VI domenica di Pasqua – anno C – 2019
At 15,1-2.22-29; Apoc 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
“In quei giorni alcuni venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: ‘se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè non potete essere salvi’. Poiché Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione”.
La questione di cui si tratta riguarda un modo di pensare l’essere discepoli di Cristo. Secondo alcuni era necessario osservare le prescrizioni della legge giudaica: ‘se non fate questo… non siete salvi’. Era questa la posizione di chi rinchiudeva l’annuncio di Gesù nelle forme religiose di una legge. Per contro Paolo vedeva nell’esigere la circoncisione uno svuotamento del messaggio stesso di Cristo. La salvezza è radicalmente dono, non si realizza in base ad un’appartenenza o per l’osservanza di una legge, ma va accolta come evento di grazia di Dio che suscita la fede.
Paolo e Barnaba reagiscono affermando innanzitutto che la salvezza non dipende dall’uomo, da un’osservanza di una legge sia pure religiosa, ma è dono gratuito. Non sono richieste condizioni previe. L’agire di Dio in Cristo è al primo posto, e precede. Tutte le forme religiose rischiano di prendere il posto di questa azione di Dio.
Gesù era rimasto all’interno della tradizione ebraica. A lui non si era posto il problema del venir meno alle prescrizioni della legge. Certamente nei vangeli si trovano tracce dell’affermazione di Gesù che l’uomo è più importante del sabato e la polemica contro un’osservanza che svuota il senso profondo della legge (Mc 7,8-13.20-21). Compaiono anche alcune figure di pagani: Gesù risponde all’insistenza delle loro richieste riconoscendone la fede – come con la donna sirofenicia (Mc 7,24-30). Tuttavia per Gesù non si pose il problema del superamento delle osservanze giudaiche, ma sul suo sguardo di apertura e misericordia si fondano i passaggi successivi.
Alle prime comunità si presenta una situazione nuova nel sorgere di contatti nuovi con i pagani. Nel confronto con tale novità sorge una domanda inedita. E ne scaturisce l’esigenza di una decisione all’interno della prima chiesa. L’incontro è il luogo in cui si fa strada – per impulso dello Spirito – una comprensione più profonda delle esigenze del vangelo. Gli apostoli ritornano così al cuore dell’annuncio di Gesù: il regno di Dio è già in atto già nella storia e non si lega ad un tempio, ad una classe di sacerdoti, ad una terra particolare, ma è apertura all’Alterità di Dio, al suo amore per tutti, reso visibile nella vicenda di Gesù. In base a tale riferimenti nel dibattito si delinea una scelta di novità: era una rinuncia rispetto a ciò che sembrava essenziale – l’osservanza della legge giudaica – ma che essenziale non era rispetto alla gratuità della salvezza. E’ orientamento che si fa strada nell’incontro nelle case dei pagani (cfr. At 8; 10) e nell’esperienza dell’agire dello Spirito oltre i confini.
A Gerusalemme si attua così un passaggio decisivo agli inizi dell’esperienza cristiana. Cresce la comprensione della Parola di Dio, la tradizione cresce nell’esperienza di tutto il popolo di Dio, insieme: si attua non come ripetizione meccanica di quanto Gesù ha vissuto (anche perché impossibile), ma una attuazione sempre nuova della Parola che Gesù ha comunicato.
Di fronte alle nuove sfide oggi, nell’epoca del pluralismo, nell’incontro con gli ‘altri’, non credenti o credenti di altre religioni, le chiese cristiane sono chiamate a lasciare qualcosa che sembra essenziale, a rinunciare a forme di esclusivismo e di chiusura, a rivedere profondamente forme culturali e religiose talvolta scambiate per il vangelo.
Gesù promette il Consolatore, una presenza che si caratterizza per due azioni: il ricordare e l’insegnare – al futuro. “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”.
Riscoprire la presenza dello Spirito nel tempo della chiesa è esigenza mai conclusa. L’ascolto della Parola di Dio fa vivere non da prigionieri della paura o della legge, ma capaci di vivere la novità e la gioia per liberarsi continuamente dai templi di ogni potere e dalla schiavitù di ogni religione per aprirsi all’ospitalità verso l’altro.
Alessandro Cortesi op
Fedeltà allo Spirito
Fedeltà allo Spirito è coraggio di non stare zitti di fronte alla disumanità.
“Non più zitti di fronte a sparate di un sempre più arrogante Ministro. No a chi si appropria dei segni sacri per smerciare proprie vedute disumane, antistoriche, opposte a messaggio evangelico. Chi è con lui non può dirsi cristiano perché ha rinnegato comandamento dell’amore» E’ questo il testo di un tweet – a cui associarsi – di Domenico Mogavero vescovo di Mazara del Vallo. Non è la sua l’unica voce che si è levata indignata a fronte dell’arroganza e della strumentalizzazione di simboli religiosi a scopi propagandistici effettuata da un politico cinico che trascorre il suo tempo a fare comizi trascurando il lavoro a cui dovrebbe rispondere e che nei suoi gesti dimostra spregio nei confronti delle vite umane atteggiandosi da bullo con i più deboli e seminando un quadro falsato della realtà per innescare i sentimenti di paura e illusione di soluzioni facili, immediate ai duri problemi del presente.
“Ci indigna profondamente l’utilizzo strumentale del rosario, baciato sabato scorso in piazza Duomo a Milano dal ministro dell’interno, chiedendo voti alla Madonna” è il commento dei missionari comboniani d’Italia, dopo che il ministro degli Interni dal palco di un comizio elettorale si è presentato con un rosario in mano. I missionari comboniani scrivono: “Noi siamo schierati. Portiamo nel cuore il Vangelo che si fa strada con le Afriche della storia. Che non scende a compromessi e strategie di marketing. Né elettorali né di svendita becera dei piccoli in nome del denaro. Ci rivolta dentro il richiamo ai papi del passato per farne strumento della strategia fascista dell’esclusione degli ultimi. Di chi bussa alle nostre porte chiedendo di aprire i porti. Come la nave Sea Watch di queste ore. Nave che accoglie chi scappa da mondi inquinati dai gas serra della nostra sete di materie prime per mantenere uno stile di vita sempre più insostenibile. Che pesa sulle spalle degli impoveriti”.
“Ci ripugna il richiamo alla vittoria elettorale in nome della madre di Gesù di Nazareth che cammina con gli ‘scarti’ del mondo per innalzare gli umili. Sempre dalla parte dei perdenti della globalizzazione dei profitti. La carne di Cristo sulla terra. ‘Ero forestiero e mi avete accolto‘ (Mt 25,35). Ci aggredisce l’arroganza d’invitare la gente a reagire durante le celebrazioni in chiesa di fronte ai preti che predicano ‘porti aperti’. Dettando legge in nome dei vescovi”.
“Il rosario è segno della tenerezza di Dio e viene macchiato dal sangue dei migranti che ancora muoiono nel Mediterraneo: 60 la settimana scorsa, nel silenzio dell’indifferenza dei caini del mondo”.
“Ci dà coraggio e ci fa resistere contro questa onda di disprezzo e disumanità, condividere il sogno di Dio: ridestare la speranza tra la gente che un mondo radicalmente altro, interculturale, aperto, inclusivo e solidale è urgente e dipende da ognuno di noi. Da chi non tace e, con la determinazione della non-violenza del Vangelo, grida con la sua vita che non ci sta con il razzismo dilagante di chi vuole stravolgere l’immagine vera del Dio della vita. I missionari comboniani ci sono. Alzano la voce. Scendono in strada, non fanno calcoli e stanno da una parte precisa. Quella degli oppressi da un’economia che uccide. Prima e sempre”
Una reazione esplicita di indignazione, di presa di distanza e di critica a politiche segnate da attitudini di violazioni della Costituzione e di disumanità è da condividere ed è più che mai urgente in un momento che prepara decisioni rilevanti per il futuro dell’Europa.
Alessandro Cortesi op
Ascensione del Signore – anno C – 2019
At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53
L’intero vangelo di Luca è strutturato attorno al tema del viaggio. Gesù percorre la strada verso Gerusalemme e il suo viaggio è una salita, una ‘ascensione’. Gerusalemme è infatti posta sul colle di Sion e i pellegrini che andavano verso la città santa la vedevano da lontano come meta posta in alto. Tanti salmi cantano così l’ascensione verso Gerusalemme, al tempio di Dio ed erano usati mentre si saliva verso Gerusalemme. Luca nel suo vangelo presenta così il cammino di Gesù come salita a Gerusalemme: “Mentre stavano per compiersi i giorni della sua ascensione, Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Nell’episodio della trasfigurazione, nel dialogo tra Mosè e Elia, essi “parlavano dell’esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (9,31).
Nel racconto della passione Gesù sale al Calvario e poi sulla croce. Il suo risvegliarsi dal sonno della morte, il suo ‘alzarsi’, è presentato da Luca nei termini di salita alla destra del Padre: “Gesù li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,52-53).
Ascendere è movimento di salita, ed esprime tutta la vita di Cristo: il suo percorso è una salita che Luca indica sfociare non solo fino a Gerusalemme ma ancora più in alto nello stare accanto al Padre. Il cielo, simbolo del divino, è la sfera in cui Gesù vive ora nella condizione del ‘vivente’ (è questo il titolo del risorto per Luca), colui che ha vinto la morte. Il suo ‘salire’ si compie portando con sé tutto al Padre. E salendo al cielo lascia una benedizione. Non rimane senza legame con i suoi e con la terra. Non sarà più presente, la comunità dovrà vivere nella sua assenza, nell’attesa di un ritorno, e d’ora in poi sulla terra si svolgerà la missione di coloro che sono investiti della forza dello Spirito Santo e sono chiamati a vivere un nuovo incontro con lui e nella speranza.
Nel movimento della ascensione quindi Luca legge la nuova vita di Gesù oltre la morte e il sorgere del cammino della chiesa: Gesù ora vive nella comunione con il Padre, e dona la forza dall’alto, il dono dello Spirito perché l’incontro con lui si attua nella sua assenza, attraverso i suoi testimoni.
Il movimento che lo porta in alto è inizio di un grande raduno. Il quarto vangelo esprime questo dicendo : ‘quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me’ (Gv 12,32). Colui che sulla croce era stato visto come il fallito, proprio sulla croce ha manifestato l’amore fedele fino alla fine. Nel dono di sé e nel farsi servo sta il senso più profondo della vita di Gesù e del cammino che Gesù indica ai suoi.
La lettera agli Ebrei vede nella corporeità di Gesù risorto una strada che si apre per un salita nel nuovo tempio, il tempio celeste che è comunione con Dio. Non ci sono più esclusi o condizioni particolari per entrarvi: Gesù con il suo sangue, cioè con la sua vita, ha aperto una strada nuova. E’ una via che è una persona: è Gesù, nella sua corporeità, la via nuova e vivente. “Avendo, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne…. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso”.
La festa dell’ascensione è un aspetto della festa della Pasqua: indica un passaggio aperto per un incontro nuovo, di vita, con il Padre. E’ anche festa di speranza per la chiesa, comunità chiamata a non rimanere a guardare il cielo, ma ad impegnarsi sulla terra annunciando la presenza nuova del Signore e accompagnando all’incontro con Lui nello Spirito.
Alessandro Cortesi op
Rancore e speranza
Qualche commentatore ha evidenziato come in Italia il grande vincitore delle elezioni europee sia stato non solo e non tanto un capo-popolo, che dirige un partito politico, quanto piuttosto un sentimento diffuso che ha fatto sì che molte persone si siano affidate alle illusorie promesse di chi si è presentato come salvatore. Non la paura è il sentimento predominante. E pure la paura è stata alimentata a piene mani con una presentazione dei problemi e della realtà deformate e capaci di suscitare allarme e opposizione di fronte all’altro, all’immigrato, al più povero. Ma più che la paura è il rancore l’atteggiamento dominante. E’ sentimento che viene coltivato e che da tanto tempo costituisce un legante di esperienze e persone assai diverse. Il rancore è proprio di chi avverte la propria situazione come segnata da disagio e da tradimenti e cerca di individuare un capro espiatorio colpevole della mancata realizzazione di aspirazioni o del venir meno di condizioni di privilegio, di benessere e o di soluzione al proprio disagio.
Il rancore alimenta anche quell’attitudine populista che si può sintetizzare nel sentimento di una bontà racchiusa nel popolo, depositario di ogni tipo di virtù, e di una colpa propria di una élite il cui carattere principale sarebbe l’egoismo. Una contrapposizione di bene e male considerati interamente separati da una parte e dall’altra senza possibilità di mediazione e di democrazia.
A partire dagli anni 80 in Italia a più riprese varie fasce della società si sono affidate a diverse figure percepite come ‘salvatori del popolo’ che hanno vissuto parabole di affermazione e di discesa talvolta in modo più lungo, altre volte in modo più rapido, ma sempre contrapponendo promesse di soluzioni mirabolanti ad effettive realizzazioni assai deludenti, quando non concluse nel malaffare e nella corruzione. E’ la vicenda di diversi populismi che hanno segnato la storia recente del paese e che hanno visto il crescere di entusiasmi talvolta con risultati anche elettorali mirabolanti, e il successivo spegnersi e appassirsi di tante esaltazioni a fronte dell’incapacità di affrontare la complessità del reale.
E’ questo forse il principale problema di una popolazione italiana in certe fasce sociali caratterizzata dalla preoccupazione di trattenere e non perdere una ricchezza percepita come privilegio senza responsabilità sociale, nemmeno verso le generazioni più giovani, in altre aree segnata duramente da condizioni di disagio e di venir meno progressivo di sostegni sociali in condizioni di povertà.
Il rancore e la chiusura vengono a costituire il comune denominatore di una società ripiegata e incapace di pensare un futuro diverso e altro rispetto a nostalgie di un passato ormai alle spalle. Caratteristiche di un invecchiamento che non pensa al futuro e non lascia spazio alle aspirazioni dei giovani.
A fronte di tale sentimento prevalente sarebbe da auspicare un nuovo sguardo e la maturazione di un atteggiamento diverso nei confronti della vita, degli altri, del futuro. E’ questo l’atteggiamento di chi nel cuore coltiva la speranza, che non fa ricadere su altri le colpe di ciò che va male. La speranza è attitudine di chi avverte la problematicità della situazione e non pretende soluzioni miracolistiche in termini di esclusione degli altri. E’ legata alla mitezza propria di chi percepisce il proprio limite e nello stesso tempo cerca di costruire passo passo senza affidarsi ad illusioni. Soprattutto è consapevole che solo in una rinnovata solidarietà sociale e nella consapevolezza di appartenere ad un’unica comunità umana è possibile affrontare le difficoltà del presente, ricercando le cause profonde delle sofferenze e cercando di costruire insieme. Chi spera non vive ‘contro’, con giudizi perentori sugli altri e non riconoscendo il proprio limite. Al contrario vive ‘per’, nella tensione a mettere energie al servizio di un progetto comune, ad aprire vie di pensiero e di prassi ad una vita buona per tutti. “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza”.
Alessandro Cortesi op