la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

II domenica del tempo ordinario – anno C – 2022

Is 62,1-5; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-12

Il termine chiave del IV vangelo è ‘segno’: a Cana è presentato  il primo dei sette segni posti fino al momento della croce a Gerusalemme. Non di ‘miracoli’  si parla nel IV vangelo ma di segni. C’è qualcosa che sta oltre, da scorgere dentro e oltre l0’agire di Gesù, i suoi gesti e le sue parole. A Cana la gioia delle nozze, la bellezza di un incontro, la convivialità di una festa, il sapore del vino, l’attesa di fronte ad un intoppo… sono tutti segni. Ci sono gli sposi e la loro festa ma tutto diventa segno per indicare Gesù stesso che viene ad incontrare una umanità in attesa come colui che ama e si dona per i suoi amici.

Accanto a Gesù sta Maria che non viene mai chiamata per nome ma è presentata come ‘madre di Gesù’. A lei Gesù si rivolge con una espressione che sorprende: “Che ho da fare con te, donna”. Un senso di distanza e di ripulsa? oppure un ritrarsi cordiale di fronte ad una proposta che Gesù non intende accettare. Chiama Maria ‘donna’ e questo termine ritorna quando sotto la croce vi è la consegna a lei del discepolo amato: ‘Donna, ecco tuo figlio’. Anche ‘donna’ è una parola-segno che rinvia ad altro.

Non è ancora giunta l’‘ora’ dice Gesù. Il tema dell’ora è un altro filo che attraversa interamente il quarto vangelo con rinvii continui ad un’ora da venire (Gv 7,30; 8,20; 12,23.27). L’ora decisiva, quella della croce, è identificata con la glorificazione. Lì, in modo paradossale, la gloria di Dio si manifesta nel volto del crocifisso. Ora e gloria stanno insieme. Gesù nel suo cammino più volte dice che ancora non è giunta la sua ora, ma fino al momento dell’inizio dell’ultima cena che viene introdotta dalle parole: ‘sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine’ (13,1). L’ora di Gesù  diviene così il punto decisivo in cui convergono tutte le scelte della sua vita. I suoi gesti sono indicazioni dirette all’ora della croce quale ora dell’amore fino alla fine. Gesù a Cana si rifiuta di compiere un gesto sorprendente: non segue la logica dei miracoli. Il suo esserci a Cana, facendo sì che la festa possa continui e vi sia una gioia condivisa nell’incontro è segno di quanto sarà manifestato sulla croce.

Maria suggerisce: ‘fate quello che vi dirà’. Non è un rifiuto quello di Gesù ma invito ad entrare in un percorso nuovo guardando i segni. Sei giare piene di acqua divengono contenitori di un vino tanto buono da suscitare stupore: le giare che servianoper la purificazione, per i gesti dell’osservamza, divengono contenitori di un annuncio di gioia: il segno di Cana è segno del vino che porta gioia e rallegra il banchetto.

Ed il banchetto nella Bibbia è immagine evocativa della gioia e della novità portate dal messia (Is 25,6). L’incontro stesso di Dio con il suo popolo era presentato nell’immagine di uno sposalizio: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.” (Is 62,4-5). Il vino buono e prezioso alla festa rinvia quindi al tempo della venuta del messia “Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano. Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano.” (Os 14,5-8)

Il segno di Cana è orientato all’ora di Gesù indicato come il messia: arreca gioia nuova come vino nuovo nella storia. Maria ha i contorni della ‘donna’ che si affida e rinvia alla chiesa che vedrà affidati i discepoli di Gesù sotto la croce. Cana è quindi epifania: invita a ricercare la gioia che proviene dal dono di vita di Gesù che vince ogni situazione di buio e di morte.

Alessandro Cortesi op

Sulla terrazza di Abramo

Lunedì 17 gennaio è la 33 giornata dedicata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che apre la settimana, che si svolge subito dopo dal 18 al 25 gennaio di preghiera per l’unità dei cristiani.

Questa coincidenza non è casuale. Proprio la riflessione sull’importanza, anzi, sull’essenzialità che il cammino ecumenico riveste nella vita delle chiese cristiane, ha aperto alla considerazione che tale orizzonte di unità da costruire e ricercare in modo quotidiano e nella storia trova le sue radici nella comune eredità proveniente dalla vicenda del popolo d’Israele, dalla fede di Israele, dalla alleanza che il Dio dei padri, di Abramo Isacco e Giacobbe ha donato a questo popolo per essere nella storia testimone di un disegno di incontro, di vicinanza e di vita per tutti i popoli della terra. La dichiarazione Nostra Aetate del Vaticano II dice: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo” (NA 4). Proprio nello scrutare le dimensioni più profonde del mistero dell’esistenza della chiesa stessa si riscopre un rinvio all’altro che è alla radice della vita stessa dela chiesa, alla vicenda della discendenza di Abramo.

Celebrare la giornata del dialogo ebraico cristiano quest’anno reca con sé la provocazione a porsi – come ricordava Giorgio La Pira – sulla “terrazza di Abramo”. Da questo punto di vista, dall’orizzonte visuale di Abramo appare in tutta la sua ampiezza il disegno per una storia di incontro tra i popoli in rapporto alla presenza di Dio che visita e reca vita ed apre cammini per uscire da sicurezze e chiusure per aprirsi a nuovi cammini di incontro e di affidamento.

In questo senso può essere utile rileggere quest’oggi le parole poetiche con cui papa Francesco – nel suo viaggio in Irak il 6 marzo 2021 – ha ricordato proprio nella sua terra a Ur, la vicenda di Abramo e la chiamata a lui e a tutta la sua discendenza per un viaggio che attraversa la storia e che ci coinvolge.

“Questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra.

1. Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente, da solo non ce la può fare. E se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene. Ma i beni del mondo, che a tanti fanno scordare Dio e gli altri, non sono il motivo del nostro viaggio sulla Terra. Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare. Ecco la vera religiosità: adorare Dio e amare il prossimo. Nel mondo d’oggi, che spesso dimentica l’Altissimo o ne offre un’immagine distorta, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità. (…)

2. Camminiamo sulla terra. Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr Gen 15,7). Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli. Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. La pandemia ci ha fatto comprendere che «nessuno si salva da solo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 54). Eppure ritorna sempre la tentazione di prendere le distanze dagli altri. Ma «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (ibid., 36). Nelle tempeste che stiamo attraversando non ci salverà l’isolamento, non ci salveranno la corsa a rafforzare gli armamenti e ad erigere muri, che anzi ci renderanno sempre più distanti e arrabbiati. Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore.

La via che il Cielo indica al nostro cammino è un’altra, è la via della pace. Essa chiede, soprattutto nella tempesta, di remare insieme dalla stessa parte. È indegno che, mentre siamo tutti provati dalla crisi pandemica, e specialmente qui dove i conflitti hanno causato tanta miseria, qualcuno pensi avidamente ai propri affari. Non ci sarà pace senza condivisione e accoglienza, senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti, a cominciare dai più deboli. Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità. Chiediamolo nella preghiera per tutto il Medio Oriente, penso in particolare alla vicina, martoriata Siria.

Il patriarca Abramo, che oggi ci raduna in unità, fu profeta dell’Altissimo. Un’antica profezia dice che i popoli «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4). Questa profezia non si è realizzata, anzi spade e lance sono diventate missili e bombe. Da dove può cominciare allora il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo.

Cari amici, tutto ciò è possibile? Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) ci incoraggia. Nella storia abbiamo spesso inseguito mete troppo terrene e abbiamo camminato ognuno per conto proprio, ma con l’aiuto di Dio possiamo cambiare in meglio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa. (…)

Fu proprio attraverso l’ospitalità, tratto distintivo di queste terre, che Abramo ricevette la visita di Dio e il dono ormai insperato di un figlio (cfr Gen 18,1-10). Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra”.

I tema della giornata del dialogo ebraico cristiano di quest’anno è tratto da una parola del profeta Geremia  “Realizzerò la mia buona promessa” (Ger 29, 10). A commento di questo tema, nel messaggio di quest’anno per la 33ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei si legge:

“Israele si trova in mezzo ai pagani, ben distante dalla «terra della promessa», senza il tempio, eppure proprio in quella situazione drammatica ritrova il senso autentico della propria vocazione. Moltiplicarsi in quella terra, «mettere radici», favorire la pace e la prosperità di tutti, ripartire dalle cose fondamentali e semplici della vita (lavoro, relazioni, casa, famiglia…): ecco la chiamata che Dio affida ai suoi. Alle indicazioni su come vivere il tempo dell’esilio è legata una promessa per il futuro: chi sceglie di conservare tutto e resta attaccato a un passato glorioso, rischia di perdere anche se stesso, mentre chi è disponibile ad abbandonare ogni falsa sicurezza riavrà i suoi giorni. A nulla serve l’illusione di poter riprendere in fretta le consuetudini amate, di fare in modo che tutto “sia come prima”. La comunità in esilio aveva una duplice tentazione: perdere ogni speranza e costruire una comunità chiusa, distaccata e ripiegata su se stessa. Nella pandemia, come credenti, abbiamo avuto le stesse tentazioni: perdere la speranza e chiuderci in comunità sempre più autoreferenziali. Le stesse tentazioni le proviamo di fronte alla situazione di esculturazione del fenomeno religioso (o, per lo meno, del cristianesimo): rischiamo di perdere la speranza e di creare comunità sempre più chiuse in se stesse. Geremia ci invita a “stare positivamente dentro la realtà”, a mettere radici e a starci in modo “generativo”. Ecco la sfida per le religioni: uscire dal rischio della “depressione” e dell’autoreferenzialità difensiva per essere generative, capaci di lavorare per la costruzione della società e generare speranza. Come cristiani e come ebrei possiamo aiutarci ad affrontare tale sfida, perché la Promessa resta costante nella storia. Il Signore lavora per “rigenerare”, per “far ricominciare”. Egli è fedele e non abbandona il suo popolo. Ogni crisi è una buona occasione, un tempo favorevole da “non sprecare”: essere seminatori di speranza. Gli esiliati si danno da fare per il paese, lavorano, investono energie per la terra, persino pregano il Signore per il benessere di quel paese. Questo ci ricorda che “colui che viene da fuori”, l’ospite e lo straniero, è una risorsa per il paese; che lo straniero è una benedizione e che l’ospitalità, così centrale nelle tradizioni ebraica e cristiana, può essere lo “stile” con cui oggi i credenti stanno nella storia e animano la società. La lettera di Geremia è dunque un testo che, letto a due voci in questa giornata, può aiutarci a collocare la nostra esperienza di fede nell’odierna stagione di “cambiamento d’epoca”. I temi della “ricostruzione”, della speranza, del dialogo con le realtà che ci circondano, il confronto con l’altro (anche con lo “straniero”), possono fornire spunti importanti rispetto al modo di abitare la terra. Un’ottima occasione di confronto e di dialogo”.

Alessandro Cortesi op

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