘giudizio’ consiste nelle scelte che compiamo noi nel tempo: già ora la nostra vita è un prendere posizione, uno stare orientati verso l’incontro con Cristo che viene e che verrà nelle scelte di liberazione e di lotta per la giustizia e la pace. L’attenzione è elemento fondamentale del credere: porre attenzione e cura indica il superamento di una logica di egoismo e ripiegamento su di sé, una cura oggi da pensare in relazione a tutto il creato, come Noè. Vegliare comporta quindi prendere sul serio il tempo e la storia. E’ essere pronti di fronte alle responsabilità di ogni giorno.
Vegliare è modo per vincere il sonno che appesantisce e impedisce l’azione. E’ una fatica da riprendere ogni giorno nuovamente: questo sonno è il grande pericolo della vita del credente. ‘Ormai è tempo di svegliarvi dal sonno’ è esortazione di Paolo nella lettera ai Romani, ‘gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce’.
Si tratta di non venir meno alla certezza che il sogno di Dio è la pace: ‘un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra’. E’ pace che inizia qui e che ha il suo futuro nella riconciliazione che è dono di Dio stesso. E’ impegno ad inseguire la promessa di Isaia: ‘Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci’. A fronte di un mondo che vede la guerra come necessaria la Parola di Dio invita a denunciare la produzione, il commercio e l‘uso delle armi come contrari al disegno di Dio, fonti solo di disastri e sofferenze. Un’altra lotta è invece da condurre, quella contro l’indifferenza e la sonnolenza che impedisce di essere responsabili degli altri, di assumersi la cura per promuovere tutto ciò che umanizza e apre la vita all’incontro e alla liberazione.
Alessandro Cortesi op
Il sentiero di Isaia
Nel 1963 Giorgio La Pira scriveva alle monache di clausura condividendo la sua lettura sulla storia del mondo sul crinale apocalittico delle armi nucleari. Il crinale che vedeva la possibilità concreta di una distruzione totale della vita sulla terra o, per contro, la scelta di una via diversa, l’opzione decisa senza tentennamenti per ricercare le vie della pace possibile. La visione di La Pira era uno sguardo profetico che non solo indicava una direzione ma era guida di un impegno storico concreto per il dialogo dei popoli. Espressione di un uomo preso dall’utopia del sogno di Isaia che accolse nella sua vita non come orizzonte irraggiungibile ma come fine verso cui tendere preparando il terreno, spendendosi nell’impegno e attuando cammini storici.
“Madre Reverenda, bisogna puntare con estrema decisione, con totale impegno sopra questa domanda: questa grazia della pace alla intiera famiglia umana deve essere concessa dal Padre celeste; il fiume di pace -di cui parla Isaia- deve irrigare con abbondanza la città degli uomini, come irriga la città di Dio (Apoc. 22): il Signore non può negare questa grazia così fondamentale dalla quale dipende l’esistenza della civiltà umana, del genere umano e, forse, dello stesso pianeta! Perché, Madre Reverenda, al punto in cui si trovano le cose, non c’è alternativa per i popoli: o la pace millenaria o la distruzione apocalittica della famiglia umana e della terra medesima provocata, (Dio non voglia!) dalla potenza sconvolgitrice – apocalittica davvero! – delle armi nucleari!
Queste affermazioni, Madre Reverenda, non sono mie: sono degli scienziati nucleari; sono delle massime guide politiche del mondo (si ricordi Kennedy); sono di Giovanni XXIII che con la Pacem in Terris consegnò ai popoli di tutta la terra il suo messaggio di salvezza e di speranza!
Questo, Madre Reverenda, è, perciò, il problema fondamentale del mondo, oggi: fare la scelta finale, apocalittica: scegliere, cioè, o la pace millenaria (che richiede un profondo mutamento in tutti i rapporti -e nel modo stesso di pensare!- degli uomini) o la distruzione davvero senza misura, che può condurre sino alla rottura degli stessi equilibri fisici sui quali si regge l’esistenza fisica del nostro pianeta (e non solo di esso).
Ed allora? Allora la risposta è evidente: – bisogna avere il coraggio (perché di questo si tratta!) di scegliere la pace e di agire a tutti i livelli (internazionali ed interni: militari, scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali, politici e religiosi) in conformità a questa scelta. Ma per fare questa scelta ci vuole davvero un atto smisurato di fede: la fede di Abramo: spes contra spem! (…)
La «visione» di Isaia (2,1 ss.) e dei Profeti non appare più un’utopia: la pace universale, l’unità del mondo, la fraternità, la civiltà e l’ illuminazione biblica del mondo, non appaiono più «sogni» di poeti e «fantasie» di profeti: appaiono realtà storiche che cominciano a profilarsi, a «sagomarsi», nell’orizzonte storico della Chiesa e dei popoli! Basta guardare con amore, con preghiera, con attenzione, lo svolgersi irresistibile del piano di Dio nel mondo. Perché di questo, Madre Reverenda, dobbiamo essere persuasi: il Signore vuole che il Suo regno venga, come in cielo, anche in terra; che sulla terra – abitata dal Suo Unigenito e dalla Sua Chiesa! – si faccia la pace, splenda la luce, trionfi la grazia; che le «visioni» felici dei Profeti e le «visioni» felici dell’Apocalisse diventino – nel corso futuro dei millenni – la realtà benedetta nella quale si svolge la vita degli uomini, delle città, delle nazioni, dei popoli!”
In questi giorni papa Francesco presso il Memoriale della pace a Hiroshima ha lanciato un appello in un contesto internazionale in cui la produzione e il commercio di armi stanno per crescere. Armi devastanti sono usate nelle guerre diffuse e regionali e si prevedono conflitti maggiori ad esempio per l’acqua e per i beni naturali.
“Mai più la guerra, mai più il boato delle armi, mai più tanta sofferenza!”. Queste le parole di Francesco dal Parco del Memoriale della Pace di Hiroshima, dove il 6 agosto 1945 fu sganciata la bomba atomica che generò morti innumerevoli – ottantamila nello scoppio e moltissimi altri poi – e scene infernali. “Desidererei umilmente essere la voce di coloro la cui voce non viene ascoltata e che guardano con inquietudine e con angoscia le crescenti tensioni che attraversano il nostro tempo”
Nelle sue parole la considerazione che non solo l’uso delle armi, ma anche il solo loro possesso è minaccia alla pace e la denuncia del crimine dell’uso di tali armi.
“Uno dei desideri più profondi del cuore umano è il desiderio di pace e stabilità. Il possesso di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa non è la migliore risposta a questo desiderio; anzi, sembrano metterlo continuamente alla prova”.
“desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune.”
Citando Pacem in terris di Giovanni XXIII ha affermato che la pace se non è costruita sulla verità e sulla giustizia rimane un suono di parole. E riprendendo il discorso di Paolo VI all’ONU il 4 ottobre 1965 ha detto: “Quando ci consegniamo alla logica delle armi e ci allontaniamo dall’esercizio del dialogo, ci dimentichiamo tragicamente che le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, “esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli”
La pace è un edificio che va sempre costruito di nuovo e continuamente.
“Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra? Come possiamo parlare di pace mentre giustifichiamo determinate azioni illegittime con discorsi di discriminazione e di odio?”
Due anni fa in un incontro con i giornalisti mentre si rincorrevano minacce di attacchi nucleari tra Usa e Corea del Nord offrì come regalo una foto scattata nel 1945 da Joseph Roger O’Donnell: ritraeva un ragazzo con in spalla il fratellino morto mentre attendeva di far cremare quel piccolo corpo senza vita. La foto era accompagnata da una breve didascalia: “il frutto della guerra”. “Qui, di tanti uomini e donne, dei loro sogni e speranze, in mezzo a un bagliore di folgore e fuoco, non è rimasto altro che ombra e silenzio”.
“Ricordare, camminare insieme, proteggere. Questi sono tre imperativi morali che, proprio qui a Hiroshima, acquistano un significato ancora più forte e universale e hanno la capacità di aprire un cammino di pace. Di conseguenza, non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto…”.
‘Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci’ è rimane promessa e progetto incompiuto a cui cercare di dare risposta con lucidità e concretezza oggi.
Alessandro Cortesi op
XXXII domenica tempo ordinario – anno A – 2023
Sap 6,12-16; 1Tess 4,13-18; Mt 25,1-13
Le lampade, l’olio e la porta sono tre immagini della parabola delle giovani stolte e sagge. Il contesto è l’ultima parte del vangelo di Matteo prima della passione e morte di Gesù: qui sono raccolte alcune sue parole sulle realtà finali. Il regno di Dio, vicinanza dell’amore di Dio per tutti, dono di liberazione e di rapporti nuovi è già iniziato ma verrà. Si situa tra il presente ed un futuro da attendere e preparare.
Il regno presente nella storia come seme sta crescendo. Il tempo della chiesa – ed il vangelo di Matteo è particolarmente sensibile alla vita della comunità (cfr. Mt 16-18) – si connota come tempo di attesa, di tensione operosa a vivere l’incontro con Dio nella speranza.
Il contesto della parabola è quello delle nozze: i profeti usano tale immagine per parlare dell’incontro tra Dio sposo e il popolo d’Israele. Nella celebrazione del matrimonio che durava vari giorni, al termine dei festeggiamenti la sposa con le amiche attendeva al tramonto l’arrivo dello sposo e da qui si muoveva il corteo verso la casa dello sposo dove si svolgeva il rito e poi il banchetto delle nozze. La parabola richiama questi elementi e pone una contrapposizione tra il buio che scende e la luce: al tramonto è necessario tenere accese le lampade per accogliere lo sposo. Ma il ritardo conduce ad una situazione imprevista.
Giunge il sonno e le amiche della sposa si assopiscono. Tutte. Cedere al sonno è venir meno all’attesa e questa è la condizione di tutte le giovani. Ma quando giunge la voce ‘Ecco lo sposo’ tutte sono risvegliate e si apprestano a preparare le lampade con l’olio. La luce vince il buio della notte e prepara l’incontro con lo sposo. tenere le lampade accese è lo stile di chi ha coltivato la sapienza: “Neppure di notte si spegne la sua lucerna” (Prov 31,18) così nel libro nei Proverbi si descrive il profilo della donna saggia. Matteo nel discorso della montagna aveva unito la luce all’operare dei testimoni: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere belle e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,14-16).
Il motivo dell’olio è il segno dell’ospitalità della gratuità dell’amore, è ciò che può alimentare le lampade che vengono accese quando si fa vicina la voce che risveglia dal sonno, che desta e rialza. L’olio è ciò che fa uscire e affrontare il buio della notte dando forza ad un agire. La parabola parla così di una porta aperta, di lampade che richiedono un po’ di olio, di gioia dell’incontro. E’ un richiamo innanzitutto alla fede come incontro di gioia con Dio che ci raggiunge. E’ anche invito all’attesa che si fa veglia e cura per alimentare la luce anche nel buio e per vincere il sonno. Siamo chiamati a custodire l’olio dell’ospitalità, della fraternità, della benedizione, nelle piccole cose del quotidiano per andare incontro al Signore che viene.
Alessandro Cortesi op