la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

XXXII domenica tempo ordinario – anno B – 2021

1Re 17,10-16; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

In Israele la condizione di essere vedova era indicata come una delle realtà più fragili insieme a quella dello straniero e dell’orfano. Ma proprio questi tre gruppi sono nominati insieme nel Primo Testamento quando si parla dell’agire di Dio, perché Dio si preoccupa del forestiero, dell’orfano e della vedova e si prende cura di loro: “il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi” (Sal 136,9).  Nel simbolismo del primo Testamento la vedova racchiude anche un rinvio al popolo che è senza il suo sposo, Dio stesso, a causa della scelta idolatrica dei suoi capi. 

La vedova del racconto di 1Re 17 vive nei pressi di Sidone, terra a Nord d’Israele, territorio di confini e terra dei pagani: è ritratta nell’offrire, lei povera, un delicato gesto di ospitalità in un momento drammatico per la sua vita. Elia, il profeta, le chiede un po’ d’acqua per bere e lei risponde subito affrettandosi; Elia allora le chiede anche un pezzo di pane e lei risponde di avere solamente “solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio… andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. In questi rapidi accenni sta il riferimento ad una situazione di carestia che seguì la divisione dei regni di Giuda e di Israele (2Re 6,25-29).  Ma Elia le disse “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà”.

Il racconto accompagna a scorgere che vi è un protagonista nascosto in questa scena: è la Parola del Signore. Il profeta e la vedova, in modi diversi si pongono in ascolto della Parola di Dio. La narrazione evidenzia la certezza che ‘il Signore parla’ nella vita dei suoi servi, è presente e guida anche nelle situazioni in cui sembra che egli sia lontano. Elia è uomo della parola (profeta) che si rende disponibile a questo ascolto. Ma anche la vedova, rispondendo alla richiesta che proviene da uno straniero compie la Parola del Signore. Lei stessa è una straniera, non appartenente al popolo d’Israele, una pagana. Eppure nel suo gesto di ospitalità, nei gesti del dare da bere e da mangiare, nella farina e nell’olio, si rende vicino l’agire di Dio nei confronti di Elia. Dio comunica ad Elia la sua vicinanza a lui nel momento della prova per mezzo dei gesti di questa vedova.

Elia è lì giunto nella sua fuga: è un profeta perseguitato. Aveva contestato l’idolatria fino a scontrarsi con il re. E’ profeta che si oppone al disegno dei potenti e smaschera l’idolatria. Non è disposto a venir meno alle esigenze della Parola di Dio e per questo deve subire l’ira del potente e si trova solo e in fuga. E seguendo la ‘parola del Signore’ scopre una vicinanza inattesa di Dio proprio quando sperimenta la fragilità, l’abbandono, la fame e sete. Il gesto di ospitalità della vedova è segno di una presenza di Dio e della sua Parola oltre ogni confine culturale e religioso. “La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.” (1Re 17,16). Il gesto dell’ospitalità è epifania del Dio vicino che accoglie e si prende cura.

Un’altra vedova è descritta nelle lettura di oggi, nel vangelo di Marco. Gesù indica una vedova povera che getta nel tesoro del tempio due monetine, tutto quello che aveva, non tenendosene nemmeno una per sé. Il racconto implica una denuncia radicale al sistema del tempio e di coloro che sono a capo di un sistema religioso che opprime i più poveri: la casta dei sacerdoti. La vedova non ricerca come tanti un riconoscimento e non vive l’offerta al tempio come offerta del superfluo. Gesù riconosce in questo gesto che “questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Come la vedova di Zarepta affida la sua vita, ciò che aveva per vivere offrendola gratuitamente in una ospitalità aperta. Con questo gesto dice la fiducia nel Dio della vita e l’affidamento totale della fede. Gesù vede in questo gesto, che poteva passare inosservato, perché nascosto, di poco conto, insignificante nella sua piccolezza, qualcosa di grande. L’autentica fede è nascosta nel cuore dei poveri; Gesù sa leggere i gesti della quotidianità come cose grandi a cui fare attenzione per aprirci ad un incontro autentico con il Dio dei piccoli e dei poveri.

Alessandro Cortesi op

Ospitalità

Ospitalità è termine chiave di questa domenica: ospitalità è il movimento che guida i gesti di una  vedova che offre da bere e da mangiare all’ospite inatteso. Ospitalità è il gesto della povera vedova additata da Gesù che nel suo gettare due monetine si contrappone ad un modo di intendere la religione nei termini dell’esclusione, della discriminazione, del comportamento inospitale proprio delle gerarchie religiose.

Ospitalità è sfida quotidiana a concepire la vita non nei termini di possesso e di essere padroni a casa propria ma nell’orizzonte della condivisione. Solo nella visione ospitale si può pensare ad altri  perché in primo luogo ci si scopre ospitati e accolti.

Siamo accolti e ospitati in un mondo che non è nostro: alla Cop 26 a Glasgow è questo il grave problema alla radice di scelte che dovrebbero generare cambiamenti radicali nel modo di vivere collettivo dei popoli che – nel tempo della pandemia e della crisi climatica – si scoprono unica famiglia in un mondo interrelato. E’ la grande questione se vivere nella logica ospitale di una terra in cui siamo ospiti e che siamo chiamati a custodire per un’ospitalità aperta ad altri oppure ripiegarsi in una pretesa di possesso e nell’esclusione dei più fragili. L’ospitalità della terra si affianca alla questione dell’ospitalità dei poveri, di chi subisce le conseguenze più pesanti delle ingiustizie e dei disastri ecologici generati da scelte di ricerca di profitto e di sfruttamento dei beni. C’è urgenza di generare nuova ospitalità della terra e dei poveri perché tutti siamo ospiti dell’unica terra e siamo ospitati nel cammino della vita.

Forse proprio dalla scoperta di essere innanzitutto esseri ospitati può sorgere la apertura a trovare modi creativi per promuovere ospitalità: è il tema di un’ospitalità da scoprire al cuore dell’esistenza e che potrebbe generare un modo nuovo di vivere i rapporti tra i popoli non come nemici e concorrenti ma come partecipi di una unica comunità di destino capace di individare modalità concrete di tradurre la solidarietà: nella tassazione dei grandi patrimoni, nella scelta di un salario minimo per tutti, nella riduzione della giornata lavorativa per consentire ad un maggior numero di persone di lavorare (su queste due ultime proposte cfr. il videomessaggio di Franesco ai movimenti popolari del 16 ottobre 2021 in https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2021/documents/20211016-videomessaggio-movimentipopolari.html). Ospitalità è anche l’orizzonte in cui scorgere un modo nuovo di essere comunità di sequela di Gesù che ha vissuto uno stile di convivialità e condivisione ospitale nella sua vita, manifestando lui che nona aveva una casa propria, gli spazi aperti e ospitali di un cuore accogliente di ogni sofferenza e angustia. Ospitali perché ospitati. Ma anche capaci di ospitalità perché cambiati da scelte e gesti dell’incontro.

Ospitalità parla anche di un primato dei gesti, della prassi che sola può aprire una comprensione nuova del rapporto con gli altri. Nel gesto dell’accoglienza offerta e ricevuta si genera una comprensione nuova di se stessi, dell’altro, ed anche del volto di Dio, mistero di relazioni ospitali e aperte. Ospiti in cammino, con lo sguardo in avanti, sempre a ciò che è Ultimo, ma proprio per questo attenti a tutti i passi di questo penutlimo, ai momenti, ai volti, in cui scorgere l’inizio di una ospitalità senza limite.

“Sono un ospite sulla terra. Con questa affermazione riconosco di non potervi rimanere, riconosco che il mio tempo ha una durata breve. Inoltre che non ho alcun diritto a un possesso o a una casa. Ogni bene che mi capita devo riceverlo con gratitudine, e per l’ingiustizia e la violenza devo soffrire senza che alcuno si muova in mia difesa. Non ho un solido appoggio né negli uomini né nelle cose.

Come ospite sono sottoposto alle leggi del luogo che mi dà alloggio. La terra che mi nutre avanza un diritto sul mio lavoro e sulle mie energie. Non spetta a me disprezzare la terra sulla quale ho la possibilità di vivere. Le devo fedeltà e gratitudine. Non posso sottrarmi alla mia sorte, per cui sono necessariamente ospite e straniero, né all’appello di Dio che mi raggiunge in questa posizione di straniero, con il vivere trasognato in questa vita, pensando al cielo. C’è un tipo di nostalgia dell’altro mondo che è molto empio: a esso certamente non è concesso alcun ritorno alla patria. Devo essere ospite con tutto ciò che questo implica. Non devo chiudere il mio cuore alla partecipazione ai compiti, ai dolori e alle gioie della terra, e devo aspettare pazientemente l’adempiersi della promessa di Dio, ma aspettare effettivamente e non appropriarmene in anticipo nel desiderio e nel sogno.

Nella promessa non si dice neppure una parola sulla patria stessa. So che non può essere questa terra, ma so anche che la terra è di Dio, e che già su questa terra io non sono soltanto un ospite della terra, ma un pellegrino e ospite di Dio (cf. Sal 39,13). Ma poiché sulla terra non sono che un ospite, senza diritto, senza appoggio, senza sicurezza, poiché Dio stesso mi ha fatto così debole e limitato, per questo stesso motivo egli mi ha dato un unico, solido pegno per il mio scopo: la sua Parola. Egli non mi sottrarrà quest’unica certezza, manterrà per me questa Parola e in essa mi farà intravedere la sua forza. Se la Parola mi è intimamente vicina, allora anche nel paese straniero posso trovare la mia strada, nell’ingiustizia il mio diritto, nell’incertezza il mio appoggio, nel lavoro la mia forza, nel dolore la pazienza” (D.Bonhoeffer, Fedeltà al mondo: meditazioni, Queriniana, Brescia 1995, 14-15)

Alessandro Cortesi op

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