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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

IV domenica di Pasqua – anno C – 2022

At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30

Ad Antiochia di Pisidia Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. ». La scelta di Paolo e Barnaba è in continuità con la fede ebraica ed approfondimento di essa: è ispirata dal coraggio che la Parola di Dio suscita e sorge da tale fedeltà. L’annuncio della Parola si apre così al mondo dei pagani. E’ un decisivo punto di svolta. Ad Antiochia tale passaggio trova il suo fondamento nell’annuncio profetico: Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra” (Is 49,6). Il servo di Jahwè è presenza di luce che porta la salvezza oltre i limiti dell’appartenenza ad un popolo o ad una religione. Le parole di Paolo e Barnaba sono dono di un messaggio di salvezza ed insieme critica a tutte le religioni che rinchiudono e non accolgono il disegno di Dio che va oltre le costruzioni e strutture religiose umane. Indicano così l’orizzonte della fede nella promessa di Dio. La scelta di universalità affonda le sue radici nelle benedizioni di Dio per Israele e per tutte le nazioni. Paolo e Barnaba ad Antiochia sperimentano che la parola di Dio è fonte di gioia e di forza. Le loro scelte sono condotte con il coraggio, la franchezza che deriva dalla fede. Pur tra le difficoltà “i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo”. L’apertura dell’annuncio ai pagani è opera dello Spirito che conduce a vivere la gioia e la serenità profonda anche nel momento della prova.

L’immagine del gregge e del pastore al cuore della pagina del vangelo offre una declinazione di questo messaggio di apertura. Gesù parla di coloro a cui è inviato con l’immagine delle pecore. C’è un rapporto di ascolto e di intimità unico: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Ma l’orizzonte a cui Gesù guarda è sempre più vasto e va oltre ogni chiusura. Queste parole vanno intatti accostate alla parte iniziale della similitudine del pastore: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Gv 10,16-17)

La cura del pastore sta nel poter dare loro la vita eterna: nel linguaggio giovanneo ‘vita eterna’ non è qualcosa di fumoso ed estraneo all’esistenza ma indica la risposta alla sete più profonda di vita che ogni persona porta nel cuore. Vita eterna significa essere accolti e amati, sperimentare la comunicazione e la pace nell’incontro con Dio – fonte della vita -. Nell’incontro con Gesù questo dono fa sorgere possibilità di rapporti nuovi con gli altri. Per questo la vita eterna inizia sin dal presente di color che accolgono la parola di Gesù, ed accolgono il dono dell’incontro con lui che si attua nel conoscerlo.

La pagina dell’Apocalisse testo profetico di annuncio della fede in un tempo di prova e persecuzione presenta la visione di una moltitudine immensa. Il dono di salvezza abbraccia ogni popolo. “Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”. E’ questa la moltitudine di coloro che hanno vissuto la prova, provengono da ogni dove e hanno tra le mani i segni della vittoria sul male. Sono volti di una moltitudine che ha sofferto ed è stata vittima della violenza. Segue una reinterpretazione del salmo 23, rivolto a Dio come pastore d’Israele. La visione termina con una parola di speranza e di consolazione: “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

La presenza di Cristo risorto, indicato nella figura dell’agnello ferito e in piedi, è al centro di una comunione che si estende a comprendere tutta l’umanità condotta alle sorgenti della vita, quando Dio stesso asciugherà ogni larcima. La sua presenza apre speranza di vita per tutti.

Alessandro Cortesi op

Ascolto dello Spirito

“La chiesa sinodale è chiesa dell’ascolto”. Si tratta di prestare un ascolto aperto a quello che lo Spirito Santo sta suggerendo alle chiese in questo momento.

In un orizzonte di ascolto la sinodalità non è frutto di una invenzione ma accoglienza di un dono e della dimensione della chiesa come popolo di Dio che proprio lo Spirito fa riscoprire. Ed è popolo di Dio in cammino verso il regno. “La forma e lo stile snodale della chiesa scaturiscono da questo ascolto dello Spirito che passa attraverso l’ascolto reciproco di tutti” (M.Grech, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale 9 ottobre 2021). Queste indicazioni sono state presentate da Mario Grech, segretario generale del sinodo, quando ha sottolineato che la fase cosiddetta preparatoria è parte integrante del processo sinodale e non è solo una parte decorativa e accessoria.

Ascoltare lo Spirito: questa è stata l’attitudine dei primi discepoli, capaci di accogliere aperture inedite a fronte di un ascolto dello Spirito nella vicenda storica e umana. 

Dopo secoli di cristianesimo la fatica da intraprendere nuovamente consiste nel lasciare spazio a tale ascolto. Ben altre direzioni hanno segnato i percorsi delle chiese. Ha per lo più dominato l’indirizzo di inseguire le logiche del potere politico e culturale: la sua affermazione con un ruolo di potere ha condotto a privilegiare gli aspetti di stabilizzazione, di strutturarsi quale istituzione guida della società, tralasciando la fatica di un ascolto che sempre pone in movimento, apre all’inquietudine, fa accogliere chi è ai margini, spinge a nuovi passaggi. Si è perduta la consapevolezza e l’esperienza della provvisorietà insieme alla disponbilità a rispondere ad un’azione che viene da Dio stesso:

«Solo Dio può generare qualcuno che possa partecipare alla sua vita. Allora la domanda che dobbiamo farci non è: come farà la Chiesa a suscitare nuovi cristiani? Quali strategie pastorali dovrà essa adottare per diventare più efficace? […] Dobbiamo invece porci su un altro piano: cosa accade fra Dio egli uomini e le donne che vivono all’alba di questo secolo? Quali percorsi prende Dio per incontrarsi con essi e farli nascere alla sua vita? E quindi cosa chiede alla Chiesa di cambiare, trasformare nella sua maniera tradizionale di credere e vivere, per assecondare quell’incontro?» (Henri Derroitte, Iniziazione e rinnovamento catechetico. Criteri per una rifondazione della catechesi parrocchiale, in ID. (ed.), Catechesi e iniziazione cristiana, Elledici, Torino 2006, 53).

Questo passaggio è particolarmente difficile oggi perché siamo eredi di una storia in cui la chiesa è stata portatrice di una situazione del cristianesimo divenuto religione culturale: la condizione di cristianità ha segnato molti secoli in cui  il cristianesimo costituiva il quadro di riferimento universale e la chiesa si identificava con l’istituzione alla guida di un mondo culturale religioso e cristiano.

Una religione culturale si connota come unica opzione culturale per una società e non può ammettere la presenza di altre religioni o di altre convinzioni: da qui gli atteggiamenti di discriminazione e persecuzione delle minoranze e delle altre tradizioni religiose.

Tale orientamento ha trovato un primo passaggio di crisi nella rottura della cristianità dopo la riforma protestante: si è manifestata una divisione che poneva diversi riferimenti secondo il principio del cuius regio eius et religio.

Ma soprattutto dopo la rivoluzione francese con la rivendicazione della libertà e la progressiva secolarizzazione della cultura emerge un nuovo tipo di società in cui il cristianesimo non costituisce più la religione culturale ma si delinea un modo di vivere in cui convivono diversi orientamenti religiosi e non, con la presenza di convinzioni non religiosamente ispirate. In Europa particolarmente. Noi siamo posti nel tempo di questa transizione che attraversa i secoli nella storia dell’occidente ed già era stato intravisto nella riflessione dei padri al Concilio Vaticano II quale passaggio storico decisivo da una cultura religiosa ad una cultura secolarizzata.    

Come osserva Joseph De Kesel cardinale di Bruxelles nel suo libro Foi et religion dans une société moderne (Salvator, Paris 2021,49): “la cultura moderna offre un quadro che ci consente di vivere insieme nel rispetto della libertà di ciascuno. Se la libertà appartiene ai diritti fondamentali di ogni essere umano e di ogni cittadino, questo diritto vale anche per il mio prossimo e concittadino che è differente da me. In una società moderna e democratica, i poteri pubblici garantiscono questa libertà ad ogni cittadino e ad ogni minoranza. Tutti devono rispettare queste regole. Non sono i precetti religiosi a garantire la vita nella società”.

Benché questa situazione di secolarizzazione non possa divenire una sorta di religione alternativa – che sostituisce e riempie il vuoto del venir meno delle religioni – tuttavia è un quadro culturale nuovo e diverso rispetto a secoli passati. E’ bene infatti a tal proposito distinguere secolarizzazione da secolarismo. La fede cristiana non è più l’opzione della cultura stessa e si pone accento sull’importanza della libertà che è fondamentale anche per l’atto stesso della fede. La condizione di secolarizzazione diviene così occasione per vivere pienamente questa situazione di libertà del credere di uscire dalla condizione in cui la fede veniva identificata con il riferimento culturale unico di una società.

La domanda che si pone quale sfida rilevante oggi è come imparare ad essere chiesa in questa situazione che implica un cambiamento profondo di mentalità ed insieme una riforma che investa i modi di vivere e trasmettere la fede ed anche le strutture di chiesa.

Alessandro Cortesi op

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