la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “ottobre, 2021”

XXXI domenica tempo ordinario – anno B – 2021

Dt. 6,2-6; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34

 “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Gesù risponde richiamandosi alla Torah e rinviando a due passi della Scrittura. Il primo testo è dal Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6,4-9)

Questo testo sta all’origine della preghiera che nella tradizione ebraica è ripetuta al mattino e alla sera, scandendo la giornata. E queste parole sono riportate su rotoli contenuti in piccole teche di cuoio da legare alla fronte e al braccio per la preghiera, segno di un fissare nel cuore l’ascolto a cui esse richiamano. Invitano infatti a porre Dio al primo posto nella vita come spesso i profeti ricordano: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.” (Os 6,6).

E’ un appello all’importanza essenziale dell’ascolto per sfuggire al grande peccato dell’idolatria che è inseguire riferimenti vani, scambiati per assoluti ma che non hanno consistenza. Ascoltare significa porsi in relazione con Dio che si rende vicino e chiama Israele ad incontrarlo nella vita: ‘Io sarò colui che sarò… sarò con te’ (cfr. Es 3,14) è il nome consegnato a Mosè e indica un cammino in cui accogliere una presenza vicina. Ascoltare è attitudine del cuore, che  nel linguaggio biblico costituisce il centro della sensibilità ma anche dell’intelligenza e delle decisioni-. Ascoltare genera un affidamento ed implica riconoscere Dio come unico riferimento assoluto nell’esistenza. Per questo la preghiera dello Shemà è sintesi della spiritualità dell’esodo: il Dio che ha liberato Israele non prende il posto del faraone, paradigma di ogni potere che genera oppressione e ingiustizia, ma dona liberazione e vita anche nel deserto e chiama a rimanere nell’ascolto per rispondere  alla sua Parola.

Gesù poi riprende un secondo testo, tratto dal libro Levitico, dal codice di santità: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lev 19,2; cfr. Lev 20,8). “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lev 19,18).

Gesù richiama così il cuore della legge e accompagna a recuperarne le radici: non entra nel dibattito di scuola sulla questione di quale precetto sia il più importante che conduce alla fine a svuotare il richiamo di fondo di questi testi e a perdere di vista il centro. Gesù non rinvia ad una serie di norme o di espressioni cultuali. Richiama all’esperienza dell’Esodo. Ascolto di Dio e amore per l’altro costituiscono il cardine della legge.

Proprio in questi giorni papa Francesco durante l’udienza del 27 ottobre us ha ricordato: “Ancora oggi, molti sono alla ricerca di sicurezze religiose prima che del Dio vivo e vero, concentrandosi su rituali e precetti piuttosto che abbracciare con tutto sé stessi il Dio dell’amore. E questa è la tentazione dei nuovi fondamentalisti, di coloro ai quali sembra la strada da percorrere faccia paura e non vanno avanti ma indietro perché si sentono più sicuri: cercano la sicurezza di Dio e non il Dio della sicurezza”.

Alle parole di Gesù lo scriba reagisce dicendo che questo vale più di tutte le pratiche religiose. E Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. L’esperienza dell’ascolto e dell’amore per Dio nella proposta di Gesù si attua solamente nell’apertura all’incontro con gli altri. Mettendo insieme queste due parole della Legge Gesù richiama ad un incontro di Dio da vivere nelle relazioni concrete con gli altri. L’altro è prossimo da riconoscere come tale, da vedere e da incontrare. La vita di chi segue Gesù deve essere intesa ‘mai senza l’altro’.

Alessandro Cortesi op

Tutti i santi – anno B – 2021

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”

Apocalisse non è ‘fine del mondo’ ma rivelazione: l’ultimo libro del Nuovo testamento è un testo profetico, lettura della storia alla luce del vangelo. Nelle prove del presente viene indicato il cammino orientato ad un incontro con Dio che salva. Gesù Cristo è presentato con l’immagine dell’agnello ferito, ma che sta in piedi. Ferito perché reca i segni della passione ed è il Gesù crocifisso. In piedi perché è risorto e ha vinto la morte. Così la sua comunità nel tempo vive la prova e la sofferenza ma sa anche che Gesù Cristo è colui che può sciogliere i nodi che tengono chiuso il libro della vita e della storia.

Apocalisse presenta una grande liturgia in cui chi partecipa è coinvolto con gioia e non c’è solitudine. E’ così vista una moltitudine immensa oltre ogni possibilità di misurazione (nessuno la poteva contare). E’ la moltitudine di tanti testimoni del vangelo. La palma è simbolo della testimonianza in rapporto al dono della fede e del battesimo: chi ha cercato di vivere la sua fede fino alla fine è testimone: tutta la sua vita è stata orientata all’incontro con Dio e ha percorso la strada di Gesù.

“noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui”

La prima lettera di Giovanni richiama l’itinerario della fede, tra un ‘già’ che sperimentiamo nel presente e un ‘non ancora’ da attendere ma anche da affrettare. Sin d’ora siamo figli di Dio, partecipi di una relazione di vita. Siamo chiamati con il nome unico che Dio ha pronunciato chiamando alla vita. Ma questo nome è anche un seme che per crescere richiede cura, nutrimento, luce e spazio: è chiamata perché possa svilupparsi una crescita. Una chiamata fondamentale è per tutti e si differenzia nelle varie tappe e circostanze della vita: diventare simili al volto di Gesù stesso che ha fatto della sua vita un dono. Nell’incontro con lui si attua una somiglianza. La vita dei cristiani si colloca in una attesa in cui sono presenti fatica e dolore, ma anche speranza e responsabilità. Appoggiandoci sui segni dell’amore di Dio possiamo aprirci alla speranza: la nostra vita va verso una comunione tra di noi e con Lui. Lo vedremo così come egli è, ma questo incontro è già iniziato in quel vedere che è lo sguardo del credere che si lascia formare nell’affidamento.

“Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.

I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, tutti voi quando vi insulteranno… sono chiamati a rallegrarsi. Ma di che cosa ci si deve rallegrare? Gesù non vuole per i suoi la povertà, la persecuzione, l’ingiustizia. Piuttosto annuncia che Dio sta dalla parte di tutti coloro che vivono in queste situazioni, e si fa loro vicino, per liberarli, prende le loro parti. Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani. Questa è la ragione del rallegrarsi: chi vive questo stile anche se non occupa i primi posti, anche se ritenuto fallito o perdente, anche se l’impegno per la giustizia e per il riconoscimento dei diritti dei più fragili è denigrato, è sulla strada di Gesù. Gesù nella sua vita è stato povero, mite, puro di cuore. In lui e nel suo stile si può trovare il senso della propria esistenza quale vita bella: una vita non da schiavi sotto i ‘comandamenti’ ma da persone libere secondo la libertà gioiosa delle beatitudini.

Alessandro Cortesi op

Non dimenticare l’Afghanistan

Un appello della Rete Terra Aperta di Pistoia

Immagine dell’artista afghana Shamsia Hassani (graffitista)

A qusto link si può scaricare il testo dell’appello: cliccare qui

XXX domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Ger 31,7-9; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52

Al termine di un capitolo in cui Marco ha raccolto parole di Gesù sullo stile della comunità che lui voleva presenta un suo gesto: è la guarigione di un cieco, lungo la strada, nell’uscire da Gerico.

La ‘via’ che Gesù sta percorrendo è la via di un messia che incontra opposizione e ostilità e si sta dirigendo verso un momento di conflitto e sofferenza come indicano gli annunci della passione che in questa parte Marco inserisce (mc 8,31-33; 9,30-32; 10,3234). Sulla strada Gesù istruisce i suoi chiedendo loro di camminare dietro a lui sulle sue tracce: è via verso Gerusalemme, è via in cui scoprire il volto di un ‘messia diverso’ che si pone in contrasto ai disegni umani di potere.

Proprio in questo snodo del suo racconto Marco situa la narrazione della guarigione di un cieco. Al capitolo 11 presenterà l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, come anti-messia, che cavalca un asino ed entra nella città santa non come un guerriero ma disarmato messaggero di pace. Alla vigilia dei giorni di Gerusalemme l’incontro con il cieco diviene indicazione preziosa: c’è infatti bisogno di una luce diversa per vedere con occhi rinnovati quanto sta per accadere. Il volto del messia che si consegna nelle mani degli uomini è il volto di colui che ha realizzato pienamente la sua vita nella via del dono, dell’abbandono, del servizio e in questo modo dona la salvezza.

Il cieco di Gerico è per Marco immagine del discepolo. Sta lungo la strada a mendicare e il suo grido è una invocazione ed una indicazione dell’identità di Gesù: ‘Figlio di Davide, abbi pietà di me’. Gesù è figlio di Davide, re ma secondo una modalità nuova e diversa dalle aspettative dei suoi contemporanei: è re in fedeltà al Padre perché ha inteso la sua vita come cura e vicinanza ai poveri e agli esclusi. ‘Figlio di Davide’ è un titolo che racchiude anche una valenza politica: il regno di Dio è regno di giustizia e di pace, esige rapporti nuovi di fraternità e accoglienza. Dio infatti guarda all’umile e al povero e non vuole discriminazione ed oppressione. Il ‘regno’ è nucleo centrale di tutta la predicazione di Gesù: “Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (1,18)… “il regno di Dio… è come un granellino di senapa” (4,31). Il cieco di Gerico riesce a vedere che il ‘regno’ si è avvicinato a lui nella persona di Gesù. La folla lo ostacola ma lo sguardo di Gesù lo raggiunge. “gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. Cieco, vive l’esperienza di un affidamento a Gesù che passa, a lui grida e lascia il suo mantello, simbolo della sua unica sicurezza, per mettersi a seguirlo.

Il cieco diventa un discepolo inatteso e in contrasto con l’incomprensione dei dodici. Non è alla ricerca dei primi posti ma invoca di poter vedere. Gesù non rimane indifferente al suo grido, si accosta a lui e gli chiede ‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’  Alla sua richiesta risponde ‘Và, la tua fede ti ha salvato’. Egli solo lascia spazio a quell’apertura e affidamento già presente nel suo cuore. E riconosce che lì è già in atto la salvezza. ‘E subito vide di nuovo’ Il cieco ritrova la capacità di vedere ‘e lo seguiva lungo la strada’.

Il discepolo – suggerisce Marco – è colui che si mette a seguire Gesù lungo la strada verso Gerusalemme, affidandosi a lui. Egli vive un vedere nuovo che scorge in Gesù che va verso la croce il volto dell’autentico messia che rende vicino il Dio della cura e della solidarietà. E’ sguardo che proviene da un dono di luce presente e nascosto nel cuore: lo slancio della fede. Gesù riconosce questo nel dire ‘Va’ la tua fede ti ha salvato’: il cieco si apre ad un vedere in modo nuovo e da qui inizia a seguire Gesù: è lui esempio del discepolo che segue Gesù sulla strada.

Alessandro Cortesi op

Soccorrere non è reato

Dopo due anni di indagini la procura di Agrigento ha concluso il procedimento con la richiesta di archiviazione per l’equipaggio della Mare Jonio, il rimorchiatore dell’italiana “Mediterranea” che il 10 maggio 2019 aveva condotto nel territorio italiano 30 cittadini extracomunitari. L’accusa da cui è partita l’inchiesta era pesante perché vedeva «atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio italiano». Durante gli interrogatori gli indagati – il capomissione Giuseppe Caccia e il comandante Massimiliano Napolitano – hanno espresso la loro decisione di non voler riconsegnare i profughi alla Libia, che peraltro non rispondeva alle comunicazioni. Le ragioni di questo stavano non solo nell’atteggiamento ostile delle Autorità libiche ma anche perché nel rapporto dell’UNHCR dell’ottobre  2019 si documentavano torture, abusi, stupri, violenze sessuali e traffico di esseri umani anche per opera di funzionari dello Stato libico. Per questo la Libia non può essere ritenuta “luogo sicuro” e i suoi porti non possono essere ritenuti ‘Place of safety’ (POS). La decisione stabilisce quindi che l’intervento umanitario, in mancanza di prove di contatti tra Ong e trafficanti, non è mai sanzionabile.

Così osserva Nello Scavo indicando l’importanza di tale archiviazione: “Per salvare vite umane nel Mediterraneo non serve una ‘patente’ da concedere alle navi di soccorso. E le Ong che effettuano operazioni umanitarie non devono coordinarsi con i guardacoste libici, né condurre i naufraghi in Tunisia e tantomeno a Malta, che non ha sottoscritto gli accordi internazionali per il salvataggio”  (N.Scavo, Chiesta archiviazione per Mare Jonio: soccorrere non è mai reato, Avvenire 19 ottobre 2021) .

Dopo la richiesta di proscioglimento per Mare Jonio giunge anche la definitiva archiviazione per la ONG tedesca Sea Watch. Il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella e il pubblico ministero Cecilia Baravelli, riguardo a Sea Watch così hanno concluso:  «i soccorritori agiscono, infatti, perché costretti dalla necessità di salvare le persone che si trovano a bordo delle precarie imbarcazioni con le quali effettuano le traversate nel Mar Mediterraneo». Al comandante Arturo Centore e al suo equipaggio indagati è stato riconosciuto di aver adempiuto «ai doveri previsti dalle fonti nazionali e sovranazionali, che impongono agli Stati e ai comandanti delle imbarcazioni tutte, pubbliche e private, il salvataggio delle vite umane in mare». Osserva il giornalista di ‘Avvenire’ Nello Scavo: “E’ come se di colpo la dottrina Minniti, confermata e aggravata poi da Matteo Salvini e infine mai del tutto riformata dai governi successivi, si infrangesse di colpo”  (Archiviazione anche per Sea Watch. Così si sfalda la dottrina anti Ong, “Avvenire” 21 ottobre 2021)

La Corte di Cassazione ha inoltre bocciato la mancata concessione di protezione internazionale ad un migrante senegalese passato attraverso i campi di detenzione libici. Si osserva che i giudici hanno tenuto conto non solo della minore età, ma anche delle violenze subite nei campi di detenzione in Libia. E’ una sentenza importante perché determina che i migranti che hanno attraversato le prigioni libiche richiedono tutela.

Tutto ciò avviene mentre emerge la notizia che nell’ultimo mese a Torino nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) dove vengono rinchiusi stranieri trovati senza permesso di soggiorno e che devono essere riportati nei loro Paesi d’origine almeno 26 persone, hanno tentato di togliersi la vita. I CPR assimilabili a gabbie sono dieci in tutta Italia “in particolare il Cpr di Corso Brunelleschi, a Torino, e quello di Ponte Galeria, a Roma, rappresentano la realizzazione di un incubo esistenziale e architettonico, che può definirsi attraverso la categoria di “gabbietà”. Un vertiginoso labirinto, un ossessivo rincorrersi di sbarre e cemento, «una matrioska di disperazione» (Elena Stancanelli)” (L.Manconi, Le gabbie della nostra vergogna, “La Stampa” 21 ottobre 2021). In questi centri di reclusione vedono rinchiusi non persone che hanno compiuto reati ma che sono unicamente privi di documenti validi. Il 22 maggio scorso Mamadou Moussa Balde, di 23 anni, originario della Guinea, si è tolto la vita nel CPR di corso Brunelleschi a Torino mentre era in ‘isolamento sanitario’. Così ancora commenta Manconi: “considerato che, nel complesso, le condizioni degli altri nove Cpr sono altrettanto oltraggiose per la dignità della persona, la scelta più saggia dovrebbe essere quella di chiudere, una volta per sempre, queste strutture patogene e criminogene” (ibid.).

L’affermazione che soccorrere non è reato e il dovere di tutelare chi è passato attraverso situazioni di violazione di diritti umani costituisce un importante passo in questo momento.

Alessandro Cortesi op

XXIX domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Is 53,10-11; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45

Due discepoli, Giacomo e Giovanni, che seguivano Gesù lungo la strada lo interrogano: “concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.

Questa domanda racchiude un’attesa e un modo di intendere la via di Gesù come conquista di un potere da cui può derivare l’acquisizione di un ruolo e un posto di privilegio per i più vicini. Con la sua durezza Marco nel vangelo raffigura i discepoli come coloro che non capiscono e nemmeno seguono Gesù. Gesù risponde con un linguaggio simbolico e parla di calice e di battesimo: “Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo che io ricevo?”. Nella Bibbia il calice è associato alla situazione che gli empi devono subire. Il Salmo 75,9 parla di un calice colmo di vino che gli empi dovranno bere. E’ simbolo dell’ira di Dio per coloro che operano il male. Gesù con questo rimando intende parlare di se stesso: nella sua vita prende la condizione di chi è più lontano di chi è ‘maledetto’. Il suo cammino è in solidarietà con i peccatori, lontani da Dio. L’immagine del battesimo – che significa immersione – rinvia poi ad una situazione di morte. Nei salmi chi è immerso nelle acque vive nel dramma di essere perduto: “affondo nel fango e non ho sostegno, sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge” (Sal 69,3).

Gesù indica in tal modo la sua strada: non si tratta di un percorso di ascesa, di conquista di potere, di gloria e potenza, ma di umiliazione e morte. Sullo sfondo è l’annuncio della croce stessa.

Dice anche loro che il ‘regno’ è dono del Padre e non dipende da progetti umani. I due discepoli sono particolarmente sicuri e rispondono ‘noi possiamo fare questo’, ma Gesù indica ad un orizzonte nuovo. Propone loro una via diversa, contro corrente rispetto alle mire umane di affermazione e supremazia:  “sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi si farà servo di tutti”.

In queste parole si può ritrovare una descrizione della via di Gesù, quale strada del servizio e del dono di sè per tutti. Nella sua prassi egli attua la missione del ‘servo’: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

La sua via è accostabile a quella del servo, una figura che il secondo-Isaia vissuto nel tempo della fine dell’esilio aveva delineato nei suoi scritti. “Disprezzato e reietto dagli uomini, che ben conosce il patire”. Tuttavia il servo sofferente è come una pianta nel deserto e come una radice in terra arida. La sua vita arreca linfa nuova e porta fecondità. Benché egli sia sottoposto al disprezzo e alla condanna, proprio nel suo offrirsi per gli altri va compiendosi la salvezza di Dio. Il suo soffrire è dono della sua vita in rapporto a tutto il popolo e diviene esperienza di salvezza per tutti. “Il giusto mio servo giustificherà molti egli si addosserà la loro iniquità”. Marco nel suo vangelo presenta Gesù come colui che è venuto per servire e non per essere servito e legge nel suo progetto di vita il compimento delle caratteristiche del ‘servo di Jahwè’.

Marco raccoglie così un altro fondamentale insegnamenti di Gesù ai suoi lungo la via: si tratta di fare proprio il suo destino. La sua proposta è un modo alternativo di vivere i rapporti. In contrasto con la ricerca dei primi posti Gesù invita a vivere nella gratuità del servizio. La via che Gesù ha seguito apre liberazione dalla schiavitù e dalla morte per tutti. Su questa via chiama i suoi a seguirlo.

Alessandro Cortesi op

Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra

Una lettera è stata inviata a firma dei ministri degli esteri di dodici paesi europei alla Presidente della commissione europea Ursula von der Leyen il 7 ottobre scorso. I sottoscrittori comprendono non solo i quattro Paesi componenti il cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria) nei quali da tempo si stanno attuando misure che vanno contro principi dello stato di diritto a fondamento dell’Unione Europea, ma anche da altri Paesi quali Danimarca, Austria, Lituania, Lettonia, Estonia, Bulgaria, Grecia, Cipro. La lettera esprime una chiara posizione di preoccupazione unicamente per la difesa della sicurezza e di lettura delle migrazioni quale fenomeno di minaccia e di attacco. Chiede altresì  scelte legislative per contrastare ciò che  viene indicato come tentativo di sfruttamento della migrazione illegale da parte di Paesi terzi ed altre “minacce ibride” (così nel testo) ai Paesi della Unione europea.

La situazione dello sfruttamento della migrazione da parte di Paesi terzi può essere riferita a quanto sta accadendo al confine tra la Bielorussia e la Polonia dove i migranti sono diventati uno strumento utilizzato dal dittatore Lukaschenko per fare pressione sulla Polonia e sull’Europa a causa delle sanzioni decise a seguito della brutale repressione degli oppositori dopo l’elezione presdienziale rubata nel 2020. Vengono così spinti al confine dalle milizie bielorusse ma si trovano di fronte uno spiegamento massiccio dell’esercito della Polonia che li respinge in modo tale che si ritrovano così intrappolati e in condizioni di abbandono fino a dover affrontare la morte.

Nella lettera si chiedono modifiche al Codice frontiere Schengen e al Regolamento UE 2016/399 per indicare chiare azioni in caso di un “attacco su larga scala di migranti irregolari” promosso da un paese terzo e si giunge a proporre l’innalzamento di barriere fisiche di protezione delle frontiere esterne dell’Unione in modo permanente. Il tono della lettera ed il linguaggio utilizzato affrontano la situazione dei migranti secondo una logica militare, senza alcune considerazione etica e giuridica della condizione umana di coloro che si trovano nella condizione di profughi e cercano rifugio. Ma in particolare in nessun modo viene compresa la possibilità di garantire il diritto di richiedere protezione a asilo – diritto fondamentale riconosciuto nell’Unione – e il principio del non respingimento dei migranti previsto dalla Convenzione internazionale di Ginevra. Addirittura si lascerebbe spazio libero ai respingimenti collettivi che non solo diverrebbero possibili ma costituirebbero secondo le richieste di questi dodici Paesi, l’attitudine ordinaria e normale. La eliminazione del diritto di asilo e la pratica del respingimento aprirebbero alla ordinaria attuazione dell’uso della violenza sui migranti che si affacciano alle frontiere cercando di entrare.

Così osserva Gianfranco Schiavone: “ciò che è stato messo nero su bianco è … un tentativo di sovvertire principi fondamentali dell’ordinamento democratico dell’Unione, talmente inaudito che ritengo verrà esaminato dagli storici che studieranno la nostra epoca come uno dei più significativi manifesti ideologici del neo autoritarismo del XXI secolo” (G.Schiavone, I gendarmi d’Europa vogliono cancellare il diritto d’asilo, “Il riformista” 12 ottobre 2021).

Tutto questo avviene mentre proprio l’Unione Europea ha attuato da tempo accordi con paesi terzi  – ad esempio con la Turchia o nell’accordo tra Italia e Libia con il finanziamento della cosiddetta guardia costiera formata da milizie criminali che attua respingimenti – per far sì che i migranti rimangano bloccati e non giungano alle frontiere.

Alcune testate come “Avvenire” e “The Guardian” insieme al progetto Lighthouse Report (progetto di giornalismo collaborativo sorto in Olanda) attestano che è in atto una violenta campagna condotta da uomini a volto coperto per respingere i richiedenti asilo alle frontiere dell’Unione europea. Non si tratta di vigilanti mascherati ma di forze di polizia che fanno riferimento ai governi dei Paesi UE. Sono operazioni negate in pubblico ma finanziate e attuate con i soldi della UE.

L’inchiesta pubblicata il 6 ottobre 2021 da un team di giornalisti di ARD, Lighthouse Report, Novosti, RTL Croatia, Spiegel, SRF  documenta 11 operazioni di respingimento avvenute tra il maggio e il settembre 2021 con video sulla inaudita violenza attuata con trattamenti disumani degradanti verso le persone migranti (cfr. L.Rondi, Respingimenti sulla rotta balcanica: l’inchiesta che smaschera la polizia croata e l’Ue, “Altreconomia” 8 ottobre 2021). Su Avvenire del 7 ottobre us sono state pubblicate le impressionanti immagini di tali respingimenti attuati sistematicamente e con violenza al confine tra Croazia e Bosnia. “I governi dell’Ue – scrive Lighthouse – negano l’esistenza di una violenta campagna condotta da uomini a volto coperto per respingere i richiedenti asilo alle frontiere dell’Unione’. Ma l’esito dell’inchiesta giornalistica ‘smaschera questi gruppi, rivela chi li comanda e li finanzia. Il nostro report – aggiungono i giornalisti – mostra che queste ‘forze clandestine’ non sono vigilanti mascherati, ma unità di polizia che riferiscono ai governi dell’Ue. Le operazioni sono negate in pubblico ma finanziate ed equipaggiate dai bilanci dell’Unione Europea” (N.Scavo, Le prove dell’operazione segreta per respingere i profughi dall’UE, “Avvenire” 7 ottobre 2021). Le azioni di analoghi eserciti-ombra sono state individuate anche in Romania e in Grecia. Così al confine tra Bielorussia e Lituania è attestato che molti profughi sono morti per abbandono e mancanza di soccorso nelle foreste sul confine (cfr. il reportage dal confine tra Lituania e Bielosussia di N.Scavo, Famiglie di profughi isolate nei boschi. ‘Non abbiamo più cibo, moriremo, “Avvenire” 13 ottobre 2021).

La rete Border violence monitoring network (BVMN) ha documentato i respingimenti a catena che si verificano da Austria e Slovenia. Ma anche l’Italia è coinvolta in questo disegno di progressiva militarizzazione dei confini, con un accordo di cui non sono stati resi i contenuti con la polizia slovena per pattugliamenti misti sulla frontiera in cui le persone intercettate, senza avere possibilità di incontrare un avvocato o di presentare richiesta di asilo, sono deportate con respingimenti a catena, in Croazia e successivamente in Bosnia.

Appare come tali azioni di respingimenti violenti, condotte in modo illegale e in palese violazione dei regolamenti della UE e del Codice Frontiere, costituiscano una sorta di esperimento per quello che potrebbe essere una decisione politica di chiusura delle frontiere ai migranti e rifugiati che viene esplicitamente richiesta dalla lettera dei dodici Paesi su menzionata.

Sono orientamenti che fanno scorgere un ritorno drammatico dell’Europa alle pagine più buie della storia vissute nel secolo scorso. E’ un processo già in atto da tempo e attuato nelle politiche di rifiuto o impedimento al prestare soccorso in mare lasciando spazio ai respingimenti attuati dalle milizie libiche, e negli accordi per rinchiudere i migranti nei campi che costituiscono una forma di carcerazione e tolgono ogni speranza a chi cerca un futuro di dignità e protezione.

Ogni passaggio di questa discesa nella barbarie che non riconosce più nei profughi degli esseri umani, dovrebbe suscitare indignazione e reazione dettate dal riconoscimento di diritti umani fondamentali posti a fondamento della stessa esistenza della UE e dal senso di umanità e della cura che sole possono aprire un futuro e possibilità di convivenza per tutti.

Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Sap 7,7-11; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

“Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Una domanda apre un dialogo con Gesù. Questo tale che lo interroga esprime il desiderio di ognuno che si lascia toccare dal desiderio di dare un senso autentico alla propria vita. Questo ‘tale’ ha condotto una vita di impegno dal punto di vista religioso, nell’osservanza dei comandamenti, e presenta il profilo di un credente che ha camminato secondo la legge: un uomo buono, con apertura sincera a vivere la vita in modo significativo per sé e per gli altri. Gesù manifesta verso di lui sentimenti di ammirazione e simpatia: il suo sguardo è di sintonia e di amore: “Fissatolo lo amò…”. E la sua risposta apre ad una scelta da vivere: “una cosa sola ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. La ‘cosa che manca’ ha a che fare con la condivisione di quanto si ha: ricchezze materiali ma anche ricchezze di vita. Gesù indica la via del farsi solidali con i poveri, del condividere per entrare in una dimensione nuova, autentica nel rapporto con lui. Propone di lasciarsi sgravare da ciò che situa la vita nell’orizzonte del possesso e del mantenere per aprirla ad una scioltezza che permette di ‘venire e seguire’ lui.

Questa pagina è stata letta nella tradizione cristiana come indice di una chiamata particolare solamente per pochi. Si tratta invece di una chiamata che Gesù nel suo cammino rivolge a tutti per seguirlo: Marco infatti nel vangelo situa questo incontro dopo aver parlato del progetto di Dio sul rapporto tra uomo e donna. Ora si tratta del rapporto con i beni e con ogni genere di ricchezza. I molti beni imbrigliano e opprimono e solamente nella condivisione possono lasciare la vita aperta e non soffocata. Quel tale “se ne andò via afflitto perché aveva molti beni”. Non sappiamo se in seguito iniziò a seguire Gesù: è una storia che rimane aperta e sospesa, segnata da questo invito. Ma questo passaggio del vangelo indica ai discepoli che una vita autentica deve passare per un rapporto nuovo con i beni: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio… è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Questo cammello è stato variamente interpretato: forse una corda utilizzata sulle barche dai marinai oppure una porta stretta della città di Gerusalemme detta ‘cruna d’ago’, ingresso aperto quando le altre porte erano chiuse o ancora riferimento ad altro: l’immagine in ogni caso è finalizzata ad aprire il cuore dei discepoli ad una scelta nel vivere la sequela di Gesù, per tutti. La reazione è a questo punto di smarrimento e di paura: “e chi mai si può salvare?”.

Gesù propone ancora una volta un affidamento senza riserve a Dio, trovando in lui la forza per vivere rapporti nuovi sin d’ora: legami di fraternità e sororità che fanno scorgere gli altri come parte di un noi sempre più grande. La pretesa di salvarsi con le sole proprie forze e di considerare la salvezza un progetto umano è fallimentare: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! perché tutto è possibile presso Dio”: è questo il grande annuncio della salvezza come opera del Dio che viene e per primo ci ha amati (cfr Lc 1,37). Il senso autentico della nostra vita non si compie nei termini di sicurezza, conquista accumulo o possesso, ma secondo la logica dell’affidamento, del dono, della condivisione. La salvezza non è solo orizzonte da attendere nel futuro ma da scorgere in una vita liberata sin da ora.

Da qui sorge un modo diverso di usare ogni bene e la possibilità di rispondere all’invito di Gesù a condividere con i poveri ed a seguirlo lungo la strada che lui ha percorso.

Alessandro Cortesi op

Un momento di verità

“Dagli anni 70 un punto particolare è da sottolineare: fino agli inizi degli anni 2000 vi è una indifferenza profonda, una indifferenza totale ed anche crudele nei confronti delle vittime”. “Per me la cosa più terribile è stata aver visto il male assoluto, la violazione dell’integrità fisica e psichica di bambini. Un’opera di morte, perpetrata da persone con la missione di portare vita e salvezza”. Con queste parole François Devaux, presidente dell’associazione di vittime di abuso  ‘La parola liberata’, è intervenuto nella conferenza stampa di presentazione delle conclusioni del rapporto sugli abusi sessuali nella chiesa in Francia dal 1950 ad oggi.

Il 5 ottobre us è stato infatti presentato il rapporto della commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica (Ciase), richiesto dalla Conferenza episcopale di Francia (CEF) e dalla Conferenza delle religiose e dei religiosi di Francia (Corref).

La commissione è stata presieduta da Jean-Marc Sauvé, ex vicepresidente del Consiglio di Stato, che ha guidato i lavori. In un’intervista alla BBC egli ha detto che la commissione si attendeva un numero di qualche migliaio di soggetti coinvolti, tuttavia man mano che gli ascolti procedevano si sono rivelate proporzioni sconcertanti del fenomeno. La commissione è giunta ad accertare dal 1950 ad oggi la presenza di 216.000 vittime (che oggi hanno 18 o più anni) che hanno subito violenze sessuali e abusi da parte di un prete, di un diacono o di un religioso. Se si aggiungono gli abusi attuati da persone nell’ambito ecclesiale, come ad esempio personale scolastico, catechisti, animatori di movimenti giovanili e altro si giunge alla stima di 330.000 vittime. Sono cifre impressionanti che suscitano sconcerto e indignazione. Jean Marc Sauvé ha detto: “La Chiesa cattolica è, al di fuori delle cerchie familiari e amicali, l’ambiente in cui la prevalenza di violenze sessuali è la più elevata”.

L’inchiesta è stata condotta in due anni e mezzo di lavoro ed ha posto in luce che dal 1950, un  numero compreso tra 2900 e 3200 preti, diaconi e religiosi di accertata identità hanno inflitto violenze sessuali per lo più a minorenni o a maggiorenni vulnerabili (principalmente religiose, ma anche seminaristi). La commissione ha affermato che “un tasso attorno al 3% di chierici e religiosi autori di aggressioni sessuali costituisce una stima minima e una base di confronto pertinente con gli altri paesi”. Sono cifre che delineano un fenomeno diffuso e sistematico.

La reazione della chiesa istituzione a fronte di questo fenomeno è stata studiata nell’inchiesta dal sociologo e storico Philippe Portier, professore alla École pratique des hautes études. Dalla sua ricerca risulta che più della metà degli abusi (56%) si sono verificati negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso. La gerarchia ecclesiastica ha innanzitutto operato in modo da difendersi dal possibile scandalo nell’intento di difendere l’istituzione con una attenzione rivolta ai preti aggressori e non prestando ascolto alle vittime, anzi spesso invitandole al silenzio. Nei due decenni successivi si è verificato il 22% degli abusi. In questo periodo l’attenzione ha visto una decrescita e solo negli anni ‘90 è iniziata una iniziale considerazione dell’esistenza delle vittime. Ma solo a partire dagli ultimi dieci anni è stato attuato un riconoscimento delle vittime, anche se in modo diseguale nella chiesa.

La commissione ha espresso un giudizio sintetico nei termini di ‘occultamento’ e “relativizzazione, se non negazione, con un riconoscimento solo molto recente, realmente visibile solo a partire dal 2015”. E’ quindi rilevato un fenomeno che coinvolge il sistema nel suo complesso: “l’istituzione ecclesiale non ha chiaramente saputo prevenire quelle violenze, né semplicemente vederle, e meno ancora trattarle con la determinazione e la precisione necessarie”.

La commissione ha indicato come l’impianto del diritto canonico vigente sia “ampiamente inadatto”, perché non pone alcuna attenzione alle vittime e neppure prende in considerazione le violenze sessuali. Esso non risponde “agli standard del processo equo e ai diritti della persona umana nella materia così sensibile delle aggressioni sessuali su minori”.

La commissione inoltre ha evidenziato alcuni elementi che hanno favorito la pratica degli abusi quali la sacralizzazione del prete, l’eccessiva valorizzazione del celibato, lo sviamento dell’obbedienza fino a cancellare la responsabilità di coscienza, la visione tabuistica della sessualità.

Riguardo alle misure poste in atto negli ultimi vent’anni dalla chiesa dopo che i primi casi di abusi erano stato resi noti suscitando una reazione pubblica, il giudizio della commissione è che esse sono state spesso prese in ritardo e “globalmente insufficienti”.

François Devaux rappresentante delle vittime, nella conferenza stampa ha denunciato “un tradimento della fiducia, della morale, dei bambini, dell’innocenza, del Vangelo, di tutto insomma”. Ha detto inoltre che “la chiesa non ha saputo vedere, non ha saputo ascoltare”. Dal 1950 al 2000, “le vittime non vengono credute, ascoltate, si ritiene abbiano un po’ contribuito a quello che è loro accaduto”. Ha avuto parole assai chiare rivolte alle istituzioni ecclesiastiche e ha indicato l’”estrema confusione del diritto canonico sulle responsabilità del vescovo”.

A conclusione del rapporto la commissione ha elencato 45 raccomandazioni per la chiesa sui temi: riforma del governo, aggiornamento del diritto canonico, maggiore attenzione nella selezione del clero, ridimensionamento del potere e del ruolo sacrale del prete. Esigenze che impongono una non ritardabile opera di riforma strutturale. Su tali ambiti si rende necessario un cambiamento.

Le reazioni ai lavori di questa commissione sono state di grande impressione. Vergogna e orrore ha manifestato il presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort. Papa Francesco nell’udienza di mercoledì 6 ottobre ha menzionato l’inchiesta dicendo il suo dolore nell’aver appreso le notizie, e ha rivolto il suo pensiero “anzitutto alle vittime, con grande dispiacere per le loro ferite e gratitudine per il loro coraggio nel denunciare”. Anch’egli ha parlato di vergogna sua personale e della chiesa.

Due brevi riflessioni a margine di questi dati che rinviano ad un fenomeno di portata sistemica. Non è sufficiente manifestare il sentimento e la reazione di vergogna e nemmeno concentrare unicamente la preoccupazione sui doverosi risarcimenti alle vittime. Si deve condurre con lucidità la ricerca delle cause di fenomeni che affondano le radici in un tempo segnato dall’impostazione tradizionale della formazione dei preti e della vita delle parrocchie (gli anni 50 e 60) e che hanno avuto continuazione in forme diverse anche successivamente. Soprattutto sono da considerare le ragioni di una presenza così diffusa nella realtà ecclesiale di aggressori.

Appare come la questione del potere nella chiesa e la sacralizzazione di tale potere nella esaltazione della figura del prete  e nella mentalità del clericalismo assai diffuso costituisca una tra le principali cause. L’abuso infatti si delinea come espressione di un dominio violento sugli altri, sui più fragili, che vengono ridotti ad oggetti di utilizzo e consumo e costretti ad un silenzio senza uscita. Tale consapevolezza dovrebbe condurre a cambiamenti strutturali nella chiesa che investa un radicale ripensamento sulla figura del prete, sul modo di impostare i percorsi di formazione dei ministri e le dinamiche di rapporto tra i diversi soggetti ecclesiali nelle comunità e nei compiti di servizio.   

Un fondamentale passaggio è da attuare è il riconoscimento della voce delle vittime e il passaggio dalla considerazione degli abusi come peccato – con la preoccupazione rivolta a difendere l’aggressore e ad evitare scandali per l’istituzione – ad una considerazione del reato con l’apertura a riferirsi ai percorsi della giustizia civile e a collaborare con essi.   

Veronique Margron, suora domenicana presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia ha partecipato ai lavori della commissione e ha detto: «Si tratta di crimini contro l’umanità, che non invecchiano» con riferimento a quegli atti che preferisce non indicare non come pedofilia e abusi ma con il termine pedocriminalità. Nel suo libro Un moment de vérité (ed. Albin Michel 2019) aveva denunciato anche una errata cultura del segreto nella chiesa e aveva posto la questione di rivedere la nozione di peccato che ha permesso di non riconoscere la responsabilità dell’aggressore. Secondo la teologa questa crisi deve condurre la Chiesa a “rivedere la sua morale”, richiamando ad un’opera di riforma radicale. Accanto a questo si pone l’esigenza di un ripensamento di fondo della stessa visione della sessualità per “allontanarsi da un cristianesimo del codice a favore di un cristianesimo dello ‘stile’”, cioè ispirato allo stile di Gesù e al suo “modo di abitare il mondo con l’ospitalità, l’assenza di menzogna e la corrispondenza con lui”.

Certamente tale inchiesta può costituire occasione  di grande ripensamento e cambiamento e può aprire una nuova consapevolezza: p.Zollner, docente alla Gregoriana e consultore della commissione pontificia per la protezione dell’infanzia, ha chiesto che dopo la Francia anche in Italia sia condotta una ricerca per indagare realtà dell’abuso negli ultimi decenni.

È questa la prima modalità per dare ascolto alla voce delle vittime e per riconoscere come da loro può provenire una parola di verità per tutta la chiesa. Ed anche per superare il sistema clericale fondato sulla sacralizzazione del potere, sulla difesa dell’istituzione al di sopra della dignità delle persone che ha permesso il perpetuarsi di tali crimini e l’indifferenza crudele verso le vittime. E per una revisione della stessa funzione dei vescovi che hanno potuto coprire e difendere tanti aggressori. La domanda se una tale revisione sia possibile nella chiesa rimane aperta e drammaticamente sospesa.

Alessandro Cortesi op

XXVII domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Gn 2,18-24; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16

I primi capitoli di Genesi costituiscono una grande riflessione presentata con il linguaggio del mito sulla condizione umana e sulle sue fondamentali esperienze. Nel mezzo dell’opera creativa proveniente dalle mani di Dio, e di cui è parte, l’essere umano, l’Adam – il terreno ‘tratto dalla terra’ – vive una profonda solitudine esistenziale: può dare il nome agli esseri viventi, essere custode e pastore di un mondo che comprende varietà meravigliose di rocce, animali e piante ma percepisce la mancanza di “un aiuto simile”. Senza qualcuno che ‘gli stia di fronte’ nella parità, non può attuare quello scambio di parola, quella condivisione di vita, quel dialogo in cui ritrovare il senso della vita nell’accoglienza reciproca e nel cammino comune.

Le prime pagine di Genesi descrivono così la condizione umana e nel racconto richiamano al dono di una presenza che risponde a questa sete profonda e porta ad uscire dalla solitudine: mentre Adam dorme Dio agisce e gli fa trovare una presenza accanto, un ‘tu’ in cui riconoscersi, rispecchiarsi, con cui vivere la meraviglia dell’amore. Il sonno è grande metafora del non sapere perché momento in cui la lucidità viene meno: nel sonno che è spazio dell’agire di Dio, si apre unanovità. La presenza nuova di fronte a lui per Adam rimane mistero di gratuità: non sa da dove viene e non è e non potrà mai essere in suo possesso e nel suo dominio. La presenza uguale e diversa, ritrovata come dono stupefacente e inatteso, accanto, è appunto dono gratuito che reca in sé il tocco di Dio. Ed è anche parte di se stesso: nel cammino dell’incontro potrà così scoprire l’altro, diverso, ma anche ritrovare se stesso: solo nel rapporto potrà scorgere il volto dell’umano intero. Nello stesso tempo questa presenza dono gli sta di fronte, in una diversità irriducibile. E’ simile, ‘carne della mia carne, osso dalle mie ossa’, simile nel corpo e nell’interiorità, eppure profondamente diversa e altra, non assimilabile, da accogliere e incontrare sempre nuovamente. Da qui la bellezza e la fatica della comunicazione.

L’Adam tratto dalla terra risponde a questo dono con un inno di gioia e meraviglia: “…la si chiamerà donna (isha’) perché dall’uomo (ish) è stata tolta”. Il gioco di parole della lingua ebraica esrpime la medesima radice e nello stesso tempo la diversità dei due. E’ espressione della medesima condizione e della condivisione che si apre come chiamata. Nell’inno di gioia Adam scopre la sua identità più profonda e originaria: “In principio Dio creò l’umano, maschio e femmina li creò…” All’inizio Dio crea un principio unico, in cui ish (uomo) e isha’ (donna) formano una sola cosa.

Da questo dono e disegno, che sta al principio, sorge la vocazione per ogni uomo e donna, all’incontro, a compiere nell’esistenza il sogno di un’unità sempre da ricercare, nello star di fronte come ‘diversi’ e come  ‘simili’.

“Per questo l’uomo abbandonerà  suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una carne sola”. La ‘carne’ che l’uomo e  la donna sono chiamati a realizzare come unità è la vita che si esprime nelle diverse dimensioni.

Di fronte alla domanda sulla questione del ripudio Gesù rinvia a quel racconto del principio e richiama al disegno originario di Dio. La questione del ripudio era un tema trattato nelle dispute religiose del tempo, vedeva la possibilità del ripudio solo della donna attuandolo addirittura per futili motivi, e poneva così le donne in una condizione di discriminazione e inferiorità. Gesù non si lascia ingabbiare nelle prescrizioni di una legge che rischia sempre di rimanere indifferente alle storie delle persone. Richiama alla chiamata ed alla responsabilità dello stare di fronte all’altro e di fronte a Dio. Ciò implica aprirsi all’azione del ‘Dio che congiunge’, che ha un progetto di amore e non si lascia rinchiudere ma apre a vivere la ricerca mai compiuta di vivere in modo autentico l’amore nella responsabilità che coinvolge le coscienze di fronte a Lui.

Alessandro Cortesi op

Tratti dell’amore

Un breve racconto rabbinico richiama al senso profondo dell’incontro e dell’amore:Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero». Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio».

(Jirì Langer, Le nove porte, Adelphi 2008, 105)

Nel capitolo IV di Amoris Laetitia viene proposta una lettura del capitolo 13 della lettera ai Corinti di Paolo evidenziando le caratteristiche dell’amore. In particolare si potrebbero cogliere tre aspetti che vengono descritti con parole significative per la vita:

Un primo aspetto è la benevolenza: “… la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però, considerata la posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il verbo precedente, ne diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”. (94) Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire. (AL 93-94)

Un secondo tratto è l’amabilità: “Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere».Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano». Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore»” (AL 99)

Un terzo atteggiamento che compone il mosaico dell’amore, tra vari altri, è quello della speranza: “Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra. (117) Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile. (AL 116-117).

Alessandro Cortesi op

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