la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “Maggio, 2021”

Solennità della Ss. Trinità – anno B – 2021

William Congdon, Tre alberi

Dt 4,32-34.39-40; Rom 8,14-17; Mt 28,16-20

“Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore Dio è lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro”.

Il ‘lassù’, le altezze dei cieli, e il ‘quaggiù’, la terra, non sono luoghi abbandonati e vuoti ma sono abitati. Israele ha scoperto e incontrato la presenza di Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra  come vivente, in ascolto, colui che dona liberazione e salvezza. Egli è lassù, altro da ogni cosa, e nel medesimo tempo è fonte di ogni vita, Dio nella creazione, coinvolto nella vita del popolo a cui rivolge la sua parola e la sua alleanza: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra … si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”

Non è facile stare in ascolto di Dio, non si può mai pretendere di trattenerlo o rinchiuderlo in un possesso umano. L’intero Primo testamento è narrazione della storia di un’esperienza di incontro, non tanto di ricerca umana di Dio, ma del venire di Dio in cerca dell’uomo. Il Dio lontano e vicino chiama  e dona se stesso per una convocazione con orizzonti universali.

Gesù è presentato dai vangeli come testimone dell’Abbà, il Padre, a lui orientato in tutta la sua vita. Ha vissuto come chi si affida senza riserve, e i vangeli ne rivelano il profilo rivolto all’Abbà soprattutto nei momenti decisivi e drammatici della sua esistenza: nella quotidianità e nella prova, nei giorni di scelte importanti, fin nell’orto degli ulivi (Mc 14,36). C’è un’intimità unica che emerge dai racconti dei vangeli. Nella preghiera in particolare Gesù si affida al Dio Abbà  e così il grido sulla croce “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato” (cfr. Sal 22) e le parole di affidamento ‘nelle tue mani padre affido il mio spirito’ manifestano un rapporto unico.

Dopo la sua morte e risurrezione Gesù è riconosciuto e indicato come il Figlio mandato dal Padre. In lui chi lo segue può vivere la scoperta di essere figlio del Padre e fratello suo. E’ l’esperienza della prima comunità dopo la pasqua, quando Gesù dona ai suoi di vivere la gioia di una sua presenza nuova nello Spirito. Paolo esprime tale consapevolezza quando scrive: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre. Lo Spirito stesso attesta al nostro Spirito che siamo figli di Dio”.

Nello Spirito, lasciando spazio a lui, il grande suggeritore, colui che ricorderà tutto quello che Gesù ha detto (cfr. Gv 14,26)  colui che consola (Gv 14,15), possiamo scoprirci innestati nella vita dell’Abbà, dono di amore e di comunione: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre… in quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (cfr. Gv 14,20).

Alessandro Cortesi op

“tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”.

Franco Battiato, musicista e artista dalle diverse competenze e sensibilità, è morto pochi giorni fa. Nelle sue canzoni ha lasciato tracce di una profonda ricerca spirituale che ha orientato la sua vita ed ha trovato espressione nelle sue opere di artista. Alcuni frammenti di questa ricerca possono essere colti nelle parole di alcune canzoni. Il testo di E ti vengo a cercare https://www.youtube.com/watch?v=eeo_iXWKB4I tratto dall’album Fisiognomica del 1988 presenta un movimento di apertura all’altro e di sguardo interiore, nella ricerca di un vedere e di un parlare che ha come riferimento un ‘tu’ indefinito ma vivo e presente:

E ti vengo a cercare
Anche solo per vederti o parlare
Perché ho bisogno della tua presenza
Per capire meglio la mia essenza

E’ una ricerca della propria identità più profonda non ridotta alle prospettive ristrette di un io isolato e con pretese di dominio, ma nei termini di una accoglienza di sé in cui forte è la percezione del limite e del bisogno dell’altro e per questo è vissuta nel rapporto con l’alterità:

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

L’apertura all’altro si inserisce e trova il suo ambiente in un coinvolgimento nell’ambito più ampio della natura. Il rinvio alle radici che affondano nella terra dell’incontro non è solo metafora dell’ineludibile provenienza da altri e del rapporto su cui cresce la vita, ma è anche riferimento alla vita della natura che incrocia diverse radici e piante e frutti.

E ti vengo a cercare
Con la scusa di doverti parlare
Perché mi piace ciò che pensi e che dici
Perché in te vedo le mie radici

Tale movimento interpreta non una attitudine elitaria, ma una ricerca diffusa e presente anche se non sempre tematizzata: sentimento di popolo. L’accostamento di mistica e sensualità conduce a scorgere un superamento di divisioni spesso presenti nella percezione dell’esistenza. 

Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te

Si delinea così un dinamismo di nuova nascita che implica passaggi di distacco, ma anche scoperte di aspetti inauditi della propria vita e potenzialità che attendono di trovare espressione:

Fare come un eremita

Che rinuncia a sé

Mi spinge solo ad essere migliore

Con più volontà.

Si tratta di una ricerca che rimane aperta e indefinita: l’apertura all’altro passa infatti per gli incontri con tu personali che possono essere gli incontri di ogni giorno, ma può respirare anche di una attesa che rinvia oltre affacciandosi su dimensioni che oltrepassano la dimensione umana affondano in una realtà dai contorni divini.  

Emanciparmi dall’incubo delle passioni
Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
Essere un’immagine divina
Di questa realtà

La musica della canzone guida e accompagna questa tensione di ricerca, di dialogo, di apertura che nelle parole prende forma diversa e insieme alla musica si apre al suscitare emozione e coinvolgimento negli ascoltatori.

Il senso dell’attesa e di ricerca di protezione si rende vivo anche nelle parole della canzone L’ombra della luce https://www.youtube.com/watch?v=E8jo7DBxaos tratta dall’album “Come un cammello in una grondaia” del 1991:

Difendimi dalle forze contrarie
La notte, nel sonno, quando non sono cosciente
Quando il mio percorso si fa incerto
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai

La percezione qui espressa rinvia alla bellezza e profondità dei sentimenti e dei movimenti del cuore e nel contempo apre a considerare una luce che si rende presente pur permanendo nascosta. L’ombra richiama infatti ad una oscurità e ad una negazione, ed insieme rinvia al contrasto con una luminosità che pur si rende presente e tuttavia non può mai essere definita, ma rimane sconosciuta e desiderata. 

Perché le gioie del più profondo affetto
O dei più lievi aneliti del cuore
Sono solo l’ombra della luce

La contrapposizione di ombra e luce genera un desiderio di ricerca e suscita invocazione ‘non abbandonarmi mai’, apertura che rimane sospesa e di cui non si esplicita il chi o che cosa a cui è rivolta. Ma proprio in questa sospensione offre il senso di un movimento che può accomunare diversi itinerari caratterizzati da religiosità esplicita o da apertura di pensiero e tensione umana. Battiato si fa così interprete della universale aspirazione ad una quiete auspicata come pace e del riscontro di infelicità che segna la dispersione nel tempo pur percepito come dono prezioso, risorsa limitata da non sprecare.

Ricordami, come sono infelice
lontano dalle tue leggi;
come non sprecare il tempo che mi rimane.
E non abbandonarmi mai…
Non mi abbandonare mai!
Perché la pace che ho sentito in certi monasteri,
o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa,
sono solo l’ombra della luce

In ‘Oceano di silenzio’ https://www.youtube.com/watch?v=tfqwo73wjVU  è quasi suggerita l’immersione nel silenzio quale dimensione altra che pur pervade l’esistenza, indicando la via di una pace da ricercare negli spazi dell’interiorità:

Quanta pace trova l’anima dentro
Scorre lento il tempo di altre leggi
Di un’altra dimensione
E scendo dentro un Oceano di Silenzio

Anche nelle parole della canzone ‘Torneremo ancora’ https://www.youtube.com/watch?v=aBq3zRGn0aA che si armonizzano con suoni evocativi di tensione, attesa e speranza, risuonano echi di una spiritualità coltivata nella frequentazione di approfondimenti filosofici e teologici, nell’amicizia con filosofi e persone spirituali e ispirata a grandi pensatori (tra essi Georges Ivanovic Gurdjieff).

L’affermazione Nulla si crea, tutto si trasforma apre ad una meditazione sulla vita come immersione nella luce, accoglienza di luminosità che pervade il cosmo e accomuna, nel cammino umano che è ricerca senza confini. Il cammino della migrazione umana diviene cifra di percorsi di ricerca a dimensione universale e che nessuno vede esenti o esclusi. Ed apre a scorgere come nel tempo delle migrazioni si può scoprire una comune cittadinanza, di chi abita in cammino, alla ricerca di una terra e di una nascita nuova.

La luce sta nell’essere luminosi
Irraggia il cosmo intero
Cittadini del mondo
Cercano una terra senza confine

E’ così evocata la precarietà dell’esistenza e il motivo della morte legato alla nascita: sonno e risveglio ‘finché non saremo liberi’. La promessa o l’auspicio ‘e torneremo ancora’ si connette ad un desiderio di libertà, nella considerazione dei cammini umani segnati dal migrare e dai molti cammini esteriori e interiori nella tensione verso la luce e verso gli orizzonti della verità.   

la vita non finisce è come sonno
la nascita è come il risveglio

Finchè non saremo liberi torneremo ancora
ancora
e ancora

L’allusione ai migranti di Ganden rinvia alla grande università monastica del Tibet: perseguitati e costretti all’esilio giunsero a ricostruire un monastero a Karnataka nell’India meridionale. L’idea sviluppata in questa canzone scritta insieme al monaco Juri Camisasca indica il percorso di continua migrazione umana sin quando non si raggiunga l’ultima dimora.  

Come ha ben osservato Paolo Trianni (Spiritualità e musica: addio a Franco Battiato, in Settimananews 18.05.2021: “Battiato ha condiviso con i fan il proprio cammino esistenziale. Rimarrà uno dei suoi grandi meriti quello di aver portato nel cinema e nella canzone la spiritualità. Egli è riuscito a rendere popolari tematiche che prima non avevano mercato, inserendo nelle canzoni temi filosofici e teologici (…) Di sicuro, però, dalle sue canzoni promana una ricerca spirituale autentica, che testimonia l’universalità dello spirito al di là di ogni parzialità e confessionalità”.

Alessandro Cortesi op

Domenica di Pentecoste – anno B – 2021

At 2,1-11; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27;16,12-15

La venuta dello Spirito a Pentecoste rinvia ai prodigi dell’esodo (cfr. Es 19,3-20): il vento, imprendibile e imprevedibile, e il fuoco che investe e trasforma sono i simboli che dicono la forza dirompente, l’apertura che il dono della Pasqua genera nella prima comunità di Gerusalemme. E si attua un percorso contrario a quello di Babele: lì la pretesa di avere una sola torre e di imporre una sola lingua, qui la possibilità di parlare lingue diverse e di poter intendersi ciascuno. Lì la pretesa di un unico dominio, qui la presenza di popoli diversi. Lì il potere di alcuni, qui il compimento delle parole del profeta (Gl 3,1-5): ‘io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diventeranno profeti i vostri figlie le vostre figlie’. E’ dono dello Spirito per tutti i popoli della terra, per scoprire la possibilità di una storia nuova e il sogni di Dio della riconciliazione. E viene così a compiere il progetto di Dio a Babele, quel percorso di porre in relazione nello scambio le diversità da riconoscere e accogliere.

Il IV vangelo riporta lunghi discorsi di Gesù prima della sua passione, nel momento della cena. Sono discorsi di amicizia, di rivelazione, di promessa. In particolare c’è un’insistenza sulla presenza promessa e che verrà: lo Spirito non viene presentato come una energia o forza  dell’universo, ma come presenza personale di un ‘tu’ in relazione profonda con il Padre, perché ‘procede dal Padre’: “Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal principio” (Gv 15,26-27). Lo Spirito è promesso in modi diversi indicandoil suo agire come soffio interiore e presenza di dono.

Lo spirito è consolatore, paraclito, colui che porta aiuto, sta accanto e sostiene: anche Gesù ha inteso la sua presenza così con i suoi e lo Spirito è presenza annunciata come il grande suggeritore, la guida verso la verità tutta intera. Lo Spirito è indicato come presenza interiore, non racchiudibile, vicino nel momento della prova. Sarà lui a guidare la testimonianza nelle fatiche del tempo. Sarà lui a introdurre chi lo accoglie all’incontro con Gesù: “non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà”.

Il dono dello Spirito genera una vita nuova, una vita non secondo l’egoismo e il dominio (la ‘legge della carne’) ma una vita che cerca di realizzare “…amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dono di sé”: è questa la ‘legge dello Spirito’: sono quest i frutti dello Spirito. Si tratta cammino dice Paolo. Accogliere lo spirito è stare nella forza (dynamis) dello Spirito e  ‘camminare secondo lo Spirito’. E’ un ‘camminare’ nella quotidianità e si esprime in ‘frutti’ nella vita e nella storia, da riconoscere, da valorizzare, da accogliere.

Alessandro Cortesi op

Pentecoste

Una preziosa raffigurazione della Pentecoste si può ritrovare nella decorazione dell’armadio degli argenti, commissionato da Piero de Medici per la biblioteca del convento dell’Annunziata a Firenze dipinto da Giovanni da Fiesole, il beato Angelico, tra il 1451 e 1453, e custodito oggi presso il museo di san Marco a Firenze.

I pannelli che compongono l’armadio degli argenti sono dipinti a tempera su tavola e nelle tavolette le immagini raffigurate sono poste in relazione a cartigli situati nei livelli inferiore e superiore. Anche nel pannello della Pentecoste i cartigli riprendono due citazioni bibliche che offrono il significato dell’evento e guidano alla lettura della scena raffigurata: quella in alto riprende la profezia di Gioele (Gl 3,1-2) citata in At 2,17 “su tutti effonderò il mio spirito, i vostri figli e le vostre figlie profeteranno…”. Quella in basso rinvia a At 2,4: tutti furono colmati di Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue”. Peraltro la scena riprende il riferimento all’intera narrazione degli Atti degli apostoli “Tutti erano perseveranti e concordi nella preghiera insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù” (At 1,4). Questa notazione appare essere ripresa nella raffigurazione del gruppo dei discepoli e discepole raffigurato attorno alla centrale figura di Maria nella fascia superiore del dipinto. Così pure appare implicito il riferimento al ritorno a Gerusalemme di ‘quelli che erano con Gesù’ dopo la sua ascensione. “Allora ritornarono a Gerusalemme… entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi” (At 1,12-13). La stanza appare raffigurata infatti in alto con molteplici presenze all’interno.

Nel dipinto la scena appare così divisa in due parti, una superiore e una inferiore. In alto al centro appare Maria con le mani giunte in gesto di preghiera, in piedi, con una aureola dorata sul capo, raffigurata con una grandezza particolare rispetto a coloro che la attorniano. Attorno a lei sono delineati ventisei volti aureolati e con un fiammella sul capo: sono i profili degli apostoli che hanno visto l’inserimento nel gruppo di Mattia che ha preso il posto di Giuda, il traditore (At 1,15-26) e sono anche le donne e i fratelli di Gesù indicati come presenti a Gerusalemme.

Le citazioni dei cartigli guidano l’osservatore non solo a comprendere che l’immagine tratta dell’evento della effusione dello Spirito, secondo le promesse dei profeti, ma suggerisce l’aspetto su cui l’artista intende accentrare la sua attenzione: è infatti il momento in cui il dono dello Spirito dall’alto, come vento impetuoso, riempie la prima comunità di una forza nuova ed “essi cominciarono a parlare in altre lingue nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 1,4). La sala al piano superiore appare infatti luogo in cui si attua innanzitutto una conversazione tra tutti coloro che sono lì presenti.

Nel contempo proprio quella stanza chiusa appare totalmente aperta: il muro esterno che la ripara e protegge, appare come abbattuto, creando un effetto di sguardo all’interno ma anche offrendo una trasformazione della sala da luogo chiuso a terrazza aperta che si affacciata su tutto ciò che è fuori. Nell’immagine si può leggere l’invito dello Spirito, come lingua di fuoco che si appoggia su ognuno dei presenti, ad uscire, a far correre quella parola accolta e condivisa in un dialogo che si allarga senza confini. La sala viene trasformata quindi in un luogo di dialogo e contemporaneamente in una sorta di pulpito affacciato all’esterno. E i personaggi raffigurati nella fascia inferiore, all’esterno della casa, appaiono accogliere con meraviglia una comunicazione che proviene dall’alto: sono coinvolti anch’essi in quella novità suscitata dalle lingue di fuoco appoggiate sulle teste di ognuno dei discepoli e delle discepole. Tra tutti fa spicco la figura di Maria in posizione ieratica, al centro, raccolta in attitudine di preghiera e di accoglienza e tutta protesa con lo sguardo a guardare verso altri e quasi ad affacciarsi sull’esterno. Si può forse cogliere in tale atteggiamento l’attitudine propria di Maria sottolineata da Luca nel vangelo ed espressa: “Maria da parte sua, custodiva tute queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria è colei che tiene insieme, facendo simbolo.

Ma anche in questa figura al centro della comunità riunita si può scorgere un simbolo che indica il sorgere della chiesa nel momento dell’effusione dello Spirito. La chiesa non ha origine come società di potere con mandato di dominio, ma sorge nel dono dello Spirito quale dono della Pasqua in rapporto al dono di sé del crocifisso Risorto. Lo Spirito apre ad accogliere la presenza di Gesù come Parola, comunicazione del Padre e suscita comunicazione di parola che pone in relazione ed allarga la comunità. Non solo dodici, ma ventisei, non solo uomini ma anche le donne, non solo quelli che erano con Gesù ma anche altri si aprono ad accogliere il dono dello Spirito che fa comunicare.  Maria nel suo stare in piedi rinvia al movimento che nel libro degli Atti è riferito a Piero che prende la parola: “Allora Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò a loro così” (At 2,14).

Maria diviene figura che esprime il volto di una chiesa che trova la sua unica ricchezza e forza nel dono dello Spirito nella spinta a portare l’invito di apertura proveniente dallo Spirito ricevuto: “per voi infatti è la promessa e per. i vostri figli e per tuti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il signore Dio nostro” (At 2,39). Il rinvio al testo del profeta Gioele è anche richiamo alla novità che la Pentecoste apre: “i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno” (At 2,17-18). Il dono dello Spirito apre ad un vedere nuovo che apre futuro e genera speranza unendo giovani e anziani nel sognare il sogno di Dio che è sogno di vita in una relazione nuova di incontro.

La parte inferiore del dipinto presenta una scena all’esterno. Due gruppi di persone sono raffigurate una a destra e una a sinistra e al centro una porta di legno, chiusa, quasi un simbolo da decifrare in posizione centrale rispetto al muro bianco. I personaggi sono vestiti in fogge diverse, richiamano alla moda del Quattrocento fiorentino ed hanno curiosi copricapo che rinviano a provenienze diverse e al loro rappresentare le diverse culture. Sono richiamo di coloro che erano presenti a Gerusalemme e nel loro gesticolare rivolgendosi gli uni agli altri ricalcano le attitudini descritte nel racconto di Atti: “Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio” (At 2,8-11).

Il collegamento tra la fascia superiore e quella inferiore non è data dalla porta, che è chiusa, ma dal parlare che giunge dal piano superiore spalancato quasi fosse una terrazza e le presenze all’esterno, che pongono i loro piedi con calzari tipici dell’epoca, su un tappeto di erbe e fiori, un giardino. I rinvii simbolici potrebbero essere molti: il beato Angelico situa l’annunciazione – nelle sue diverse realizzazioni – nel contesto di un giardino in cui sta fiorendo una novità e dove la vita rinasce. Così pure l’incontro del risorto con Maria maddalena è situato in un giardino in cui i fiori rinviano simbolicamente alle ferite della passione e richiamano la vita del Risorto che ha vinto la morte. Così anche Pentecoste unisce la casa in cui le porte erano chiuse.

Nell’immagine si unisce il racconto della pentecoste secondo Atti al dono dello Spirito da parte del Risorto nel suo primo apparire ai suoi nella stanza dove si erano rinchiusi bloccati dalla paura.  Secondo il IV vangelo Gesù stette in mezzo ai suoi, rendendosi presente e convocando ancora attorno a sé una comunità a cui dona la pace e lo Spirito: “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù stette in mezzo e disse loro: ‘Pace a voi’ … come il Padre ha mandato me anch’io mando voi’. Detto questo soffiò e disse loro: ‘Ricevete lo Spirito santo’” (Gv 20,19-22).

Nel riquadro dell’armadio degli argenti quella porta chiusa proprio in mezzo nella fascia inferiore rinvia alla figura di Maria, in piedi nella fascia superiore al piano alto della casa. Questo parallelismo può essere letto quale indicazione della paura e della chiusura evocata dalla porta chiusa, che sono vinte dal dono dello Spirito e dal mandato da parte del Risorto a tutta la comunità: Maria può essere letta come figura della chiesa sella predicazione e del dialogo che sorge da pentecoste. Gesù invia ad essere testimoni della pace e della gioia che aprono ad una storia nuova. Quella porta è oltrepassata e spalancata in alto dalla parola che ora raggiunge l’esterno oltre ogni muro di separazione generando nuova fioritura di incontro, di vita insieme, di rapporto tra popoli e lingue diverse.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2021

Ascensione, dai Vangeli di Rabbula, VI sec. d.C. Miniatura su pergamena, 34 x 27 cm. Folio 13v. Firenze, Biblioteca Laurenziana

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11)

La narrazione dell’ascensione è un altro modo per esprimere l’evento della Pasqua. Il crocifisso non è rimasto rinchiuso nel buio della morte ma ha vinto la morte con il suo amore ed è vivente in modo nuovo.

La comunità dei suoi discepoli è chiamata a vivere nell’assenza di Gesù, in un vuoto che tuttavia è abitato dalla promessa di un incontro.  Verrà: l’umiliato nella morte, tornerà nella gloria. Ma la sua presenza non è solo attesa in vista del ritorno. Si apre sin d’ora la possibilità di vivere un incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Di fronte alle richieste degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, ossia di dominare il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio ad una curiosità che impedisce di guardare al presente e di aprirsi a lui in modo nuovo. Invita per questo ad attendere: è attesa fondata sulla promessa del Padre, sulla sua fedeltà. Ed è attesa di ricevere la forza dello Spirito, fonte della testimonianza. Lo Spirito è il dono di Cristo risorto: il suo agire nella comunità continua per mezzo dello Spirito. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma nella forza dello Spirito.

‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: la nube nella Bibbia rinvia alle teofanie. La sua presenza è quella di Dio che si fa vicino e chiede uno sguardo rinnovato capace di scorgere i segni che ci ha lasciato: lo Spirito guida nell’esperienza dell’incontro con lui nella fede e rende testimoni della sua risurrezione: ‘voi mi sarete testimoni’.

Ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona lo Spirito, presenza-dono che conduce ad entrare nella relazione di amore del Padre e del Figlio. La comunità è coinvolta in questa chiamata ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella chiesa si attua allora una molteplicità di doni e una diversità di servizi, frutto dell’azione dello Spirito; nell’accogliere molteplicità e varietà, la chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come comunione:

“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11-12).

Gesù affida ai suoi il mandato: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che compie la signoria di Cristo sulla storia e sul mondo, una signoria particolare perché signoria del servizio e dell’amore fino alla fine. I discepoli sono inviati ad un camminare e operare che li supera e sta dentro a quanto essi vivono: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20).

Alessandro Cortesi op

Non dimenticare Gerusalemme

“Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace,” e richiedono un intervento urgente. La violenza usata contro i fedelimina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un’altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all’umanità da Dio stesso”.

Così si esprime la dichiarazione del patriarcato latino di Gerusalemme del 9 maggio 2021 (riportata integralmente dal sito www.oasiscenter (https://www.oasiscenter.eu/it/dichiarazione-patriarcato-latino-gerusalemme-violenze-gerusalemme)  

La dichiarazione riprende le affermazioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani secondo cui con tali determinazioni  lo stato di diritto viene “applicato in modo intrinsecamente discriminatorio”. La questione del quartiere di Sheikh Jarrah non è una disputa tra privati ma è denunciato nei termini di “un tentativo ispirato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa”.

La dichiarazione ricorda anche il diritto di accesso ai Luoghi santi e denuncia le manifestazioni di forza con cui è stato negato tale diritto ai palestinesi proprio durante il mese di preghiera di Ramadan alla moschea di Al Aqsa.

“Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l’anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri. La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque.”

Viene richiamato il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite che se fossero attuate costituirebbero una via di soluzione al conflitto in atto e potrebbero aprire la via per un riconoscimento di due Stati e per porre fine alle politiche di discriminazione di violazione continua e quotidiana di diritti umani fondamentali perseguite dall’amministrazione di Israele nei confronti dei palestinesi. La dichiarazione ricorda che Gerusalemme è città sacra alle tre religioni monoteiste “in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l’uguaglianza e la pace”.

E’ poi richiamato che la costruzione della pace richiede innanzitutto l’attuazione di rapporti di giustizia e riconociemnto dei diritti umani. Sulla base dell’ingiustizia nessuna pace sarà possibile: “Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l’ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette. Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme”.

“Siamo sull’orlo di un baratro. Scene da buio della specie, con linciaggi da una parte e dall’altra, assalto a sinagoghe e moschee, vanno condannate e fermate. Non è questo odio tra i popoli che serve anche e soprattutto alla parte infinitamente più debole, quella palestinese, come dimostra la sproporzione delle vittime. Questo odio ci ripugna e probabilmente chiama in causa le tre religioni monoteiste che sul Medio Oriente qualche responsabilità nel conflitto ce l’hanno. Ora occorrerebbe invece una vera mobilitazione democratica, consapevole del precipizio rappresentato da un’altra guerra in Medio Oriente e nel già mortale Mediterraneo, perché la crisi di Gerusalemme è il cuore della crisi internazionale”. Così scrive Tommaso Di Francesco (Un silenzio complice dell’orrore, “il manifesto” 14 maggio 2021) osservando: “E insieme servirebbe una vera iniziativa diplomatica internazionale per fermare la crisi arrivata sull’orlo del baratro. Purtroppo in verità, guardando quel che accade e ai veti nel Consiglio di sicurezza Onu, non c’è né l’una né l’altra (…) Del resto di che sorprendersi, così si porta a termine l’espulsione definitiva anche nel luogo più simbolico, dove i militari israeliani sparano, in pieno Ramadan, come in un tiro segno. Infatti nella Cisgiordania occupata centinaia di insediamenti dei coloni integralisti hanno espulso così tanti palestinesi dalla loro terra che non esiste più la continuità territoriale perché nasca uno Stato palestinese – senza dimenticare il Muro, lo sradicamento violento delle colture, l’abbattimento delle case, i posti di blocco che spezzano la vita, la repressione quotidiana con uccisioni che non fanno notizia nei media occidentali, le migliaia di detenzioni arbitrarie”.

Così in un’intervista all’agenzia AdnKronos ha affermato Moni Ovadia, artista musicista e scrittore di origine ebraica: “La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. (…) Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare a pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Netanyahu. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”. (intervista adnkronos 11.05.21 https://www.adnkronos.com/moni-ovadia-politica-israele-infame-e-senza-pari-strumentalizza-shoah_3151RAi6zwnLmC7HGWrGLY)

Il pensiero di questi giorni pasquali corre a Gerusalemme, città che reca in sé una chiamata e un sogno di pace ma in cui ancora in questi giorni si rendono presenti i gesti della sopraffazione, dell’ingiustizia e della violenza. L’attenzione a quanto sta avvenendo a Gerusalemme e in Palestina riporta alle parole di Gesù  “ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme ma di attendere l’adempimento delle promesse del Padre” (At 1,4) e all’impegno a pregare e operare perché non sia lasciato spazio a ideologie estremiste che negano possibilità di vivere al popolo palestinese  e perché l’orientamento a percorrere sentieri di giustizia applicando le risoluzioni dell’ONU possa aprire a nuova stagione di pace e non di guerra.

“Se mi dimentico di te, Gerusalemme, / si dimentichi di me la mia destra; / mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, / se non innalzo Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 137,4-6).

Alessandro Cortesi op  

VI domenica di Pasqua – anno B – 2021

At 10,25-27.34-35.44-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

‘Alzati anch’io sono un uomo’. In queste parole Pietro racchiude una scoperta e l’apertura di un nuovo orizzonte di vita. Ha accolto l’ispirazione dello Spirito Santo ad uscire dalla sua casa per entrare in quella del pagano Cornelio per lui lontano e straniero. Vive innanzitutto un ascolto alle spinte dello Spirito santo scoprendo che Dio chiama ad uscire. Scopre anche di essere chiamato ad incontrare oltrepassando barriere, a considerare che nessuno è escluso dallo sguardo di benedizione di Dio.

Quando poi entra nella casa del pagano Cornelio, aprendosi all’incontro con l’altro fa una ulteriore grande scoperta: ‘anch’io sono un uomo’. Una medesima condizione li accomuna nel medesimo cammino umano. E’ cammino segnato dalla presenza dello Spirito che agisce nei cuori, suscita percorsi d’incontro, apre a riconoscere che l’incontrarsi stesso è luogo di esperienza della fede nel Risorto.

Pietro avvertiva nella sua vita la responsabilità di essere testimone di Gesù e del vangelo: scopre che lo Spirito precede ogni progetto e iniziativa e che il suo essere testimone si attua nel riconoscere l’agire di Dio che non fa preferenze di persone. Scopre così che segue Gesù chi segue i sentieri della giustizia e che lo sguardo di Dio è ben più ampio di quello degli uomini. Chi nella sua vita è orientato alla ricerca del senso profondo dell’esistenza, chi ascolta la voce della coscienza dove Dio parla, chi si lascia illuminare dalla luce della ricerca del bene, della giustizia, chi vive gesti di dedizione e servizio è accolto da Dio: Dio non fa preferenze. Chi pratica la giustizia nella sua esistenza attua la parola di Gesù anche senza averlo conosciuto. Pietro scopre così che lo Spirito di Gesù opera al di fuori delle frontiere in cui si cerca di definire la comunità stessa. E’ bellissima questa pagina, di scoperte e capovolgimenti: non racconta infatti solamente la conversione di Cornelio che si fa battezzare, lui con tutta la sua famiglia, ma narra anche la conversione di Pietro, che si apre alla meravigliosa scoperta che Dio ha un disegno di salvezza oltre ogni confine. A Pietro si apre anche un altro modo di concepire il mandato ricevuto da Gesù: la missione non è fare qualcosa ma lasciarsi coinvolgere nel movimento dello Spirito che la precede.

‘Rimanere’ è idea che percorre tutto il IV vangelo. Al cuore della vita umana sta un desiderio di relazione, in Dio e con gli altri. L’immagine della vite, in cui scorra un’unica linfa che unisce i tralci, manifesta questo. Rimanere nell’amore di Gesù, come i tralci sono inseriti nella vite, è chiamata ad un incontro intimo e personale con lui: la chiamata al cuore della vita cristiana è un rapporto personale profondo ed è insieme evento comunitario. Gesù usa i termini dell’amicizia: Vi ho chiamati amici. Rimanere in lui apre allora all’esperienza dell’amicizia e della relazione. Osservare i comandamenti si traduce nel rendere testimonianza del dono di amicizia da lui ricevuta.

Alessandro Cortesi op

Battesimo di Cristo (part.) – Verona chiesa di san Fermo

Dalla dottrina all’esistenza

Il recente Responsum della Congregazione per la dottrina della fede sulle benedizioni delle persone dello stesso sesso (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/03/15/0157/00330.html) ha generato un ampio dibattito. Alcune voci hanno sollevato critiche puntuali ad esso.

Mons. Johan Bonny che ha partecipato al Sinodo dei vescovi del 2015 ha scritto “Voglio chiedere scusa a tutti coloro per i quali questa risposta è dolorosa e incomprensibile: le coppie omosessuali credenti e impegnate nella fede cattolica; genitori e nonni di coppie omosessuali e dei loro figli; operatori pastorali e accompagnatori di coppie omosessuali. Il loro dolore per la Chiesa è oggi il mio dolore. Il responsum manca di cura e attenzione pastorale, di fondamento scientifico, della sfumatura teologica e della precauzione etica che erano presenti nei padri sinodali che hanno approvato le conclusioni finali del Sinodo. Qui è all’opera un diverso processo di consultazione e di decisione. A titolo di esempio, vorrei citare solo tre passaggi.

Affetti stabili In primo luogo, il paragrafo nel quale si afferma che nel piano di Dio non c’è la minima possibilità di somiglianza e nemmeno di analogia tra il matrimonio eterosessuale e quello omosessuale. Conosco personalmente coppie dello stesso sesso, sposate civilmente, con figli, che sono famiglie calde e stabili e sono attivamente coinvolte nella vita della loro parrocchia. Alcuni di loro sono anche attivi a tempo pieno come assistenti pastorali o responsabili in varie aree della vita della Chiesa. Sono particolarmente grato a loro. Chi potrebbe negare che non c’è alcuna somiglianza o analogia con il matrimonio eterosessuale? Al Sinodo la falsità fattuale di una simile posizione è stata ripetutamente sottolineata.

Disinvoltura col peccato In secondo luogo, il concetto di “peccato”. I paragrafi finali tirano fuori l’artiglieria morale più pesante. La logica è chiara: Dio non può approvare il peccato; le coppie omosessuali vivono nel peccato; quindi la Chiesa non può benedire la loro relazione. Questo è esattamente il linguaggio che i padri sinodali non hanno voluto usare, sia in questo che in altri casi sotto il titolo generale di situazioni cosiddette “irregolari”. Questo non è il linguaggio di Amoris laetitia, l’esortazione di papa Francesco del 2016. Il “peccato” è una delle categorie teologiche e morali più difficili; e quindi una delle ultime a dover essere applicata alle persone e al modo di condividere la loro vita. E certamente non va fatto su categorie di persone in generale. (…)

Di quale liturgia parliamo? Infine, il concetto di “liturgia”. Questo mi mette ancora più in imbarazzo come vescovo e teologo. A causa della loro relazione, le coppie omosessuali non sono degne di partecipare alla preghiera liturgica o di ricevere una benedizione liturgica. Da quale nascondiglio ideologico è uscita questa affermazione sulla “verità del rito liturgico”? Di nuovo, questa chiaramente non era la dinamica del Sinodo. Si è parlato ripetutamente di rituali e gesti appropriati per includere le coppie omosessuali, anche in ambito liturgico. Certo, questo rispettando la distinzione teologica e pastorale tra un matrimonio sacramentale e la benedizione di una relazione”. (J.Bonny, Provo vergogna per la mia chiesa, “SettimanaNews” del 19 marzo 2021 ripreso dal sito Cathobel).

Dopo il no del Vaticano alla benedizione delle coppie dello stesso sesso, nove docenti della facoltà di teologia cattolica dell’Università di Regensburg si sono espressi con una dichiarazione (https://www.kirche-und-leben.de/artikel/regensburger-theologen-zu-segnung-lehramt-muss-besser-argumentieren). In essa affermano: “La teologia non ha solo il compito di apprezzare le posizioni del magistero, ma anche il dovere di interrogarle criticamente…. Allo stesso tempo ci si può aspettare dal magistero di “ascoltare le domande pressanti delle chiese locali e di entrare in dialogo”. Se le decisioni vengono prese per cercare di porre fine a discussioni che non sono nemmeno apprezzate nella loro urgenza e complessità, può solo portare a frustrazione e amarezza, ha detto. “Questo è esattamente quello che stiamo vivendo ora”. (…) nell'”acceso dibattito” sull’ultima lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, si sono concentrate molte questioni teologiche sull’autorità della Chiesa, la dottrina e la pratica che erano state represse per molto tempo. Inoltre, è emerso un bisogno pastorale. Di conseguenza, si deve rispondere come la chiesa possa portare i valori cristiani o l’importanza del matrimonio e della famiglia senza svalutare altri modi di vita o discriminare le persone. Si pone anche la questione dove la Scrittura, la tradizione e il senso della fede offrono la possibilità di comprendere la sessualità in tutta la sua ampiezza, “senza restringerla alla dimensione della trasmissione della vita, per quanto importante possa essere”. Inoltre si doveva discutere se anche gli orientamenti diversi da quello eterosessuale avessero un posto nella creazione di Dio fin dall’inizio, o se fossero interpretati in modo problematico come “disordinati” come conseguenza del peccato originale. (…) Si pone anche la questione come la chiesa intende i suoi sacramenti e sacramentali: “I sacramentali sono da interpretare principalmente come imitazioni dei sacramenti, o non rendono anch’essi, in virtù della preghiera di intercessione della chiesa, la grazia di Dio visibile a modo loro?”

Entrando nel dibattito aperto sulle pagine dell’Osservatore Romano, in dialogo con un contributo del prof Maurizio Cozzoli è intervenuto il prof Cosimo Scordato, docente di teologia sacramentaria a Palermo offrendo puntuali annotazioni scrivendo: “Il prof. Mauro Cozzoli nell’articolo pubblicato sull’OR analizza due serie di osservazioni critiche, che sono state rivolte al Responsum della Congregazione; la prima serie è relativa al tema dell’amore omosessuale, la seconda serie è relativa al tema della misericordia e della verità. Nel passaggio dall’una all’altra l’autore è disposto a recepire quanto segue. Egli riconosce a una coppia omosessuale la dimensione dell’amore; ma essa, caratterizzata dalla finalità puramente unitiva e dalla esclusione (almeno dalla impossibilità di inclusione) di quella generativa, risulta compromessa perché l’esercizio della sessualità è consentito solo all’interno della relazione matrimoniale. Leggiamo testualmente: “Non si può negare l’amore che può esserci nelle unioni omosessuali. Ma è un amore amicale non coniugale, è un amore – è anche il caso di aggiungere – unitivo non procreativo. È per questo che non si può benedire tutto: occorre che ciò che viene benedetto sia ordinato a ricevere e ad esprimere il bene che gli viene detto, la grazia che gli viene elargita”. Non ce ne voglia il professore Cozzoli se facciamo un osservazione ad hominem; infatti la Chiesa prevede la benedizione delle nozze tra due persone anziane, anche se ormai impossibilitate a procreare; in questo caso, l’unico amore possibile è quello unitivo e non quello procreativo; eppure, detto matrimonio viene considerato valido e quindi viene benedetto, anche se la finalità generativa non è possibile e neppure nel caso nel quale non fosse in alcun modo desiderata. Siamo dinanzi al caso, escluso dal prof. Cozzoli ma previsto dalla stessa tradizione ecclesiale, di un amore unitivo manon procreativo benedetto da un sacramento. Inoltre, venendo alle condizioni normali, sappiamo che tante volte la coppia, pur ponendo un atto coniugale potenzialmente generativo, si può augurare che non lo sia, limitandosi a gioire del suo aspetto unitivo. E se un partner (o tutti e due) dovesse scoprire di essere sterile l’aspetto unitivo perde il suo valore perché incapace di generatività? O, più radicalmente, l’unione di amore della coppia prende valore dal fatto che l’atto è generativo o, al contrario, è bello che l’atto sia generativo se, e solo se, la coppia è profondamente unita? A questo punto risulta chiaro che l’aspetto unitivo dell’atto coniugale è già un bene di per sé, che si può arricchire del suo valore generativo, ma non in maniera vincolante o necessitante. A questo punto, facciamo notare che non a caso abbiamo usato l’espressione “atto coniugale”; essa vuole sottolineare l’aspetto del coniugium, ovvero l’aspetto unitivo, che arricchisce la vita delle due persone, l’una dell’altra; cosa che, come prevedeva l’articolo in esame, può interessare anche la coppia omosessuale. A questo punto perché non bene-dire il bene che c’è, ossia l’unità della coppia realizzata dall’atto che la congiunge, lasciando aperta la possibilità che la generatività possa prendere anche altre strade? Si può essere generativi in tanti modi e, nell’ambito del volontariato, c’è l’imbarazzo della scelta; e ciò nell’attesa che si prenda in seria considerazione la possibilità dell’adozione di bambini, orfani o abbandonati, che hanno un bisogno estremo di persone che, anche se non li hanno generati fisicamente, sono interessati ad accoglierli e pronti a prendersene cura con tutto il cuore e tutto se stessi” (in “Come se non” http://www.cittadellaeditrice.com/munera/ – 2 maggio 2021).

Nell’incontro diretto, a tu per tu, con Cornelio, Pietro si apre a scorgere nuove dimensioni della sua fede stessa, del suo rapporto con Gesù. Passa dal considerare l’altro secondo i criteri di una teoria a scorgere che l’incontro vivente scombina le costruzioni teoriche ed anche i suoi schemi religiosi di appartenenza e di chiarezza.

Lo sguardo di Pietro passa dall’essere uno sguardo di sospetto e condanna dell’altro ad una attitudine di condivisione e benedizione. L’esperienza esistenziale con la sua ricchezza che va oltre ogni teoria e dottrina conduce ad accogliere dimensioni del medesimo vangelo inesplorate o ancora incomprese: l’ospitalità ricevuta e donata, la benedizione accolta e trasmessa divengono luoghi di approfondimento della fede stessa.

Alessandro Cortesi op

At 10,25-27.34-35.44-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17 ‘Alzati anch’io sono un uomo’. In queste parole Pietro racchiude una scoperta e l’apertura di un nuovo orizzonte di vita. Ha accolto l’ispirazione dello Spirito Santo ad uscire dalla sua casa per entrare in quella del pagano Cornelio per lui lontano e straniero. Vive innanzitutto un ascolto alle spinte […]

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