la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

V domenica tempo ordinario – anno A – 2020

IMG_6759Is 58,7-10; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

Il terzo Isaia è profeta del periodo del dopo esilio: riprende gli orientamenti di Isaia profeta del VIII secolo in una situazione nuova. Il suo è un libro di aperture e speranza. S’interroga sull’essenziale alla fede, dopo un’esperienza traumatica e dolorosa come l’esilio. In essa tuttavia vi è stata occasione per ripensare la fede, per considerare la profondità del disegno di salvezza di Dio. Chi lo accoglie è liberato da una religiosità che chiude in orizzonti nazionalistici e autocentrati.

Per questo Isaia contesta tutte le forme di religione che svuotano il rapporto con Dio riducendolo ad una religiosità magica. La pratica di forme individuali di sacrificio per ingraziarsi un Dio percepito come lontano è espressione di un modo di intendere Dio stesso come entità da placare e controllare con un culto separato dalla vita. Isaia critica così ‘digiuni e sacrifici’ e indica invece un ‘altro digiuno’ che ha a che fare con rapporti di giustizia: al centro della fede sta la sfida del rapporto con l’altro. La fede trova terreno di verifica in rapporti di giustizia e cura con gli altri. La ragione di questo sta nell’agire stesso di Dio: il Dio d’Israele scende a liberare, ascolta il grido dell’oppresso, si prende cura di marginali ed esclusi. Il povero, l’orfano, la vedova e lo straniero sono coloro che non hanno altre sicurezze umane e possono trovare sostegno solamente in Lui. A chi vive la fede è affidato il compito di continuare questa azione di Dio nella storia.

In tal modo si può ‘essere luce’: è un cammino in cui attuare azioni di liberazione: lo sciogliere le catene, rompere i vincoli di chi è oppresso. E dividere il proprio pane: la fame è schiavitù che conduce alla morte. A Dio sta a cuore che i suoi figli abbiano da mangiare e imparino a condividere.

“Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo”. Gesù chiama i suoi discepoli, dopo aver indicato loro la via delle beatitudini, ad essere segno di alleanza per tutti. Sono mandati ad essere segno generando fascino e attrazione. La comunicazione della fede, come incontro con Cristo, non è opera di indottrinamento ma di testimonianza e di contagio. Gesù chiede ai suoi discepoli di essere luce e sale, cioè segni, in cui nella vita traspaia una testimonianza.

Il sale svolge la sua funzione solamente in rapporto ad altro, come la luce. Matteo elabora l’immagine della luce in una parabola: la città sul monte e il candelabro.

Essere sale e luce implica ‘stare dentro’ alla realtà, divenire responsabili, non pretendendo visibilità e riconoscimenti, ma dando sapore senza pretendere nulla per se stessi. E’ seguire la via di Gesù che si fa solidale con la nostra storia entrandovi dentro e immergendosi. I discepoli sono invitati ad essere come sale che dà sapore in termini di servizio e di disinteresse: è seguire Gesù che attua la via delle beatitudini. Gesù non chiama ad estraniarsi dalla storia, ma a stare dentro le realtà ed essere lì segno di una luce ricevuta, di un sapore da condividere. Seguire Gesù rinvia ad assumere la responsabilità della testimonianza e a vivere in modo nuovo i rapporti con gli altri.

Alessandro Cortesi op

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Sale e luce

L’immagine del sale e della luce rinvia ad uno stile di essere chiesa su cui è in atto una riflessione tra coloro che si chiedono come essere fedeli oggi al vangelo in una situazione nuova e particolare, un cambimento d’epoca. Senza esaltare e idealizzare un passato con i suoi pregi e limiti ma che è una situazione diversa da quella del presente. E scorgendo proprio nella condizione attuale, con tutte le difficoltà, un’occasione propizia per ascoltare in modo nuovo la Parola di Dio, per accogliere il vangelo e per generare una vita.

“Bisogna quindi suscitare dei riferimenti, dei segni che facciano corpo con la coscienza di questi giovani come la struttura cromosomica fa corpo con l’embrione. Questa immagine ci dà l’esatta misura della questione, della sua straordinaria difficoltà (se la si considera dall’esterno), e della sua «estrema semplicità». La genesi di una coscienza cristiana non si produce in un attimo: una coscienza è nella durata umana; la fede cristiana poi ha una storia propria che si è inserita nella durata umana. Per questo duplice motivo, occorre tempo. A volte però delle cose al tempo stesso minime e molto importanti capitano sull’istante, all’improvviso. Ogni volta che ciò accade, significa che una parola, un fatto, qualcuno, una circostanza, un gruppo di persone, una comunità hanno fatto immagine. Una coscienza allora comprende qualcosa. Un riferimento o un segno cominciano a formarsi in essa, sia tramite essa stessa sia tramite ciò che ha fatto immagine. La parola detta, il fatto, la circostanza, la persona, il gruppo di persone, hanno allora assunto la posizione di genitori la cui unione è all’origine di un concepimento. Ciò si produce soltanto nella misura in cui l’autore della parola, del gesto, la persona, il gruppo di persone non sono in situazione di divorzio, in loro stessi o tra di loro” (C.Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB 2019, 359-368)

Christoph Theobald insiste sul fatto che l’annuncio del vangelo è motivo fondante della, vita dei discepoli e ragion d’essere della chiesa e dei cristiani. Ma tale annuncio non è una sorta di imposizione di qualcosa che piomba dall’esterno sulla vita delle persone. E’ piuttosto un cammino in cui imparare a riconoscere la sua presenza già all’opera all’interno dei cuori, nei percorsi esistenziali di uomini e donne nelle loro situazioni di vita. Ed è nel contempo anche condivisione di un dono di gioia e di bella notizia nella vita: è un incontro da accompagnare, sostenere.

Generare è verbo in riferimento alla vita: e come la vita è passare un dono che non è proprietà e non sta in mano all’uomo. Così sottolinea Theobald: “Se ci viene affidato di generare con altri la vita, e alla Chiesa di generare la fede, non dobbiamo mai dimenticare che la forza spirituale di questa vita, ma anche della fede, non è trasmissibile: pur suscitata da noi, la fede non può sorgere che liberamente dall’interno stesso dell’altro” (ibid.).

La stessa vita della chiesa è da leggere come un dono che si riceve prima di tutto. In tale senso un orizzonte di pastorale generativa si differenzia dalla pastorale di inquadramento, eredità dell’epoca post-tridentina e proprio di un modo di intendere la trasmissione della, fede in cui al centro stava il catechismo e la riproduzione di modelli di vita e di azione con forte accento sull’uniformità.

“La Chiesa è da ricevere qui e ora nella sua genesi sempre fragile, sorge all’improvviso, secondo gli eventi della vita che l’avranno chiamata al suo compito di suscitare la fede. In una breve formula molto precisa Philippe Bacq ha così riassunto la questione: «Si potrebbe qualificare la pastorale generativa nel modo seguente: essa è un modo di essere in relazione e un modo di agire ispirati dal vangelo che permettono a Dio di generare delle persone alla sua stessa vita»”.

Per questo nell’orizzonte della pastorale generativa (che non intende essere un metodo risolutore o una novità), al centro si pone la questione di uno stile di essere chiesa e l’attenzione alle relazioni nella vita. Da qui ne deriva un profilo di comunità dei discepoli e discepole di Gesù, non tanto preoccupata di visibilità, ma di essere segno del vangelo, disinteressata rispetto ad avere peso tra i poteri del mondo piuttosto tesa ad essere sale e luce appunto. Tesa a porsi accanto per dialogare con le persone, per accogliere i cammini di fede dell’altro, come traghettatori che fanno propria la ospitalità di Gesù.

Importanza fondamentale hanno quindi le relazioni, lo spazio dato all’incontro e all’ascolto delle inquietudini e domande, accogliendo come vi può essere una diversità di situazioni anche nell’ambito della fede. Ciò implica attuare una comunicazione da pari a pari, nella disponibilità ad un ascolto impegnativo e serio.

«Noi passeremo probabilmente da una Chiesa alla Rembrandt ad una Chiesa alla Monet; da una Chiesa dalle strutture forti, nette, chiaramente definite e ben visibili, a una Chiesa dai contorni tenui, costituita da piccole comunità sparse e collegate tra di loro da una moltitudine d’uomini e donne del Regno. In breve, una Chiesa alquanto simile alle comunità cristiane del primo secolo. A prima vista, ciascuna di esse potrà apparire isolata e dispersa nell’immenso impero, ma stabiliranno reciprocamente un legame di comunione forte e vivificante che esprimeranno al meglio quanto le prime lettere apostoliche si comunicavano tra di loro». (Ph. Bacq, La pastorale d’engendrement: qu’est-ce à dire?, in «Lumen Vitae» 58(2008) 3, pp. 299-318 p. 313.

E nelle relazioni pastorali ciò implica dare priorità alla Scrittura, da ascoltare insieme con altri desiderosi di interrogarsi, lasciando spazio e valorizzando la fede elementare.

“La comunicazione del Vangelo è una storia di amore, che fa incontrare l’altro e aiuta anche noi a trovare quello che abbiamo di più personale, la sicurezza della nostra vita, quel Signore Gesù che testimoniamo con la nostra fede e con le nostre scelte. Non aspettiamo che tutto cada dal cielo; non ci attacchiamo ad alcuni progetti o a sogni di successo coltivati dalla vanità; non prestiamo attenzione più all’organizzazione che alle persone, così che finiamo per entusiasmarci più per la “tabella di marcia” che per la marcia stessa. Liberi dall’ansia odierna di arrivare a risultati immediati sopportiamo il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce (cf. EG 82)” (Chiesa di Bologna, Programma pastorale 2019-2020, La sete di Dio).

Alessandro Cortesi op

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