la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

XVI domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Gen 18,1-10; Col 1,24-28; Lc 10,38-42

Betania, villaggio vicino Gerusalemme, luogo di passaggio. Lì Gesù trovava accoglienza presso la casa di amici: Lazzaro, Marta, Maria. Betania è luogo di amicizia vissuta, di sosta e di riposo: è casa laddove si respira aria di accoglienza delicata e benvolere. Gesù ha sperimentato nella sua vita il dono dell’amicizia, di quell’affetto umano che riempie la vita e la apre. A Betania assaporava l’ospitalità amica. Subito dopo la parabola del samaritano Luca tratteggia un momento di incontro a Betania di Gesù nel suo andare. Quasi si potrebbe leggere la domanda  del dottore della legge ‘maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?’, quale filo unico e conduttore della parabola del samaritano e della scena di Betania.

Nella tradizione è stato contrapposto l’atteggiamento di Marta tutta presa dai molti servizi e quello di Maria, seduta ai piedi di Gesù, che ascoltava la sua parola. La scelta migliore sarebbe quella di Maria in contrasto con l’agitarsi di Marta. Da qui le riflessioni sulla superiorità della contemplazione e della preghiera sull’attività e sul lavoro stesso.

Ma si può cogliere forse un messaggio di questa scena nel legame con la parabola del samaritano: Gesù ha appena detto che lo straniero e l’eretico che si era fermato era colui che si era scoperto prossimo dell’uomo ferito sulla strada e aveva così posto in atto ciò che è essenziale per avere la vita. Gli altri due, uomini religiosi, dediti al culto e alla preghiera non si erano fermati ed erano passati oltre e Gesù vede in loro il tradimento della fede in Dio che chiede di servire il fratello per incontrarlo. Cosa vale veramente? il servizio. E nella casa di Betania proprio Marta è delineata come ‘presa dai tanti servizi’: è una figura bella e positiva che esprime in modo diverso la medesima attitudine del samaritano, il prendersi cura. Ed accanto a lei Maria che ascoltava la parola di Gesù. Anche Maria si prende cura nell’accoglienza dell’ascolto. Sono in fondo due volti ma ne compongono uno solo. Non vi è contrapposizione di ascolto e azione: la scena di Betania richiama ad una ospitalità che si delinea come scoperta di essere prossimi, e si fa ascolto dell’altro. L’ascolto rimane sterile se non porta frutto nella vita e alla radice di un agire di servizio la radice di fondo è proprio l’ascolto. In questo senso è la parte migliore. Solo ne dare spazio all’altro si genera una relazione significativa. E certamente il servire deve mantenersi nell’apertura al riconoscimento dell’altro per non ridursi ad una azione ripiegata su di sé senza l’altro. Il centro dell’annuncio di Gesù è invito a ‘scoprirsi’ e ‘farsi’ prossimo: nell’incontro di Betania si sottolinea che il servizio non deve esaurirsi in se stesso, non deve impedire l’ascolto, degli altri e di Dio. Lo stare seduti ai piedi di Gesù è il gesto proprio di chi non dà troppa importanza nemmeno al nostro agire. E’ in fondo povertà e distacco. Stare rivolti verso l’altro, verso Gesù, è chiamata per tutte le discepole e i discepoli.

Alessandro Cortesi op

Cura

«C’è un legame tra la sfida ecologica e la prospettiva della cura, da sempre uno dei temi portanti del pensiero delle donne. Ed è particolarmente urgente in una fase nella quale prevale a livello globale un revival di violenza sull’inerme – sia esso la natura, l’ambiente, le donne o i migranti. Tutto ciò richiede una capacità di resilienza che le donne hanno sviluppato in secoli di marginalizzazione. Attingere a questa capacità diventa oggi una risorsa preziosa per proporre nuove visioni del mondo: tese alla difesa di ciò che è fragile e vulnerabile, alla solidarietà con chi non ha voce, alla contaminazione con l’altro da sé»

Così ricordava Elena Pulcini, filosofa da poco scomparsa contagiata dal Covid, nel suo intervento dal titolo “I molteplici volti della cura” tenuto nel gennaio 2021, nel periodo della pandemia, sviluppando temi cari alla sua ricerca e al suo impegno.

La cura è da lei intesa non nel senso assistenzialistico, o come attività da relegare ad alcuni – alle donne in particolare nella vita familiare – ma quale attitudine che risponde alla grande sfida di nuovi modi di relazione con gli altri e con la natura. Cura di sé stessi, degli altri, del cosmo, implica pensare in modo nuovo le relazioni  tutti i livelli dell’esistere e a concepire un’esistenza al di fuori del paradigma dell’antropocentrismo che ha segnato la storia e gli sviluppi della modernità.

Nella sua riflessione Elena Pulcni individua due grandi tratti che segnano la modernità: l’orizzonte dell’individualismo senza imiti, espressione dell’ideale del soggetto che si pone come sovrano di fronte alle cose e vive una attitudine di pretesa e di hybris, considerandosi padrone e detentore di un dominio senza limiti. E d’altra parte le forme del comunitarismo chiuso, della comunità endogamica, dell’egoismo di un ‘noi’ che si delimita e si pone in stato di assedio di fronte agli altri che costituiscono un pericolo e sono visti come nemici e da escludere: espressione di disagio da un lato e di difesa nei confronti dell’erosione dei rapporti sociali esito dei processi della globalizzazione. La sua lettura giunge a cogliere proprio nella crisi ecologica – e ad essa connessa la crisi sociale – i motivi per pensare in modo diverso la vita e le relazioni. Accogliere la vulnerabilità, avvertire la paura di fronte ai rischi che questo tempo pone può generare un nuovo tipo di etica non fondato sul dovere ma sulle passioni che muovono a sentirsi in relazione. Il prendersi cura dell’altro e della natura diviene oggi esigenza di una responsabilità da coltivare proprio lasciando spazio a quel coinvolgimento che sgorga non tanto dal dovere ma dal lasciare spazio alle passioni positive, nel rispondere delle proprie azioni e scelte, ma anche nella linea del rispondere  agli altri e alle generazioni future.

“Possiamo imparare dalla perdita, dall’esperienza della vulnerabilità che tutti ci accomuna, per recuperare valori perduti, che abbiamo sacrificato alla nostra hybris prometeica e al desiderio di varcare i confini dell’umano: valori come la dipendenza, la fragilità, la responsabilità. Una libertà senza la consapevolezza della vulnerabilità e senza assunzione di responsabilità è quella ci fa violare l’equilibrio naturale esponendoci al vaso di Pandora di mali che sempre più ci affliggono senza che sappiamo né vogliamo riconoscerli: come l’ormai tristemente familiare spillover, quel salto di specie che abbiamo provocato radendo al suolo foreste e polmoni verdi della terra, finendo per diventare noi stessi vittime di un virus libero di attraversare ogni frontiera e così potente da piegare non solo i nostri corpi, ma la nostra stessa forma di vita. Insomma, in questi tempi bui, come li chiamerebbe Hannah Arendt, abbiamo paradossalmente una chance: quella di mettere in atto un’inversione di rotta; anche perché in realtà lo stiamo già facendo, sebbene stentiamo a diventarne consapevoli. Basti riflettere su alcuni veri e propri rovesciamenti a cui siamo attualmente costretti nella vita quotidiana, per coglierne tutta la potenzialità eversiva. Stiamo già praticando, nel perimetro protetto ed intimo delle nostre case, nuove forme di vita, germogli di un’altra possibile libertà: che non si indebolisce, ma al contrario si rafforza se sa integrare la consapevolezza della fragilità dei corpi, della vulnerabilità dell’umano, della solidarietà verso gli altri, della responsabilità verso la natura e il pianeta che ci ospita. È solo muniti di questa libertà che possiamo affrontare il futuro” (ibid.).

Alessandro Cortesi op

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