la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivio per il tag “attesa”

III domenica di Avvento – anno B – 2023

Is 61,1-2.10-11; 1Tess 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

“Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri”. Il profeta riconosce al cuore della sua vita un invio: mandato a portare il lieto annuncio ai poveri nella forza dello Spirito. E’ inviato per la gioia: deve porre gesti di cura e liberazione, fasciare piaghe dei cuori, liberare i prigionieri. Il suo annuncio si rende vicino in gesti di liberazione. La prassi da attuare indica lo stile di Dio, la misericordia ed apre un tempo segnato dalla misericordia. Questa novità segna la vita del profeta e lo coinvolge per primo: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza”. Il mantello della giustizia lo avvolge perché “il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti”. Lo sguardo si allarga a comprendere un sogno di giustizia e di pace che coinvolge tutte i popoli chiamati ad accogliere una azione di Dio stesso che pur tra le contraddizioni sta facendo germogliare una novità nella storia.

Nella pagina del vangelo Giovanni il battista è chiamato a rendere testimonianza in rapporto a Gesù. Giovanni sperimenta il rifiuto della sua azione ed è accostato con ostilità e sospetto. Ma le sue risposte a chi lo interroga sono tutte rivolte ad un altro: la sua missione di ‘testimone’ lo orienta in rapporto alla luce ed in questo si oppone alle tenebre della violenza. “Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce”. Così parla di se stesso quale ‘voce’ che richiama a preparare una via: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore”. La sua esistenza è rivolta verso, indica qualcuno, è protesa ad una preparazione e suscita una ricerca: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me”. Il gesto da lui proposto a tutti, l’immersione come battesimo intende coinvolgere in questa ricerca e attesa. E’ preparazione e chiede cambiamento e conversione. Attesa e disponibilità per un cambiamento della vita. Tutta l’attenzione è fatta convergere su Gesù. Nei tratti del Battista si può ritrovare il profilo dell’uomo di Dio: nella prova, consapevole della propria fragilità, pur affrontando le delusioni per il mancato riconoscimento e le sofferenze per il rifiuto, si mantiene fedele, testimonia la luce. Vive la testimonianza di una gioia che viene da Dio, dal suo dono. E prepara un incontro.

“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4-5): Paolo indica una gioia che non è fuga dalla storia e nemmeno chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò che angustia e opprime. Rallegrarsi non è l’attitudine dei superficiali e degli indifferenti ai drammi ed alle tragedie della stori e del vivere, ma lo stile di chi accoglie il venire del Signore. Non è illusione vana ma lo sguardo profondo che trae la sua forza dal fatto che il Signore è vicino. E il Signore è vicino perché è entrato in questa nostra storia legandola a sé in modo definitivo. Continua a farsi vicino nelle chiamate all’interno della storia personale e collettiva. E’ vicino perché attendiamo il suo ritorno come raduno e come incontro, fine della storia, porto di ogni navigazione. La radice più profonda della gioia sta nella consolazione di una presenza che viene.

Alessandro Cortesi op

XXXII domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Sap 6,12-16; 1Tess 4,13-18; Mt 25,1-13

Le lampade, l’olio e la porta sono tre immagini della parabola delle giovani stolte e sagge. Il contesto è l’ultima parte del vangelo di Matteo prima della passione e morte di Gesù: qui sono raccolte alcune sue parole sulle realtà finali. Il regno di Dio, vicinanza dell’amore di Dio per tutti, dono di liberazione e di rapporti nuovi è già iniziato ma verrà. Si situa tra il presente ed un futuro da attendere e preparare.

Il regno presente nella storia come seme sta crescendo. Il tempo della chiesa – ed il vangelo di Matteo è particolarmente sensibile alla vita della comunità (cfr. Mt 16-18) – si connota come tempo di attesa, di tensione operosa a vivere l’incontro con Dio nella speranza.

Il contesto della parabola è quello delle nozze: i profeti usano tale immagine per parlare dell’incontro tra Dio sposo e il popolo d’Israele. Nella celebrazione del matrimonio che durava vari giorni, al termine dei festeggiamenti la sposa con le amiche attendeva al tramonto l’arrivo dello sposo e da qui si muoveva il corteo verso la casa dello sposo dove si svolgeva il rito e poi il banchetto delle nozze. La parabola richiama questi elementi e pone una contrapposizione tra il buio che scende e la luce: al tramonto è necessario tenere accese le lampade per accogliere lo sposo. Ma il ritardo conduce ad una situazione imprevista.

Giunge il sonno e le amiche della sposa si assopiscono. Tutte. Cedere al sonno è venir meno all’attesa e questa è la condizione di tutte le giovani. Ma quando giunge la voce ‘Ecco lo sposo’ tutte sono risvegliate e si apprestano a preparare le lampade con l’olio. La luce vince il buio della notte e prepara l’incontro con lo sposo. tenere le lampade accese è lo stile di chi ha coltivato la sapienza: “Neppure di notte si spegne la sua lucerna” (Prov 31,18) così nel libro nei Proverbi si descrive il profilo della donna saggia. Matteo nel discorso della montagna aveva unito la luce all’operare dei testimoni: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere belle e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,14-16).

Il motivo dell’olio è il segno dell’ospitalità della gratuità dell’amore, è ciò che può alimentare le lampade che vengono accese quando si fa vicina la voce che risveglia dal sonno, che desta e rialza. L’olio è ciò che fa uscire e affrontare il buio della notte dando forza ad un agire. La parabola parla così di una porta aperta, di lampade che richiedono un po’ di olio, di gioia dell’incontro. E’ un richiamo innanzitutto alla fede come incontro di gioia con Dio che ci raggiunge. E’ anche invito all’attesa che si fa veglia e cura per alimentare la luce anche nel buio e per vincere il sonno. Siamo chiamati a custodire l’olio dell’ospitalità, della fraternità, della benedizione, nelle piccole cose del quotidiano per andare incontro al Signore che viene.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno A – 2022

Is 35,1-6.8.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

Una visione di gioia, di coraggio, di sogno è presentata da Isaia: il deserto acquista vita ed esprime gioia e la steppa fiorisce per la felicità. “Si rallegrino il deserto e la terra arida,
esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca”. E’ un quadro di speranza e di coraggio, di una novità sta cambiando la realtà di dolore e di smarrimento: Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, … Egli viene a salvarvi”. Tristezza e pianto non ci saranno più. L’immagine di una via appianata che scorre in mezzo al deserto è metafora di un percorso di liberazione, di un cammino di chi è liberato e va verso una condizione nuova di pace: ‘lo zoppo salterà come il cervo, griderà di gioia la lingua del muto’. La strada appianata è segno di un cammino nel quale anche noi siamo coinvolti.

Nel quadro di questa promessa la pagina del vangelo offre uno squarcio sulla crisi di Giovanni Battista. I suoi discepoli sono inviati dal carcere dopo che Giovanni fu arrestato da Erode Antipa che scorgeva nella sua azione una minaccia. Pongono a Gesù una domanda che esprime incertezza e dubbio: ‘sei tu colui che deve venire?’. La venuta di Gesù non sta compiendo quel rivolgimento che Giovanni attendeva: non si presenta infatti come messia del giudizio. Il Battista predicava una minaccia incombente ed una esigenza di cambiamento, pensava ad un messia che interveniva in modo forte e grandioso. Gesù manifesta uno stile diverso, le sue parole sono segnate dalla proposta di un dono da accogliere, gratuitamente, il regno di Dio, dono per i poveri e i piccoli e vive la debolezza, anche il rifiuto.

Rispondendo ai discepoli di Giovanni, Gesù non parla di se stesso ma rinvia ai suoi gesti, a quanto sta accadendo. Si sta rendendo già presente ciò che Isaia aveva promesso: “i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la bella notizia”.

La bella notizia è che Dio prende la parte dei poveri, si pone accanto a loro per liberarli: bella notizia è che Gesù attua questo non secondo logiche di affermazione nella violenza e con esibizione di grandezza, ma nel segno del dono, della vicinanza, dell’accoglienza.

I suoi gesti sono piccoli segni che quella novità promessa è iniziata. E dice: ‘beato colui che non si scandalizza di me’. Il suo essere ‘messia’, ‘colui che deve venire’ disorienta, cioè scandalizza, costituisce inciampo a chiunque vorrebbe un messia secondo la propria misura, che non arrechi disturbo e non esiga coinvolgimento.

Solo chi vive una sofferenza può veramente sperare: e solo chi si fa accanto accanto e si fa compagnia in una vicinanza accogliente può aprirsi alla speranza. Gesù nel suo agire risponde a queste attese, le pone al primo posto anche se questo gli procura il sospetto e l’ostilità da parte dei poteri religiosi e politici.

I suoi gesti sono i segni di un mondo nuovo già iniziato che ha al suo centro i piccoli e che sta crescendo laddove qualcuno si impegna secondo il sogno di Isaia, nonostante difficoltà e contraddizioni.

“Promuovere l’avvento… è optare per l’inedito, accogliere la diversità come gemma di un fiore nuovo, come primizia di un tempo nuovo” (Tonino Bello) Mettere al centro delle nostre preoccupazioni la vita delle persone più deboli, meno capaci di farcela da sole; avere occhi per chi non è guardato con amore: ‘beato chi non si scandalizzerà di me’.

Il messaggio di questa domenica nel segno dell’invito alla gioia è tenere insieme il sogno di Isaia e il dubbio di Giovanni. La domanda e l’inquietudine di Giovanni aiutano a vivere la fede, non come fuga dalla storia. Il sogno di Isaia è bussola per scoprire che la nostra speranza si radica sulla promessa di Dio. 

 Alessandro Cortesi op

Attesa e segni

“Per me Gesù Bambino rimane l’immagine più sconvolgente e più coinvolgente di Dio, e il Natale continua ad essere la festa che prediligo. So bene che il culmine della vita di Gesù è la Pasqua, con il mistero della morte e risurrezione in cui trova compimento l’opera della redenzione e vengono inaugurati «cieli nuovi e nuova terra». Ma il cammino verso il perseguimento di questo obiettivo ha inizio con «il Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), ripercorrendo tutte le tappe della nostra esistenza, a partire dalla nascita. Questa creatura fragile, che sperimenta le difficoltà di crescita di ogni bambino, con l’aggiunta di essere fatto oggetto di una terribile persecuzione – si pensi al racconto della fuga in Egitto –, è per me la «cifra» più alta e più trasparente della identità sconvolgente del Dio cristiano. (…) l’aspetto che più mi ha inclinato (e mi inclina ancor oggi) a porre l’accento sulla centralità di questo evento (…) è l’immagine di Dio che attraverso di esso ci viene comunicata: un Dio che, accondiscendendo a fare propria in tutta la sua precarietà la condizione umana, capovolge l’idea di Dio propria di ogni teodicea, segnando il passaggio dagli attributi tradizionalmente a Lui riservati, soprattutto a quello dell’onnipotenza, per presentarci (Gesù Bambino ci conduce immediatamente a questa visione) un Dio povero e impotente che condivide fino in fondo il limite connaturato alla nostra creaturalità” (Giannino Piana, Attesa del Natale, “Rocca” 15 dicembre 2022). Riprendo queste parole di Giannino Piana, teologo e amico, che riandando ai ricordi di infanzia ricerca in quei giorni dell’attesa del Natale, di Gesù bambino, il segreto di un’esperienza. E’ il passaggio da un Dio onnipotente a un Dio fragile, che fa propria la terra nostra, umile, indicandoci anche la via dell’umiltà, del pensiero, della vita quale via dell’incontro. 

“Il Natale si avvicina e noi continuiamo a chiedere alla sentinella: “Dicci, quanto resta della notte? Della notte della guerra, dei disastri ecologici, delle difficoltà economiche per milioni di famiglie, del “politicamente corretto”, dell’eclissi religiosa… e, soprattutto, della notte della sofferenza. Dicci, quanto rimane della notte?  La sentinella ci dice solo che c’è ancora spazio per la speranza. Un semplice pastore in una capanna, una giovane coppia con un bambino appena nato, un operaio che lavora in città mentre noi riposiamo, un maestro di scuola che si aggrappa all’istinto della verità… Grazie a queste presenze anonime possiamo ancora aspettare l’alba, uno e tanti Natali. Sono presenze che ravvivano la speranza, affinché la felicità non muoia tra i nostri desideri effimeri. Sono presenze che ci permettono di continuare a dire BUON NATALE”

Ricevo questo augurio di buon Natale in un biglietto da un amico. E chiedo per me e per tutti noi di fare un piccolo esercizio in questo tempo di buio e di notte: imparare a individuare alcune belle notizie, nelle pieghe delle nostre giornate, negli anfratti della storia, nei bordi pagina dei quotidiani, negli angoli riposti della vita. Non un esercizio di ipocrisia per dire che tutto sommato la vita è bella, e per non lasciarci disturbare dallo scandalo del male e dell’ingiustizia che esige denuncia, vigilanza ed insieme l’operare fattivo per resistere al buio delle coscienze, alla violenza pervasiva, al silenzio sulle situazioni umane che gridano sofferenza.  Ma per coltivare quello sguardo della sentinella, che è capace di vedere il male intorno ma anche sa avvertire il rumore del germoglio che cresce, le prime luci dell’aurora, l’avvicinarsi di una visita attesa. Per scoprire nello smarrimento del cuore i segni di una speranza: “Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete!” Sono incontri, sono parole buone, sono la fedeltà quotidiana, prolungata ad un orizzonte di vita, ad un servizio di competenza, ad una condivisione di dono. Sono scelte di chi opera ogni giorno in modo nascosto, senza riconoscimenti e gratificazioni. Sono queste le luci di vangelo che ci raggiungono dal di fuori dei sistemi religiosi e delle chiese, dal di fuori di organizzazioni ideologiche e da risposte di dottrine vuote ma che sono presenti, vive, nelle lotte e nelle fatiche di uomini e donne che si sono lasciati conquistare da una luce interiore che chiama e apre cammino. E in questa ricerca imparare a raccontare come l’anziano rabbi discepolo del Baalshem – di cui parla Buber – che era storpio, ma quando gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro preso dalla foga “si alzò e raccontò e il suo racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie”. Ecco forse così potremo vivere la gioia, autentica gioia, che è la gioia della speranza, che non toglie lo smarrimento, ma lo apre ad un impegno per la giustizia, per la pace, nel quotidiano di questa terra, con umiltà, e per questo si fa gioia operosa, di questo Natale.

Alessandro Cortesi op

I domenica di Avvento – omelia

Avvento ci raggiunge come tempo di nuovo inizio, un nuovo anno liturgico, un nuovo inizio. Ma ci raggiunge in un’atmosfera generale segnata dalla disattenzione. In questi giorni siamo presi dalla frenesia di dover acquistare, ieri il black Friday… domani Natale… già luminarie e annunci per alimentare una nuova ondata di spese … Siamo presi dalle emozioni del mondiale di calcio -e ben venga la preziosità dello sport come momento di unione e di incontro tra popoli, di competizione nel rispetto di regole e nell’agonismo e non con l’uso delle armi. Ma ciò avviene mentre è generale la disattenzione, forse il non voler guardare, verso chi ha costruito quegli stadi avveniristici del Qatar e ha visto morire, uno dopo l’altro, i propri compagni sfruttati in una vita da schiavi. Ed ancora generale è la disattenzione verso ciò che sta accadendo in Iran, una autentica rivoluzione, in cui popolazioni intere di villaggi e città scendono in piazza e studenti nelle università e nelle scuole si uniscono al grido “donna, vita, libertà” al seguito di giovani donne coraggiose che sciogliendosi i capelli protestano contro un regime teocratico e oppressivo esponendosi ai colpi delle guardie armate, alla feroce repressione ed alle violenze degli arresti e delle torture. O in Ucraina dove milioni di persone devono affrontare il gelo dell’inverno mentre le infrastrutture del Paese sono completamente danneggiate in una guerra che si sta prolungando senza che vi siano decisi orientamenti per portare ad un cessare il fuoco, per pensare alla pace di domani.

Tempo della disattenzione e dell’inganno il nostro, e forse anche di una attesa che viene meno. Anche per noi è difficile pensare ad un ricominciare. Siamo qui con il cuore appesantito, preso dalla stanchezza, deluso, in chi ha combattuto e si è speso per orizzonti di pace, di giustizia, di solidarietà nello scorgere tante contraddizioni e tradimenti alla propria fiducia, tanta incomprensione verso il proprio impegno. Tempo di disattenzione.

Il discorso di Gesù che Matteo presenta richiama questa disattenzione… come al tempo di Noè mangiavano e bevevano e rimanevano indifferenti…  Sembra di scorgere l’orgia dei buontemponi, dei festaioli mentre si delinea il diluvio che nessuno considera all’orizzonte… uno scenario che inquieta per la sua capacità di descrivere l’indifferenza nei confronti della crisi climatica e ambientale che oggi viviamo, ballando sull’orlo del diluvio che ci sta già toccando.

Eppure in questo tempo in cui stava giungendo il diluvio c’è qualcuno, c’è un volto, un nome Noè, che è colui che raccoglie frammenti, cerca di custodire la vita, si dà da fare e si spende per costruire quell’arca che costituisce un rifugio ed anche un granaio di semi di vita. Il discorso di Gesù non intende aumentare la paura, terrorizzare e rendere immobili nel timore di un castigo imminente. Non intende essere annuncio di morte. Già ce ne sono troppi annunciatori di morte e distruzione ed anche profeti di sventura… Il discorso di Gesù è invito forte, provocazione a mantenere gli occhi aperti, a vivere una spiritualità degli occhi aperti, ad essere come Noè, a fare come Noè. Ad essere custodi di vita, ad essere raccoglitori di tutto ciò che può portare fecondità e nuovo inizio, ad essere nel tempo della disattenzione e del diluvio, presenza di orientamento al futuro e di speranza costruendo un noi e non chiudendosi nell’egoismo di chi si lascia vincere dalla paura. E fare della paura una forza di resistenza e di proposta.

Ma alla radice di questa attitudine sta l’annuncio che il volto di Dio al cuore dell’esperienza di Gesù, è volto di Dio che viene. … Uno sarà preso e uno lasciato… c’è qualcosa di incomprensibile e che supera le nostre capacità di spiegazione nelle vicende del nostro tempo e dei nostri giorni che potrebbe condurci a pensare che la nostra vita appartiene al caso, alla fatalità. Gesù ci dice che la nostra vita è nelle mani di Dio e nessuno è dimenticato. Per dire questo usa una metafora paradossale. Il volto del Signore – Figlio dell’uomo – è quello di un ladro che tuttavia ha un profilo paradossale: è ladro che nulla ruba e tutto dona, presenza che giunge silenziosa e nelle ore più improbabili. E’ colui che viene e chiede attesa e vigilanza perché il tempo è prezioso. Essere consapevoli del tempo – richiama Paolo – … perché c’è uno spessore del tempo a cui dare attenzione. E viene alla mente l’attesa di Dio a cui richiamava Simone Weil come attitudine di attenzione nel presente. Il tempo reca un messaggio di questo venire. Il tempo, le nostre ore e i nostri giorni, è come grembo che reca una vita che sta nascendo, a cui dare attenzione, su cui chinarsi con cura per dargli spazio.

Avvento è tempo delle vite che nascono, dei nuovi inizi. Gesù annuncia un volto di Dio che cura tutti questi piccoli germogli, che guarda a tutto ciò che pur nella disattenzione e nell’indifferenza è fessura su cui sta crescendo il suo sogno di un mondo nuovo. E per questo invita ad essere svegli, a vegliare: vegliare è attitudine di chi nel tempo della notte tiene vive l’orientamento a scorgere i primi segni dell’aurora e sa che la notte deve finire e si aprirà il giorno. Chi veglia si mantiene pronto: siate pronti. Chi veglia in qualche modo affretta il giungere di quanto attende. Sperimenta così un’attesa di qualcosa che nasce. Ed essere pronti è attitudine di chi si mette in cammino, di chi non rimane fermo in un’attesa inerte, senza coinvolgimento e senza fatica, ma si muove, vive la ricerca, lo spendersi fino a dare la sua vita. E’ grazia a caro prezzo l’attendere e l’essere pronti.

A questo siamo chiamati in questo tempo segnato dalla disattenzione: cercare i segni dell’attesa, quell’attesa che c’è ancora ed è nascosta nei cuori, quell’attesa di pace, di bene, di una vita buona che è nel profondo dei cuori, come sete profonda e trova talvolta appagamento solo in preparati che illudono di toglierla ma che fanno invece rimanere più assetati di prima. E’ la sete di pace, è la sete di essere accolti, è la sete di vita piena che ha bisogno non solo di cose, non solo di alimentare l’orgoglio dell’io, ma ha bisogno di relazioni, di bellezza, di poesia di gratuità, di dono, di ospitalità, di riconoscersi come noi. Nell’avvento il nome di Dio è Colui che viene… il veniente. Ed egli viene nel tempo che ci è dato: c’è un mistero della visita da coltivare nelle nostre vite e nella storia in questo tempo. Impariamo nuovamente ad attendere, impariamo nuovamente a sperare, impariamo a sognare e a fare nostro il sogno dei profeti. Proprio nel tempo della guerra e della violenza facciamo nostro quel sogno che non è fuga dal reale , ma costituisce la promessa di Dio sulla storia che ci è affidata per darle spazio e prepararla. Ripetiamo oggi la nostra speranza:

“Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione

non impareranno più l’arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore”.

Camminiamo insieme in questo avvento nella luce del Signore, il sempre Veniente.  (ac)  

XXXII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Sap 6,12-16; 1Tess 4,13-18; Mt 25,1-13

A conclusione del suo vangelo prima del racconto della passione e morte, Matteo raccoglie nei capitoli 24 e 25 il discorso escatologico di Gesù sulle realtà finali. La parabola delle vergini sagge e stolte è la seconda di tre parabole tutte centrate sulla vigilanza: il servo fedele, le vergini stolte e sagge, i talenti. Al cuore di questi capitoli sta l’intento di confermare che il Signore ritornerà e l’invito a vivere il presente in modo responsabile e con operosità.

Il contesto della parabola è quello delle nozze, una grande immagine che rinvia a all’incontro presentato dai profeti tra Dio sposo e il popolo d’Israele (Os 2,18.21-22; Is 54,1-10). Il rito del matrimonio ebraico prevedeva che nel quadro di lunghi festeggiamenti la sposa con le amiche attendesse al tramonto l’arrivo dello sposo. Da qui si muoveva il corteo verso la casa di quest’ultimo dove si svolgeva il rito e il banchetto. In questa grande allegoria l’esperienza della comunità che attende il ritorno dello sposo (Gesù nella sua gloria) è orientata alla gioia della festa di una convivialità piena.

Sono indicati due gruppi di fanciulle, alcune stolte perché hanno preparato le lampade senza portare con sé l’olio e alcune sagge perché insieme alle lampade presero anche l’olio in piccoli vasi. Nel vangelo di Matteo questa contrapposizione era già stata presentata nella descrizione dell’uomo saggio che costruisce la casa sulla roccia diversamente dallo stolto, che costruisce sulla sabbia (Mt 7,24-27). Ciò che differenzia il saggio e lo stolto è l’impegno di vita. Matteo infatti pone il riferimento all’uomo saggio e allo stolto a commento delle parole: “Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”.

Al tramonto è necessario accendere le lampade per accogliere lo sposo. Ma il ritardo porta ad una situazione imprevista. Il sonno giunge e fa assopire le amiche della sposa: tutte si addormentano. E’ importante questa precisazione. Il sonno si contrappone alla veglia, e richiede un’attesa. E per tutte è difficile rimanere nella veglia. Ma quando giunge la voce ‘Ecco lo sposo’ tutte prepararono le lampade. Le stolte chiedono alle sagge un po’ dell’olio ma queste rispondono ‘no perché non ne venga a mancare a noi e a voi’. La parabola va letta in riferimento al cuore dell’annuncio che essa reca: non intende infatti essere un’indicazione di comportamenti (è infatti un po’ sorprendente l’atteggiamento duro di chi non dà del proprio olio a chi ne avrebbe bisogno) ma insiste sul fatto che la vita è un’attesa. In quest’attesa è essenziale avere con sé olio per le lampade, olio che fa riferimento ad una sapienza (Prov 31,18) che si attua in un concreto agire (Mt 5,14-16). Le fanciulle sono sagge perché il recare con sé l’olio indica che la loro attesa non è vana e fatta solo di parole ma si esprime in una prassi coerente pur se anche loro si lasciano prendere dal sonno.  

La porta è aperta per chi vive con senso di pazienza e nella gioia l’attesa dell’incontro con Dio. La sapienza autentica non è questione di una conoscenza teorica ma si attua in un coinvolgimento di vita, in gesti concreti di attenzione e cura.  E’ questo il messaggio presente in Sap 6, la prima lettura, in cui la sapienza è dono di Dio e nel contempo va cercata e richiede un vigilare. Nel tempo che ci è dato – è questo il messaggio della parabola – anche se l’attesa del ritorno del Signore si prolunga, la comunità dei discepoli è chiamata a vivere un agire responsabile fatto di concretezza e di fedeltà alla storia. Attuare la speranza è lasciare che fluisca l’olio dell’ospitalità, della fraternità, della benedizione, nelle piccole cose del quotidiano.

Alessandro Cortesi op


Lampade accese… Incontro internazionale di preghiera per la pace tra le grandi religioni mondiali – Roma Campidoglio – 28 ottobre 2020
“Nessuno si salva da solo – Pace fraternità”

Vigilare

Cosa significa vivere la vigilanza in questo tempo della pandemia? E’ questa una domanda che sorge dal riflettere sull’esigenza di non rimanere assopiti e incapaci di orientamento in una situazione che spinge a rinchiudersi, ad essere sospettosi degli altri e lasciarsi sommergere da sentimenti di paura e di disperazione.

Una prima esigenza di vigilanza sta nell’individuare informazioni corrette che aiutino ad orientarsi. Non è facile nella stagione delle fake news, dei confronti televisivi in cui hanno voce persone incompetenti o coloro che urlano più forte degli altri. Seguire bravi giornalisti che aiutano a leggere quanto sta accadendo e offrono elementi solidi per formarsi un giudizio è una fatica da intraprendere. Potrebbe essere questo un impegno per non rimanere risucchiati in una corrente di informazione che ruotare unicamente attorno all’unico argomento della pandemia in un vortice di numeri, percentuali e messaggi angoscianti. Si potrebbe aprire un ascolto su drammatiche situazioni a livello mondiale: le guerre in atto, le violazioni di diritti umani, i processi economici e politici che generano diseguaglianze. Solamente uno sguardo attento alla realtà può scaturire l’individuazione di una direzione da dare al proprio impegno.  

Una seconda attenzione può essere quella di mantenere gli occhi aperti su tutto ciò che non appare ma fa parte della vita. Lo spostamento della attenzione generale sui mondi virtuali dei social media rischia di distogliere lo sguardo dalla vita reale. Può essere un importante esercizio di vigilanza portare attenzione al lavoro quotidiano di tante e tanti che operano negli ospedali e nei luoghi di cura in questo tempo, di chi provvede alla distribuzione del cibo, di chi raccoglie nei campi la frutta e la verdura che giunge sulle tavole, di chi opera nei trasporti, di tutti gli insegnanti ed educatori che stanno cercando modalità nuove di coltivare le relazioni e l’insegnamento coni propri alunni, di tutti coloro che nell’operare quotidiano offrono un contributo a quella tessitura di relazioni che costituisce il vivere sociale non di individui separati ma di una città connessa in tanti modi. Uno sguardo alla vita reale apre a scorgere anche le sofferenze che segnano la vita di molte persone e famiglie, chi è stato toccato dalla malattia e soprattutto di tutti coloro che non hanno spazi di visibilità, le famiglie in cui sono presenti persone disabili, gli anziani soli, i migranti e coloro che vivono ai margini della vita sociale.

Una terza attenzione da coltivare potrebbe essere l’ascolto delle riflessioni di chi non indica un immediato ritorno alla normalità, alla situazione cioè in cui lo scoppio della pandemia ha trovato il mondo, ma suggerisce di sostare, di interrogarsi in ascolto della provocazione di questa crisi in vista di un cambiamento radicale. Abbiamo vissuto e viviamo sfruttando risorse, provocando iniquità, indifferenti all’esclusione di molti e alla condizione di tanti impoveriti. L’illusione del tornare allo stato di prima dimenticando le sofferenze e la crisi evidenziata da questo passaggio epocale può essere una malattia altrettanto grave del virus che dilaga: si tratta della malattia dell’indifferenza, dell’assuefazione all’ingiustizia, della cecità a fronte di un venir meno della difesa e promozione dei diritti umani e della cura dell’ambiente e del creato. 

Una quarta attenzione potrebbe essere rivolta alla vita delle comunità ecclesiali. Anche a tal riguardo si afferma il pensiero di un ritorno alla situazione precedente, senza porre porre nulla in discussione, senza assumere il coraggio di pensare alle provocazioni che questo evento della pandemia in corso sta offrendo: sfide a ripensare la vita della fede, la testimonianza, le modalità della vita comunitaria e delle celebrazioni, le forme del ministero, la responsabilità di contribuire alla fraternità umana, a come aprire vie del dialogo e di incontro.

Viviamo un tempo che presenta un crinale su cui camminare. I recenti fatti di violenza e di terrorismo fanatico – l’attenzione dei media è stata rivolta agli attentati di Nizza e Vienna, meno risalto ha registrato l’attentato all’università di Kabul che ha provocato ventidue vittime tra studenti e studentesse – segnalano come il rischio concreto sia quello di lasciarsi prendere da una paura che paralizza, suscita sospetto e rifiuto dell’altro, spinge alla ricerca di nemici contro cui lottare secondo una logica di guerra. Oppure per contro scegliere di vigilare pur nelle difficoltà scoprendo nuovi orizzonti di una libertà che sempre deve comporsi con la fraternità. E decidersi a costruire dal proprio ambiente e dalle piccole cose un futuro non contro gli altri ma insieme. Sempre più urgente appare l’importanza di coltivare un impegno quotidiano, continuo, per opporsi alle diverse forme della violenza, dell’aggressività, del disprezzo e attuare invece scelte di cura a fronte di molteplici sofferenze, di incontro in un contesto di tanta solitudine, di rispetto per l’altro, di attenzione soprattutto ai più fragili.

In queste linee forse oggi è da coltivare quella vigilanza a cui il vangelo richiama.

Alessandro Cortesi op

I domenica di Avvento – anno A – 2019

Sicilia_Monreale_Arca_Noè.jpg(mosaici sec. XII – Duomo di Monreale)

Is 2,1-5; Rom 12,11-14; Mt 24,37-44

“Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo… non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo… Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti”.

Il tempo dell’avvento è orientato a volgere lo sguardo verso la venuta definitiva del Risorto che visita la nostra vita e tornerà. Anche nel vangelo di Matteo che sarà letto in questo nuovo anno liturgico, è riportato un discorso di Gesù sulla venuta del Figlio dell’uomo. Il Figlio dell’uomo, titolo per indicare Gesù risorto, ritornerà e non si potrà rimanere indifferenti: nel libro di Daniele (cap. 7) Figlio dell’uomo è figura che viene dall’alto in rapporto con ultimi tempi, in cui si attuerà un ‘giudizio’.

Matteo richiama la sua comunità a scorgere che questa ‘ora’ non è qualcosa di lontano e futuro, ma è già in atto nel presente ed esige un modo diverso di intendere la vita. Il ricordo dei tempi di Noè è significativo perché mentre tutto mangiavano e bevevano non accorgendosi di nulla, Noè si mise a preparare l’arca per salvare persone e animali dalle acque simbolo del male. Ci può essere un modo di vivere il presente nella spensieratezza, nella distrazione che rende insensibili, indifferenti. Noè fece attenzione ai ‘segni’ e si preparò cercando di raccogliere, di custodire, operando per la vita degli altri e prendendosi cura di tutta la creazione.

Gesù invita ad essere vigilanti, a tenere gli occhi aperti sulla vita e sulla storia: ci sono segni della presenza di Dio che esigono ascolto attento alle persone, agli eventi, capacità di leggere dentro. Vegliare è termine della cura, che indica l’attenzione al presente. Chi veglia è teso al futuro ma impegnato nel qui ed ora, è operoso nelle piccole cose del momento che sta vivendo. Il ‘giudizio’ consiste nelle scelte che compiamo noi nel tempo: già ora la nostra vita è un prendere posizione, uno stare orientati verso l’incontro con Cristo che viene e che verrà nelle scelte di liberazione e di lotta per la giustizia e la pace. L’attenzione è elemento fondamentale del credere: porre attenzione e cura indica il superamento di una logica di egoismo e ripiegamento su di sé, una cura oggi da pensare in relazione a tutto il creato, come Noè. Vegliare comporta quindi prendere sul serio il tempo e la storia. E’ essere pronti di fronte alle responsabilità di ogni giorno.

Vegliare è modo per vincere il sonno che appesantisce e impedisce l’azione. E’ una fatica da riprendere ogni giorno nuovamente: questo sonno è il grande pericolo della vita del credente. ‘Ormai è tempo di svegliarvi dal sonno’ è esortazione di Paolo nella lettera ai Romani, ‘gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce’.

Si tratta di non venir meno alla certezza che il sogno di Dio è la pace: ‘un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra’. E’ pace che inizia qui e che ha il suo futuro nella riconciliazione che è dono di Dio stesso. E’ impegno ad inseguire la promessa di Isaia: ‘Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci’. A fronte di un mondo che vede la guerra come necessaria la Parola di Dio invita a denunciare la produzione, il commercio e l‘uso delle armi come contrari al disegno di Dio, fonti solo di disastri e sofferenze. Un’altra lotta è invece da condurre, quella contro l’indifferenza e la sonnolenza che impedisce di essere responsabili degli altri, di assumersi la cura per promuovere tutto ciò che umanizza e apre la vita all’incontro e alla liberazione.

Alessandro Cortesi op

mappa commercio armi mondoIl sentiero di Isaia

Nel 1963 Giorgio La Pira scriveva alle monache di clausura condividendo la sua lettura sulla storia del mondo sul crinale apocalittico delle armi nucleari. Il crinale che vedeva la possibilità concreta di una distruzione totale della vita sulla terra o, per contro, la scelta di una via diversa, l’opzione decisa senza tentennamenti per ricercare le vie della pace possibile. La visione di La Pira era uno sguardo profetico che non solo indicava una direzione ma era guida di un impegno storico concreto per il dialogo dei popoli. Espressione di un uomo preso dall’utopia del sogno di Isaia che accolse nella sua vita non come orizzonte irraggiungibile ma come fine verso cui tendere preparando il terreno, spendendosi nell’impegno e attuando cammini storici.

“Madre Reverenda, bisogna puntare con estrema decisione, con totale impegno sopra questa domanda: questa grazia della pace alla intiera famiglia umana deve essere concessa dal Padre celeste; il fiume di pace -di cui parla Isaia- deve irrigare con abbondanza la città degli uomini, come irriga la città di Dio (Apoc. 22): il Signore non può negare questa grazia così fondamentale dalla quale dipende l’esistenza della civiltà umana, del genere umano e, forse, dello stesso pianeta! Perché, Madre Reverenda, al punto in cui si trovano le cose, non c’è alternativa per i popoli: o la pace millenaria o la distruzione apocalittica della famiglia umana e della terra medesima provocata, (Dio non voglia!) dalla potenza sconvolgitrice – apocalittica davvero! – delle armi nucleari!
Queste affermazioni, Madre Reverenda, non sono mie: sono degli scienziati nucleari; sono delle massime guide politiche del mondo (si ricordi Kennedy); sono di Giovanni XXIII che con la Pacem in Terris consegnò ai popoli di tutta la terra il suo messaggio di salvezza e di speranza!

Questo, Madre Reverenda, è, perciò, il problema fondamentale del mondo, oggi: fare la scelta finale, apocalittica: scegliere, cioè, o la pace millenaria (che richiede un profondo mutamento in tutti i rapporti -e nel modo stesso di pensare!- degli uomini) o la distruzione davvero senza misura, che può condurre sino alla rottura degli stessi equilibri fisici sui quali si regge l’esistenza fisica del nostro pianeta (e non solo di esso).
Ed allora? Allora la risposta è evidente: – bisogna avere il coraggio (perché di questo si tratta!) di scegliere la pace e di agire a tutti i livelli (internazionali ed interni: militari, scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali, politici e religiosi) in conformità a questa scelta. Ma per fare questa scelta ci vuole davvero un atto smisurato di fede: la fede di Abramo: spes contra spem! (…)

La «visione» di Isaia (2,1 ss.) e dei Profeti non appare più un’utopia: la pace universale, l’unità del mondo, la fraternità, la civiltà e l’ illuminazione biblica del mondo, non appaiono più «sogni» di poeti e «fantasie» di profeti: appaiono realtà storiche che cominciano a profilarsi, a «sagomarsi», nell’orizzonte storico della Chiesa e dei popoli! Basta guardare con amore, con preghiera, con attenzione, lo svolgersi irresistibile del piano di Dio nel mondo. Perché di questo, Madre Reverenda, dobbiamo essere persuasi: il Signore vuole che il Suo regno venga, come in cielo, anche in terra; che sulla terra – abitata dal Suo Unigenito e dalla Sua Chiesa! – si faccia la pace, splenda la luce, trionfi la grazia; che le «visioni» felici dei Profeti e le «visioni» felici dell’Apocalisse diventino – nel corso futuro dei millenni – la realtà benedetta nella quale si svolge la vita degli uomini, delle città, delle nazioni, dei popoli!”

In questi giorni papa Francesco presso il Memoriale della pace a Hiroshima ha lanciato un appello in un contesto internazionale in cui la produzione e il commercio di armi stanno per crescere. Armi devastanti sono usate nelle guerre diffuse e regionali e si prevedono conflitti maggiori ad esempio per l’acqua e per i beni naturali.

“Mai più la guerra, mai più il boato delle armi, mai più tanta sofferenza!”. Queste le parole di Francesco dal Parco del Memoriale della Pace di Hiroshima, dove il 6 agosto 1945 fu sganciata la bomba atomica che generò morti innumerevoli – ottantamila nello scoppio e moltissimi altri poi – e scene infernali. “Desidererei umilmente essere la voce di coloro la cui voce non viene ascoltata e che guardano con inquietudine e con angoscia  le crescenti tensioni che attraversano il nostro tempo”

Nelle sue parole la considerazione che non solo l’uso delle armi, ma anche il solo loro possesso è minaccia alla pace e la denuncia del crimine dell’uso di tali armi.

“Uno dei desideri più profondi del cuore umano è il desiderio di pace e stabilità. Il possesso di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa non è la migliore risposta a questo desiderio; anzi, sembrano metterlo continuamente alla prova”.

“desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune.”

Citando Pacem in terris di Giovanni XXIII ha affermato che la pace se non è costruita sulla verità e sulla giustizia rimane un suono di parole. E riprendendo il discorso di Paolo VI all’ONU il 4 ottobre 1965 ha detto: “Quando ci consegniamo alla logica delle armi e ci allontaniamo dall’esercizio del dialogo, ci dimentichiamo tragicamente che le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, “esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli”

La pace è un edificio che va sempre costruito di nuovo e continuamente.

“Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra? Come possiamo parlare di pace mentre giustifichiamo determinate azioni illegittime con discorsi di discriminazione e di odio?”

Due anni fa in un incontro con i giornalisti mentre si rincorrevano minacce di attacchi nucleari tra Usa e Corea del Nord offrì come regalo una foto scattata nel 1945 da Joseph Roger O’Donnell: ritraeva un ragazzo con in spalla il fratellino morto mentre attendeva di far cremare quel piccolo corpo senza vita. La foto era accompagnata da una breve didascalia: “il frutto della guerra”. “Qui, di tanti uomini e donne, dei loro sogni e speranze, in mezzo a un bagliore di folgore e fuoco, non è rimasto altro che ombra e silenzio”.

“Ricordare, camminare insieme, proteggere. Questi sono tre imperativi morali che, proprio qui a Hiroshima, acquistano un significato ancora più forte e universale e hanno la capacità di aprire un cammino di pace. Di conseguenza, non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto…”.

‘Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci’ è rimane promessa e progetto incompiuto a cui cercare di dare risposta con lucidità e concretezza oggi.

Alessandro Cortesi op

Nella novena di Natale…

IMG_2303.JPGDalla prima lettera ai Corinzi (1 Cor 1, 7b-9)

Aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli ci confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo: fedele è Dio, dal quale siamo stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro.

Paolo richiama la comunità di Corinto all’atteggiamento proprio dei credenti: è quello di aspettare. Aspettiamo è verbo del credente, al plurale, insieme. E’ il movimento che segna la vita dei discepoli e discepole di Gesù, è verbo di chiesa.

E’ attesa che raccoglie tutte le attese umane. Ma è attesa di un manifestarsi, di un rendersi presente che svela e apre.

Viviamo la fede nella assenza del Signore e il nostro credere è sospeso nell’attesa. Il Signore nostro Gesù Cristo. E’ Lui il soggetto di una attesa. E ci pone nella tensione verso il suo darsi ad incontrare. E’ questo al cuore della fede, da coltivare, da preparare. Siamo coinvolti a mantenere vivo l’orientamento a questo incontro nei giorni e nelle opere del nostro vivere. Aspettiamo.

E aspettiamo la sua manifestazione, il suo darsi ad incontrare, il suo aprirci tutto ciò che per noi è difficile e impossibile da scorgere e intendere.

Paolo dice che il tenerci fermi viene da lui, la possibilità di essere fedeli è dono: Egli ci confermerà sino alla fine. Siamo consapevoli che la possibilità di mantenere viva questa attesa non viene da nostre forze o capacità umane, ma unicamente dalla sua grazia.

Per questo celebrare Natale è stare in accoglienza di questo dono che trasforma, cambia e ci apre a rimanere aperti nell’attesa. Verso il giorno del Signore Gesù: attendiamo quindi il suo giorno. Quel giorno che è venuta ed è presenza. Quel giorno che non è giorno da temere ma giorno di luce e manifestazione.

Ed è in riferimento al giorno del suo venire nel nascere come bambino all’interno della storia umana. Il suo giorno sarà ultima venuta e incontro come il suo nascere nell’umanità è stato venire in questa storia.

Fedele è Dio. Sta in queste parole il fondamento di quanto possiamo sperare. La fedeltà su cui contare non è nostra ma quella di Dio.

La chiamata che si fa sentire ora per noi è quella alla comunione. Il Signore è venuto, il Signore verrà. E’ lui che ci dà forza che conferma. La nostra fiducia può contare sulla fedeltà di Dio che è il fedele.

Ma tra la sua venuta nella storia di cui facciamo memoria e la sua ultima venuta, il Signore viene, ci viene incontro in ogni volto e in ogni tempo, e viene per chiamarci alla comunione. Comunione è nome della vita di Dio, è incontro e amicizia. Siamo chiamati a tessere comunione a vivere l’esperienza della comunione del Figlio suo. Ed essere piccolo segno di amicizia nel nostro quotidiano.

Alessandro Cortesi op – san Domenico di Fiesole  – 20 dicembre – novena Natale

XIX domenica tempo ordinario – anno C – 2016

-2Sap 18,3.6-9; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12, 32-48

“la notte della liberazione fu preannunciata ai nostri padri perché avessero coraggio… il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza… ”. Notte e giorno, tenebre e luce: è contrapposizione che attraversa la Bibbia. La notte è simbolo del buio e del male, la luce della vita divina. La migrazione dell’esodo si compie di notte ma il buio è squarciato dalla colonna di fuoco e luce. La luce diviene segno: il Signore stesso guida illuminando il cammino del popolo: “la notte della liberazione desti al tuo popolo, Signore, una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto e come sole innocuo per il glorioso migrare”.

“Non temere piccolo gregge, perchè al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. Gesù indica il regno come un modo nuovo di vivere, scoprendo che Dio è vicino e genera rapporti nuovi e un modo diverso di vedere le cose: la conversione richiesta è un orientamento diverso. Passare dall’idea che le cose cambiano per opera dei grandi, dei ricchi, dei sapienti, alla consapevolezza che il regno è dato ai piccoli. Chi compie la scelta di non accaparrare per sé, chi sceglie di essere senza interessi e potere da difendere, è capace di farsi borse che non invecchiano. Non è una scelta di irresponsabile e di irrealtà: Gesù chiede di intendere in modo nuovo l’uso di tutti i beni. Quello che si ha in tanti modi e in tutte le sue forme può essere utilizzato divenendo schiavi delle cose, oppure nella logica del dono e del servizio. La parola di Gesù tocca le cose concrete, la gestione di quei beni che segnano la nostra vita. Vivere la ‘elemosina’ indica maturare una attitudine di misericordia e compassione per gli altri: non tanto fare un’offerta, ma vivere la propria vita come consegna.

La prima parabola indica una beatitudine indirizzata ai servi che il padrone ritornando trova svegli nel mezzo della notte, intenti alle loro opere. Per loro preparerà una cena e si metterà a servirli. E’ parola che evoca il gesto di Gesù nell’ultima cena, sintesi di tutta la sua vita ed anche promessa. Proprio il vangelo di Luca al momento dell’ultima cena riporta queste parole di Gesù: “chi è più grande, chi sta a tavola, o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve… e io preparo per voi un regno come il Padre l’ha preparato per me…” (Lc 22,25-29).

“Siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito apena arriva e bussa”: il profilo del padrone è particolare. E’ uno strano padrone che deve bussare per entrare: Dio è tutt’altro che padrone, è piuttosto presenza discreta che bussa e chiede di entrare e attende: “Ecco io sto alla porta e busso…” (Ap 3,20).

La seconda breve parabola parla dell’irrompere inatteso del ladro che scassina la casa di notte. E’ una parola difficile perché il venire del figlio dell’uomo è accostato al presentarsi di un ladro. Certo, chi intende la propria vita come il ricco stolto, tutto preso dal programmare come ingrandire i granai per accumulare, percepisce la venuta del Signore come un ladro che gli strappa via ciò in cui ha riposto la ricchezza della propria vita. Solo chi pensa di vivere la vita come possesso si troverà spossessato e derubato.

Una terza parabola infine presenta un amministratore fedele, pronto, al suo posto, che svolge il suo servizio nel quotidiano in fedeltà senza fare calcoli sull’ora del ritorno del padrone di casa. In quella casa dove il padrone torna, la fedeltà dell’attesa è vissuta dall’amministratore. L’amministratore non è il padrone, ma è colui che ha ricevuto in consegna qualcosa. La sua è la condizione di chi ha in affido qualcosa che non è suo.

L’invito che attraversa queste narrazioni è ad ‘essere pronti’: ‘… con la cintura ai fianchi e le lucerne accese: siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa’. Essere pronti per poter mantenersi non impediti dall’accogliere, non distratti nell’attendere. Capaci di attesa e lucidi per non lasciarsi vincere dal sonno od opprimere dalla fatica. Pronti per aprirsi ad un incontro di visita.

Essere preparati non è cosa scontata: è più facile lasciarsi sopraffare da distrazioni perdendo il senso del tempo, dimenticandone il limite. Stare pronti è l’attitudine di chi si prende cura, lo stile di chi si mette in cammino, con i fianchi cinti, e la lampada in mano per illuminare anche la notte. E’ questo il vestito della pasqua quando l’agnello fu consumato insieme divisi per famiglia, pronti a partire, con i fianchi cinti: ‘Ecco come mangerete l’agnello: coi fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano’ (Es 12,11). L’essere pronti rinvia ad un viaggio: è un sempre nuovo cammino di esodo, è il viaggio pasquale. In esso non viene meno il pericolo e l’angoscia del buio, ma si è chiamati a scorgere i segni della presenza vicina del Dio che guida come luce.

C’è quindi un richiamo forte in queste letture a considerare tutta la vita cristiana come un viaggio che trova il suo paradigma nel cammino dell’esodo. ‘Noi siamo pellegrini e stranieri come i nostri padri’ (1Cr 29,15). La percezione di essere in pellegrinaggio attraversa le diverse spiritualità. ‘Carissimi, voi siete come stranieri ed emigranti in questo mondo; perciò io vi consiglio di stare lontani da quei desideri egoistici che vi spingono alla rovina.’ (1Pt 2,11). Percepirsi nella precarietà del cammino è tratto essenziale della comunità voluta da Gesù: implica intendere tutta l’esistenza come un viaggio. E’ la condizione di chi sa di non essere arrivato, di non possedere e si scopre legato nella compagnia di tanti altri. Nel cammino l’incontro con Dio si attua nell’incontro con tutti coloro che cercano una direzione, un senso, con tutti coloro che hanno fame e sete di libertà.

Alessandro Cortesi op

-1Per fede…

Domenica scorsa, nell’ultimo giorno di un luglio insanguinato da atti di violenza efferati condotti in varie parti del mondo, e in particolare dopo il gesto dell’uccisione in una chiesa di Rouen di padre Jacques Hamel da parte di terroristi islamisti che hanno accompagnato la loro violenza con il grido ‘Allahu akbar’, molti musulmani hanno aderito all’appello dei loro imam di essere presenti nelle chiese durante l’assemblea domenicale. Un gesto importante per dire che l’esperienza del credere non può condurre alla violenza e che le fedi possono convivere in pace riconoscendo una fraternità costitutiva dell’unica famiglia umana, nelle sue differenze e nella molteplicità delle religioni e delle culture.

La domanda che sorge è allora: come vivere oggi ‘per fede’ come Abramo, come Sara, come tutti i padri e le madri che sono stati testimoni di affidamento e di cammino nella vita in un orizzonte di fede? Abramo e Sara, padri e madri in particolare delle famiglie religiose che ad essi si richiamano come radici. Siamo eredi di una storia in cui le religioni sono state responsabili di violenze senza limite e di guerre. L’ispirazione religiosa è tutt’oggi sfruttata ad alimento di fondamentalismi diversi che portano a concepire l’altro come nemico, o inferiore, o da salvare nell’assimilazione e nella sottomissione. E questo deve suscitare una riflessione approfondita su come maturare forme di proposta e di educazione che contrastino ogni fondamentalismo.

Qualche voce in questi giorni ha giustamente notato che la grande offesa degli atti di violenza oggi non è stata solo rivolta ad alcune comunità religiose, ma alla comuità umana indipendentemente dalla propria appartenenza religiosa. Così è stato nelle violenze eclatanti dei terroristi che hanno seminato morte e dolore in luoghi di vita ordinaria, ristoranti, pub, metropolitane, luoghi di ritrovo, piazze, aeroporti, mercati.

Gli occhi vanno poi tenuti aperti anche sulle forme nascoste della violenza che attraversa le vicende dei popoli sia nelle molteplici guerre dove si oppongono interessi politici e economici, sia in altri modi in cui la guerra è combattuta nelle forme della devastazione ambientale, dello sfruttamento delle risorse, nell’impoverimento delle popolazioni, nelle violazioni dei diritti umani e civili fondamentali. Sono tutte le forme di un sistema ingiusto che è stato costruito, che appare ineluttabile e che genera iniquità, miseria e disperazione.

Come partire come Abramo ‘per fede’ oggi? Forse questo tempo presenta una grande sfida che in prospettiva riunisce tutti, credenti e non credenti, ed a tutti senza distinzioni è rivolta. E’ la scoperta che siamo accomunati in questa terra, e si può distruggere tutto se si pretende di vivere senza l’altro, concependo l’altro come nemico, in logiche di esclusivismo e di pretesa di essere detentori di verità e non a servizio della verità da accogliere e ricercare. Se si pensa di essere padroni della propria esistenza, se non si cresce nella consapevolezza della custodia e del rispetto mite per la natura e per le altre persone, se non si riconosce la differenza di tradizioni, culture e l’esigenza di comporre insieme un vivere affrontando i conflitti inevitabili con la parola,  tutto diviene occasione di guerra e rincorsa per il dominio. Il passo richiesto ad ogni uomo e donna oggi è quello di scoprire il proprio cammino non come esclusivo, ma aperto alla visita e al’incontro. La grande opera richiesta oggi non si pone nella linea dell’uso delle armi, nel progettare nuove guerre, ma è una silenziosa e profonda opera di disarmo interiore e culturale, un cambiamento di direzione dell’intendere la propria stessa fede: una conversione del ‘togliersi i sandali’ di fronte alla vita degli altri, ponendosi in ascolto, in ricerca.

Solo tale percezione della fragilità della propria vita, del legame che stringe gli esseri umani e questi con la terra, può generare un futuro da vivere insieme, mai senza l’altro. Ciò implica che ho bisogno dell’altro per vivere ciò che di più profondo sta nella mia stessa esperienza umana o di fede. Solamente da qui può aprirsi il dialogo che si nutre di rispetto, fiducia e simpatia, ed è riconoscimento delle differenze e faticoso cammino per aperture nuove. Per chi vive un riferimento a fedi religiose questa risorsa di pace va rintracciata nelle profondità del proprio credo, nei termini della fraternità, della compassione, del senso del limite; per chi vive la propria esperienza umana come luogo di costruzione di una convivenza con gli altri questa risorsa di pace può essere ritrovata nelle profondità della propria umanità, nella nostalgia di rimanere e diventare umani in sintonia con la terra. Per tutti la sfida è scoprirsi segnati dal limite e dall’apertura fragile. E’ la ricerca di “un’altra interpretazione della parola amore” come ha ricordato Dacia Maraini in una sua riflessione di fronte alla violenza degli uomini verso le donne (Il dominio feroce dei maschi deboli, in “Corriere della sera”, 3 agosto 2016) :  “Non è la vendetta che ci interessa. Non è infierendo su chi infierisce che si cambiano le cose. Quello che vorremmo è una presa di consapevolezza comune, un’altra interpretazione della parola amore. Che pure esiste. Dobbiamo solo riconoscerla dentro di noi al posto del sospetto e dell’odio”.

Forse solo questa via di umanizzazione e di riconoscimento della fragilità comune può essere una via che si oppone alla devastazione della violenza nelle sue diverse forme e della guerra. Per i cristiani non si tratta forse di un passaggio di essenzialità e di scoperta che solamente nella rinuncia al dominio dell’altro e nel prendersi cura del volto sofferente è possibile sprimentare l’incontro con Dio, raccontato da Gesù come il Padre?

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2015

Reidersche_Tafel_c_400_AD

Tavoletta in avorio ca. 400 d.C. – Bayerisches Museum, München

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. ‘Tornerà’: con questo annuncio inizia il libro degli Atti degli apostoli. Dopo la risurrezione Gesù non può essere incontrato come prima, ma si fa incontro in modo nuovo: l’umiliato nella morte, tornerà come il vivente. La sua presenza non è solo attesa, ma sin d’ora è possibile vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti. Tornerà ma anche ritorna nel presente e si dà ad incontrare: non c’è solo un futuro da aspettare ma c’è un presente in cui immergersi.

Gli apostoli sono protesi al futuro, sono curiosi rispetto a ‘i tempi e i momenti’. Ma Gesù li distoglie da questo, indica piuttosto di volgere lo sguardo non al cielo ma al quaggiù, al presente, per poter sperimentare sin d’ora la sua presenza in modo nuovo. Li invita a vivere un attendere fondato sulla promessa, ‘la promessa del Padre’, ad accogliere la discesa dello Spirito, forza della testimonianza. Promessa del Padre è un coinvolgimento di tutti nella morte e risurrezione di Gesù: l’essere immersi (battezzati) nello Spirito Santo e ricevere da lui forza.

Lo Spirito è il dono di Cristo risorto: la presenza di Gesù si attua in modo nuovo nell’azione dello Spirito. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrarlo come prima ma in modalità diverse. La sua presenza è reale e interiore. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: la nube è immagine biblica che suggerisce una presenza di Dio vicina eppure nascosta, rinvia alle teofanie. E’ qui usata per indicare che Gesù è vivente nello spazio di Dio, uno spazio altro rispetto alla dimensione umana, e nel medesimo tempo la sua presenza continua nei segni che ci ha lasciato: lo Spirito introduce all’esperienza dell’incontro con lui nella fede e rende testimoni della sua risurrezione. D’ora in poi l’incontro con Gesù sarà vissuto nell’incontro con qualcuno che testimonia le sue parole, i suoi gesti. Nella forza dello Spirito, ci sarà qualcuno che parla di lui e vive la strada da lui percorsa: ‘voi mi sarete testimoni’. La sua presenza è affidata alla testimonianza.

Anche nell’ultima pagina del vangelo di Marco sono riportate le parole di Gesù che invia i suoi ad annunciare il vangelo. I discepoli sono presentati come presi dal dubbio, segnati dall’incredulità. E’ un quadro realistico e per certi aspetti sconfortante. Nonostante il cammino con Gesù il loro cuore è indurito incapace di fede. Eppure proprio a loro viene detto: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”.

Gesù li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12). Non li invita al proselitismo, piuttosto chiede loro solamente di continuare i segni di liberazione da lui vissuti (Mc 1,32-34). Nel partire e nell’annunciare sperimentano da subito una presenza nuova del Signore e la fecondità dell’agire dello Spirito: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano”.

Il cammino dei discepoli è come quello del cieco che si apre al ‘vedere’ solamente per opera di Gesù che lo ‘rialza’ e poi si mette a seguire Gesù lungo la strada (cfr. Mc 10,46-52). La potenza della risurrezione apre ad un vedere nuovo, fa passare dall’incredulità al credere, e di qui a vivere la vita sulla strada percorsa da Gesù stesso, seguendo il suo cammino, riproponendo i gesti di lui.

Ascensione è festa della comunità. Gesù nella risurrezione, non abbandona i suoi, dona la presenza dello Spirito, presenza-dono che conduce ad entrare nella relazione di amore del Padre e del Figlio. La molteplicità di doni e la diversità di servizi, frutto dell’azione dello Spirito sono per l’edificazione del corpo di Cristo, un corpo fatto di tante presenze, dove nessuno è escluso e dove ognuna e ognuno può scoprire il proprio posto: “E’ lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo”. In Cristo si attua una chiamata di tutta l’umanità e di tutto il cosmo.

Al cuore della festa dell’ascensione sta l’annuncio dell’incontro nuovo con Cristo iniziato nella Pasqua: nella sua umanità Gesù sale al Padre. In questo salire, nella sua risurrezione, coinvolge tutta la realtà umana. Pasqua di Cristo che si fa Pasqua dell’umanità intera. E’ quanto la preghiera esprime: “Esulti di santa gioia la tua chiesa, Signore, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, perché in Cristo asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere il nostro capo nella gloria”.

DSCF5745Alcune osservazioni per noi oggi

L’agire dei testimoni, pur segnati dalla fatica e dall’incredulità,  a questo solo è invitato, a porre segni che ripropongano i segni del passare di Gesù. Si potrebbe tentare di tradurre i segni che Gesù chiede di compiere: scacciare i demoni è interpretabile nella linea di lottare contro tutte le forze di male, contro le oppressioni che deturpano l’immagine di Dio presente in ogni persona, contro le diverse forme della violenza. Parlare lingue nuove oggi può essere inteso come invito ad essere creativi nel comunicare con gli altri, nello scoprire vie nuove per dare spazio alla parola, vincendo i silenzi dell’indifferenza, gettando ponti e opponendosi alla costruzione di muri, nello scoprire i nuovi linguaggi non verbali della accoglienza generosa. Prendere in mano i serpenti è forse traducibile nei termini di un nuovo rapporto con tutto ciò che appartiene alla terra, con il mondo animale, le piante, la natura, nel percorrere vie di cura e salvaguardia. Imporre le mani ai malati può significare oggi trovare spazio nelle ore dei giorni per tendere la mano a chi fa fatica ed è nella malattia,  dire a chi soffre, con il tendere la mano, una vicinanza e una compagnia che diventano respiro di speranza. Questi sono i segni della Pasqua e della risurrezione, e là dove sono presenti questi segni c’è vangelo, bella  notizia, da accogliere, da cui lasciarsi cambiare.

La pagina della lettera agli Efesini parla di una comunità dove sono presenti tanti doni e dove a ciascun uomo e donna è data occasione di mettere a disposizione il proprio dono per una edificazione comune. È provocazione a pensare una comunità in stato di servizio, e soprattutto a considerare l’importanza di doni diversi che contribuiscono alla costruzione di un ‘noi’ ecclesiale. In un momento in cui tante sfide si pongono alla vita delle comunità sarebbe importante dare spazio e importanza a diverse forme di servizio e riconoscere anche nuove modalità di ministeri per la vita e la crescita di un noi ecclesiale che trae la sua origine dal dono dello Spirito fonte dei doni e primo costruttore della comunione.

E’ anche una provocazione a pensare la vita di una chiesa che sia custode di percorsi di umanità e di umanizzazione. Edificare un noi, in cui i doni di ciascuno siano al servizio degli altri: è progetto di una umanità capace di solidarietà, è provocazione ad intendere la vita in rapporto all’altro come responsabilità e come dono. E’ anche suggerimento a pensare che l’incontro con Cristo e la vita della chiesa nascosta nei cuori è presente e cresce là dove vi è qualcuno che con le sue scelte, nel suo agire e con la sua dedizione costruisce legami di incontro e di pace, edifica relazioni viventi di comprensione e ospitalità.
Alessandro Cortesi op

XVI Domenica Tempo Ordinario anno A – 2014

DSCF2119Sap 12,13.16-19; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43

La parabola del seminatore (Mt 13,18-23) aveva posto in luce quattro tipi di terreni: quelli che non portano frutto perché non comprendono la parola del regno, quelli che non portano frutto in modo completo, ma solo parzialmente; quelli che non danno frutto perché preoccupati dalle ricchezze, queli infine che recano frutto in modo fecondo.

Le domande aperte dalle diverse situazioni dei terreni possono essere colte come motivo di fondo delle altre parabole che Matteo fa seguire: la parabola della zizzania (13,24-30) offre una risposta alla domanda perché le erbacce che non recano frutto non vengono sradicate; quelle del grano di senape e del lievito (13,31-33) affrontano il tema della fatica e della prova e rispondono all’interrogativo perché è necessario sopportare tribolazioni per portare frutto. Le parabole del tesoro e della perla (13,44-46) suggeriscono come la scoperta del regno conduca ad offrire tutto, fino al dono della stessa vita; infine la parabola della rete piena di pesci (13,47-50) indica una risposta alla questione di quando si riveleranno coloro che hanno dato tutto il frutto possibile.

Tutte le parabole possono essere lette come paragoni in riferimento a situazioni di vita che rinviano alla descrizione del regno di Dio: gesù non definisce il regno ma lo racconta nel suo parlare in parabole, nel suo richiamare situazioni di vita. Il regno risulta così indicato come il farsi vicino di Dio che ha passione per l’uomo e la creazione, che intende liberare e dare vita facendo entrare in una relazione con lui e aprendo ad un modo nuovo di rapportarsi con la vita e con gli altri. Nelle parabole ha spazio la quotidianità, il rapporto con la terra, con l’attività dell’uomo, nelle parabole è dato spazio alla vita degli umili.

La parabola della zizzania presenta così la dinamica della presenza e della vicenda del ‘regno’ come luogo della pazienza di Dio. La parabola è innanzitutto una riflessione sulla realtà, in cui nel campo è presente seme buono e seme cattivo. E’ uno sguardo che paragona la mescolanza di buon seme e cattivo seme alle concrete situazioni umane fatte di luci e di ombre di bontà e malvagità, che stanno insieme e non separate. La zizzania, una sorta di gramigna, simile nell’asspetto al grano buono, viene seminata ‘mentre gli uomini dormono’. Si può cogliere forse in questo particolare uno sviluppo da parte di Matteo della breve parabola presentata da Marco sul seme che cresce da solo “sia che il seminatore dorma, o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”.

La zizzania seminata infatti non viene estirpata prima della mietitura. Ai servi che chiedono “Vuoi che andiamo a raccoglierla” il padrone del campo risponde “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”. L’indicazione di fondo è quella di attendere, di lasciare tempo ad una crescita. Attendere e lasciare, due attitudini ben diverse da chi vive nella fretta di una separazione e pretende di fare subito chiarezza.

E’ una parola rivolta ad accettare la fatica di una situazione in cui male e bene sono presenti insieme. Non si tratta di un compromesso di fronte al male. C’è una presa d’atto della complessità delle situazioni umane, ma anche un chiaro orizzonte di mitezza e di attesa che sia dato tempo perché anche chi compie il male possa cambiare. E’ invito ad aprire gli occhi sullo scandalo del male, che attraversa la storia. Ma al centro della parabola sta l’annuncio dell’attesa di Dio. Il volto di Dio che Ges annuncia è volto attento a non togliere alcun elemento anche piccolo di bene, preoccupato perché il bene possa avere tempo di maturazione. E’ una parola che apre a scorgere la pedagogia di Dio e del regno. E anche invito a cambiare mentalità, ad uscire da una mentalità di giudizio e di separazione, per assumere il senso dell’uso del tempo come tempo di cambiamento e di conversione al bene, e per accolgiere la responsabilità dell’attenzione e della cura.

La parabola è anche una indicazione per la comunità di Matteo. La comunità stessa non è composta solamente di giusti, ma vede al suo interno lo scandalo del male e dei peccatori. La pretesa di una comunità composta solamente di giusti è una forma di orgoglio, che non tiene contro della realtà e che segue una logica di esclusione. L’invito è piuttosto quello di lasciar crescere, offrendo lo spazio del tempo e della pazienza. La parabola si concentra così sulla pazienza di Dio che attende, non risolve le situazioni con la forza, ma suscita responsabilità nel tempo.

Al centro della parabola del granello di senape sta da un lato l’aspetto della crescita: da un piccolo inizio vi è uno sviluppo che apre ad un effetto imparagonabile. Tuttavia sembra che una particolare insistenza sia nell’essere seminato sulla terra. E’ un accento riscontrabile nella versione della parabola presente nel vangelo aprocrifo di Tommaso: “E’ simile a un granello di senape, che è il più piccolo di tutti i semi. Ma quando cade sulla terra arata, produce un grosso arbusto e diventa un rifugio per gli uccelli del cielo”. Un seme deposto, non muore, ma porta frutto: è quanto verrà ripreso dal IV vangelo in: “chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perde la sua vita per causa mia la troverà” (Gv 12,24). Così nella parabola del lievito nella pasta l’accento principale sta nell’azione del lievito che non è visibile, ma ha una forza che muove nel profondo ed è interiore: l’insisetnza va non tanto sulla diversa quantità tra lievito così esiguo e la pasta (cfr. 1Cor 5,6), ma sul fatto che il lievito è seminato, è posto dentro e mescolato dentro la pasta.

Una allusione di questa parabola alla vicenda di Sara e Abramo può esere importante per coglierne un messaggio sotteso. E’ infatti Sara la moglie di Abramo che nell’episodio dell’ospitalità dei tre sconosciuti che giungono alla tenda presso Mambre (Gen 18,6), impasta una quantità di farina pari a quella indicata nella parabola tre staia: è una quantità enorme – tre staia corrispondono a circa 50 chili -. Centinaia di persone possono essere sfamate con una tale quantità di farina: si tratta di una grandezza smisurata. E’ un segno dell’abbondanza che sgorga dalla promessa di Dio e dalla fede di Abramom, e dall’ospitalità di Sara. Quel piccolo gesto dell’accoglienza, il ricevere la vista di quegli ospiti sconosicuti e l’affidamento alla loro parola, è inizio di una storia che trova fodnamento nella fede. Nei profeti questa storia viene descritta come la vicenda di un piccolo germoglio che diviene grande albero: “Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro… e lo pianterò sopra un monte alto…metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami dimorerà” (Ez 17,22-24). C’è una storia di incontro, di possibile rifugio, come quello di uccelli che trovano dimora su di un albero grande, che attrevsra la storia umana e la vicneda del cosmo stesso. E’ una vicenda che non eslcude, che si apre a tutti, e ancor più si apre a comprendere la partecipazione di tutta la realtà. La fede di Abramo, l’ospitalità di Sara, sono i termini di riferimento di questa fecondità di vita che coinvolge tutto il mondo: il regno di Dio è questo grande movimento di incontro nuovo, che Gesù ricorda e richiama con le sue parole.

Infine una osservazione sullo stile del parlare di Gesù: Gesù parla di Dio guardando i gesti di un contadino che getta la semente nel campo, osservando la crescita di piccole piante, cogliendo l’intreccio di piante buone e meno buone in un campo seminato, guardando le reti di una barca. Gesù parla di Dio non facendo uscire dal mondo e dal linguaggio del quotidiano, ma scoprendo la presenza di Dio, il suo regno, lì dentro. Così in modo inaudito Gesù parla di Dio facendo riferimento ai gesti di una donna che impasta farina e lievito: Gesù parlava e lo ascoltavano anche donne che vivevano in una condizione di enarginazione religiosa e sociale. E comprendevano che il volto di Dio che Gesù annunciava non era il Dio dei forti e di chi dominava, ma il Dio che scorgva la preziosità dei volti, non il Dio dell’esclusione, ma dell’accoglienza. Una inaudita parola che annunciava Dio parlando dei gesti di una donna nella quotidianità della casa, nei gesti dell’ospitalità.

DSCF9908

‘Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene’ (Rom 12,21): foto di un manifesto nella Chiesa di san Nicola a Lipsia (Nikolaikriche Leipzig) – sede delle preghiere per la pace 1989

Alcune osservazioni per noi oggi.

Viviamo anche noi oggi lo scandalo del male. Rendersi consapevoli della presenza dell’azione dei malvagi che si confronta con l’azione dei giusti insieme è passaggio fondamentale per non rimanere nell’ingenuità di un mondo ideale scontrandosi poi con la cocente disillusione di fronte all’esperienza. D’altro lato scoprire come il campo della vita e della storia sia luogo di grano insieme ad una seminagione cattivo, la zizzania, aiuta a non rimanere schiavi di una concezione negativa del mondo e dell’uomo in quanto malati alla radice e asserviti alla malvagità. Scorgere grano e zizzania è guardare la realtà accostarsi alla complessità del reale, imparando la fatica del vivere nella complessità senza cedere al male. Non solo c’è bene e male fuori di noi, ma anche nel nostro intimo c’è mescolanza di scelte di bene e di compromesso con l’egoismo, l’ingiustizia e il male. Saper attendere per sé e per gli altri, lasciare il tempo della crescita è vivere una attitudine fiduciosa: non nella connivenza o timidezza di fronte al male ma nell’impegno perché chi compie il male cambi orientamento. E’ sguardo di speranza su di sé e sugli altri: possiamo cambiare e crescere e lo sguardo di Dio è quello non di un giudice ma di un educatore attento e fiducioso che non estirpa, non esclude, ma conosce la pazienza dell’attesa, non ha di mira una purezza senza discussione, ma è preoccupato che ogni apertura di bene non rimanga senza respiro. La sua mitezza è forza di attesa e di operosità perché anche l’empio ritrovi la sua via.

Le delusioni e i fallimenti che una situazione crisi economica e sociale pongono di fronte, così come i fallimenti di sforzi di costruire pace in terre dove c’è violenza può far crescere sentimenti di inutilità e di abbandono di ogni genere di impegno. L’insistenza delle parabole di Gesù sul momento della semina ci fa guardare in modo diverso tutte le possibilità di gesti anche piccoli e la loro fecondità che ora non vediamo. Il deporre un piccolo seme è in sé inizio di un processo di cui non siamo in grado di calcolare gli esiti: è questo un motivo per cogliere l’importanza di impegni anche minimi e quotidiani in una situazione di crisi e nonostante la contraddizione evidente.

Il mondo e la storia sono permeati dell’energia nascosta e feconda del regno di Dio che inizia dai gesti di ospitalità di Sara e dall’apertura del cuore di Abramo: è il medesimo regno che Gesù rintraccia nel gesto quotidiano di una donna che impasta la pasta per cuocere il pane. C’è una storia del regno che attraversa le culture, le religioni, ed è presente nella vita, nelle sue pieghe e attimi nascosti, nelle persone umili: dare spazio a questa vicenda è il servizio di profezia a cui Gesù chiama per tutta l’umanità.

Alessandro Cortesi op

Navigazione articolo