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Mostra d’arte contemporanea – convento san Domenico – Pistoia

Locandina mostra Va' e predica 2017.png
Una mostra per ricordare una lunga storia: 800 anni dalla fondazione dell’Ordine dei predicatori. Volti di donne, uomini, comunità che hanno percorso le strade del mondo in epoche e regioni diverse.
L’invito ‘Va’ e predica’ sta all’origine di molteplici storie. Sedici artisti contemporanei, membri dell’Ordine domenicano, di diversa provenienza, dalla Nuova Zelanda al Sudafrica, dalla Nigeria alla Norvegia, dal Messico all’Egitto, con le loro opere artistiche ricordano figure di testimoni che hanno espresso nella loro vita alcuni aspetti della comune missione della predicazione. Sono profili di chi in epoche diverse ha dato forma concreta alla testimonianza del vangelo con creatività ed in rapporto ai differenti contesti.
I sedici pannelli rimarranno esposti nei locali del convento san Domenico a Pistoia da giugno a settembre 2017 nell’anno di Pistoia capitale italiana della cultura.
L’inaugurazione della mostra sarà
GIOVEDI’ 22 GIUGNO alle ore 18.00
ingresso da piazza san Domenico 1.
Il catalogo della mostra è stato curato dal Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’.

Committenze e opere d’arte in san Domenico di Pistoia

E’ appena stato pubblicato il volume Committenze e opere d’arte in san Domenico di Pistoia, ed. Nerbini 2017.

Un contributo di studi nell’anno di Pistoia capitale italiana della cultura – 2017

Qui di seguito l’indice:

Chi desidera può richiederne copia scrivendo a: info@domenicanipistoia.it

Cene ultime nell’arte (parte I)

Fractio panis – catacombe di Priscilla – Roma

La testimonianza dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli è giunta a noi in varie versioni: Paolo nella prima lettera ai Corinzi al cap. 11 offre la più antica testimonianza della cena che riporta le parole di Gesù sul pane e sul calice. Successivamente Marco Matteo e Luca nei loro vangeli fanno riferimento alla cena nella narrazione della passione di Gesù. Il IV vangelo, il vangelo ‘altro’, presenta una prospettiva propria diversa nel suo racconto della cena: in questo non compare il riferimento esplicito alle parole sul pane e sul calice – evocate nel discorso del cap. 6 sul pane di vita – ma è riferito il gesto compiuto da Gesù nei confronti dei suoi discepoli: la lavanda dei piedi .

Tutti e  quattro i vangeli canonici riportano durante la cena l’annuncio da parte di Gesù l’annuncio del tradimento di Giuda: “Allora cominciarono a rattristarsi e a dirgli uno dopo l’altro: ‘sono forse io?. E egli disse loro: ‘Uno dei dodici, colui che intinge con me nel piatto” (Mc 14,19-20)

Sono questi elementi che hanno ispirato lungo i secoli gli artisti che hanno cercato di tradurre in immagini l’ultima cena di Gesù con i suoi, quel momento di comunione profonda, di dono totale e di amore che ha incontrato il rifiuto e il tradimento.

L’ultima cena non fu raffigurata da principio. Nelle catacombe si ritrovano immagini di banchetto, come la fractio panis delle catacombe di san Callisto con sette persone sdraiate. A destra sta la raffigurazione del sacrificio di Isacco e a sinistra un’immagine di due figure in piedi accanto ad una tavola con due pesci. Una allusione all’agape, alla cena eucaristica delle prime comunità. Così pure nelle catacombe di Priscilla.

I cinque pesci e le sette ceste di pane, rinviano al segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, unito alla promessa di un pane che non viene meno: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv.6). Nei sarcofagi cristiani è presente la raffigurazione del miracolo dei pani come allusione cibo dell’Eucaristia per indicare la fede e la speranza in Cristo.

Una delle prime espressioni per indicare la cena eucaristica fu infatti l’espressione  fractio panis con rinvio al gesto dello “spezzare il pane” compiuto da Gesù nell’ultima cena.Nel II secolo sono testimonianze la Didachè, Ignazio di Antiochia, e Giustino che, nella sua Prima Apologia all’imperatore Antonino Pio, descrive lo svolgimento dell’eucaristia nelle riunioni cristiane della domenica. Troviamo una testimonianza delle assemblee nel giorno di domenica nel 112, quando Plinio il Giovane, scrivendo all’imperatore Traiano a proposito dei cristiani scrove: “Hanno abitudine di riunirsi in un giorno stabilito, prima del levar del sole e di cantare inni a Cristo come se si trattasse di un dio”(Ep.10,96)

fractio panis – catacombe di san Callisto

La raffigurazione dell’ultima cena nella storia dell’arte vede un primo esempio nei mosaici della basilica di sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, databili agli inizi del VI secolo

In questo mosaico in cui si mescolano elementi dell’arte romana, di stile bizantino e elementi propri delle popolazioni barbariche del Nordeuropa Cristo è raffigurato insieme con i dodici apostoli attorno ad una tavola a ferro di cavallo, un vero e proprio triclinium romano, dove si mangiava distesi. Gesù è raffigurato con la barba e vestito di una tunica e di pallio color porpora.Il nimbo sopra il suo capo è segnato da una croce è argenteo a distinguerlo in modo particolare. Sembra che qui l’artista abbia seguito la versione di Matteo nel momento in cui Gesù annuncia il tradimento di Giuda. Matteo infatti riporta a questo momento un dialogo drammatico tra Giuda e Gesù: “Giuda il traditore disse: ‘Rabbi, Sono forse io?’ Gli rispose ‘Tu l’hai detto’ (Mt 26,20-25). Gesù nel mosaico ravennate è rappresentato con la mano alzata quasi stia confermando la risposta di Giuda. I discepoli più vicini a Gesù hanno uno sguardo smarrito. Gli altri si volgono verso Giuda rappresentato all’estrema destra, il volto incorniciato da una barba, in una posizione tesa, con le spalle verso Gesù e pronto ad uscire. Si identificano alcune figure Pietro con barba e capelli bianchi, Andrea con la folta chioma. Sulla tavola si distinguono pani e pesci: i pesci sono due, molto grandi e visibili, al centro. E’ questo forse un rinvio al riquadro del mosaico in cui è raffigurata la moltiplicazione dei pani e dei pesci, con la presenza anche lì di Pietro e Andrea.

E’ da notare che nel mosaico della moltiplicazione i pani sono quattro, mentre l’episodio del vangelo parla di cinque pani e due pesci (Mc 6,38): dietro a questa raffigurazione c’è il rinvio a riconoscere in Gesù stesso il pane della vita, in rapporto appunto all’Eucaristia. Gesù nel mosaico appare raffigurato in una posizione particolare con le braccia a forma di croce, con il nimbo sul capo crociato e tempestato di gemme e con il pallio purpureo della gloria. Con questi elementi simbolici l’artista ha inteso indicare la sua identità di crocifisso risorto che è il pane della vita, per la vita del mondo. L’episodio nel complesso dei mosaici della basilica sta proprio di fronte al riquadro dell’ultima cena con un rinvio reciproco tra le due immagini. Sulla tavola i pani sono sette, numero simbolico indice di una pienezza: il significato racchiuso in questo numero è così l’universalità del dono della vita di Gesù: il pane donato, in cui egli sintetizza il senso di tutta la sua vita è dato ‘per le moltitudini’ – con un implicito rinvio alla figura del servo di Jahwè di Is 53 –  cioè dato per tutti.

Anche il pesce è un simbolo presente sin dagli affreschi delle catacombe: ‘ichtus’ (il termine greco per ‘pesce’) è infatti un nome che racchiude nelle sue iniziali il rinvia a ‘Gesù Cristo figlio di Dio salvatore’.

 

Un’immagine simile al mosaico di sant’Apollinare nuovo è quella riscontrabile in un codice conservato nel museo diocesano di Rossano in provincia di Cosenza. Si tratta del Codex purpureus

Questo manoscritto composto con probabilità in Siria e risalente al VI secolo e che contiene il testo dei vangeli di Matteo e di Marco, è composto di fogli di pergamena tinti di un colore purpureo, segno della dignità di questo antico codice, un codice da utilizzare in liturgie solenni di 188 fogli con 14 miniature. Tra queste una pagina riporta la miniatura dell’ultima cena e accanto ad essa la lavanda dei piedi

Sulla tavola c’è solo una grande coppa. Gesù e i dodici sono accomodati su un triclinio dorato con alcune figure di uccelli (forse rinvio a animali utilizzati per i sacrifici di espiazione). Tra gli apostoli si riconoscono le fisionomie di Pietro e di Andrea con la folta capigliatura bianca. Giuda non è ritratto in modo diverso. Si distingue dagli altri solamente per il gesto di intingere la mano nella coppa a forma di calice e per il suo sguardo che  non è rivolto a Gesù.

Una raffigurazione che riprende questi moduli di raffigurazione della cena risalenti al VI secolo, può essere ritrovata nella chiesa di sant’Angelo in Formis presso Capua, che risale ad un’epoca successiva (1080 circa), affresco espressione dell’influsso dei bizantini in un territorio che dipendeva dall’abbazia di Montecassino. Gesù con i dodici è attorno ad una tavola a mezzaluna ma ora la scena è inquadrata in un contesto di architettura  e con sullo sfondo alcuni edifici, una casa alta a sinistra (non visibile in quest’immagine) e un tempio sulla destra. Anche qui l’affresco fissa il momento in cui Giuda intinge la mano nel piatto e si fa riconoscere come il traditore. In questo affresco Pietro è sulla destra, con una gamba distesa, quasi pronto alla lavanda dei piedi.

Al centro della tavola è visibile una grande coppa che reca un agnello arrosto: un richiamo alla Pasqua ebraica (di cui però non c’è riferimento esplicito nei testi dei vangeli). Nel IV vangelo Gesù è indicato sin da subito nel suo incontro con il Battista come ‘l’agnello di Dio’ e il IV vangelo darà una particolare risonanza a questo motivo: Gesù secondo la cronologia del IV vangelo infatti muore sulla croce proprio mentre nel Tempio di Gerusalemme venivano sacrificati gli agnelli per la festa della Pasqua. Gesù viene accostato quindi all’agnello come compimento della Pasqua in riferimento a Es 12. Sulla tavola a mezzaluna dell’affresco di sant’Angelo in Formis oltre all’agnello sono visibili dodici pani e alcuni frammenti di pane, forse un riferimento al pane spezzato che è la vita stessa di Gesù.

Nel Duomo di Modena un secolo dopo Wiligelmo grande scultore della facciata e dei portali, i maestri campionesi provenienti dalla zona di Campione e dei laghi della Lombardia tra metà XII e fine del  XIV secolo, guidati da Anselmo scolpiscono alcune lastre collocate sul pontile

Queste lastre smontate nel XVI secolo, murate lungo le pareti poi risistemate agli inizi del sec. XX, vedono la raffigurazione dell’ultima cena inserita accanto al pulpito e alla lavanda dei piedi.

Gli apostoli raffigurati frontalmente nella lastra sono presentati a coppie in dialogo l’uno con l’altro. Forse un mezzo espressivo per rendere non ripetitiva la presentazione dei dodici, ma anche forse il rinvio a quel momento della cena in cui dopo le parole di Gesù “si guardarono gli uni gli altri non sapendo di chi parlasse” (Gv 13,22)

Originale in questo rilievo è il gesto di Gesù che offre il boccone a Giuda: si tratta di un gesto di amore che giunge fino alla fine. Il richiamo è forte alla liturgia eucaristica che si svolgeva lì sotto, come anche il calice tenuto da Gesù nell’altra mano.

E’ interessante in questa disposizione delle lastre del pontile di Modena il rapporto che viene instaurato tra la Parola di Dio contenuta nella Scrittura e la cena ultima. La raffigurazione è collocata infatti accanto al pulpito con le raffigurazioni degli evangelisti e inoltre nella scultura della lavanda dei piedi i discepoli tengono ciascuno in mano un libro. Il cuore del vangelo e il messaggio di fondo della Parola si comunica e si sintetizza nel gesto di Gesù che fa della sua vita un pane spezzato e donato.

L’ambone del duomo di Volterra, databile alla metà del XII secolo, opera di maestro Guglielmo di scuola pisana, presenta su di un lato un bassorilievo marmoreo dell’ultima cena in cui Gesù non è più al centro, ma al lato sinistro della tavola. Giovanni appoggia il suo capo sul petto di Gesù, Matteo è l’unico che non guarda verso Gesù ma si volge dall’altra parte. Giuda non è raffigurato accanto agli altri, ma al di sotto, in una posizione nuova, inginocchiato a ricevere il boccone da Gesù stesso.  Questo modulo inizia una collocazione di Giuda che vedrà sviluppi nell’arte dei secoli successivi.

Giuda porge la mano sinistra per ricevere il cibo – sulla tavola sono ben visibili pani e pesci – e Gesù con la mano destra allunga a Giuda un pane. Dietro al traditore  si scorge il volto di un mostro con i denti aguzzi e le orecchie appuntite, con il corpo alato e una coda che termina in un serpente: una figura demoniaca secondo l’immaginario medioevale. Giuda inizia ad essere raffigurato separato dagli altri, come è visibile anche in una delle 48 formelle bronzee del portale  della basilica di san Zeno a Verona, probabilmente risalente alla prima metà del secolo XII.

 

Per approfondire:

Pierre Prigent, L’arte dei primi cristiani. L’eredità culturale e la nuova fede, ed. Arkeios 1997

Luca Frigerio, Cene ultime. Dai mosaici di Ravenna al cenacolo di Leonardo, ed. Ancora 2011

 

Alessandro Cortesi op  (1. continua)

L’immagine del crocifisso

La raffigurazione del crocifisso e la croce di Giotto 

(in rapporto ad una visita a santa Maria Novella a Firenze) 

La prima immagine della croce e del crocifisso che possediamo è una caricatura che proviene da qualcuno che intendeva irridere i cristiani, un graffito del II secolo, ritrovato sul Palatino a Roma, raffigurante un crocifisso con la testa d’asino.

Eppure anche nella sua irrisione questa immagine ci parla di qualcosa di importante e di vero perché i cristiani sono essenzialmente comunità in cammino chiamata a vivere la pasqua: come gli ebrei nell’esodo uscendo dalla terra di schiavitù d’Egitto si trovarono a seguire gli asini selvatici, così i cristiani erano visti come coloro che stavano al seguito di un condannato al supplizio. Cercare il volto di Gesù è mettersi in cammino in un peregrinare talvolta senza esito.

A confronto con il Cristo rappresentato senza barba e con i tratti di un giovane, seduto su di una roccia ed appoggiato ad una croce in forma di scettro, nel mosaico di una lunetta del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (della prima metà del V sec.), il contrasto era stridente.

Ripercorrere questa ricerca è affascinante perché si scopre innanzitutto che ci vollero alcuni secoli prima che il volto di Gesù trovasse modo di esser raffigurato. Le più antiche immagini presentano Gesù come maestro, come colui che consegna la legge (nel famoso sarcofago di Giunio Basso), o guaritore (nell’immagine il sarcofago di Giunio Basso)

Ma bisogna attendere il V secolo per ritrovare la prima raffigurazione del Cristo sulla croce, in una tavoletta della porta lignea di s.Sabina a Roma, in atteggiamento di preghiera con le mani aperte a croce, vestito come un lottatore, in mezzo a due crocifissi e sullo sfondo delle edicole

L’annuncio cristiano si fonda su un paradosso e proclama la salvezza come dono proveniente da un crocifisso. Questo fece difficoltà sin dagli inizi nelle comunità cristiane e le prime forme di eresie si sviluppano attorno al rifiuto della morte di Cristo. Al momento della croce Gesù sarebbe stato sostituito e sarebbe salito al cielo.

Nei primi secoli la croce era per lo più raffigurata come simbolo che già racchiudeva il riferimento alla risurrezione, e per questo presentata come attorniata da una corona di alloro in alcuni antichi sarcofagi cristiani o tempestata di gemme ad esempio nel mosaico dell’abside di s.Apollinare in Classe a Ravenna (VI sec.): la croce è allora simbolo del Cristo risorto e segno della gloria.

Da qui si svilupperà l’iconografia del Cristo signore del cosmo (pantocratore), seduto in trono come nei grandi catini absidali, spesso con un gesto della mano destra che benedice, come nella Pala d’oro della basilica di san Marco a Venezia, e addirittura gravido di tutti coloro che saranno nella storia la schiera dei credenti nella sua risurrezione, come nel grande mosaico di san Miniato al Monte a Firenze (siamo già alla fine del XIII sec.).

Nell’affresco della crocifissione di s.Maria antiqua a Roma Cristo appare in croce ma vestito, con il colobium e con gli occhi aperti nel momento in cui un soldato lo trafigge con la lancia. E’ preminente il riferimento alla vita che vince la morte. C’è un profondo rapporto con l’interpretazione dei vangeli: è il crocifisso che è risorto, è il medesimo. Il risorto reca le piaghe del crocifisso ed esprime come la risurrezione sia in rapporto con tutta la sua vita.

L’arte bizantina intende la raffigurazione di Cristo come finestra visibile che rinvia all’invisibile volto glorioso del Risorto, ed è protesa, soprattutto attraverso lo splendore dei mosaici d’oro a rappresentare l’apertura sulla città celeste e sul mondo dischiuso dalla risurrezione. Ma l’Oriente è anche segnato dalla terribile lotta per le immagini che attraversa i secoli VII e VIII: se da un lato è presente una tradizione delle icone come opere per la devozione e la preghiera, è anche forte la sollecitazione a non raffigurare ciò che non può essere rappresentato secondo i modelli umani, per non ridurre il divino alla misura umana.

In Occidente in epoca medioevale inizia a svilupparsi la rappresentazione del Cristo in croce: in Italia, nell’area toscana e in Umbria tra XI e XII secolo trovano diffusione la cosiddette croci dipinte: immagini del crocifisso con a fianco le storie della sua vita narrate per via di raffigurazioni sulle tavole di queste croci lignee.  Al centro sta l’immagine del Cristo con gli occhi aperti, il Cristo vittorioso della morte: la sua umanità è raffigurata nei tratti di un corpo crocifisso (nell’immagine la croce di maestro Guglielmo di Sarzana del 1138).

Oppure, secondo un secondo tipo, il Cristo sofferente sempre più uomo anche nella raffigurazione che ne delinea i tratti del corpo umano e i segni della sofferenza, con gli occhi chiusi: Cimabue e Giotto sono i protagonisti principali di questo momento di svolta nell’arte, ispirato anche dalla predicazione degli ordini mendicanti.

Alcune di queste rappresentazioni, come ad es. Cimabue (nella chiesa di san Domenico a Arezzo e a santa Croce a Firenze) riprendono l’interpretazione del Nuovo Testamento della croce di Cristo: come il serpente innalzato da Mosè nel deserto era causa di salvezza per coloro che lo guardavano così il crocifisso innalzato è fonte di vita e di salvezza (cfr. Gv 3,14-15). Di qui l’usanza di costruire croci enormi da vedere da lontano.

Ma si sviluppa anche una ripresa dell’interpretazione eucaristica che rinvia alle parole dell’ultima cena. Nell’ultima cena Gesù aveva dato una interpretazione di salvezza alla sua morte, al suo sangue versato. Esso è ‘per voi’. Questa interpretazione fa riferimento alla liturgia ebraica del sacrificio e in particolare ai riti dello Yom Kippur, quando il sommo sacerdote dopo l’uccisione di animali con il loro sangue entrava nel Santo dei santi e aspergeva il coperchio dell’arca dell’alleanza. Con questo rito si realizzava l’espiazione come movimento di Dio verso il popolo peccatore, il ristabilimento della comunione come dono da parte di Dio.

Nella croce di Giotto Cristo è quasi disteso su di un tappeto, con la presenza a fianco dei dolenti.

La sottolineatura propria del crocifisso di Giotto sulla corporeità di Gesù, sulla sua umanità reale è un elemento che riporta alla dimensione della sua esistenza come motivo della sua morte, provocata dall’ostilità dei poteri religiosi e politici del tempo. Ma la raffigurazione di Giotto rinvia anche all’interpretazione che Gesù diede della sua morte e che il Nuovo Testamento ha ripreso. La salvezza non proviene dal successo, dal potere, dal denaro, ma viene da una esistenza vissuta nel dono e nel servizio, fino alla fine, dall’amore che serve. Gesù è quindi accostato al coperchio dell’arca coperto di sangue. Ma con la notazione della lettera agli ebrei ‘è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri’. Cristo è il luogo in cui si rende possibile la comunione con Dio che proviene dal dono della sua vita come solidarietà e servizio.

Ma c’è anche una seconda grande interpretazione della morte di Gesù che si riflette nella croce di Giotto. Il angue che scende dal costato di Gesù, va a toccare le rocce sottostanti fino a raggiungere il teschio di Adamo. La raffigurazione del teschio di Adamo si ricollega ala leggenda che voleva che il Calvario sorgesse sul luogo della sepoltura di Adamo. Ma a questa raffigurazione sottosta l’interpretazione che nel Nuovo Testamento lega insieme Cristo e Adamo. Adamo rappresenta il primo uomo, che ha nutrito la pretesa di farsi come Dio, di prendere per sé la condizione divina e ha così vissuto la disobbedienza il non ascolto. Gesù costituisce invece il nuovo Adamo. Porta a compimento il nuovo uomo che vive nell’obbedienza fino alla fine al Padre e per questo riconduce l’uomo alla sua autentica immagine. Queste tematiche sono svolte nella prima lettera ai Corinzi al cap. 15 e nella lettera ai Romani al cap. 5. La risurrezione di Cristo è presentata da Paolo come primizia di nuova umanità.

La figura dell’uomo è in tal modo posta al centro: si tratta di una sottolineatura che dà valore e importanza a tutte le componenti dell’umanità, in contrasto con le visioni di separazione che disprezzano la dimensione corporea e la vita terrena. L’umanità di Cristo è una umanità bella, compiuta che fa scorgere la bellezza della immagine voluta da Dio nella creazione. Il crocifisso inchiodato al legno, vive la sofferenza ma la sua è una sofferenza trasfigurata: egli regna perché la sua morte è stato passaggio alla risurrezione, ad una vita nuova.

La sua è una bellezza che dice anche la dignità di tutti i crocifissi della storia, e richiama alla dignità di ogni persona, sia essa dotata e di alto livello sociale sia essa senza capacità e di condizioni umili. Ogni volto umano è portatore di una dignità unica, che proviene dall’essere ad immagine di Dio.

La croce di Giotto diventa così manifesto di quella predicazione dei domenicani che a santa Maria Novella si trovavano ad annunciare il vangelo della grazia e dell’incarnazione del Figlio di Dio che ha preso su di sé la natura umana, senza alcun tipo di disprezzo per tutto ciò che è umano, senza annullare l’umanità, ma portandola ad una comunione nuova, trasfigurandola nell’incontro con l’amore di Dio.

Alessandro Cortesi op

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