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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

IV domenica di Quaresima – anno A – 2020

IMG_71521Sam 16,1-13; Efes 5,8-14; Gv 9,1-41

Nel IV vangelo il dramma del buio e della cecità si contrappone alla luce, presentata come simbolo della rivelazione: ‘la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta’ (Gv 1,5.9). La vicenda del cieco nato è uno dei sette ‘segni’ presentati nel vangelo. Non sono chiamati ‘miracoli’ ma ‘segni’. Tutti sono infatti orientati alla morte e risurrezione di Gesù, unico e grande segno in cui si rivela il volto di Dio amore che si consegna.

Il racconto è nel contesto della festa delle capanne, di sabato, al principio dell’autunno. La festa ricorda il cammino di Israele nel deserto. Il sommo sacerdote si recava alla piscina di Siloe per attingere acqua e versarla sull’altare degli olocausti. Così il profeta Isaia parlava delle acqua di Siloe: ‘Questo popolo ha rigettato le acque di Siloe che scorrono tranquille… Per questo il Signore gonfierà contro di loro le acque dell’Eufrate, impetuose e abbondanti’ (Is 8,5-7) Le acque dell’Eufrate qui indicano la potenza dell’impero assiro con cui il regno di Giuda aveva cercato alleanza e sicurezza mentre le acque di Siloe divengono simbolo di fede nel Signore. Le mura di Gerusalemme nella festa delle capanne venivano illuminate con molti fuochi e si creava uno spettacolo suggestivo con le torce che squarciavano il buio della notte. Una festa con i simboli dell’acqua e della luce.

La narrazione descrive uno scontro di Gesù con ‘i Giudei’: così nel IV vangelo sono indicati gli uomini religiosi che sono preoccupati del proprio potere, chiusi in una religiosità di esclusione e discriminazione. Gesù entra in polemica con l’idea che la malattia sia una punizione di Dio o una retribuzione per un peccato. Rigetta anche una concezione fatalistica di fronte al male. I suoi gesti di bene manifestano il suo opporsi contro ogni tipo di male. La cecità del cieco non è segno di un peccato, ma diviene occasione del manifestarsi dell’operare di Dio che vuole la vita.

La guarigione del cieco è presentata come azione laboriosa, compiuta nel giorno di sabato. E’ un gesto di rottura nei confronti di una religiosità che pone l’osservanza religiosa del tempo sacro al di sopra della cura per le persone.

Il percorso del cieco non è solo lento recupero della vista ma diviene segno di una progressiva apertura al credere come nuovo modo di vedere – e si fa riferimento all’acqua e alla luce che nella tradizione cristiana sono i segni del battesimo (nella prima chiesa il battesimo stesso era indicato come illuminazione) -.

Il cieco diviene un esempio, una figura tipo che si apre ad una novità accogliendo il dono di vita di Gesù: i suoi occhi sono aperti. Al centro è l’incontro con Gesù. Interrogato dai ‘giudei’ che non sanno vedere, il cieco risponde che i suoi occhi ‘sono stati aperti’ e riconosce Gesù innanzitutto come uomo e inviato di Dio. Nonostante le minacce dice: ‘proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi’. Per questo viene cacciato fuori. E Gesù si fa accanto a chi è stato messo ai margini. Il dialogo con lui si accentra sul credere. Il cieco che ora vede indica Gesù come Kyrios, signore, salvatore della sua vita.

Il suo itinerario del cieco è un lento percorso di riconoscimento e di incontro: al principio sta un dono, un passare dal buio alla luce nell’incontro con Gesù. C’è chi ci vede eppure è cieco come i religiosi chiusi in una religiosità dell’esclusione e della mancanza di umanità. E c’è chi si apre a vedere perché scorge in Gesù il rivelatore di un Dio che ha cura di ogni persona e desidera la vita.

Alessandro Cortesi op

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La responsabilità del ‘non vedere’

E’ stato pubblicato nei giorni scorsi un documento che dovrebbe essere conosciuto e diffuso proprio in questo tempo in cui si scopre che siamo tutti legati in un’unica vicenda che ci rende solidali nel bene e nel male. Il suo titolo è La fabbrica dela tortura. Rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati in Libia ed è stato redatto dall’organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani (MEDU).

E’ un testo che raccoglie le testimonianze dal 2014 ad oggi di migranti che sono passati attraverso le carceri e i luoghi di detenzione, veri e propri centri di tortura e di annichilimento degli esseri umani in Libia. Le sue pagine riecheggiano un immenso grido di dolore che raccoglie tante voci di chi ce l’ha fatta ad uscire vivo da quel girone d’inferno che dista poche ore di volo dall’Italia.

E’ un testo che evoca quel grido ‘Nunca mas’ che divenne il titolo di un report sui desaparecidos dell’Argentina degli anni ’70 e ’80 che documentava le violazioni di diritti umani, torture e assassini compiuti in modo sistematico, attuati con ritmo quotidiano. E fa risuonare anche il ‘mai più’ seguito alla presa di consapevolezza dei crimini orribili dei lager nazisti e della Shoah. E’ un grido che denuncia anche le responsabilità di società e di vertici politici sordi a tale condizione di disumanità e ingiustizia. Come riporta l’introduzione del documento:

“Questo rapporto si basa essenzialmente sulle testimonianze dirette dei migranti che sono passati dalla Libia nel corso degli ultimi sei anni e che gli operatori di Medici per i Diritti Umani (MEDU) hanno raccolto in tempi e in luoghi diversi. L’attendibilità delle informazioni fornite dai testimoni è stata verificata in base ai riscontri oggettivi disponibili come ad esempio l’effettiva esistenza dei centri di detenzione nei luoghi e nei tempi riferiti, l’esistenza di testimonianze, informazioni, rapporti di soggetti terzi a conferma/disconferma di quanto affermato”.

Le testimonianze che sono raccolte sono drammatiche e suscitano orrore e vergogna talvolta proprio nella loro brevità e nell’impotenza delle parole a specificare le umiliazioni e sofferenze subite dalle vittime. Sono denuncia di una malvagità lasciata libera di infierire sugli inermi ed eco di quel grido di dolore e di attesa di giustizia che sale da chi oggi è dimenticato ed escluso. sono anche conferma di quello che tanti coraggiosi giornalisti e attivisti di organizzazioni non governative e umanitarie hanno testimoniato e documentato in questi anni.

“Tutti i migranti e rifugiati detenuti hanno subito continue umiliazioni e in molti casi oltraggi religiosi e altre forme di trattamenti degradanti. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato. Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a torturare altri migranti per evitare di essere uccisi. Numerosissime le testimonianze di migranti costretti ai lavori forzati o a condizioni di schiavitù per mesi o anni. Questi dati, probabilmente addirittura sottostimati, rappresentano, a nostro avviso, un quadro fedele delle violenze sistematiche a cui vengono sottoposti pressoché tutti i migranti e rifugiati che giungono dalla Libia nel nostro paese”.

In un tempo in cui le vicende dell’evolversi dell’epidemia del coronavirus rendono a concentrare ogni attenzione, può essere importante lascare spazio all’ascolto di queste voci che implorano. Sono le voci di coloro che sono dimenticati ed emarginati. Siamo chiamati a riflettere, ad ascoltarle proprio in questo tempo in cui scopriamo la preziosità della compassione, del riconoscimento e della accoglienza quando si è più vulnerabili. E’ un grido rivolto ad aprire gli occhi su ciò che per tanti anni è stato nascosto, su ciò che viene perpetrato anche in virtù di appoggi al sistema di detenzione illegale che giungono dall’Italia e degli accordi con la Libia (ved. Memorandum di accordi con la Libia di cui si chiede la sosepnsione e revisione integrale).

“Le proposte di emendamento del Memorandum presentate dal governo italiano al governo libico il 9 febbraio (2020 ndr), del resto, non contengono modifiche sostanziali e appaiono destinate a non incidere in modo sostanziale sulla sicurezza e sulla salvaguardia dei diritti fondamentali dei migranti. Resta infatti intatto l’obiettivo di sbarrare il flusso di migranti dall’Africa sub-sahariana, chiudendo il confine a sud, e bloccando i barconi in partenza dalle coste libiche, in cambio di supporto organizzativo, tecnologico ed economico. Non cambia inoltre il ruolo della Guardia Costiera libica, che, continua ad essere supportata, per le attività di ricerca e soccorso in mare, con risorse economiche, corsi di formazione ed equipaggiamento”.

“Anche il linguaggio utilizzato nel Memorandum contrasta in modo stridente con la realtà dei fatti; in alcuni passaggi, ad esempio, i terribili centri di detenzione libici vengono ancora ostinatamente definiti “centri di accoglienza”. Tutto ciò aggrava ulteriormente la responsabilità del governo italiano poiché, mentre in occasione della prima firma dell’accordo, si poteva ancora dubitare circa i gravi rischi per i diritti umani che esso avrebbe comportato, oggi, alla luce di tre anni di attuazione, il suo rinnovo senza radicali modifiche rappresenta nei fatti un atto di connivenza con le atrocità che senza sosta continuano a perpetrarsi”.

Da tutto ciò si è distolto lo sguardo nella scelta nefasta dell’indifferenza e della cecità  di fronte a questo sistema di sfruttamento e di attuazione sistematica di crimini contro l’umanità.

E così anche nella situazione che stiamo vivendo nelle nostre città accanto a noi non si dovrebbe dimenticare e ‘non vedere’ chi è più debole.

Alessandro Cortesi op

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